Il “fallimento produttivo” del modello Albania, un anno dopo l’avvio
Il 16 ottobre del 2024 sedici uomini, intercettati nel Mediterraneo centrale,
venivano condotti in Albania a bordo di una nave militare italiana. Quel giorno,
nel porto di Shëngjin, prendeva forma un esperimento senza precedenti:
l’estensione extraterritoriale del sistema di trattenimento italiano, costruito
su suolo albanese, ma con la pretesa della giurisdizione di Roma.
I centri realizzati in Albania hanno una capienza complessiva imponente: 880
posti nel centro di trattenimento per richiedenti asilo, 144 posti nel Centro di
Permanenza per il Rimpatrio (CPR) e 20 posti nel penitenziario. A un anno di
distanza, la struttura di Shëngjin è quasi sempre vuota e nel centro di Gjadër,
nella sezione CPR, sono trattenute circa quindici persone.
Le altre due sezioni sono inutilizzate. Due rinvii alla Corte di giustizia
dell’Unione europea – uno dei quali si è concluso con una sentenza che ha
ribaltato le tesi del governo italiano – hanno incrinato in profondità la
legittimità del progetto. L’esecutivo si trova in un’impasse: non può far
funzionare a pieno regime il modello – verrebbe travolto dai ricorsi – ma non
vuole chiuderlo. Significherebbe ammettere che non funziona 1.
Il progetto era stato presentato come una misura per «aumentare i rimpatri». A
fine luglio, quelli effettivamente eseguiti erano complessivamente trentasette
2; dopo quella data pochi o nessuno. Nonostante i numeri esigui, l’esperimento
non può essere liquidato come un semplice insuccesso: fermarsi al dato
aritmetico sarebbe autoconsolatorio.
ll valore politico del modello non risiede nei numeri, ma nella violenza
materiale e simbolica esercitata sulle persone migranti, nel modo in cui ha
riscritto il linguaggio del confine e reso praticabile l’idea che la detenzione
possa essere delocalizzata. A un anno di distanza, più che misurare il
fallimento del progetto, occorre interrogarsi su ciò che ha prodotto: un nuovo
modo di pensare, rappresentare e praticare la frontiera.
TETRO DIRITTO
La storia del “modello Albania” è un ottovolante. Nella sua prima
configurazione, tra ottobre 2024 e gennaio 2025, il centro di Gjadër è stato
destinato al trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine
considerati sicuri, intercettati in mare e sottoposti a procedure accelerate di
frontiera.
Rapporti e dossier/CPR, Hotspot, CPA
OLTRE LA FRONTIERA: IL PREZZO DEI DIRITTI NELL’ACCORDO ITALIA-ALBANIA
Le principali criticità emerse dal rapporto del Tavolo Asilo e Immigrazione
Benedetta Cerea
22 Maggio 2025
La complessa finzione giuridica alla base dell’impianto non ha retto. Nessuno
dei trattenimenti è stato convalidato dalle e dai giudici, e il rinvio alla
Corte di giustizia dell’Unione europea, poi risolto con una decisione che ha
accolto le tesi delle difese, ha paralizzato il meccanismo.
Il governo, invece di abbandonare l’esperimento, ne cambiò direzione. Con il
decreto-legge 37 del marzo 2025, il centro di Gjadër è stato utilizzato per il
trattenimento delle persone già rinchiuse nei CPR italiani: non più richiedenti
asilo appena sbarcati, ma uomini destinatari di provvedimenti di espulsione,
prelevati sul territorio nazionale e deportati in uno spazio di confinamento
extraterritoriale.
L’immagine del primo trasferimento di questa seconda fase, nell’aprile 2025 –
corpi legati dalle fascette, condotti lungo la passerella della nave verso la
banchina – sintetizza la logica dell’intero progetto. L’esperimento albanese si
è trasformato in una messa in scena della punizione, una pedagogia della forza
priva di mediazioni.
FALLIMENTI PRODUTTIVI
Definire il “modello Albania” un insuccesso, dunque, significa non comprenderne
la logica. È stato piuttosto un fallimento produttivo, capace di generare
effetti potenzialmente ben più duraturi degli effimeri – per quanto violenti –
impatti pratici. Ha reso visibile una nuova geografia del confinamento che non
si misura in cifre, ma si manifesta per strappi, agendo sul piano della rottura
con il paesaggio giuridico consolidato.
Approfondimenti/CPR, Hotspot, CPA
IL CORPO E L’ANIMA. DIECI APPUNTI SUL «MODELLO ALBANIA»
Un laboratorio feroce e fragile del potere di frontiera
Francesco Ferri
9 Maggio 2025
È un messaggio ostile non solo nei confronti delle persone considerate
“irregolari” – e dunque, tra le altre misure, esposte al rischio concreto della
deportazione in Albania – ma verso l’insieme delle persone migranti, la cui
permanenza in Italia è vincolata al rinnovo periodico del permesso di soggiorno
e quindi strutturalmente ricattabile.
