Quale libertà accademica?

ROARS - Wednesday, June 4, 2025

In una presa di posizione senza precedenti, più di 600 atenei statunitensi – tra cui alcuni tra i più prestigiosi della Ivy League – hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta che condanna le politiche dell’amministrazione Trump e sostiene il principio della libertà accademica. L’occasione sono le ingiunzioni della Casa Bianca a cancellare, pena la perdita dei finanziamenti pubblici, i programmi di ricerca legati ai temi “DEI” (“Diversity, Equity and Inclusion”). Lo stesso acronimo che anche Meloni, nell’incontro con Trump dello scorso 17 aprile, ha indicato come minaccia ad una libertà di pensiero fondamentale per rendere “l’occidente great again”. Intanto, in USA, a centinaia di studenti e ricercatori stranieri è stato improvvisamente revocato il visto e molti vengono espulsi senza appello in quanto “dissenzienti”.

Se la Columbia University, a seguito di un taglio di circa il 6% del suo budget annuale, ha immediatamente ceduto alla richiesta di riformare radicalmente i propri programmi e di istituire un corpo di sicurezza interna con 36 agenti abilitati ad arrestare ed espellere studenti, l’Università di Harvard, a fronte di minacce di tagli ben più severe (33%), ha invece reagito denunciando il sopruso di un governo che pretende di regolamentare direttamente “le condizioni intellettuali” di un’università. Harvard ha “dato l’esempio” – ha affermato Obama – “respingendo un tentativo illegale e maldestro di soffocare la libertà accademica” in nome di un’accusa di antisemitismo usata come cavallo di Troia per “liberare” le università dall’ideologia woke.

“Libertà” è dunque la parola più usata, da un lato e dall’altro, filo conduttore della difesa di un principio che si vuole sancito almeno dai tempi di Humboldt. Ma libertà di chi? E libertà per cosa? “Libertà accademica”, come dimostra anche il dibattito in Europa negli ultimi anni, non è semplice autonomia istituzionale, ovvero libertà di governance: una forma puramente gestionale di indipendenza dal governo e dal potere politico propria anzitutto della logica imprenditoriale. Essa comporta anche un diritto di autodeterminazione scientifica: riguarda la libertà di “cosa insegnare, chi ammettere e assumere e quali aree di studio e ricerca perseguire”, come ricorda il rettore di Harvard, ormai assurto a campione della difesa della libertà accademica nell’attuale conflitto. In gioco, in definitiva, è l’idea stessa di università – di ciò che si continua a chiamare università a fronte di uno stravolgimento che la rende vieppiù irriconoscibile.

Per sostenere il principio della libertà accademica, non è dunque sufficiente un atto di difesa da “interferenze politiche” esterne, ma è necessario chiedersi anche che cosa si sta difendendo – o addirittura se, paradossalmente, proprio ciò che si sta difendendo non sia in realtà parte del problema.

La lettera inviata dal governo federale alla comunità di Harvard a inizio aprile merita particolare attenzione. Essa lascia esterrefatti per la violenza: più che indicare obiettivi, sembra voler esibire la forza che li impone e che piega alla sudditanza, quasi a voler suscitare il clamore dovuto a quello che appare un manifesto dell’università reazionaria. Abituati da decenni a forme neoliberali di governamentalità, a forme (post)democratiche di “controllo” e “guida a distanza”, per le quali il ricorso alla coercizione sembrava, almeno a certi livelli, una dichiarazione di impotenza, si rimane attoniti dinanzi a un così inaudito attacco al liberalismo.

In realtà, superato il primo sconcerto, si può notare che nella lettera il richiamo all’ordine e l’imposizione autoritaria si accompagna senza contraddizione ai più classici dispositivi neoliberali. Insieme a minacce di censura e di ritorsione si parla infatti anche di audit, accountability, transparence, merit-based, whistleblower ecc., con il pacifico chiarimento che l’intervento richiesto risponde alla necessità di conservare una “financial relationship” tra università e governo. A questo scopo, è scritto, occorre ridurre il potere degli studenti e di chi “privilegia l’attivismo rispetto alla ricerca” e rafforzare quello del personale di ruolo “più devoto alla missione dell’università”. Anzi, si legge in conclusione, tutte le richieste indicate sono volte a riportare Harvard “all’originaria missione di ricerca innovativa ed eccellenza accademica”. Di nuovo, le più violente minacce e intimidazioni si collocano pacificamente nel più tradizionale vocabolario neoliberale.

È allora necessario interrogarsi sul senso di questa nuova direzione, perché non si tratta di semplice ritorno all’antico – del tutto antieconomico – potere sovrano. Per farlo, tuttavia, è necessario considerare anche non meno attentamente la risposta delle università costrette al violento aut aut. A meritare attenzione, infatti, è non solo la sconcertante capitolazione della Columbia, ma anche la lettera di risposta dell’American Association of Colleges and Universities (AAC&U).

“Non ci opponiamo”, si legge in quest’ultima, “al legittimo controllo del governo. Tuttavia, dobbiamo opporci a un’indebita intrusione del governo nella vita di coloro che apprendono, vivono e lavorano nei nostri campus. Cercheremo sempre pratiche finanziarie efficaci ed eque, ma dobbiamo rifiutare l’uso coercitivo dei fondi pubblici per la ricerca”. Non viene definito in cosa esattamente consista “il legittimo controllo del governo”, come pure restano vaghi il ruolo e le finalità che le università e i college ritengono appropriati.

