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Defence Summit a Roma, NO! di Rearm Europe
“Cultura della difesa“ sempre più martellante in Italia, sul tema interviene con un comunicato Rearm Europe Roma critica nei confronti del prossimo “Defence Summit” annunciato per settembre nella capitale. “Diciamo NO allo show dei mercanti di morte!! Il prossimo 11 settembre si terrà presso l’Auditorium di Roma la prima edizione del DEFENCE SUMMIT, un’iniziativa promossa dal Sole 24ore che vede come partner tutte le maggiori industrie militari italiane. Il Summit viene presentato con le parole del Ministro Crosetto “La cultura della Difesa incarna il principio fondamentale della cultura democratica” e vedrà sfilare i Capi di Stato Maggiore dei diversi corpi dell’Esercito Italiano assieme ai Ceo delle industrie degli armamenti. Dentro un contesto nel quale la dimensione della guerra assume un ruolo sempre più rilevante a livello globale, mentre si abbandona qualunque ruolo diplomatico per porre fine alla guerra in Ucraina e ci si rende complici del genocidio in atto in Palestina, si tiene a Roma in uno spazio pubblico un convegno fra i soggetti che questi scenari alimentano e i soggetti che su questi scenari fanno profitti. Riteniamo totalmente inaccettabile che la Fondazione Musica per Roma, dentro il quale il Comune di Roma è ente fondamentale, abbia concesso uno spazio per un’iniziativa che è in diretto contrasto con le finalità statutarie della fondazione stessa. Chiediamo pertanto al Comune di Roma il ritiro della concessione dell’Auditorium per un’iniziativa che propaganda la guerra. Chiamiamo la città a promuovere l’11 settembre un SOCIAL SUMMIT nel piazzale esterno dell’Auditoriun per dire con determinazione e creatività il nostro collettivo NO alla guerra, al riarmo, al genocidio, all’autoritarismo. Fermiamo la guerra, riprendiamoci il futuro. STOP REARM EUROPE ROMA“
Educazione e Legalità, l’alleanza tra istituzioni civili e militari trova sponda… in chiesa
Una sindaca, Daniela Ghergo eletta da una coalizione a guida PD, un parroco intraprendente, Aldo Buonaiuto e un questore “pedagogo” ante litteram sono stati i padrini (o padroni?) dell’iniziativa denominata di “Prossimità” cha ha visto 200 ragazz3 di Fabriano, nel quadro delle attività ludico-educative di un centro-estivo parrocchiale, a contatto con un gruppo di  poliziotti. Come in altri casi, sempre nelle Marche, si è vista la presenza di bellissimi cani-lupo, anti-droga, anti-esplosivi, anti-tutto, ecc..  La fantasia delle istituzioni che in Italia gestiscono l’ordine pubblico e che in questi ultimi anni tentano in tutti i modi di far passare la narrazione che il disagio sociale o psicologico, l’emarginazione e l’esclusione, le sofferenze per il non trovare casa o lavoro, quando si esprimono  in modo violento, vanno innanzitutto repressi e poi, se avanza tempo, si affrontano con altri mezzi, non conosce limiti. Anche perché sarà questo il loro principale impiego futuro in società, dal momento che l’unico reato in aumento significativo, mentre tutti gli altri sono in caduta libera, sono quelli informatici (clonazione carte, phishing, ecc.) e le truffe on-line. Tra il 2013 e il 2022 i furti in appartamento sono diminuiti del 46,9% e il balzo in alto tra il ’23 e il ’24 di circa il 10% non giustifica l’allarme dei media mainstream in quanto, in ogni caso, non si sono superati i dati del 2013. D’altra parte il balzo è anche legato all’effetto post-pandemia, all’aumento del turismo di massa che espelle sempre più persone in zone periferiche abbandonate a sé stesse e non ultimo l’impoverimento generalizzato della popolazione. Ciononostante è sempre allarme sociale, i furti sono dietro l’angolo la percezione, più che i dati di fatto è in crescita. D’altro canto, anche, la crescita dei reati informatici e truffe, se in valore assoluto sono in crescita, il loro valore percentuale andrebbe calcolato sul numero totale delle transazioni on-line, sul numero totale di utenti che navigano, acquistano e quindi subiscono pubblicità profilate. Allora cos’è che spinge gli educatori, in questo caso il parroco, a mettere in contatto i/le bambn3 con i poliziotti? La risposta la dà il questore di Ancona in persona “percorrere insieme i tempi che cambiano fa sì che i giovani trovino sempre e sempre più naturale fidarsi ed affidarsi alla Polizia di Stato in una prospettiva di prevenzione dei reati e di sana crescita generazionale (fonte ANSA)”. Le parole-chiave, dunque, sono affidarsi e fidarsi, (alle forze dell’ordine) contro nemici interni immaginari o reali/creati, senza curarsi della cause sociali, dei percorsi di devianza che portano a commettere furti o spaccio di stupefacenti ma anche da quelli esterni reali/creati, anche qui senza curarsi di spiegare come, un amico, ad esempio il Putin “berlusconiano”, un tempo desideroso di entrare addirittura nella NATO, si trasformi in un acerrimo nemico, tanto da costringerci a tagliare letteralmente i ponti con lui oltre che i tubi del gas russo, per comprare costosi carburanti in giro per vari paesi del  mondo compreso gli USA. Non si spiega altrimenti l’immancabile show degli artificieri con i loro robottini guidati dall’A.I. che disinnescano bombe, trovate sempre dal solito cane-poliziotto, sogno di tutt3 i/le bambin3. Preso forse dal senso di colpa per aver fatto immergere i proprio gregge di bambin3 in un clima di guerra e di lotta contro un crimine che non esiste se non a livello percettivo, il parroco alla fine si ricorda (anche) dei più sfortunati e quindi “non ha fatto mancare, a tutti i presenti, un profondo pensiero sulla drammaticità della condizione dei bambini nei mondi in cui fame e guerre mettono a rischio la loro vita (fonte ANSA)”. Al parroco della chiesa S. Niccolò di Fabriano, nella tranquilla e ordinate Marche, diciamo, a questo punto, da educatore a educatore che se non se la sente di seguire le orme di Don Pino Puglisi, ucciso nel 1993 nel  giorno del suo 56° compleanno dai sicari dei fratelli Graviano nel quartiere-feudo di Totò Riina e Leoluca Bagarella, il famigerato quartiere Brancaccio di Palermo, può fare richiesta come cappellano militare, così forse farà meno danni alle giovani generazioni, cui si prospetta un futuro di precariato lavorativo, relazioni (forse) coniugali senza figli e sullo sfondo, sempre nuove guerre. Stefano Bertoldi – Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università.
