Una marea in marcia per la PalestinaLa settimana appena passata in Italia, è stata inedita e sorprendente. È saltato
un tappo e la partecipazione è esplosa: una partecipazione larga, massiva,
variegata. La mobilitazione per la Palestina, nel nostro paese, non è certo
cominciata la settimana scorsa, le realtà palestinesi, come alcuni sindacati di
base, centri sociali e collettivi studenteschi si mobilitiano da almeno due anni
sul genocidio in corso. E tante realtà si mobilitano sull’occupazione, sul
sistema di appartheid e la colonizzazione di Israele da decenni e più. Eppure se
nei due anni passati abbiamo visto mobilitazioni di massa per la Palestina in
tutto il mondo, dai campus americani alle piazze dei paesi arabi, dalle
manifestazioni in rosso in Olanda ai paesi latino-americani, in Italia le piazze
non erano mai fuoriuscite dai margini delle organizzazioni che le chiamavano. Un
lavoro continuo, ma anche difficile e non sempre in grado di parlare oltre sé.
di Luca Mangiacotti
OBIETTIVI COMUNI: SENZA ESSERE D’ACCORDO SU TUTTO
Ma dall’inizio di settembre, mentre la Global Sumud Flotilla che organizzava la
spedizione, qualcosa è iniziato a cambiare. Gli argini sono saltati. «Se loro
possono salire su un nave, solcare il Mediterraneo, sfidare Israele e rischiare
il carcere, allora anche noi qua possiamo fare qualcosa» – hanno commentato le e
gli studenti in piazza. La Global Sumud Flotilla è stata un’azione che ha rotto
l’immobilismo e si è mossa con pochi e chiari obiettivi comuni – rompere
l’assedio a Gaza – sapendo che non si era d’accordo su molto altro. Muoversi per
abbandonare lo schermo di fronte al quale abbiamo visto scorrore le immagini del
genocidio per due anni, sentendoci sempre piu isolatə.
Nella strabordante manifestazione del 4 ottobre la complessità e varietà della
partecipazione era evidente: c’erano collettivi studenteschi, gruppi
territoriali, grandi associazioni, gruppi scout, gruppi religiosi cattolici e
islamici, passando per qualsiasi sigla del sindacalismo di base e tutti i
gruppuscoli comunisti. Una manifestazione che teneva insieme dalle bandiere
della pace alle bandiere di Hamas.
> Questo milione di persone non è d’accordo su molte cose: ad esempio sul ruolo
> di Hamas, su cosa sia o non sia il 7 ottobre, ma si è riunita sotto uno
> striscione che era dedicato alla resistenza palestinese e riconosce obiettivi
> comuni: la fine di ogni accordo diplomatico e commerciale con Israele, e
> l’imposizioni di sanzioni per porre fine al genocidio il prima possibile, la
> fine dell’occupazione e del sistema di apartheid in Palestina.
Probabilmente continuare a lavorare all’individuazioni di obiettivi e pratiche
comuni e condivisi può essere un modo per continuare a costruire spazio per
l’allargamento della mobilitazione. Al contrario, aprire lotte per imporre la
propria visione e strategia politica rischia di rompere questo fragile
equilibrio. Bisogna avere cura di questa nuova voglia di partecipazione
politica, creare spazi di condivisione di pratiche e saperi, spazi di decisione
comune e pubblica, espandere la socializzazione alla politica, e non con il solo
fine di portare gente verso la propria singola organizzazione o collettivo.
di Luca Mangiacotti
BLOCCARE TUTTO: PRATICHE COMUNI
La partecipazione non è stata solo massiva, ma anche determinata e
strategicamente mirata. «Se bloccano la Sumud Flotilla, noi blocchiamo tutto» –
ha urlato il portuale nella manifestazione a Genova, che accompagnava la
partenza della Flotilla. Cioè blocchiamo i flussi dell’economia di guerra, che
continuano a scorrere dall’Europa e dagli Usa – ma non solo – verso Israele e
rendono i nostri paesi complici del genocidio. In questo il blocco dei porti è
stato un elemento centrale, una pratica comune, condivisa e da praticare in
massa, che dal porto di Genova si è estesa a macchia d’olio in tutta Italia dal
22 settembre in poi. Questa non è una pratica che nasce dal nulla, chiaramente,
nei mesi e anni scorsi, i portuali hanno costruito reti e già attuato la pratica
del blocco, astenendosi dal carico o scarico di navi con materiale per
l’industria bellica. Il blocco dei porti si è praticato, non solo nelle due
giornate di sciopero del 22 e del 3 ottobre, ma tutte le volte che sono arrivate
informazioni di carichi di morte, con passaparola che hanno portato nei porti
centinaia di persone in pochissimo tempo, come a Taranto e a Livorno, riuscendo
effettivamente a bloccare le navi.