Chi si aspettava non solo un atto di difesa, ma una riflessione alternativa sull’idea di università e di libertà da opporre al “manifesto” trumpiano, si trova invece di fronte ad una qualunque “mission” aziendale. “Il sistema americano di istruzione superiore è vario come gli obiettivi e i sogni degli studenti che serve”, si legge nella lettera di AAC&U. Le università “contribuiscono alla prosperità americana e sono partner produttivi del governo nella promozione del bene comune, contribuiscono alla vitalità economica e culturale a livello regionale e nelle nostre comunità locali, promuovono la creatività e l’innovazione, forniscono risorse umane per soddisfare le esigenze in rapida evoluzione della nostra forza lavoro dinamica e sono esse stesse importanti datori di lavoro”. L’unica cosa che le università non “forniscono”, a quanto pare, è la conoscenza. Ciò riconferma quello che Christophe Granger ha definito il paradosso della società della conoscenza, ovvero la programmatica distruzione in essa “delle condizioni per l’esistenza di un mondo dedicato alle cose della conoscenza”.

E in effetti, il sospetto che la rivendicazione di Harvard sia in realtà svuotata di contenuti è confermato dal fatto che, poche ore dopo la pubblicazione della lettera in difesa della libertà accademica, silenziosamente Harvard stava già riorganizzando (ufficialmente: “adjust”) il dipartimento DEI, cambiando il nome in “Community and Campus Life”. La diversità deve diventare – sottolinea Harvard – “coltivazione di una cultura dell’appartenenza” – ma appartenenza a cosa, esattamente? A quale idea di università e di libertà?

Nel marzo dello scorso anno, in seguito alla contestazione studentesca dell’allora direttore di Repubblica Molinari, invitato da diversi rettori a parlare delle guerre in corso (la celebrata uscita dall’autoreferenzialità dell’università si concretizza oggi in un’impressionante successione di eventi il più possibile mediaticamente riconoscibili, ossia conformi ai diktat dell’attuale politica spettacolo), la Ministra Bernini esternò il proprio disappunto in questi termini: “sono diventati troppi i casi di intolleranza all’interno dei nostri atenei”. Membro di un governo presieduto da una sincera ammiratrice della politica trumpiana proprio sul versante della lotta all’“ideologia DEI”, Bernini – che pure pochi mesi dopo annuncia un’indagine sulle università impegnate in “Gender Studies” – in questo caso non ha “minacciato”, invocato espulsioni, richiesto repressione del dissenso. Semplicemente, di contro ad estremizzazioni “irragionevoli”, ha avanzato una ragionevole richiesta: “serve un’alleanza tra Governo, Università e Istituzioni per proteggere questo spazio prezioso della Democrazia”. Quasi una gradita sorpresa di moderazione in un governo di destra certo non moderata. Così a nessuno è risultata indebita questa richiesta di partnership, che in altri tempi sarebbe apparsa enormemente lesiva dell’idea stessa di libertà accademica, che è tale se l’Università non è chiamata a fare alleanze con chicchesia, men che mai con il governo.

Oggi, alla luce della lettera dell’AAC&U, non si può non osservare che il baluardo opposto contro le ingerenze trumpiane dalle liberalissime corporate universities americane è esattamente questo “tuning”, più precisamente un suo rafforzamento e estensione. Nulla di inedito, anzi: la difesa di ciò che esse sono, o sono diventate, a seguito di una drammatica restrizione del concetto di libertà accademica. Sulla questione palestinese, per esempio, la sintonia di Harvard con i suoi abituali donatori miliardari è stata del tutto naturale e spontanea e non ha conosciuto variazioni: anche in questi giorni di grandi rivendicazioni semplicemente prosegue la repressione disciplinare della protesta studentesca; in aggiunta, i pochi programmi di insegnamento e ricerca sulla Palestina sono stati eliminati o sono in via di eliminazione; è stata cancellata una tavola rotonda con la partecipazione di bambini di Gaza alla Harvard Medical School, interrotta l’unica partnership con un’università palestinese, eliminato un programma della Harvard Divinity School che affrontava il caso di studio Israele/Palestina, licenziati i responsabili del Center for Middle Eastern Studies…

 

Si profila così una singolare, anche se a prima vista impossibile, contiguità tra i principi delle post-democrazie neoliberali e i principi delle cosidette democrazie illiberali. Una contiguità che tanto più merita riflessione dal momento che la questione della libertà accademica è da alcuni anni operativamente al vaglio dell’Unione Europea, intenta ad allestire varie metriche a sua difesa, sulla strada aperta dallo Academic Freedom Index (AFI) messo a punto nel 2020 dall’università di Erlangen Nürnberg e dal V-Dem Institute, e finanziato dalla Fritz Thyssen Foundation e dalla Volkswagen Stiftung (sic!).

Riferimenti bibliografici

Lettera inviata a Harvard il 4 aprile 2025, https://www.harvard.edu/research-funding/wp-content/uploads/sites/16/2025/04/Letter-Sent-to-Harvard-2025-04-11.pdf

Lettera di risposta di Harvard del 14 aprile 2025, https://www.harvard.edu/research-funding/wp-content/uploads/sites/16/2025/04/Harvard-Response-2025-04-14.pdf

American Association of Colleges and Universities (AAC&U), A Call for Constructive Engagement, 22 aprile 2025, https://www.aacu.org/newsroom/a-call-for-constructive-engagement

Ch. Granger, La Destruction de l’université française, Paris, La fabrique, 2015.

Pinto & S. Zellini, The ‘Academic Difference’: Reimagining Academic Freedom in European Liberal Democracies, in “Philosophy and theory of higher education”, vol. 51.2, 2023, pp. 289-328, https://www.peterlang.com/document/1456772.

 

L’articolo è stato pubblicato su FataMorganaWeb