Riconvertire l’industria a fini militari per superare la crisi sistemica
ANCHE SE SI PARLA, TROPPO POCO, DELLA FINANZIARIA DI GUERRA, LA RICONVERSIONE DELL’INDUSTRIA CIVILE A SCOPO MILITARE È GIÀ UNA REALTÀ Quando si parla di economia di guerra dovremmo fare riferimento allo spacchettamento di aziende e alla loro riconversione (in toto o in parte) a produzioni militari Merita attenzione quanto sta avvenendo attorno a Iveco Group NV, ce ne hanno parlato in anteprima Bloomberger e Scenari Economici dando notizia dell’imminente cessione delle unità di difesa a Leonardo SpA, mentre la divisione specializzata nella produzione di veicoli commerciali è destinata alla multinazionale indiana Tata Motors Ltd. E l’arrivo di Leonardo è conseguenza del vivo interesse manifestato dalla multinazionale spagnola Indra, una delle aziende leader nel settore militari europeo e capace di raggiungere risultati straordinari in borsa. Qual è il valore economico della cessione di Iveco? La cessione di Iveco Defence a Leonardo spa è avvenuta per 1,7 miliardi, quella di Iveco group (senza la sezione difesa) a Tata Motors per 3,8 miliardi. Iveco in Italia ha circa 14.000 dipendenti dei 36 mila totali, conta su alcuni stabilimenti dislocati in varie parti del paese, da Torino (sede principale) a Brescia, da Suzzara (Mantova) a Foggia senza dimenticare Bolzano. Oltre 1000 dipendenti lavorano per Defence. La sede principale rimarrà a Torino, Tata ha dichiarato che non ci saranno esuberi, delocalizzazioni o chiusure di fabbriche, evidentemente questa operazione è il trampolino di lancio per l’ingresso dell’India nei mercati europei attraverso l’acquisizione, dopo la Guzzi, di un marchio rinomato. La crisi di Iveco si risolve con uno spezzatino aziendale e l’intervento diretto del Governo italiano per conservare la produzione in campo militare nel nostro paese rafforzando il polo produttivo nazionale, si parla in termini tecnici di mantenere un asset strategico sotto il controllo nazionale. Stando a Scenari Economici, l’ offerta vincente è stata quella arrivata dalla joint venture con la tedesca Rheinmetall AG per 1,6 miliardi di euro, debito incluso. Eppure anche la multinazionale spagnola si presentava con ottime credenziali soprattutto per avere attuato la riconversione di alcuni stabilimenti civili in militari come il sito produttivo di Duro Felguera a Gijón (Asturie) dove produrranno veicoli militari e carri armati d’Europa. Indra rappresentava un competitor pericoloso essendo tra le aziende leader nello sviluppo di sistemi elettronici che digitalizzano e forniscono informazioni ai veicoli corazzati e carri armati di ultima generazione, l’arrivo in Iveco di Leonardo ha evitato che sul territorio nazionale, dopo i turchi, arrivassero anche gli spagnoli. Sullo sfondo di queste acquisizioni lo scontro intestino tra paesi e multinazionali del vecchio paese per accaparrarsi le aree più ambite della produzione di armi e del mercato. E’ormai risaputo che la holding degli Agnelli, proprietaria dell’Iveco, abbia da tempo svincolato le proprie strategie dal settore automobilistico a favore di altre aree di investimento. E la sola preoccupazione del Governo italiano era quella di conservare la produzione italiana in campo militare nel nostro paese. Urgeva quindi scongiurare quanto già accaduto con Piaggio Aerospace, azienda  produttrice di sistemi ampiamente utilizzati dalle Forze armate italiane e acquistata nei mesi scorsi dal gruppo turco Baykar.  Piaggio Aerospace produce velivoli come il P.180 Avanti e sistemi aerei a pilotaggio remoto come il P.1HH HammerHead ma è uno dei punti di riferimento europei per la manutenzione degli strumenti bellici. L’aumento delle spese militari al 5% del Pil offre una occasione unica alle imprese attive nella produzione di armi, di pochi giorni fa la notizia che Fincantieri vorrebbe riconvertire due impianti produttivi civili tra i quali il cantiere di Castellammare di Stabia. E la stessa Piaggio Aeronautica annuncia la produzione di droni visto che la multinazionale turca oggi proprietaria del marchio è tra i principali esportatori degli aerei senza pilota. Chi pensava che l’Italia fosse ancora ferma dovrà ricredersi, non siamo ai livelli tedeschi con alcune aziende dell’indotto meccanico già riconvertite alla produzione dei sistemi di arma, ma decisamente avanti rispetto all’immaginario comune. E proprio dalla Germania arriva una notizia interessante ossia che in campo militare verranno reiterate le politiche di delocalizzazione già ampiamente attuate in campo civile e nel settore meccanico Rheinmetall ha lanciato una nuova rete di produzione in Romania per rafforzare il settore della difesa del Paese, per costruire nuove alleanze con aziende operanti nel settore della difesa ma in paesi nei quali il costo della forza lavoro è decisamente più basso. Le armi saranno quindi prodotte in un paese dell’est europeo che presto potrebbe diventare un distretto industriale tedesco fuori confine e sotto l’egida Nato. Poco sappiamo delle aziende militari presenti nei paesi ex Patto di Varsavia, parliamo di imprese che da anni operano a stretto contatto con multinazionali Usa e europee, in Romania produrranno veicoli da combattimento per le forze armate rumene ma anche munizioni destinate al mercato europeo. E anche in questo caso arriva il plauso del Governo locale che esulta davanti all’investimento di Rheinmetall per creare posti di lavoro e offrire il supporto tecnologico avanzato a paesi più arretrati che presto saranno interamente dipendenti dai grandi marchi smantellando magari produzioni civili a vantaggio di quelle militari
Visite scolastiche alla NATO: propaganda o educazione?
