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Libera università? Un dialogo critico con Montanari
Il saggio Libera Università di Montanari merita di essere discusso. Apre una riflessione che interroga tutte le componenti delle università italiane, dai rettori agli e alle studenti, passando per docenti ordinari e associati e intercettando alcune istanze poste dalle Assemblee Precarie Universitarie (APU), che in questi mesi si sono organizzate per contrastare le riforme in essere e per denunciare le responsabilità dell’accademia italiana nell’alimentare il regime di guerra che si sta materializzando nelle nostre vite. > Una delle argomentazioni che ricorrono nella tesi proposta da Montanari è > un’idea dell’accademia come corpo unico, come spazio sociale che per sua > vocazione dovrebbe essere critico o conflittuale nei confronti di governi e > poteri. Si tende, in altri termini, a confondere la natura epistemologicamente conflittuale della scienza con una propensione altrettanta naturale al conflitto dei soggetti che elaborano, sistematizzano e divulgano la conoscenza. L’autore sostiene questo a partire dal proprio desiderio, pienamente condivisibile, di immaginare un’accademia orientata a sostenere i processi democratici, l’empatia, la solidarietà e la messa a disposizione delle intelligenze per trasformare il mondo a partire da questi principi, senza negare tuttavia che «per lottare per l’università come potrebbe (o dovrebbe) essere, dobbiamo mettere in discussione l’università com’è oggi, frutto di scelte politiche scellerate, ma anche di una diffusa acquiescenza, o peggio complicità, interna al mondo accademico» (p. 57). Nel quadro storico e politico attuale, la nostra attenzione dovrebbe essere dunque posta non tanto sull’ideale mobilitazione dell’Università in quanto tale, quanto piuttosto sul far emergere posizionamenti e tensioni politiche che abitano in modo sempre più palese i nostri atenei. In questo contesto, l’obiettivo preliminare di chi vuole costruire un’università diversa dovrebbe concentrarsi sul far emergere questa acquiescenza e queste complicità, costruendo schieramenti, smascherando posizionamenti e individuando controparti. Da questo punto di vista, seguendo la ricostruzione genealogica proposta da Montanari, in questi anni solo studentə e precarə hanno tentato di organizzarsi contro il disegno autoritario di ristrutturazione delle università, contro l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro accademico e, più recentemente, contro l’arruolamento degli atenei nel regime di guerra incombente. Al contrario, il silenzio assordante che si è manifestato è quello dellə strutturatə, in gran parte appiattitə e titubantə di fronte ai continui ricatti che arrivano dall’esecutivo. Eppure, chi vive i corridoi dei dipartimenti percepisce che in tutte le componenti della comunità accademica c’è la consapevolezza di quanto radicali siano le trasformazioni epocali che si stanno prospettando. > La domanda che è emerge è dunque la seguente: chi, se non quellə che hanno il > privilegio di avere una posizione tutelata e di potere, dovrebbe proporre > spazi di partecipazione collettiva per ragionare riflessivamente sulla > comunità educante e democratica che dovrebbe rappresentare la composizione > sociale accademica? Rispondere a questa domanda, significherebbe però mettere in discussione tutto, significherebbe in primis interrogarsi sulle forme organizzative e sulle processualità amministrative delle università, mettendo in discussione strutture di potere e posizionamenti acquisiti. Significherebbe, dunque, mettere in discussione la ragione valutativa e i suoi obiettivi, i quali minano l’autonomia delle istituzioni universitarie ma soprattutto la libertà della scienza e di chi la pratica. La riforma della governance universitaria è un atto autoritario di inaudita gravità. Sulla scia di Orbán e dell’amministrazione Trump, anche l’Italia si appresta a mettere sotto commissariamento tutte le università del Paese. Inserire un commissario del governo nei CDA degli atenei, con poteri legati alla dimensione finanziaria e all’indirizzamento delle traiettorie della ricerca e della didattica, significa sottomettere la libertà e l’autonomia della scienza alle disposizioni ideologiche dei governi in carica. In questo senso, sono pienamente condivisibili le preoccupazioni e le esortazioni alla mobilitazione di Montanari, presenti nel suo libro e sulla lettera pubblicata su ROARS pochi giorni fa. Tutto giusto, ma se vogliamo sviluppare una critica agli ultimi provvedimenti non possiamo non interrogarci su quello che fin qui è stato e su come si strutturi oggi la dimensione dell’autonomia degli atenei. La riforma Meloni-Bernini, infatti, non nasce dal nulla. Non si può ragionare della pericolosa fase politica che stiamo attraversando senza constatare che la ragione valutativa – e le infrastrutture organizzative che la sostengono – avessero esattamente l’obiettivo di governare i soggetti che si occupano di ricerca e di indirizzare e gerarchizzare saperi e conoscenze da sviluppare nelle università. LA VALUTAZIONE NEOLIBERALE Dal primo punto di vista, a quindici anni dall’approvazione della legge 270, appare ormai chiaro che le