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Catania. La repressione cala sul movimento per la Palestina
Piovono a Catania misure cautelari e multe per decine di migliaia di euro nei confronti di attivist3 che hanno partecipato ai blocchi del porto e della stazione durante gli Scioperi Generali del 22 settembre e del 3 ottobre. Migliaia di persone in piazza, equipaggi di terra che hanno accompagnato dall’inizio […] L'articolo Catania. La repressione cala sul movimento per la Palestina su Contropiano.
Le giornate del 28 e 29 viste dal Medio Oriente
Oggi [il 28, data di pubblicazione dell’articolo, ndr] l’Italia vede a uno sciopero generale nazionale, indetto da due importanti sindacati, per protestare contro la legge di bilancio 2026 proposta dal governo di estrema destra di Giorgia Meloni. Lo sciopero chiede anche un salario minimo dignitoso e il ripristino dell’età pensionabile […] L'articolo Le giornate del 28 e 29 viste dal Medio Oriente su Contropiano.
All’arrembaggio!
Il mondo si è fermato Mò ce lo riprendiamo. Mai più io sarò saggio – 99 Posse Chi campa ‘nsiene ‘a te, te para’ nient’ Si jesce pazz è pazz overamente L’unica verità pe’ tutte quante Sarria chell’ ‘e fui’ Ma po’ addo’ jamm’ Vesuvio – Canti popolari Quando si verifica un’esplosione, di solito si corre a cercare la miccia, e i più spavaldi rivendicheranno di averla accesa loro. Ma quando la terra trema e poi esplode in fiumi di fuoco, non c’è nessuna miccia, solo il magma bollente che dal cuore del pianeta si fa strada verso la superficie, verso l’aria aperta. La portata degli eventi di fronte a cui ci troviamo non ci permette più di pensare semplicemente in termini di convergenza al centro (perché la somma delle parti è sempre più del tutto), ma piuttosto valutare il risultato di un insieme di contingenze, calcoli e intuizioni che hanno portato a un accumulo di tensione, frustrazione e desiderio in attesa di un punto di sfogo, la goccia che facesse traboccare il vaso. E la goccia è arrivata, con l’intercettazione e l’assalto delle navi della Global Samud Flotilla da parte dell’Idf, e così tacitamente, senza bisogno di comunicazioni formali, ma per necessità, mosse da uno slancio di rabbia vitale, ci si è riversate ancora e ancora nelle piazze e nelle strade, dove finalmente abbiamo potuto vedere quel nuovo, che da tempo ci diciamo che sta nascendo, muovere i primi passi e iniziare a prendere forma. Riteniamo utile a questo proposito riflettere sui rapporti tra spontaneismo e organizzazione, che non sono mai nettamente dicotomici e manichei, ma anzi due elementi di un binomio da cui bisogna trarre sempre nuove pratiche di conflitto. Gli ultimi due anni hanno inciso profondamente sulle società politiche occidentali, inaridite e frammentate, per le quali l’intensificarsi dell’operazione sionista di pulizia etnica del popolo palestinese, avviata dal regime sionista quasi ottant’anni fa, ha rappresentato la secchiata d’acqua fredda che ci ha riportato con i piedi per terra. Da una parte per l’enormità e la gravità di ciò che accadeva – e accade tutt’ora – in Palestina, che ci ha richiesto di agire con urgenza e determinazione; dall’altra perché è stato chiaro fin da subito, dalle prime manifestazioni di complicità dei nostri governi e delle nostre Istituzioni, che gli orrori che ci venivano trasmessi in tempo reale via social dall’altra parte del Mediterraneo erano il requisito fondamentale su cui si regge un meccanismo di estrazione di valore e di risorse, di estrazione della vita stessa, che ha radici proprio qui, nell’Occidente ’democratico‘ e ’progressista’. GLOBALIZZARE L’INTIFADA (PERCHÉ IL SISTEMA ESTRATTIVISTA È GLOBALE) Il senso di urgenza scaturito dal concretizzarsi del disegno genocidario in Palestina ha risvegliato, nei contesti occidentali, il desiderio e la voglia di essere parte attiva di qualcosa che possa incidere sul reale, e questo allargamento capillare della partecipazione ha prodotto, secondo noi, diversi effetti. l primo è che oggi, finalmente, parliamo di Palestina globale, dopo due anni di attivismo umanitario. Le strade e le università di tutto il mondo si sono riempite di nuovo di striscioni e cori che incitavano a “Globalize the Intifada!”: abbiamo visto in maniera evidente come il colonialismo dei regimi imperialisti si radica qui, in Occidente, e che si sostiene e si