Il fenomeno della militarizzazione delle scuole sta assumendo dimensioni così ampie da rendere sempre più difficoltosa la sua “mappatura”. Apprendiamo in questi giorni di attività svolte nei mesi di febbraio/marzo presso la base N.A.T.O di Lago Patria – Giugliano in Campania, che ha coinvolto le studentesse e gli studenti delle scuole superiori di primo grado dei plessi “Don Salvatore Vitale” Giugliano (Napoli) E “M. Beneventano” di Ottaviano (Napoli) e studentesse e studenti delle scuole superiori di secondo grado delle scuole Don Lorenzo Milani, (Gragnano) e Antonio Serra (Napoli).  Troviamo su internet anche una circolare del liceo Matilde Serao, con in oggetto la stessa visita guidata (con pagamento a carico delle famiglie del bus) fatta rientrare nelle ore di didattica orientativa e di educazione civica, qui). Apprezziamo che non sia stata definita dalla D.S. visita di istruzione, ma visita guidata, cosa che auspichiamo dovuta alla consapevolezza che tale uscita non abbia proprio nulla di istruttivo. Mentre nutriamo forti dubbi che una tale uscita possa rientrare nell’educazione civica, non ne abbiamo alcuno sul suo carattere orientativo, essendo tale uscita finalizzata ad orientare i ragazzi verso nuove “culture” (della difesa, della sicurezza, militare) anche con il fine di un possibile loro arruolamento nelle forze armate. Per quanto riguarda le scuole medie, organizzata in occasione del 70° della N.A.T.O ai ragazzi e alle ragazze è stato ricordato come questa alleanza sia nata per “contrastare quel blocco di Stati che si riunirà qualche anno dopo nel Patto di Varsavia” mostrando già da questo breve incipit dell’articolo pubblicato sul sito della scuola il carattere propagandistico dell’iniziativa. Se storicamente si dovesse rispettare l’ordine cronologico degli eventi si sarebbe dovuto spiegare ai ragazzi esattamente l’inverso come il patto di Varsavia sia nato, 6 anni dopo la N.A.T.O, con il fine di contrastare l’alleanza militare North Atlantic Treaty Organization. In ogni modo, caduto nel 1991 il Patto di Varsavia, perché la  N.A.T.O ha continuato ad esistere? Quale ratio dietro la scelta del suo non scioglimento? Sono state elencate ai ragazzi le innumerevoli guerre che dal 1991 in poi hanno coinvolto o sono state causate dalla N.A.T.O? E’ stato spiegata la richiesta (a febbraio Marzo non ancora certa, non se ne conosceva con certezza la percentuale del 5%, ma si discuteva sull’alzamento del PIL che il vertice N.A.T.O avrebbe richiesto) dell’aumento delle spese per gli armamenti e dei relativi tagli che queste avrebbero comportato? Tagli a istruzione, ricerca, sanità, welfare. Nulla di tutto questo è stato detto alle ragazze e ai ragazzi già vittime della implicita manipolazione che una gita scolastica sottende: in quanto scolastica essa ha fare con la scuola, con la formazione, con l’educazione al pari di una vista ad un museo, ad una città d’arte o ad un convegno disciplinare per fare alcuni esempi. Leggendo tutti i report delle giornate, si scopre come gli incontri siano serviti a promuovere un’immagine della N.A.T.O dual use, con due “rami”: quello militare e quello civile e come tutto l’incontro abbia nei fatti promosso l’importante ruolo della N.A.T.O sul piano civile: giornalismo, salute e ambiente, trasporti, ingegneria civile, con particolare attenzione alla Cyber Security. Il fine degli incontri era proprio quello di riuscire a “mutare” negli studenti l’immagine della NATO che non può continuare a essere percepita come composta di soli “mezzi corazzati” e quindi solo nella sua veste militare, ma va promossa con la costruzione di un aspetto “buono”, il suo essere formata da civili (si fatica a lanciare il ruolo del militare senza armi né guerre evidentemente!) istruiti e preparati pronti a intervenire sul piano civile. La solita operazione di brand washing più volta denunciata dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università adottata dalle forze armate e dalle forze dell’ordine. Ovviamente come confermano anche le studentesse e gli studenti degli istituti superiori di secondo grado i temi affrontati sono quelli che, fino alla visita alla struttura di Lago Patria, credevano “di competenza dei libri di testo o dei telegiornali: tutela della pace, difesa dei Paesi membri, sostegno nelle attività umanitarie, cyber security, conflitto russo ucraino. La parola pace fa riflettere se usata da un’alleanza sulle cui guerre illegali esiste una consistente bibliografia (fra tutti vd. Daniel Ganser) e i cui membri, rivolgendosi ai ragazzi e alle ragazze,   ammettono il solito ossimoro guerrafondaio: Per mantenere la pace, interveniamo in qualsiasi modo possibile, fino al più drastico, cioè con le armi. Dubitiamo che sia stato ricordato alle scuole, come si legge on line, che nel 2015, la base NATO di Lago Patria è stata il centro di coordinamento della più grande esercitazione militare dopo la caduta del Muro di Berlino, chiamata “Trident Juncture“, con la partecipazione di 36.000 militari. Tendiamo più a pensare che tale visite guidate abbiano anche un altro fine orientativo per le/i giovani e l’intera società civile: l’accettazione incondizionata di questa presenza sul proprio territorio in vista di possibili future esercitazioni che acquistano, con questo manipolativo avvicinamento, il carattere di necessità al fine del mantenimento della pace. Ovviamente come sempre non poteva mancare anche qui l’inclusione di genere: Particolare interesse è stato mostrato dalle studentesse sul ruolo delle donne all’interno dell’Alleanza, sia come civili che come militari. Per essere più accattivante la N.A.T.O strumentalizza anche il tema dell’inclusione di genere e della parità. Si legge sul report dell’istituto San Vitale: Tali visite sono molto importanti perché i ragazzi hanno potuto capire che per mantenere alta la sicurezza, mantenere ed attuare cambiamenti radicali di pace nel Mondo ci sono delle persone che lavorano in silenzio tutti giorni in strutture internazionali. La conclusione è agghiacciante. Un’alleanza militare che assicura la sicurezza e cambiamenti radicali di pace è la cosa più lontana da quanto i libri di storia ci insegnano e la nostra contemporaneità ci mostra. Quale docente realmente impegnato sull’educazione alla pace potrebbe fare sua questa conclusione? Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Sardegna in ostaggio: normalizzare la guerra e la militarizzazione del territorio