retoriche utilizzate per sostenere la trasformazione dell’università italiana in chiave neoliberale (merito, eccellenza, competizione, produttività, etc.) sono servite in modo efficace ad amministrare la dismissione economica e culturale del carattere pubblico dell’accademia, producendo un conflitto orizzontale tra i soggetti precari che ambivano ad accedere a una posizione stabile. Ricordiamo come il dibattito pubblico degli anni ’10 rappresentasse queste riforme come strumenti per combattere il baronato e sostenere una nuova trasparenza dei processi di reclutamento. Nella realtà, abbiamo assistito a una concentrazione di poteri violenta, che a fronte del costante definanziamento della ricerca pubblica ha irrobustito e reso più forti i sistemi feudali che governano i nostri atenei. Le commissioni dell’ASN, l’indicizzazione delle riviste, la spinta continua ad una iper-produttività sono tutti ambiti in cui è evidente come nessuna neutralizzazione delle dinamiche baronali sia sorta da queste trasformazioni. > Al contrario, la costante valutazione e sorveglianza delle pratiche di ricerca > e dei suoi prodotti hanno reso le relazioni tra i soggetti che si occupano di > saperi e conoscenze ancor più autoritarie e volte al ricatto di quanto lo > siano mai state nell’Italia Repubblicana. Siamo di fronte a una grande rappresentazione distorta, in cui in gioco ci sono le vite dellə precariə della ricerca e la libertà della scienza, che senza adeguati finanziamenti e sotto il ricatto dell’ANVUR, che decide in modo arbitrario chi e come ha il diritto di continuare a fare ricerca, viene ontologicamente messa in discussione. I PROGETTI DI RICERCA Veniamo qui al secondo punto, ovvero al fatto che le procedure valutative servono anche, e soprattutto, a indirizzare e gerarchizzare saperi e conoscenze, definendo dall’alto quali traiettorie di ricerca abbiano il diritto o meno di essere sostenute e finanziate. L’elemento che mostra con chiarezza questa dinamica è connesso ai processi di progettazione nazionale ed europea, i quali dal punto di vista economico sono i principali meccanismi di sostegno della ricerca pubblica in sostituzione del Fondo di Finanziamento Ordinario. Per poter accedere alla grandissima maggioranza di questi finanziamenti è necessario proporre dei progetti su delle linee programmatiche decise dall’alto, o dal MUR o dall’Unione Europea, istituzioni che quindi definiscono quali saperi siano necessari e quali, invece, non abbiano il diritto di essere sviluppati. Emblematiche e preoccupanti sono in questo senso le notizie che giungono in questi giorni sulle discussioni che all’interno dell’UE si stanno avendo sul programma quadro HORIZON 2028-2034. Dopo circa 40 anni in cui l’Unione Europea aveva assunto come questi finanziamenti dovessero essere utilizzati esclusivamente per ricerche che avessero uno scopo civile, la Commissione Europea, attraverso il piano ReArms Europe, sta tentando di togliere questo vincolo indirizzando questi finanziamenti verso ricerche dual-use, ovvero che abbiano applicazioni sia civili che militari. Torneremo poi sulla relazione tra guerra e università, ma qui è indispensabile sottolineare la non neutralità dei meccanismi di finanziamento nazionali ed europei che passano dalla progettazione, facendo emergere come le forme di finanziamento della ricerca pubblica e i diversi meccanismi valutativi che in essa agiscono siano processi amministrativi dei sistemi accademici che ne limitano, se non inibiscono, la libertà. > Ed è qui che l’idea dell’autore sembra insufficiente se non si mettono in > discussione tutti i dispositivi che limitano la libertà della scienza e che > controllano chi la pratica. Per mobilitarsi contro l’attacco del governo Meloni all’autonomia della istituzioni universitarie bisogna essere sinceri e affermare con chiarezza che già oggi la libertà accademica sta subendo, da oltre vent’anni, un attacco violento che si è dato attraverso riforme sostenute dalla retorica fuorviante della valutazione e del merito. Ripensare l’intero assetto amministrativo e retorico che governa l’università contemporanea italiana è necessario quando si vuole lottare per riconsegnare alla conoscenza il compito di criticare l’esistente e di sorvegliare sulla tenuta della democrazia. In altre parole, è necessario uscire dall’autoreferenzialità radicale con cui oggi il lavoro universitario viene rappresentato e agito da chi lo sviluppa, ricominciando a pensare i saperi in rapporto con la società, rendendoli spendibili, affermando di nuovo e con coraggio che studiare, fare ricerca, connettere le intelligenze e farle cooperare sono elementi indispensabili per rendere il mondo un posto migliore di com’è. Che un’università libera è necessaria per difendere la democrazia, per lottare per i diritti di tuttə, per migliorare la vita delle persone e la salute del Pianeta, per prevenire e rifiutare le guerre. In definitiva, per lottare contro tutti quei poteri, più o meno democratici, che stanno decidendo di investire e scommettere con grande nonchalance sulla barbarie e sulla catastrofe. LO STATO DELLA MOBILITAZIONE In conclusione, poche note su quello che sta succedendo dal basso e sulle cose di cui ci sarebbe oggi una vitale