rigenera attraverso il nostro lavoro, attraverso i nostri consumi, ed è lo stesso regime estrattivista che da una parte uccide in Palestina e dall’altra non ci permette di arrivare a fine mese pur di avere le armi per continuare a sterminare. E le rivolte che nel frattempo sono scoppiate in molti, moltissimi Paesi del ’Sud del mondo‘, ci hanno ricordato che se il nemico è globale, deve esserlo anche l’Intifada. Tuttavia, globalizzare l’Intifada non vuol dire solo renderla un fatto internazionale, ma legarla alle lotte che già in ogni Stato e territorio si muovono contro il sistema estrattivista: le lotte per la casa, per l’aumento dei salari, contro le privatizzazioni selvagge e le speculazioni. In particolare, le collaborazioni istituzionali con i colossi della filiera bellica e del capitalismo fossile (a tutti i livelli, da quelle dei Comuni a quelle universitarie) si sono dimostrate il vero punto cruciale da colpire. E sono state difese a tutti i costi, sfoderando un alto livello di repressione. Nell’università si incontrano il processo di aziendalizzazione, che va avanti ormai da anni, e i legami strettissimi con il settore privato e della difesa. Decine di Atenei collaborano con aziende come Eni e Leonardo, simboli dell’industria estrattivista e complici del genocidio in Palestina. Israele intrattiene centinaia di collaborazioni di varia natura con gli Atenei e gli Enti di ricerca italiani. Già da due anni le studenti delle università stanno provando a costruire strategie di boicottaggio, mosse dalla necessità di svelare la sistematicità dei processi di privatizzazione e neocolonialismo. La colonizzazione della Palestina e il genocidio del suo popolo rappresentano, infatti, un paradigma perfetto del sistema estrattivista, che delimita zone di sacrificio e masse in eccesso, ed elimina tutto ciò da cui non può trarre profitto. Assistiamo, quindi, al funzionamento a pieno regime di una zona di sacrificio globale, di una messa a profitto di corpi ormai divenuti anch’essi sacrificali, e alla produzione di esternalità negative generate dall’adozione di economie di guerra nei Paesi offensori. Abbiamo parlato di globalizzare l’Intifada e ripensare la convergenza: non si tratta di un generico richiamo a un’unità posticcia, ma di un bisogno di uscire dall’immobilismo, di trovare ognuno il proprio ’porto da bloccare‘, mettendo in campo tutte le pratiche, le esperienze e i metodi che caratterizzano le diverse anime che compongono un Movimento, per produrre un nuovo, inaspettato metodo che insidi il sistema estrattivista-coloniale in cui viviamo. di Fotomovimiento (Flickr) PROSPETTIVE DI MOVIMENTO Negli ultimi due anni abbiamo osservato il lento e graduale inizio di un processo di svecchiamento, rinnovamento nelle pratiche tanto quanto nei contenuti che, dopo lo strappo, il vuoto, lo scollamento generato dal Covid, inizia a germinare nelle università con le mobilitazioni per la Palestina, l’intifada studentesca e contagia tutti gli strati della società. Le giovani di tutto il mondo si avvicinano alla politica mosse da necessità e urgenza. Nasce in maniera decentralizzata, contingente e spontanea una rete internazionale che si aggrega non più attorno all’identità dell’ideologia, ma all’obiettivo: bloccare gli accordi di collaborazione con il regime genocidario, boicottare l’industria bellica, rendendo in questo processo protagoniste le persone e i loro corpi. Al tempo stesso il regime di guerra globale innestato dal genocidio in Palestina, in Congo e in Sudan, permette e facilita l’avanzamento di un fascismo anch’esso globale, di cui stiamo iniziando a conoscere le insidie anche in Italia: ne sono un esempio la vera e propria guerra alle donne e libere soggettività che questo governo sta conducendo sul piano legale, tramite la legge finanziaria e a colpi di decreti, e su quello ideologico, culturale, mentre il numero di femminicidi del 2025 continua a salire; decreti sicurezza, militarizzazione dei territori e gentrificazione stanno modificando la percezione collettiva dello spazio pubblico, e la situazione nel suo complesso inizia a essere inquietante. Alla luce di questo, in quelle giornate elettriche e di fermento che hanno portato masse oceaniche a “Bloccare tutto!”, si è liberato qualcosa: quella spinta – individuale e collettiva, spontanea e organizzata – a invadere ogni