La reazione delle realtà sarde contro la militarizzazione dei territori è sempre fonte di insegnamento, mai assuefatti alla normalità della guerra ma, tuttavia, non manifestano stupore (demenziale) davanti a fatti di cronaca che per loro costituiscono la tragica normalità. Parliamo delle armi fatti brillare in mare o altrove, di grandi aree chiuse per disinnescare qualche arma inesplosa, la terra sarda è soggetta ad un doppio colonialismo ossia la presenza di multinazionali e interessi economici e finanziari che hanno trasformato le bellezze locale in business e vecchi accordi che hanno collocato nell’isola distaccamenti e presidi militari più che in ogni altra Regione d’Italia La Sardegna ospita il 65% del territorio militare del Paese pari a 374 km quadrati, cause decennali intraprese da cittadini con sentenze talvolta contrastanti, una parte importante della isola non bonificabile, operazione di recupero di missili caduti in mare affidati in appalto a qualche grande impresa produttrice “di morte”, il calendario delle esercitazioni militari pensato ad arte per non inficiare la stagione balneare, in silenziosa sintonia con quanti dovrebbero in teoria esigere le bonifiche. Rompere la gabbia di silenzio attorno alle esercitazioni che poi rappresentano la fattiva sperimentazione della guerra sui territori senza dimenticare che in altre aree del globo le esercitazioni rappresentano una palese minaccia ad alcuni paesi. Il recupero di armi inesplose non è una novità, i cittadini, e noi con loro, rivendicano da sempre trasparenza sui fatti, sulle procedure e sulle operazioni, se poi i recuperi avvengono in piena stagione balneare vuol dire che la escalation militarista ha raggiunto un livello tale da imporci una riflessione e delle azioni conseguenti. Negli anni scorsi era stato chiesto di interrompere per i mesi estivi le operazioni che invece sono state intensificate, aumentando il numero e la quantità dei soggetti coinvolti nelle esercitazioni militari anche i rischi collaterali crescono come per altro le minacce di inquinamento. Esigere poi chiarimenti e il dettaglio generico sui recuperi si scontra con i cosiddetti obblighi di segretezza che ormai avvolgono ogni aspetto della presenza militarista, certo che i test Nato nel Mediterraneo avvengono prevalentemente in terra sarda e la esplosione di missili e armi varie ha un impatto sull’ambiente e sulla salute della popolazione Ma rinunciare a priori ad una costante opera di denuncia ci sembrerebbe una sconfitta della ragione e per questo come Osservatorio continuiamo quotidianamente a documentare la presenza asfissiante del militare nelle nostre esistenze. A tal riguardo preme portare alla luce alcuni fatti di cronaca scomparsi dai radar (è il caso di utilizzare questa terminologia bellica) come il ferimento di militari durante le esercitazioni (una segnalazione arriva perfino dal Canton Vallese in Svizzera) svolte in vari paesi europei, tra questi l’Ungheria. E oltre al ferimento di militari ci sono incidenti che coinvolgono anche civili nello svolgimento di attività della Nato che da mesi sperimentano sui nostri territori nuove armi e tecniche di vario genere E qualche volta la dea bendata aiuta come nel caso dell’incidente durante l’addestramento acrobatico delle Frecce Tricolori impegnate a Pantelleria ove due aerei si sarebbero toccate evitando un grave incidente con un terzo velivolo finito fuori posta nell’atterraggio L’aumento esponenziale delle esercitazioni militari rappresenta un pericolo oggettivo per la sicurezza e incolumità dei cittadini. Per i nostri territori visto che l’esplosione di missili e proiettili costituisce fonte di inquinamento come anche la massiccia presenza di dispositivi militari in zone spesso protette Assuefarsi alla idea della guerra significa ignorare questi pericoli oggettivi e non avere la necessaria attenzione a fatti di cronaca che pur relegati in spazi angusti dei giornali ci raccontano di un paese sempre più ostaggio della propaganda di guerra e delle esercitazioni militari. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Propaganda nei Campi-Scuola: formazione o indottrinamento?
Qualcuno forse si era illuso che con la chiusura estiva delle scuole la gioiosa macchina da guerra della propaganda avrebbe rallentato il ritmo incessante delle proprie azioni all’interno del mondo giovanile e invece arriva puntuale la smentita: tutto l’armamentario si trasferisce nei campi-scuola, all’interno di un setting formativo molto più sbilanciato verso l’aspetto ludico. Vediamo così delle forze dell’ordine impegnate in dimostrazioni di “didattica avventurosa” che stimola i ragazzi attraverso  un approccio  tanto paternalistico quanto superficiale e tendenzioso, ad assumere un atteggiamento benevolo verso le forze dell’ordine, migliorando la percezione interiore che ne hanno. Considerate le ultimissime sentenze della Corte d’appello di Roma, sul caso Stefano Cucchi, in cui, dai vertici apicali fino ai livelli più bassi fin nelle stazioni territoriali coinvolte, l’Arma ha dovuto rispondere non solo di un atroce omicidio ma dopo 16 anni anche di gravissimi insabbiamenti delle indagini, il lavoro di “ricostruzione” in chiave positiva dell’immagine sembrerebbe a prima vista arduo. D’altro canto, gli investimenti degli ultimi anni, con le forze dell’ordine ormai soddisfatte per gli aumenti salariali ricevuti e le dotazioni tecniche ma soprattutto il riordino dei ruoli al loro interno, consente  all’Arma dei Carabinieri di ripulire anche l’immagine più sporca che si è sempre tentato di attribuire alle solite “mele marce”. In questo caso abbiamo i Carabinieri alle prese con la  cosiddetta “generazione Alpha”, stranamente in sintonia con l’altra Alfa, l’ Alfa Romeo “Giulia” la gazzella dei Carabinieri sulla quale sono stati fatti salire i ragazzini di una scuola di Loreto, nell’ambito di un campo estivo. Dopo la visita all’interno di una stazione  territoriale dell’Arma, questo spaccato di vita quotidiana con le stellette, i/le ragazz* si sono divertit* a bordo di questi bolidi  a quattro ruote, come tanti piccoli “alfisti”, ma anche in sella ad  una moto da enduro di ultima generazione. Non poteva mancare un altro elemento che scatena sempre la fantasie e l’empatia,  ovvero i cani della squadra cinofila, un evergreen che funziona sempre anche con i ragazzini più “digitali”.  L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, stigmatizza in questo caso le scelte “culturali” ma che noi definiremmo molto più sinceramente propaganda di “educazione militarizzata” dell’assessora del Comune di Loreto  sempre con il lasciapassare della “cultura della legalità”. Nell’ultimo anno in questa parte delle Marche ben 18 istituti e 1200 ragazz* hanno subito questa propaganda in divisa, fatta di intrattenimento ludico, di indottrinamento paternalistico alla cosiddetta “cultura della legalità” (“l’Arma come baluardo contro il male e i devianti della società”): siamo sicuri che di fronte ad una tendenza “panpenalistica” della politica, da sinistra come, ancora di più, da destra, non ci sia bisogno invece di una “cultura dei diritti”? Con un numero di omicidi in caduta libera da trent’anni (1.916 nel 1991 contro i 341 del 2023 fonte ISTAT p.17)  e in generale di tutti i reati ( circa il 50% in meno negli ultimi 10 anni in furti in casa e d’auto e rapine) si assiste invece ad un aumento dei reati tipici delle mafie, dalle “eco-mafie” , alle estorsioni, ai crimini informatici. Quindi non si spara più, la violenza non dilaga per le strade ma allo stesso tempo aumenta la percezione negativa di una società insicura: presentarsi nelle scuole con questo carico di “pericoli immaginari” vuol dire fare esattamente ciò che avviene politicamente a livello mondiale con la creazione a tavolino di sempre nuovi nemici e “stati canaglia”. Fare lo stesso anche con i bambini, questo si, che è delinquenziale oltre che anti-pedagogico!