necessità. Nel corso di questi mesi, abbiamo capito che della precarietà che investe gran parte dellə ricercatorə italianə non interessa a nessuno, che le sorti dellə 20000 precariə della ricerca che rischiano l’espulsione dalle accademie non sono un tema che interessa i professori strutturati. Nonostante questo ci lasci sbigottitə e inorriditə, siamo anche dispostə a comprendere questo atteggiamento a fronte di un mondo in subbuglio, in cui i fascismi e la guerra stanno definendo una nuova epoca storica con cui confrontarsi. Purtroppo, dobbiamo tuttavia constatare che anche di fronte all’intensità del dispiegarsi del regime di guerra in tutti gli ambiti della società troppo silenzio si sente. In questi mesi, le APU e la componente studentesca, senza privilegi e con tutto da perdere, si sono mobilitate, esponendosi al ricatto e alla violenza del governo, di chi dirige i nostri dipartimenti e atenei, ma anche al ricatto dei propri professori di riferimento. I professori strutturati, semplicemente, non hanno detto niente, non si sono mai presi responsabilità adeguate alla storia che si sta tetramente esprimendo. A ben vedere, richiamando Montanari, anche in assenza della richiesta di firmare un giuramento, non sembra che la situazione sia particolarmente diversa dal 1931. Eppure, chi attraversa i dipartimenti sa bene che ci sono tante persone disgustate dalla situazione, che sono contro la guerra e contro l’autoritarismo, che sostengono la pace e la democrazia. Rimane vero, però, che se non si ha il coraggio di prendere posizione, di agire conflitti che potrebbero mettere in discussione privilegi e posizioni di rendita, questo disgusto resta un elemento simbolico che non qualifica queste persone in modo diverso dai tanti che invece sostengono la guerra e vedono di buon occhio l’ulteriore smantellamento delle prassi democratiche negli atenei. > Mai come in epoca di guerra, il silenzio significa assenso e complicità. È > quindi questo il momento di rimettere al centro il tema del conflitto come > dimensione che sostiene e rappresenta in pieno la democrazia. Si tratta di > aprire spazi in cui la comunità accademica ricominci a discutere di se stessa > e del mondo, non di definire a priori quale sia il conflitto buono e quello > cattivo e quale immagine questo debba assumere. Chi, se non quelli che hanno il privilegio di essere tutelati dal punto di vista soggettivo devono assumersi la responsabilità di rivendicare con forza questi spazi? Cos’hanno da perdere gli strutturati se non posizioni di rendita, accesso a finanziamenti che in ogni caso non intaccherebbero il loro salario o accesso alle gerarchie organizzative del proprio dipartimento? Siamo in un momento storico in cui essere responsabili significa esporsi, perché l’oggi non è uguale allo ieri e l’epoca che stiamo vivendo è tanto nuova quanto violenta. Da questo punto di vista, emergono inevitabilmente delle domande, a cui sarebbe bello trovare delle risposte attraverso la vita pubblica e democratica dei nostri atenei: è possibile che il corpo docente assista senza toccare palla, e senza volerla toccare, a questa serie di riforme che piombano sulle loro teste? Il corpo docente è d’accordo con la nuova presidente CRUI quando dice che non c’è bisogno di nuove risorse per l’università e la ricerca? Il corpo docente è d’accordo con l’ingresso dei commissari del ministero nei CDA degli atenei? Il corpo docente accetta che il nuovo programma Horizon sia dedicato alla guerra e alle sue esigenze? Purtroppo, fino a prova contraria, pare che gli strutturati di questo paese siano tutti d’accordo. Nel concreto, in attesa di essere sorpresi da una loro mobilitazione che affermi in modo chiaro il rifiuto della guerra e dell’autoritarismo, e che essi ricomincino a lottare per un’università libera e democratica, si dovrebbero sostenere le battaglie delle APU, agevolando i propri ricercatori e ricercatrici e sollecitandoli alla mobilitazione, difendendolə dalle aggressioni che subiscono pubblicamente e tutelandolə dalle sicure ritorsioni che subiranno. Si dovrebbero fornire spazi materiali e simbolici per le iniziative e le prese di parola della ricerca precaria e dellə studentə. Si dovrebbe richiedere alle amministrazioni degli atenei di metterci la faccia e condividere con la comunità accademica tutta che cosa sta succedendo, innanzitutto convocando formalmente e invitando democraticamente a una partecipazione più ampia possibile, assemblee di dipartimento e di ateneo in tutte le università del paese. Se solo si scorgessero questi piccoli segnali, allora forse l’università potrebbe ricominciare ad esprimere quella intima vocazione alla critica e al conflitto che Montanari racconta nel suo libro. Altrimenti, dovremmo semplicemente constatare la complicità del corpo docente universitario italiano alla guerra, all’autoritarismo e al definitivo tramonto delle università come luogo della critica e della democrazia. A ognuno, dunque, le proprie riflessioni e le proprie responsabilità. La copertina è di Guilhem Vellut (Flickr) e ritrae il campus Einaudi dell’Università di Torino SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Libera università? Un dialogo critico con Montanari proviene da DINAMOpress.