spazio pubblico con parole, corpi e musica. Abbiamo liberato quella voce che ci chiede di sollevarci dai margini e andare a invadere il centro del discorso, il centro della città, della produzione, dell’università, della scuola, della fabbrica. Insomma, l’importante non è stato bloccare tutto, ma aver fatto capire alle persone che se vogliono, possono farlo. Prima delle mobilitazioni in Italia e in Francia al grido di “Blocchiamo tutto!”, molto prima, il Movimento femminista Non Una di Meno portava l’attenzione sul fatto che “Se ci fermiamo noi si ferma il mondo”, ed è questo che crediamo sia il punto focale, il “se”. Perché se abbiamo il potere di fermare il mondo, allora abbiamo anche il potere per farlo ripartire in un’altra direzione. Per bloccare realmente la catena produttiva bisogna essere in tante, essere ovunque: non funziona più accentrare le forze per sferrare colpi decisi: è il momento di infiltrarsi in tutti gli spazi e gli interstizi del potere, infestarlo come edera per farlo collassare su se stesso, a partire dalle sue fondamenta reali, materiali. Non mettere più al centro della propria strategia il fare la guerra, il braccio di ferro, quanto piuttosto il fare la vita, e farla bella, libera e felice. All’arrembaggio! L’articolo originale è stato pubblicato su Attac.it. La copertina è di pierre c.38, da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo All’arrembaggio! proviene da DINAMOpress.
L’assalto alle scuole occupate è organizzato
Se si vuol fare lotta politica bisogna capire la realtà al di là delle apparenze, delle dichiarazioni, dei luoghi comuni ripetuti fino allo sfinimento. E imparare presto ad “unire i punti” tra i vari eventi, o comportamenti, per trarne delle conclusioni attendibili, evitando come la peste le trappole della “dietrologia” […] L'articolo L’assalto alle scuole occupate è organizzato su Contropiano.
People have the power
E’ ora di bussare forte al portone del potere. Mai come oggi – da qualche decennio a questa parte – la frattura tra classe dirigente (multinazionali, imprese, banche, classe politica, ecc) e popoli è stata così evidente e netta. Una frattura sottolineata non solo dalla dimensione delle manifestazioni contro il […] L'articolo People have the power su Contropiano.
“NEL MOVIMENTO DELLO SCIOPERO”: A BOLOGNA NUOVA ASSEMBLEA DI RESET AGAINST THE WAR
Reset Against the War – la Rete per lo sciopero sociale transfemminista contro la guerra – si è data appuntamento a Bologna per una nuova giornata di discussione alla luce degli eventi e delle mobilitazioni delle ultime settimane in Italia. Sabato 11 ottobre, a Porta Pratello, per tutta la giornata si sono confrontati collettivi, organizzazioni e realtà sociali, di movimento e sindacali. “Abbiamo lanciato prima dell’estate una giornata di discussione”, scrive la Rete per lo sciopero Sociale Transfemminista contro la guerra – Reset Against the War – “a partire dall’evocazione della parola d’ordine dello sciopero sociale europeo contro la guerra e il riarmo. A distanza di mesi, la giornata si colloca oggi in una fase molto diversa: il movimento dello sciopero contro la guerra si è manifestato in Italia trovando nel rifiuto del genocidio a Gaza il suo innesco. Questo movimento ha mostrato la sua forza con le grandi giornate di blocco del 22 settembre e 3 ottobre e le decine di manifestazioni di massa che hanno attraversato numerose città, non solo in Italia, fino all’immenso corteo del 4 ottobre a Roma. Di fronte a questi eventi e alle possibilità impreviste che aprono, abbiamo ritenuto necessario ripensare il programma dell’11 ottobre. Mettiamo a disposizione la giornata per un momento di discussione/assemblea pubblica e aperta, per ragionare insieme su composizione, impatto e prospettive del movimento contro il genocidio e la guerra”. La plenaria mattutina ha affrontato la questione dello sciopero come prospettiva politica e come processo, alla luce delle giornate del 22 settembre e del 3 ottobre. Dopo gli interventi introduttivi, da segnalare, tra gli altri interventi di movimento, la presa di parola delle realtà sindacali che hanno animato le recenti giornate di sciopero, Cgil, Usb, Cobas, Cub, Clap. Tutti hanno sottolineato il fatto che lo sciopero ha superato tutte le organizzazioni sindacali che lo hanno chiamato, ora si tratta di “dare gambe a questo movimento” e mantenere la sua forza di opposizione sociale al governo Meloni, soprattutto alla luce della “finanziaria di guerra” che l’esecutivo si appresta a varare. Nel pomeriggio, la discussione è ripresa con una nuova assemblea plenaria intitolata “Percorsi di lotta e sciopero sociale europeo contro la guerra”. Da Bologna Elia, della redazione di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica
Una marea in marcia per la Palestina
La settimana appena passata in Italia, è stata inedita e sorprendente. È saltato un  tappo e la partecipazione è esplosa: una partecipazione larga, massiva, variegata. La mobilitazione per la Palestina, nel nostro paese, non è certo cominciata la settimana scorsa, le realtà palestinesi, come alcuni sindacati di base, centri sociali e collettivi studenteschi si mobilitiano da almeno due anni sul genocidio in corso. E tante realtà si mobilitano sull’occupazione, sul sistema di appartheid e la colonizzazione di Israele da decenni e più. Eppure se nei due anni passati abbiamo visto mobilitazioni di massa per la Palestina in tutto il mondo, dai campus americani alle piazze dei paesi arabi, dalle manifestazioni in rosso in Olanda ai paesi latino-americani, in Italia le piazze non erano mai fuoriuscite dai margini delle organizzazioni che le chiamavano. Un lavoro continuo, ma anche difficile e non sempre in grado di parlare oltre sé.  di Luca Mangiacotti OBIETTIVI COMUNI: SENZA ESSERE D’ACCORDO SU TUTTO Ma dall’inizio di settembre, mentre la Global Sumud Flotilla che organizzava la spedizione, qualcosa è iniziato a cambiare. Gli argini sono saltati. «Se loro possono salire su un nave, solcare il Mediterraneo, sfidare Israele e rischiare il carcere, allora anche noi qua possiamo fare qualcosa» – hanno commentato le e gli studenti in piazza. La Global Sumud Flotilla è stata un’azione che ha rotto l’immobilismo e si è mossa con pochi e chiari obiettivi comuni – rompere l’assedio a Gaza – sapendo che non si era d’accordo su molto altro. Muoversi per abbandonare lo schermo di fronte al quale abbiamo visto scorrore le immagini del genocidio per due anni, sentendoci sempre piu isolatə.  Nella strabordante manifestazione del 4 ottobre la complessità e varietà della partecipazione era evidente: c’erano collettivi studenteschi, gruppi territoriali, grandi associazioni, gruppi scout, gruppi religiosi cattolici e islamici, passando per qualsiasi sigla del sindacalismo di base e tutti i gruppuscoli comunisti. Una manifestazione che teneva insieme dalle bandiere della pace alle bandiere di Hamas. > Questo milione di persone non è d’accordo su molte cose: ad esempio sul ruolo > di Hamas, su cosa sia o non sia il 7 ottobre, ma si è riunita sotto uno > striscione che era dedicato alla resistenza palestinese e riconosce obiettivi > comuni: la fine di ogni accordo diplomatico e commerciale con Israele, e > l’imposizioni di sanzioni per porre fine al genocidio il prima possibile, la > fine dell’occupazione e del sistema di apartheid in Palestina. Probabilmente continuare a lavorare all’individuazioni di obiettivi e pratiche comuni e condivisi può essere un modo per continuare a costruire spazio per l’allargamento della mobilitazione. Al contrario, aprire lotte per imporre la propria visione e strategia politica rischia di rompere questo fragile equilibrio. Bisogna avere cura di questa nuova voglia di partecipazione politica, creare spazi di condivisione di pratiche e saperi, spazi di decisione comune e pubblica, espandere la socializzazione alla politica, e non con il solo fine di portare gente verso la propria singola organizzazione o collettivo. di Luca Mangiacotti BLOCCARE TUTTO: PRATICHE COMUNI  La partecipazione non è stata solo massiva, ma anche determinata e strategicamente mirata. «Se bloccano la Sumud Flotilla, noi blocchiamo tutto» – ha urlato il portuale nella manifestazione a Genova, che accompagnava la partenza della Flotilla. Cioè blocchiamo i flussi dell’economia di guerra, che continuano a scorrere dall’Europa e dagli Usa – ma non solo – verso Israele e rendono i nostri paesi complici del genocidio. In questo il blocco dei porti è stato un elemento centrale, una pratica comune, condivisa e da praticare in massa, che dal porto di Genova si è estesa a macchia d’olio in tutta Italia dal 22 settembre in poi. Questa non è una pratica che nasce dal nulla, chiaramente, nei mesi e anni scorsi, i portuali hanno costruito reti e già attuato la pratica del blocco, astenendosi dal carico o scarico di navi con materiale per l’industria bellica. Il blocco dei porti si è praticato, non solo nelle due giornate di sciopero del 22 e del 3 ottobre, ma tutte le volte che sono arrivate informazioni di carichi di morte, con passaparola che hanno portato nei porti centinaia di persone in pochissimo tempo, come a Taranto e a Livorno, riuscendo effettivamente a bloccare le navi.  