Revisionismo, controllo e militarizzazione
Articolo di Michele Lucivero Da diversi anni ormai l’insegnamento, derubricato semanticamente ad apprendimento, è entrato all’interno di una riflessione che apparentemente è ammantata di ragioni pedagogiche, ma in realtà risulta completamente asservita al mercato e a logiche neoliberiste che tendono a valorizzare la misurazione e la standardizzazione dei prodotti finali. Questa omologazione ideologica degli alunni e delle alunne è il risultato della messa a punto di un sottile dispositivo di controllo dell’educazione, di cui i docenti, nell’ubriacatura della novità didattica, pedagogica e tecnologica, finiscono per divenire complici, diventando mere esecutori materiali, valutatori di un processo di apprendimento scritto altrove e da altri soggetti, estranei alla crescita intellettuale che deve proliferare all’interno delle scuole e delle università.  Distratte e distratti dall’urgenza di rincorrere l’innovazione pedagogica e la tecnica didattica all’ultimo grido per rendere più accattivante e ammaliante l’oggetto dell’apprendimento e raggiungere la specifica competenza da certificare, gli e le insegnanti smarriscono il senso politico ed esistenziale del progetto educativo e vengono spinti ad abdicare alla consapevolezza di essere soggetti fondamentali nel passaggio dei ragazzi e delle ragazze alla vita adulta, come mostra in maniera magistrale Gert J.J. Biesta nel suo Riscoprire l’insegnamento. E proprio in questo vuoto progettuale dallo slancio utopistico, quale dovrebbe essere il fine e, al tempo stesso, la postura della professione docente, si è insinuato nella scuola in maniera beffarda un programma di addestramento che ha delle profonde analogie con retaggi del passato, con circostanze che in Italia, e anche altrove, abbiamo già vissuto e che come uno spettro preoccupante ritorna sotto spoglie nuove e anche piuttosto evidenti. Che la scuola pubblica sia sotto attacco è un’evidenza empirica che non ha bisogno di essere dimostrata. Per capirlo basterebbe solo passare in rassegna le pseudoriforme degli ultimi 25 anni, tutte orientate a trasformare la scuola nell’avamposto ideologico del neoliberismo, svenduta, sia nella semantica quotidiana, tra crediti, debiti, prodotti finali e meriti, sia nella gestione affaristica dirigenziale, alla quadruplice radice del principio di ragione capitalistica che si concretizza nei settori farmaceutico, digitale, energetico e militare. Tuttavia, negli ultimi anni in Italia il dispositivo di controllo all’interno della scuola pubblica è andato incontro a un’accelerazione, una vera e propria ingerenza sistematica e asfissiante, tesa, da un lato, a far passare una linea ideologica ben determinata a uso e consumo del personale più accondiscendente e ligio, addestrandolo a dovere, dall’altro, a intimidire e sanzionare chi mostrava capacità critiche e intolleranza alle pressioni governative, mettendolo a tacere. Da docenti sensibili e attenti alla direzione intrapresa dalla scuola pubblica abbiamo potuto constatare sin dall’ottobre del 2022 l’abitudine a utilizzare una strana e pressante comunicazione tra centro e periferia, tra Ministero dell’Istruzione e del Merito e singole istituzioni scolastiche. Si tratta di una comunicazione unidirezionale fatta di lettere e missive che invitano di volta in volta a celebrare ricorrenze particolari, che indicano la direzione interpretativa di determinati periodi storici, che offrono surrettiziamente, infine, prospettive ideologiche sul ruolo della stessa scuola, esautorando di fatto il lavoro dei e delle docenti e inaugurando una fase alienante e psicotica che altrove abbiamo definito come regime di Psicoistruzione. Procedendo in ordine sparso nella disamina di questo stile epistolare adottato dal Ministero, potremmo citare l’istituzione e la riesumazione del Giorno della Libertà, ricordato agli studenti e alle studentesse con un’apposita lettera dallo stesso Giuseppe Valditara. Già istituito in Italia nel 2005 dal governo Berlusconi «quale ricorrenza dell’abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo» (Art. 1, comma 1, Legge 15 aprile 2005, n. 61), il Giorno della Libertà era, di fatto, finito nel dimenticatoio, almeno fino all’avvento del nuovo governo di destra. In questa lettera di mezza paginetta il Ministro, mediante il ricorso a una didattica d’occasione fatta di date da segnare all’interno di un nuovo calendario civile, pretende di tracciare in maniera netta il confine tra libertà e oppressione, anche in questo caso legittimando come unico orizzonte possibile per la democrazia l’assetto neoliberista. Sarebbe questo l’unico ordine in grado di garantire libertà e giustizia, ma in tal modo viene giustificata l’azione disinvolta dei meccanismi capitalistici del XXI secolo, soprattutto rispetto al quadro dei valori liberali che essa afferma di voler tutelare.  Ora, al di là della continuità storica tra liberalismo e fascismo, che occorrerebbe ancora una volta richiamare alla memoria, varrebbe la pena qui rimandare alla versione più aggiornata di tale commistione, quella che si cela dietro La maschera democratica dell’oligarchia (Laterza 2014), citando Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky. Per rendere palese il maldestro tentativo da parte del Governo e del Ministero dell’Istruzione e del Merito di controllare l’universo simbolico che si genera nelle scuole, operando, al tempo stesso, un sistematico revisionismo storico, si potrebbe far riferimento alle parole pronunciate dal Presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa nel marzo 2023. In quella occasione La Russa riuscì a sostenere che l’episodio scatenante l’eccidio delle Fosse Ardeatine da parte dei tedeschi poteva essere sostanzialmente evitato dai partigiani, infatti: «È stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza: quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani».  