L’università come «comunità del non-consenso» e codici etici. A proposito di Libera università di Tomaso Montanari
Sono molti i meriti di questo prezioso pamphlet, anzi, per prendere in prestito la definizione datane dal suo autore, «libro militante» (Tomaso Montanari, Libera università, Torino, Einaudi, 2025). Non ultimi, quelli più legati all’attualità, che dovere dell’uomo di cultura, osserva Montanari, e quindi anche se non soprattutto di colui che ha a che fare con l’insegnamento e la formazione delle nuove generazioni, il docente universitario, è di respingere isterismi e sciovinismi nazionalistici come anche di denunciare operazioni politiche tanto disoneste intellettualmente quanto grossolane scientificamente. Se allora ragioni antiche e più recenti del conflitto russo-ucraino possono essere variamente e legittimamente valutate dalla comunità scientifica (e lo storico dell’arte ritiene, giustamente, insieme alla scrittrice, drammaturga e pittrice russa Ljudmila Stefanovna Petruševskaja che Putin e il suo governo guerrafondaio siano espressione di «un’idea malata di patria» (p. 102, nella versione digitale), ciò nondimeno ha ragione Montanari quando scrive che «la regressione al nazionalismo bellicista che oggi attanaglia anche l’Occidente non si combatte certo con la russofobia» (ibidem), russofobia che ha portato, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022, istituzioni universitarie e culturali non solo italiane a boicottare le università della Russia e financo la diffusione di libri di autori russi. Allo stesso modo, Montanari, pur condannando il «massacro», di più, lo «sterminio di massa» in atto a Gaza, contesta la richiesta di boicottaggio, avanzata da molte associazioni studentesche, nei confronti delle università israeliane, in quanto ciò «significherebbe trascinare nella logica della guerra (binaria, semplificata e fatta di contrapposizioni assolute amico/nemico) anche una delle poche istituzioni che possono aiutarci a uscire da questo buco nero, che tutto divora. Le università sono come le persone: si giudicano per le scelte, non per la bandiera» (p. 98). Coglie, a mio avviso, ancora nel segno il collega quando denuncia l’atteggiamento disonesto e violento di quegli intellettuali à la page che tacciano di antisemitismo qualsiasi valutazione critica della politica del governo israeliano, pratica vigliacca, questa, perché tesa ad intimidire l’interlocutore, che pochi hanno il coraggio di farsi scivolare addosso uno stigma così infamante. Le riflessioni di Montanari hanno peraltro un respiro più ampio, non dettato solo dalle contingenze, pur drammatiche, della politica internazionale. Perché la società, e quindi anche il potere politico – si chiede l’autore -, deve garantire all’università, e dunque anche ai docenti, la più larga libertà d’espressione? Perché le conviene, è la risposta più ragionevole, perché storicamente quella libertà ha permesso sviluppo scientifico e progresso morale e materiale. Come ha osservato Hannah Arendt in un passo di Verità e politica[1], citato da Montanari e che dovrebbe campeggiare nell’atrio di qualsiasi dipartimento, nella misura in cui l’Accademia si ricorda delle sue antiche origini, essa deve sapere di essere stata fondata dal più determinato e influente oppositore della polis. Certo, il sogno di Platone non si è realizzato: l’Accademia non è mai diventata una controsocietà […]. Ma ciò che Platone non ha mai immaginato è diventato vero: l’ambito politico ha riconosciuto che, in aggiunta all’imparzialità richiesta nell’amministrazione della giustizia, aveva bisogno di un’istituzione esterna alla lotta per il potere. Che questi luoghi d’insegnamento superiore siano in mani private[2] o pubbliche non è di grande importanza; non solo la loro integrità, ma la loro stessa esistenza dipende in ogni caso dalla buona volontà del governo. Verità molto sgradite sono emerse dalle università, e sentenze molto sgradite sono state più volte emesse dalla magistratura; […] è difficile negare il fatto che, almeno nei Paesi con un governo costituzionale, l’ambito politico ha riconosciuto, anche in caso di conflitto, di avere interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali non ha potere (cit. alle pp. 73-74). Se così è, desta qualche perplessità quanto contemplato nel Codice etico e comportamentale approvato dall’Università per stranieri di Siena, di cui Montanari è rettore. Montanari ricorda con orgoglio nel volume come quel documento respinga «ogni forma di nazionalismo». Mi domando: «anche quello democratico?». Montanari ritiene nel suo scritto che l’unica soluzione della questione palestinese sia la creazione di uno Stato per due popoli, essendo «palesemente tramontata quella di due popoli in due Stati» (p. 105). Ebbene, un suo collega d’università che sostenesse