Dal blocco dei porti, si è passati velocemente, nelle città senza porti, al
blocco delle stazioni, dei poli della logistica, degli aeroporti, delle
tangenziali e autostrade. Per bloccare i flussi dell’economia di guerra, che
alimenta il genocidio in Palestina e i conflitti in molti altri luoghi del
mondo, dal Congo all’Ucraina.
> «Per scoprire infine che quello che stiamo bloccando è quella economia che ci
> impoverisce, licenzia, taglia, riarma», come scrivono i lavoratori della
> ex-GKN.
Un’economia che dall’altra parte del Mediterraneo è violenza coloniale e
genocida e sulla nostra sponda è l’economia che ci rende precariə, ci
impoverisce, ci impedisce di avere un casa, ci isola, ci rende sempre più
vulnerabilə, inquina i nostri territori, distrugge le politiche sociali, la
scuola, la sanità, approva leggi razziste, lascia morire le persone ai nostri
confini e umilia la classe lavoratrice. Per questo lottare e bloccare l’economia
di guerra è già lottare per i nostri diritti, le nostre condizioni di lavoro e
le nostre vita.
di Luca Mangiacotti
SCIOPERARE
E qui arriviamo a una altra questione centrale e inedita delle scorse settimana:
lo sciopero. In due settimane sono stati organizzati due scioperi, prima il 22
settembre, uno sciopero indetto dai sindacati di base, che ha strabordato
qualsiasi previsione, macchiando di ridicolo l’operazione della Cgil di lanciare
una data di mobilitazione il 19 settembre, aspramente criticata dalle stesse
iscritte e iscritti. E solo due settimane dopo, il 3 ottobre, uno sciopero
generale indetto dalla Cgil, questa volta, insieme al sindacalismo di base, non
rispettando il preavviso e invocando l’articolo 2 della legge 146/1990 «in
difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi
dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori». E aprendo un conflitto con le
istituzioni sulle norme che regolano lo sciopero nei settori pubblici
essenziali.
> Uno sciopero che ha riportato al centro del dibattito pubblico l’astensione
> dal lavoro come arma in mano alle lavoratrici e ai lavoratori.
Due giorni di sciopero a distanza di dieci giorni pesano sulle tasche di chi
lavora, di chi ha la partita iva, o una piccola attività, ma le adesioni hanno
superato ogni aspettativa. Anche qui, non ci si arriva spontaneamente, ma dopo
anni di lavoro del movimento transfemminista sullo sciopero dell’8 marzo e sulla
sua risignificazione per farlo uscire dalle strette maglie economiciste delle
indizioni sindacali. Anni di lotte dei e delle precarie in vari settori tra il
pubblico e il privato che hanno cercato di organizzarsi superando le divisioni
sindacali tra confederali e sindacati di base con grandi difficoltà. Anni in cui
l’unità sindacale era stata trovata a destra con UIL e CISL, e non a sinistra
con le sigle del sindacato di base. Queste giornate ci hanno fatto respirare
l’idea che lo sciopero può tornare ad essere una leva nelle mani di chi lavora
per sottrarsi ai ricatti e guadagnare spazi di vita.