Dal blocco dei porti, si è passati velocemente, nelle città senza porti, al blocco delle stazioni, dei poli della logistica, degli aeroporti, delle tangenziali e autostrade. Per bloccare i flussi dell’economia di guerra, che alimenta il genocidio in Palestina e i conflitti in molti altri luoghi del mondo, dal Congo all’Ucraina. > «Per scoprire infine che quello che stiamo bloccando è quella economia che ci > impoverisce, licenzia, taglia, riarma», come scrivono i lavoratori della > ex-GKN. Un’economia che dall’altra parte del Mediterraneo è violenza coloniale e genocida e sulla nostra sponda è l’economia che ci rende precariə, ci impoverisce, ci impedisce di avere un casa, ci isola, ci rende sempre più vulnerabilə, inquina i nostri territori, distrugge le politiche sociali, la scuola, la sanità, approva leggi razziste, lascia morire le persone ai nostri confini e umilia la classe lavoratrice. Per questo lottare e bloccare l’economia di guerra è già lottare per i nostri diritti, le nostre condizioni di lavoro e le nostre vita.  di Luca Mangiacotti SCIOPERARE E qui arriviamo a una altra questione centrale e inedita delle scorse settimana: lo sciopero. In due settimane sono stati organizzati due scioperi, prima il 22 settembre, uno sciopero indetto dai sindacati di base, che ha strabordato qualsiasi previsione, macchiando di ridicolo l’operazione della Cgil di lanciare una data di mobilitazione il 19 settembre, aspramente criticata dalle stesse iscritte e iscritti. E solo due settimane dopo, il 3 ottobre, uno sciopero generale indetto dalla Cgil, questa volta, insieme al sindacalismo di base, non rispettando il preavviso e invocando l’articolo 2 della legge 146/1990 «in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori». E aprendo un conflitto con le istituzioni sulle norme che regolano lo sciopero nei settori pubblici essenziali. > Uno sciopero che ha riportato al centro del dibattito pubblico l’astensione > dal lavoro come arma in mano alle lavoratrici e ai lavoratori. Due giorni di sciopero a distanza di dieci giorni pesano sulle tasche di chi lavora, di chi ha la partita iva, o una piccola attività, ma le adesioni hanno superato ogni aspettativa. Anche qui, non ci si arriva spontaneamente, ma dopo anni di lavoro del movimento transfemminista sullo sciopero dell’8 marzo e sulla sua risignificazione per farlo uscire dalle strette maglie economiciste delle indizioni sindacali. Anni di lotte dei e delle precarie in vari settori tra il pubblico e il privato che hanno cercato di organizzarsi superando le divisioni sindacali tra confederali e sindacati di base con grandi difficoltà. Anni in cui l’unità sindacale era stata trovata a destra con UIL e CISL, e non a sinistra con le sigle del sindacato di base. Queste giornate ci hanno fatto respirare l’idea che lo sciopero può tornare ad essere una leva nelle mani di chi lavora per sottrarsi ai ricatti e guadagnare spazi di vita.  Lo sciopero ha anche reso chiaro quanto l’economia del genocidio si basi sulla nostra complicità: non parlare di Palestina in classe, accettare che i PCTO nelle scuole vengano svolti dalle forze dell’ordine e dall’esercito, accettare le leggi razziste e la loro propaganda, far finta di non vedere il carico di merci che stiamo caricando, non dire nulla di fronte al villaggio dell’esercito nella piazza principale della nostra città, non protestare contro i software che la nostra azienda continua a comprare o sviluppare, continuare a comprare certi marchi. Alzare le voci da sole è difficile, soprattutto nei luoghi di lavoro, dove subiamo il ricatto continuo della busta paga, delle sanzioni, dei capi, per questo è necessario costruire spazi pubblici, reti di solidarietà, e spazi di supporto tra colleghe e colleghi.  