la legittimità della costruzione di uno Stato palestinese, laico e democratico, non potrebbe forse essere accusato di veicolare una qualche forma di nazionalismo incompatibile con il codice etico d’ateneo? E poiché quel codice «obbliga» tutti coloro che, a qualsiasi titolo, facciano parte della comunità accademica, un suo membro qualora non dovesse riconoscere, come si legge nel Preambolo, quale «patria il mondo intero e l’umanità tutta» ma considerare (non rileva se a ragione o a torto) gli Stati nazionali tra gli ultimi argini rimasti a una globalizzazione economica in cui multinazionali e potenze del Big Tech tentano di vanificare i vincoli legislativi nazionali, porrebbe moralmente se stesso fuori da quella comunità? Ancora, e sempre nel Preambolo, si legge che l’università senese «ripudia la guerra, in ogni sua forma». Anche quella difensiva, fatta propria dalla Costituzione italiana (a cui più volte si richiama Montanari nel suo scritto come stella polare cui debba affidarsi anche la vita all’interno dell’Accademia), come noto, negli articoli 11 (che ripudia la guerra quale «strumento di offesa») e 52 («la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino»)? Da ultimo; il Preambolo, coerentemente con l’impostazione convintamente cosmopolita cui si ispira, «sostiene il diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato, il diritto di entrare in qualsiasi Paese, il diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornarci». A rigore, quindi, un docente dell’Università per gli stranieri di Siena che, pur caldeggiando la più ampia libertà di circolazione internazionale, dovesse ritenere impraticabile un diritto assoluto a trasferirsi dove si vuole, dovrebbe sentirsi tenuto lui in coscienza a trasferirsi in un altro ateneo? Montanari considera quella universitaria una «comunità del non-consenso» e richiama, aderendovi, e io con lui, l’insegnamento einaudiano secondo cui, anche e soprattutto nell’università, «l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti»[3]. È difficile comprendere come l’invito alla ribellione a qualsiasi principio possa conciliarsi con dettati normativi che principi cui uniformarsi elencano, fin nel dettaglio. [1] Torino, Bollati Boringhieri, a cura di V. Sorrentino, 2004 (ed. or. 1967). [2] Tra i molti temi che Montanari affronta, qui ricordo perlomeno quello delle università telematiche (pp. 31-35). [3] L. Einaudi, Per la libertà di scienza e di coscienza. Una gravissima minaccia all’Università italiana, in «Corriere della Sera», 7 dicembre 1910, ora consultabile in https://www.luigieinaudi.it/doc/per-la-liberta-di-scienza-e-di-coscienza/ [ultimo accesso il 3 agosto 2025].
Quale libertà accademica?
In una presa di posizione senza precedenti, più di 600 atenei statunitensi – tra cui alcuni tra i più prestigiosi della Ivy League – hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta che condanna le politiche dell’amministrazione Trump e sostiene il principio della libertà accademica. L’occasione sono le ingiunzioni della Casa Bianca a cancellare, pena la perdita dei finanziamenti pubblici, i programmi di ricerca legati ai temi “DEI” (“Diversity, Equity and Inclusion”). Lo stesso acronimo che anche Meloni, nell’incontro con Trump dello scorso 17 aprile, ha indicato come minaccia ad una libertà di pensiero fondamentale per rendere “l’occidente great again”. Intanto, in USA, a centinaia di studenti e ricercatori stranieri è stato improvvisamente revocato il visto e molti vengono espulsi senza appello in quanto “dissenzienti”. Se la Columbia University, a seguito di un taglio di circa il 6% del suo budget annuale, ha immediatamente ceduto alla richiesta di riformare radicalmente i propri programmi e di istituire un corpo di sicurezza interna con 36 agenti abilitati ad arrestare ed espellere studenti, l’Università di Harvard, a fronte di minacce di tagli ben più severe (33%), ha invece reagito denunciando il sopruso di un governo che pretende di regolamentare direttamente “le condizioni intellettuali” di un’università. Harvard ha “dato l’esempio” – ha affermato Obama – “respingendo un tentativo illegale e maldestro di soffocare la libertà accademica” in nome di un’accusa di antisemitismo usata come cavallo di Troia per “liberare” le università dall’ideologia woke. “Libertà” è dunque la parola più usata, da un lato e dall’altro, filo conduttore della difesa di un principio che si vuole sancito almeno dai tempi di Humboldt. Ma libertà di chi? E libertà per cosa? “Libertà accademica”, come dimostra anche il dibattito in Europa negli ultimi anni, non è semplice autonomia istituzionale, ovvero libertà di governance: una forma puramente gestionale di indipendenza dal governo e dal potere politico propria anzitutto della logica imprenditoriale. Essa comporta anche un diritto di