Lo sciopero ha anche reso chiaro quanto l’economia del genocidio si basi sulla
nostra complicità: non parlare di Palestina in classe, accettare che i PCTO
nelle scuole vengano svolti dalle forze dell’ordine e dall’esercito, accettare
le leggi razziste e la loro propaganda, far finta di non vedere il carico di
merci che stiamo caricando, non dire nulla di fronte al villaggio dell’esercito
nella piazza principale della nostra città, non protestare contro i software che
la nostra azienda continua a comprare o sviluppare, continuare a comprare certi
marchi. Alzare le voci da sole è difficile, soprattutto nei luoghi di lavoro,
dove subiamo il ricatto continuo della busta paga, delle sanzioni, dei capi, per
questo è necessario costruire spazi pubblici, reti di solidarietà, e spazi di
supporto tra colleghe e colleghi.
di Luca Mangiacotti
SCUOLE E UNIVERSITÀ: UN NUOVA SOCIALIZZAZIONE AL CONFLITTO
Insieme ai luoghi di lavoro, le scuole e le università sono l’altro grimaldello
di queste mobilitazioni. L’anno scolastico è cominciato male, se non malissimo,
la scuola sotto il Ministro Valditara sta subendo una vera e propria torsione
autoritaria. Dal voto in condotta per lə studenti al codice di condotta per le
insegnanti, dalle nuove regole per gli esami di stato alla legge in discussione
sul consenso informato. Fino ad arrivare alle nuove indicazioni nazionali per la
scuola d’infanzia e primaria che segnano la fine della scuola “multiculturale”,
“inclusiva” (e molto neoliberale), per dare l’inizio alla scuola dove si insegna
che «solo l’occidente conosce la storia».
La partecipazione ai due scioperi tra il corpo insegnante è stata molto buona,
con intere plessi chiusi, e studenti e docenti in corteo spontaneo insieme,
liberi dai ricatti dei dirigenti scolastici e degli uffici scolastici regionali.
In questi giorni si moltiplicano le occupazioni di scuole e facoltà in tutta
Italia, mentre le questure di Brescia e Milano hanno iniziato a reprimere
proprio giovani e giovanissimi con misure restrittive della libertà personale,
daspo, denunce e perquisizioni.
> Per molte persone giovani questa è la prima socializzazione alla politica e al
> conflitto con manifestazioni larghe e determinate, che se continua con questa
> intensità, potrebbe costruire nuove ondate di partecipazione politica e nuove
> forme di organizzazione politica negli anni a venire.
Una socializzazione al conflitto liberatoria, dopo anni di repressione, di
continua chiusura dello spazio pubblico, della pandemia, della paura della
guerra. Un’esplosione di vita in classi scolastiche che sono piene di
solitudine, di sofferenza, di disagio e isolamento. E che per questo le questure
e le autorità vogliono chiudere al più presto: è questa ondata disordinata di
partecipazione giovanile e dal basso che fa più paura.
di Luca Mangiacotti
GAZA STA FUNZIONANDO DA SPECCHIO
La bandiera per la Palestina sta diventando il simbolo e catalizzatore di tutte
le altre battaglie che oggi esistono nel nostro paese: lotte sindacali per delle
degne condizioni di lavoro, lotte ecologiste, femministe e transfemministe,
antirazziste, e per il diritto alla casa. Scendere in piazza per la Palestina e
contro il genocidio a Gaza, sta diventando un modo per guardare il nostro lato
di mondo, il sistema economico che si arricchisce con il commercio di armi, i
governi pronti a tagliare la spesa sanitaria e sociale per comprare armamenti,
il sistema razzista che discrimina sulla base della cittadinanza, religione e
colore della pelle, le discriminazioni sistemiche contro donne e persone trans.
Gaza funziona da specchio. Perché non distogliere lo sguardo dagli orrori
commessi da Israele significa iniziare a comprendere quanto i nostri stati siano
coinvolti in questo genocidio, e di quanto la guerra sia già nelle nostre
società. Sono i gangli del sistema di potere che dobbiamo bloccare, avendo cura
del processo di mobilitazione largo e plurale che si è aperto, senza smanie di
conquista e di leadership della piazza.
E bisogna fare questo tenendo saldi i tre punti strategici che centrano i
lavoratori ex-GKN: «1. Urgenza perché Gaza e la Palestina muoiono ogni secondo
2. Efficacia: ribaltare i rapporti di forza 3. Permanenza: perché i rapporti di
forza non si cambiano in un giorno».
La copertina è di Luca Mangiacotti
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