Assistiamo ormai da diversi anni a questa urgenza di riscrivere, mistificandola, la storia italiana. Non si tratta di casi sporadici, ma vi è un attacco sistematico nei confronti di tutti quegli storici e quelle storiche che tentano di raccontare le pagine più buie della storia italiana. Appena si cerca di fare luce su alcuni eventi con dati, testimonianze, reperti e ricostruzioni accreditate con il metodo della ricerca storica, scatta l’intimidazione politica, la diffamazione a mezzo stampa.  E, purtroppo, di questo clima intimidatorio, che impedisce di svolgere in maniera critica il proprio lavoro, ne abbiamo fatto le spese personalmente, dal momento che abbiamo subito un’interrogazione parlamentare (qui i dettagli) per il solo fatto di aver invitato nella nostra scuola, il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Bisceglie, lo storico Eric Gobetti a presentare il suo libro E allora le foibe?. E questa ossessione censoria nei confronti dei convegni in cui si tratta delle vicende del confine orientale si è abbattuta anche a Vicenza il 4 marzo 2023, quando è stata negata una sala comunale per lo svolgimento dell’incontro sulle Foibe, e a Orvieto il 14 febbraio 2023 in occasione del Convegno organizzato dal Cesp (Centro Studi per la Scuola Pubblica), in cui è intervenuta direttamente la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti, che ha chiesto di annullare l’incontro con gli storici Alessandra Kersevan e Angelo Bitti, inducendo la dirigente dell’istituto in cui si sarebbe dovuto svolgere l’incontro a revocare la disponibilità della sala, costringendo gli organizzatori a cercare solo il giorno prima un’altra sede. Altrettanto preoccupanti sono i tentativi di intervenire direttamente da parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito sulla manualistica scolastica. Abbiamo denunciato con preoccupazione e sgomento nel marzo del 2025 su Roars la grave ingerenza in un testo di Scienze sociali in lingua inglese in uso negli istituti professionali del gruppo Zanichelli (Revellino et al., Step into Social Studies, Clitt 2023). A pagina 95 le autrici avevano inserito una scheda con un riadattamento di un articolo della Ong Human Rights Watch sulla revisione operata dal decreto-legge 130/2020 del governo pentastellato Conte II sul decreto 113/2018 a firma di Salvini del governo precedente Conte I. La scheda, nonostante riportasse la fonte, non è piaciuta al Ministero, che «ha segnalato il caso» alla casa editrice e questa ha prontamente obbedito, ritirando tutte le copie in commercio, rimuovendo la scheda dalla versione online, sostituendo nel cartaceo il caso incriminato con il testo della legge 130/2020, «senza commenti di parte», e inviato a tutti i dirigenti delle scuole che avevano adottato il libro una lettera sottoscritta dalla Direttrice Generale (qui tutti i particolari della vicenda). Meno accondiscendenti sono stati, invece, gli autori, le autrici e l’editore di Trame del Tempo, il manuale di storia accusato nel maggio 2025 da parte della deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli di aver indebitamente attribuito una sorta di continuità tra il fascismo e il partito al governo, la cui direzione è affidata a Giorgia Meloni, cioè lo stesso partito al quale la deputata Montaruli, che chiede ispezioni e accertamenti presso l’Associazione italiana editori, appartiene. Se Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e Marco Meotto, storiche e storici di professione, autori e autrici del manuale, hanno preferito non intervenire nella polemica, in questo caso è stato direttamente l’editore, Alessandro Laterza, erede di una storica tradizione antifascista che ha in Benedetto Croce il suo antesignano, che non si è lasciato intimidire e ha dichiarato: «Senza ricamarci troppo: siamo nell’anticamera della censura e della violazione di non so quanti articoli della Costituzione», chiudendo in maniera epica la querelle con Augusta Montaruli. Eppure, e forse proprio per questo non piace al Governo, il manuale Trame del Tempo ci era risultato particolarmente gradito. Analizzando una quindicina di manuali per il triennio delle scuole secondarie di secondo grado in cerca di una narrazione storica che non fosse marcatamente colonialista e riflettesse in maniera critica il nostro passato, anche con riferimenti espliciti a Edward Said e all’orizzonte postcoloniale, proprio quello di Ciccopiedi, Colombi, Greppi e Meotto riportava un giudizio molto positivo. Ma, si sa, la direzione presa dal Ministero con le nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione vira verso un arretramento interpretativo di marca chiaramente colonialista che, nonostante sia stato ampiamente criticato dalla Società Italiana di Didattica della Storia, potrebbe già aver intimorito qualche editore più attento all’aspetto economico piuttosto che a quello educativo. Tra revisionismo storico e militarizzazione dell’istruzione si colloca, invece, l’abitudine invalsa dal 2023 di celebrare in pompa magna il 4 novembre come la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, invitando nelle scuole a vario titolo Esercito, Carabinieri e Marina Militare oppure conducendo intere scolaresche all’interno delle caserme per svolgere cerimonie plateali di alzabandiera, intonazione dell’inno nazionale e altre manifestazioni piuttosto muscolari del ruolo e delle capacità delle Forze Armate. La celebrazione del 4 novembre è stata, di fatto, istituita con una legge approvata il 1° marzo 2023, affinché si celebri la «difesa della Patria», il «ruolo delle Forze Armate» e si facciano conoscere agli studenti alle studentesse le loro attività.  