autodeterminazione scientifica: riguarda la libertà di “cosa insegnare, chi ammettere e assumere e quali aree di studio e ricerca perseguire”, come ricorda il rettore di Harvard, ormai assurto a campione della difesa della libertà accademica nell’attuale conflitto. In gioco, in definitiva, è l’idea stessa di università – di ciò che si continua a chiamare università a fronte di uno stravolgimento che la rende vieppiù irriconoscibile. Per sostenere il principio della libertà accademica, non è dunque sufficiente un atto di difesa da “interferenze politiche” esterne, ma è necessario chiedersi anche che cosa si sta difendendo – o addirittura se, paradossalmente, proprio ciò che si sta difendendo non sia in realtà parte del problema. La lettera inviata dal governo federale alla comunità di Harvard a inizio aprile merita particolare attenzione. Essa lascia esterrefatti per la violenza: più che indicare obiettivi, sembra voler esibire la forza che li impone e che piega alla sudditanza, quasi a voler suscitare il clamore dovuto a quello che appare un manifesto dell’università reazionaria. Abituati da decenni a forme neoliberali di governamentalità, a forme (post)democratiche di “controllo” e “guida a distanza”, per le quali il ricorso alla coercizione sembrava, almeno a certi livelli, una dichiarazione di impotenza, si rimane attoniti dinanzi a un così inaudito attacco al liberalismo. In realtà, superato il primo sconcerto, si può notare che nella lettera il richiamo all’ordine e l’imposizione autoritaria si accompagna senza contraddizione ai più classici dispositivi neoliberali. Insieme a minacce di censura e di ritorsione si parla infatti anche di audit, accountability, transparence, merit-based, whistleblower ecc., con il pacifico chiarimento che l’intervento richiesto risponde alla necessità di conservare una “financial relationship” tra università e governo. A questo scopo, è scritto, occorre ridurre il potere degli studenti e di chi “privilegia l’attivismo rispetto alla ricerca” e rafforzare quello del personale di ruolo “più devoto alla missione dell’università”. Anzi, si legge in conclusione, tutte le richieste indicate sono volte a riportare Harvard “all’originaria missione di ricerca innovativa ed eccellenza accademica”. Di nuovo, le più violente minacce e intimidazioni si collocano pacificamente nel più tradizionale vocabolario neoliberale. È allora necessario interrogarsi sul senso di questa nuova direzione, perché non si tratta di semplice ritorno all’antico – del tutto antieconomico – potere sovrano. Per farlo, tuttavia, è necessario considerare anche non meno attentamente la risposta delle università costrette al violento aut aut. A meritare attenzione, infatti, è non solo la sconcertante capitolazione della Columbia, ma anche la lettera di risposta dell’American Association of Colleges and Universities (AAC&U). “Non ci opponiamo”, si legge in quest’ultima, “al legittimo controllo del governo. Tuttavia, dobbiamo opporci a un’indebita intrusione del governo nella vita di coloro che apprendono, vivono e lavorano nei nostri campus. Cercheremo sempre pratiche finanziarie efficaci ed eque, ma dobbiamo rifiutare l’uso coercitivo dei fondi pubblici per la ricerca”. Non viene definito in cosa esattamente consista “il legittimo controllo del governo”, come pure restano vaghi il ruolo e le finalità che le università e i college ritengono appropriati. Chi si aspettava non solo un atto di difesa, ma una riflessione alternativa sull’idea di università e di libertà da opporre al “manifesto” trumpiano, si trova invece di fronte ad una qualunque “mission” aziendale. “Il sistema americano di istruzione superiore è vario come gli obiettivi e i sogni degli studenti che serve”, si legge nella lettera di AAC&U. Le università “contribuiscono alla prosperità americana e sono partner produttivi del governo nella promozione del bene comune, contribuiscono alla vitalità economica e culturale a livello regionale e nelle nostre comunità locali, promuovono la creatività e l’innovazione, forniscono risorse umane per soddisfare le esigenze in rapida evoluzione della nostra forza lavoro dinamica e sono esse stesse importanti datori di lavoro”. L’unica cosa che le università non “forniscono”, a quanto pare, è la conoscenza. Ciò riconferma quello che Christophe Granger ha definito il paradosso della società della conoscenza, ovvero la programmatica distruzione in essa “delle condizioni per l’esistenza di un mondo dedicato alle cose della conoscenza”. E in effetti, il sospetto che la rivendicazione di Harvard sia in realtà svuotata di contenuti è confermato dal fatto che, poche ore dopo la pubblicazione della lettera in difesa della libertà accademica, silenziosamente Harvard stava già riorganizzando (ufficialmente: “adjust”) il dipartimento DEI, cambiando il nome