di Luca Mangiacotti SCUOLE E UNIVERSITÀ: UN NUOVA SOCIALIZZAZIONE AL CONFLITTO  Insieme ai luoghi di lavoro, le scuole e le università sono l’altro grimaldello di queste mobilitazioni. L’anno scolastico è cominciato male, se non malissimo, la scuola sotto il Ministro Valditara sta subendo una vera e propria torsione autoritaria. Dal voto in condotta per lə studenti al codice di condotta per le insegnanti, dalle nuove regole per gli esami di stato alla legge in discussione sul consenso informato. Fino ad arrivare alle nuove indicazioni nazionali per la scuola d’infanzia e primaria che segnano la fine della scuola “multiculturale”, “inclusiva” (e molto neoliberale), per dare l’inizio alla scuola dove si insegna che «solo l’occidente conosce la storia».  La partecipazione ai due scioperi tra il corpo insegnante è stata molto buona, con intere plessi chiusi, e studenti e docenti in corteo spontaneo insieme, liberi dai ricatti dei dirigenti scolastici e degli uffici scolastici regionali. In questi giorni si moltiplicano le occupazioni di scuole e facoltà in tutta Italia, mentre le questure di Brescia e Milano hanno iniziato a reprimere proprio giovani e giovanissimi con misure restrittive della libertà personale, daspo, denunce e perquisizioni. > Per molte persone giovani questa è la prima socializzazione alla politica e al > conflitto con manifestazioni larghe e determinate, che se continua con questa > intensità, potrebbe costruire nuove ondate di partecipazione politica e nuove > forme di organizzazione politica negli anni a venire. Una socializzazione al conflitto liberatoria, dopo anni di repressione, di continua chiusura dello spazio pubblico, della pandemia, della paura della guerra. Un’esplosione di vita in classi scolastiche che sono piene di solitudine, di sofferenza, di disagio e isolamento. E che per questo le questure e le autorità vogliono chiudere al più presto: è questa ondata disordinata di partecipazione giovanile e dal basso che fa più paura.  di Luca Mangiacotti GAZA STA FUNZIONANDO DA SPECCHIO  La bandiera per la Palestina sta diventando il simbolo e catalizzatore di tutte le altre battaglie che oggi esistono nel nostro paese: lotte sindacali per delle degne condizioni di lavoro, lotte ecologiste, femministe e transfemministe, antirazziste, e per il diritto alla casa. Scendere in piazza per la Palestina e contro il genocidio a Gaza, sta diventando un modo per guardare il nostro lato di mondo, il sistema economico che si arricchisce con il commercio di armi, i governi pronti a tagliare la spesa sanitaria e sociale per comprare armamenti, il sistema razzista che discrimina sulla base della cittadinanza, religione e colore della pelle, le discriminazioni sistemiche contro donne e persone trans. Gaza funziona da specchio. Perché non distogliere lo sguardo dagli orrori commessi da Israele significa iniziare a comprendere quanto i nostri stati siano coinvolti in questo genocidio, e di quanto la guerra sia già nelle nostre società. Sono i gangli del sistema di potere che dobbiamo bloccare, avendo cura del processo di mobilitazione largo e plurale che si è aperto, senza smanie di conquista e di leadership della piazza. E bisogna fare questo tenendo saldi i tre punti strategici che centrano i lavoratori ex-GKN: «1. Urgenza perché Gaza e la Palestina muoiono ogni secondo 2. Efficacia: ribaltare i rapporti di forza 3. Permanenza: perché i rapporti di forza non si cambiano in un giorno». La copertina è di Luca Mangiacotti SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Una marea in marcia per la Palestina proviene da DINAMOpress.
Riflessioni a partire dalla sciopero
I. Problemi di costruzione di un’identità politica di classe Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato. La frantumazione secolare, le differenze socio-economiche, […] L'articolo Riflessioni a partire dalla sciopero su Contropiano.
Genova per noi #2 | Intervista a Riccardo Degl’Innocenti sugli scioperi dei portuali a sostegno alla Sumud Flotilla – a cura di Lidia Demontis e Roberto Faure
Una seconda intervista di Effimera sulla situazione genovese e sugli scioperi dei portuali a sostegno alla Sumud Flotilla. Parla Riccardo Degl’Innocenti, genovese, esperto di porti, attivista di The Weapon Watch, Osservatorio sulle armi nei porti europei (www.weaponwatch.net), da sempre al fianco del CALP di Genova.  ***** 1. La vostra mobilitazione è stata un successo, [...]