L’evidente propaganda militarista di tale celebrazione ha mobilitato studenti, studentesse, docenti, genitori e anche l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che in un momento particolarmente critico per i nostri tempi, con una guerra mondiale alle porte e con l’innalzamento della spesa militare al 5% del Pil nazionale, hanno mostrato la loro totale indignazione sia per i dieci milioni di morti della Prima guerra mondiale, che il 4 novembre vorrebbe evocare, sia per le vittime di tutte le guerre e dei genocidi in corso. Ma il punto è che le celebrazioni ufficiali del 4 novembre fanno parte di un’insistente propaganda bellica che promana direttamente dalle istituzioni governative, che cerca di assuefarci all’idea che la guerra sia inevitabile, che i genocidi siano «difesa», che il riarmo e le spese militari siano necessarie per la sicurezza e che i giovani debbano arruolarsi per diventare dei soldati.  Un capitolo a parte costituisce il ricorso sistematico alla sanzione, espressione più alta del paradigma del controllo, del «sorvegliare e punire» foucaultiano, nei confronti di docenti che osano esprimere pubbliche critiche verso il Governo e i suoi apparati. Proprio in occasione della ricorrenza del 4 novembre la collega Elena Nonveiller, docente del Liceo Foscarini di Venezia, viene denunciata all’amministrazione dell’Istruzione per violazione del «codice di comportamento» dei dipendenti pubblici entrato in vigore nel 2023. La sua colpa sarebbe quella di aver scritto su Facebook «Frecce tricolori di me…a», in occasione dello show del reparto dell’Aeronautica Militare sui cieli del capoluogo veneto, una spettacolarizzazione militaresca pericolosa, costosissima e inquinante per la popolazione. Peggio è andata al collega Christian Raimo, sospeso per tre mesi dall’insegnamento, con una decurtazione del 50% dello stipendio, perché reo di aver criticato il Ministro Giuseppe Valditara durante un dibattito pubblico sulla scuola. Per tutte queste ragioni abbiamo ritenuto fondato parlare di segnali evidenti di un fascismo eterno, parafrasando l’espressione di Umberto Eco. Una forma di Ur-fascismo che si manifesta ciclicamente, con più o meno evidenza, in assoluta continuità con determinate fasi di crisi del capitalismo. Potremmo elencare in successione: il culto della tradizione, mediante l’ossessione occidentalista; il rifiuto della critica e il sospetto per la cultura, e su questi punti potremmo analizzare la fenomenologia dello spirito che parla attraverso gli ultimi due ministri della Cultura, Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli; l’attacco al pacifismo cui fa seguito una cultura della morte, che è una cultura della guerra, portata fin dentro le scuole, le università e la società civile per cercare di normalizzarla, renderla familiare, accettabile e preparare le guerre di domani, facendo impennare le spese militari al 5%, quando le scuole e le università rimangono fatiscenti, insicure e impraticabili nei mesi estivi nelle zone più calde del paese.  La militarizzazione delle scuole e delle università, epifenomeno della fascistizzazione del nostro paese, risponde a un piano ben architettato dal Ministero della Difesa per aggredire i luoghi in cui sono presenti i giovani e fare arruolamento, come si può leggere nel Programma della Comunicazione del Ministero della Difesa del 2019 e in quello più aggiornato del 2025. A leggere questi documenti non si va molto lontano da quanto scriveva nel 1938 il prof. Eugenio Grillo in La cultura militare nelle scuole medie, un testo giuridico in cui si commentava il Regio decreto del 15 luglio 1938-XVI, n. 1249, recante Norme per l’insegnamento della Cultura Militare nelle scuole medie: «L’insegnamento della Cultura Militare nelle scuole ha scopo integrativo. È inteso, cioè, a concorrere alla preparazione del cittadino-soldato. Il compito affidato alla scuola civile in questo settore, la cui importanza diventa sempre più evidente, non è tanto quello di darci dei tecnici nel senso letterale della parola e neppure di creare dei professionisti, quanto quello eminentemente educativo di alimentare, rafforzare e rendere consapevole nei giovani lo spirito militare, che è oggi una delle loro caratteristiche migliori».  Insomma, messi tutti in fila, oggi come un secolo fa, i segni di una chiara fascistizzazione della società civile, a partire dalla scuola, sono piuttosto evidenti. Non vederli è il sintomo di una diffusa e colpevole indifferenza, di cui, però, come educatori ed educatrici, dovremmo mettere a parte gli studenti e le studentesse, giacché gli anticorpi della Resistenza vanno lentamente esaurendosi e si rischia di finire come le rane bollite. * Michele Lucivero è dottore di ricerca in Etica e antropologia. Storia e fondazione presso l’Università del Salento e insegna Filosofia e storia al liceo Da Vinci di Bisceglie. Giornalista pubblicista, cura il blog Agorà. La filosofia in Piazza ed è promotore dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. L'articolo Revisionismo, controllo e militarizzazione proviene da Jacobin Italia.