in “Community and Campus Life”. La diversità deve diventare – sottolinea Harvard – “coltivazione di una cultura dell’appartenenza” – ma appartenenza a cosa, esattamente? A quale idea di università e di libertà? Nel marzo dello scorso anno, in seguito alla contestazione studentesca dell’allora direttore di Repubblica Molinari, invitato da diversi rettori a parlare delle guerre in corso (la celebrata uscita dall’autoreferenzialità dell’università si concretizza oggi in un’impressionante successione di eventi il più possibile mediaticamente riconoscibili, ossia conformi ai diktat dell’attuale politica spettacolo), la Ministra Bernini esternò il proprio disappunto in questi termini: “sono diventati troppi i casi di intolleranza all’interno dei nostri atenei”. Membro di un governo presieduto da una sincera ammiratrice della politica trumpiana proprio sul versante della lotta all’“ideologia DEI”, Bernini – che pure pochi mesi dopo annuncia un’indagine sulle università impegnate in “Gender Studies” – in questo caso non ha “minacciato”, invocato espulsioni, richiesto repressione del dissenso. Semplicemente, di contro ad estremizzazioni “irragionevoli”, ha avanzato una ragionevole richiesta: “serve un’alleanza tra Governo, Università e Istituzioni per proteggere questo spazio prezioso della Democrazia”. Quasi una gradita sorpresa di moderazione in un governo di destra certo non moderata. Così a nessuno è risultata indebita questa richiesta di partnership, che in altri tempi sarebbe apparsa enormemente lesiva dell’idea stessa di libertà accademica, che è tale se l’Università non è chiamata a fare alleanze con chicchesia, men che mai con il governo. Oggi, alla luce della lettera dell’AAC&U, non si può non osservare che il baluardo opposto contro le ingerenze trumpiane dalle liberalissime corporate universities americane è esattamente questo “tuning”, più precisamente un suo rafforzamento e estensione. Nulla di inedito, anzi: la difesa di ciò che esse sono, o sono diventate, a seguito di una drammatica restrizione del concetto di libertà accademica. Sulla questione palestinese, per esempio, la sintonia di Harvard con i suoi abituali donatori miliardari è stata del tutto naturale e spontanea e non ha conosciuto variazioni: anche in questi giorni di grandi rivendicazioni semplicemente prosegue la repressione disciplinare della protesta studentesca; in aggiunta, i pochi programmi di insegnamento e ricerca sulla Palestina sono stati eliminati o sono in via di eliminazione; è stata cancellata una tavola rotonda con la partecipazione di bambini di Gaza alla Harvard Medical School, interrotta l’unica partnership con un’università palestinese, eliminato un programma della Harvard Divinity School che affrontava il caso di studio Israele/Palestina, licenziati i responsabili del Center for Middle Eastern Studies…   Si profila così una singolare, anche se a prima vista impossibile, contiguità tra i principi delle post-democrazie neoliberali e i principi delle cosidette democrazie illiberali. Una contiguità che tanto più merita riflessione dal momento che la questione della libertà accademica è da alcuni anni operativamente al vaglio dell’Unione Europea, intenta ad allestire varie metriche a sua difesa, sulla strada aperta dallo Academic Freedom Index (AFI) messo a punto nel 2020 dall’università di Erlangen Nürnberg e dal V-Dem Institute, e finanziato dalla Fritz Thyssen Foundation e dalla Volkswagen Stiftung (sic!). Riferimenti bibliografici Lettera inviata a Harvard il 4 aprile 2025, https://www.harvard.edu/research-funding/wp-content/uploads/sites/16/2025/04/Letter-Sent-to-Harvard-2025-04-11.pdf Lettera di risposta di Harvard del 14 aprile 2025, https://www.harvard.edu/research-funding/wp-content/uploads/sites/16/2025/04/Harvard-Response-2025-04-14.pdf American Association of Colleges and Universities (AAC&U), A Call for Constructive Engagement, 22 aprile 2025, https://www.aacu.org/newsroom/a-call-for-constructive-engagement Ch. Granger, La Destruction de l’université française, Paris, La fabrique, 2015. Pinto & S. Zellini, The ‘Academic Difference’: Reimagining Academic Freedom in European Liberal Democracies, in “Philosophy and theory of higher education”, vol. 51.2, 2023, pp. 289-328, https://www.peterlang.com/document/1456772.   L’ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU FATAMORGANAWEB   
Harvard rivendica la libertà delle università, ma solo se sono private