Il modello operata come dispositivo di disciplinamento diffuso, i cui effetti si
coglieranno nel medio periodo – nel salto di qualità della precarizzazione della
condizione migrante. Ha ridefinito le gerarchie dell’esclusione, stabilendo chi
può restare e a quali condizioni, e ha ribadito la funzione strutturale della
paura come strumento di regolazione del lavoro vivo e, più in generale, dei
rapporti sociali.
Sul piano europeo, il modello ha sdoganato la possibilità del confinamento
extraterritoriale, rendendo dicibile e praticabile ciò che fino a poco tempo
prima apparteneva al registro dell’utopia punitiva.
Il dibattito europeo sui return hubs – pur muovendosi entro logiche parzialmente
differenti – si inscrive nella stessa grammatica politica del “modello Albania”.
Le coordinate di quella discussione hanno preso forma proprio dopo l’avvio
dell’esperimento albanese e ne portano il segno.
I centri di Gjadër e Shëngjin hanno aperto uno spazio discorsivo e politico in
cui l’idea di estendere il trattenimento oltre il territorio dell’Unione è
divenuta pensabile, negoziabile e organizzabile.
LA VIOLENZA NORMATIVA COME METODO
La produttività del modello si misura anche sul piano giuridico. In dodici mesi
il governo italiano ha mostrato una capacità inedita di piegare la legalità ai
propri obiettivi di contenimento. Decretazione frenetica e contraddittoria,
trasferimenti privi di provvedimenti individuali, norme riscritte per tenere in
vita un impianto già imploso: singole fratture che, sommate, disegnano un
metodo.
La violenza normativa del modello non si esprime più nella semplice violazione
delle regole, ma nella produzione sistematica di un diritto incoerente, spesso
posto fuori e contro la gerarchia delle fonti. La frase di Antonio Tajani sulla
guerra a Gaza – «il diritto internazionale conta fino a un certo punto» –
riassume perfettamente questa logica. Nel “modello Albania” la stessa
razionalità prende corpo: la legalità vale finché non ostacola la volontà di
confinare.
SMONTARE IL PROGETTO
Oggi i centri albanesi operano a capacità minima. Il governo non può farli
funzionare a pieno regime – pena nuove censure giudiziarie – ma non intende
chiuderli, per non ammettere la sconfitta. L’esperimento resta sospeso in un
limbo che ne prolunga l’efficacia simbolica.
A questo punto la questione non è più se il modello “funzioni”, ma come possa
essere smontato. Non basta la critica, né la cronaca delle sue derive: serve
un’azione collettiva che intrecci contenzioso strategico, monitoraggio
indipendente e mobilitazione politica.
In questa cornice, la mobilitazione indetta dal Network Against Migrant
Detention – la rete transnazionale che promuove l’abolizione del trattenimento
su scala europea – assume un significato decisivo.
Interviste/CPR, Hotspot, CPA
«IL “MODELLO ALBANIA” È UN DISPOSITIVO DI PUNIZIONE E DETERRENZA»
Intervista a Francesco Ferri di ActionAid
Redazione
24 Aprile 2025
Le giornate di azione previste tra Tirana, Shëngjin e Gjadër il 31 ottobre, l’1
e il 2 novembre per il secondo anniversario dell’accordo, sono un’occasione
importante per condensare energie collettive e per porre con forza la questione
del superamento radicale del modello.
Questa iniziativa si inserisce nel solco delle molte già in corso: dal
monitoraggio promosso dal Tavolo Asilo e Immigrazione, all’attività
istituzionale a diversi livelli, passando per le mobilitazioni della società
civile albanese. Ognuno di questi ambiti, con i propri strumenti e linguaggi,
può compiere un salto di scala decisivo: rafforzare la critica e la
contestazione con l’obiettivo esplicito della chiusura. Il contesto politico in
cui si muove questa azione è definito.
In vista di giugno 2026, quando il Patto europeo sulle migrazioni sarà
operativo, il “modello Albania” si trova di fronte a un bivio decisivo: rischia
di essere integrato, in forme rinnovate, nel nuovo assetto europeo. Chiuderlo
prima di quella data è una sfida decisiva: è indispensabile impedire che la sua
logica si consolidi, si normalizzi e riemerga sotto altre vesti. È questo il
compito politico dei prossimi mesi.
Comunicati stampa e appelli/CPR, Hotspot, CPA
DALL’ALBANIA ALL’EUROPA: ABOLIAMO I CENTRI DI DETENZIONE
L'1 e 2 novembre 2025 una nuova mobilitazione in Albania promossa dal Network
Against Migrant Detention
27 Settembre 2025
1. Meloni sui centri in Albania:“Funzioneranno, dovessi passarci ogni notte
fino alla fine del governo”, TgLa7 ↩︎
2. Prima visita dei Garanti Anastasìa e Calderone al Cpr di Gjader (30 luglio
2025) ↩︎