La dichiarazione di Alan Garber, il presidente di Harvard, è in evidenza sul sito dell’università, e sta facendo il giro del mondo, trasportata da un’onda di indignazione contro le ulteriori misure minacciate da Donald Trump e da alcuni esponenti del governo. Scrive Garber: “Nessun governo, indipendentemente dal partito al potere, dovrebbe dettare cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere e assumere e quali aree di studio e ricerca possono perseguire”. Perché precisare che il principio di autonomia rivendicato da Harvard vale solo per le università “private”? La dichiarazione di Alan Garber, il presidente di Harvard, è in evidenza sul sito dell’università, e sta facendo il giro del mondo, trasportata da un’onda di indignazione contro le ulteriori misure minacciate da Donald Trump e da alcuni esponenti del governo. Possiamo immaginare che Garber abbia pesato le parole scelte per riassumere la propria posizione e quella dell’istituzione che rappresenta. Proprio per questo, vale la pena di leggerle con attenzione: “Nessun governo, indipendentemente dal partito al potere, dovrebbe dettare cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere e assumere e quali aree di studio e ricerca possono perseguire”. In apparenza ineccepibili. Eppure c’è un particolare che disturba, e che spinge a farsi qualche domanda. Perché precisare che il principio di autonomia rivendicato da Harvard vale per le università “private”? Garber sta forse suggerendo che i controlli – giustamente – rifiutati nel testo a nome della propria università sarebbero perfettamente accettabili se imposti a università che invece private non sono? La risposta a questa domanda ci porta al cuore del problema di quella che gli studiosi di queste cose chiamano “università corporate”, ovvero un’università che, come Harvard e le altre grandi università private degli Stati Uniti, è diventata di fatto una grande corporation, con un budget che farebbe impallidire quello dedicato all’intero sistema di formazione di diversi paesi, anche europei. Un’impresa, che produce risultati straordinari dal punto di vista del progresso della conoscenza in vari campi – come messo in evidenza, sempre sul sito dell’università, subito dopo la dichiarazione di Garber – ma che rivendica questi risultati come un buon investimento piuttosto che come una missione con un valore intrinseco. La libertà accademica, in tale prospettiva, è strumentale rispetto al prodotto che è in grado di generare, non ha una giustificazione autonoma. Perdere le esenzioni fiscali garantite ai donatori è un danno considerevole per un’università concepita in questo modo, ma è proprio quel regime fiscale di favore che ha dato ai finanziatori privati di alcune università un potere di influenza sempre maggiore sulle scelte fatte da queste istituzioni (come abbiamo visto in maniera lampante negli scorsi mesi per via delle pesanti pressioni del multimiliardario Bill Ackman su diverse università statunitensi). Se sono inaccettabili le pretese di controllo di Trump, perché non lo sono quelle di un privato cittadino? Viene il sospetto che il tema di fondo non sia la libertà accademica, ma la difesa del bilancio. Questo carattere privato dell’università corporate si è rivelato compatibile con un clima di repressione del dissenso e di intimidazione del movimento di solidarietà con i palestinesi che sta raggiungendo livelli paragonabili a quelli del maccartismo. Poco importa che a protestare sono in molti casi anche studenti ebrei. Le proteste non piacciono ai donatori, e a diverse associazioni il cui scopo principale sembra essere difendere Netanyahu e i suoi sodali, piuttosto che i cittadini di Israele o gli ebrei della diaspora. In ossequio a questo tipo di pressioni sono state prese misure restrittive (come la chiusura del campus) e in qualche caso si è arrivati a chiedere persino l’intervento delle forze dell’ordine per disperdere gli accampamenti degli studenti. Se l’università è un’impresa, l’accampamento non è un gesto politico cui riconoscere un valore di manifestazione legittima di dissenso, ma la violazione di un diritto di proprietà. Infine, vale la pena di ricordare che, poco meno di un anno fa, lo stesso Adam Garber che oggi difende in modo così eloquente la libertà accademica non ha esitato negare il diploma a alcuni studenti che avevano partecipato alle proteste per la Palestina, andando incontro alle critiche di molti docenti e ricercatori della sua stessa università. Se andiamo oltre le belle parole, stiamo assistendo a un’altra sconfitta del liberalismo di cui i principali responsabili sono proprio i liberali come Obama, che oggi protesta contro le pretese di Trump, invitando le università alla resistenza, ma che non ha mosso un dito per mettere la libertà accademica di tutte le università – pubbliche e private – su una base più sicura, illudendosi che i meccanismi reputazionali fossero sufficienti a garantirla, e che il peso crescente dei finanziatori privati nel definire l’agenda di insegnamento e ricerca non fosse destinato a erodere gli stessi presupposti etici della missione delle università in una società democratica. Pubblicato su Il Manifesto del 16 aprile 2025.