Audizione in Commissione Parlamentare su scenari futuri in campo militare e ruolo NATO
Alla Commissione Difesa del Senato è stato udito il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Luciano Portolano, Video – Forze armate, audizione del generale Portolano: 39 missioni in atto, cambiare dinamiche di impiego “Strade sicure” L’analisi del Generale non è banale, anzi dovremmo abituarci ad ascoltare e leggere valutazioni di questo genere il cui obiettivo è l’aumento della spesa militare per costruire quel nuovo modello per le Forze Armate italiane reso indispensabile dai nuovi scenari e dal fatto che l’ultima riforma risale a 30 anni fa con la fine dell’esercito di leva e l’arrivo di quello professionale. Tra gli argomenti più gettonati l’aumento dei militari in ogni forza armata, una riserva da cui attingere sul modello israeliano, maggiori investimenti in campo tecnologico e infrastrutturale in sintonia con i piani regionali della NATO e al nuovo Piano Militare di Difesa Nazionale. Le nuove linee guida operative sono da tempo oggetto di discussione, ma seguono in fondo alcune direttive già note che vanno dall’ammodernamento complessivo degli strumenti e delle infrastrutture fino alle tecnologie per rispondere alle minacce ipersoniche, spaziali e cibernetiche, dalla attenzione verso le aree strategiche (ad esempio l’Africa) fino all’utilizzo di tecnologia quantistica e intelligenza artificiale e a tale scopo urge in tempi rapidi uno specifico reclutamento di figure altamente specializzate che operino in ambito duale, civile e militare e ad alto valore scientifico. E se aumenteranno sensibilmente le spese militare servirà prima razionalizzarle sempre nell’ottica di favorire quei fari guida già esplicitati dal Ministero della Difesa ossia prontezza, reattività e capacità decisionale in tempi ridotti. Laddove si parla di valorizzazione del personale le soluzioni potrebbero essere molteplici come un sistema di carriere e livelli retributivi in deroga alle norme che regolano il personale alle dipendenze dello Stato, favorire in questo modo nuove assunzioni, paghe decisamente maggiori, un welfare allargato e magari sconti sugli anni previdenziali per assicurare la massima pensione a un età di gran lunga inferiore ai comuni mortali. E quanto maggiore sarà il richiamo alla sicurezza tanto più agevolato sarà il compito dei Governanti nel giustificare trattamenti di miglior favore alle forze armate creando quel giusto mix tra paura, rassegnazione e una sorta di senso del dovere che spinge da tempo gli italiani a perdere ogni valutazione critica dell’esistente. Sarebbe invece utile riflettere su quante strade potremmo rifare o quanti ospedali riaprire solo con i fondi destinati al “ringiovanimento dei ranghi” e alla “valorizzazione delle competenze” La domanda alla quale non viene risposto è cosa intendiamo fare davanti a un esponenziale aumento delle spese militari, alla sempre maggiore confusione alimentata tra tecnologie duali e civili. Quanto costerà l’ammodernamento, o efficientamento, del sistema militare italiano e quali aziende ne trarranno beneficio? Stiamo parlando di sistemi di ultima generazione e come è arduo discernere ormai tra tecnologie civili e militari è impresa impossibile separare strumenti difensivi da quelli offensivi giusto a ricordare che alcune delle categorie interpretative dei pacifinti sono nel frattempo prive di senso e per questo inutilizzabili. Quando ad esempio si parla di sensori radar e sistemi di allerta, di tecnologie di spionaggio è possibile ipotizzare un uso interno, in chiave repressiva e non solo l’utilizzo a fini militari classici. E in questi scenari la guerra spaziale, il settore cyber acquisteranno ruoli sempre più rilevanti Sorvoliamo sui singoli programmi di ammodernamento, andiamo invece a chiudere sull’aumento dei soldati di professione e la nascita di una riserva attorno a 35.000 unità con funzioni operative, territoriali e specialistiche (e verranno a parlarci di valorizzazione del capitale umano anche per giustificare quei trattamenti diseguali in termini salariali e previdenziali di cui parlavamo precedentemente) Un passaggio a nostro avviso rilevante sarà quello di dotare l’Europa di un comando operativo unificato e credibile, capace di pianificare e condurre operazioni militari complesse al di fuori del quadro NATO: Video – Forze armate, audizione del generale Portolano: 39 missioni in atto, cambiare dinamiche di impiego “Strade sicure” In fondo stiamo facendo solo i conti con quanto prevedeva la Bussola Strategica Europea, quel documento strategico stupidamente ignorato dai pacifinti nostrani anche se anticipava molte delle decisioni oggi al centro dell’attenzione mediatica. Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Solidarietà a Luigi Borrelli: stop alla militarizzazione e al commercio di armi
L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università esprime piena solidarietà a Luigi Borrelli per quanto gli è stato notificato il 9 Luglio dalla GDA Handling (https://www.aeroportobrescia.it/it_it/gda-handling). La GDA Handling ha inviato una nuova contestazione a Luigi Borrelli, delegato USB, eletto nella RSU dell’azienda e Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, accusandolo di rendere note informazioni riservate e di aver raccontato del clima di repressione che sta subendo da tempo da parte dell’azienda. Luigi è stato già sanzionato più volte dalla stessa azienda con multe e giorni di sospensione e sempre con la stessa motivazione legata alla movimentazione di materiale bellico. A Luigi viene anche contestato di aver rivendicato il rifiuto di movimentare le armi durante un Convegno promosso da USB e dal Centro Giuridico Abdel Salam – Ceing lo scorso 11 giugno, convocato proprio per discutere delle tutele giuridiche di lavoratori e delegati che si rifiutino di collaborare ad attività connesse con la guerra (clicca qui). Su quanto è avvenuto sempre all’aeroporto di Brescia a giugno l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ha già denunciato la folle pretesa della Commissione di Garanzia di revocare lo sciopero atto a bloccare la movimentazione di materiale bellico (clicca qui). L’Osservatorio esprime dunque la sua solidarietà a Luigi Borrelli e a tutti/e i/le lavoratori/lavoratrici che si stanno mobilitando presso l’aeroporto: lottare contro la guerra e il genocidio è dovere di ogni sindacato; bloccare il trasporto delle armi è legittimo. Altresì l’Osservatorio esprime preoccupazione per l’aumento di azioni repressive ed intimidatorie verso i lavoratori/lavoratrici dei diversi comparti da parte delle aziende e/o dei vertici dirigenziali. I modi per ostacolare il crescente dissenso dei lavoratori e delle lavoratici a tutti i livelli della società e presso ogni luogo di lavoro (scuola, aziende, uffici, etc.) non si contano ormai più: censura di notizie, regole restrittive, punizioni, isolamento, ridicolizzazioni, fake news. Come la scuola che vogliamo non deve essere un laboratorio di guerra e invasa da militari, anche i nostri aeroporti, le nostre stazioni, le nostre strade e i nostri porti devono essere luoghi di convivenza e pratiche di una cultura di pace. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Come si può parlare di guerra e pace nelle scuole? Cominciamo da una Semantica di Pace
PUBBLICATO SULLA RIVISTA LA LANTERNA IL 15 LUGLIO 2025 PUBBLICATO SU WWW.AGORASOFIA.COM IL 16 LUGLIO 2025 Affermare al giorno d’oggi che non ci sia abbastanza clamore intorno ai temi della guerra e della pace potrebbe risultare completamente fuori contesto, dal momento che quasi quotidianamente si viene letteralmente bombardati, sia attraverso i maggiori media mainstream sia attraverso i canali social, da immagini e notizie relative a conflitti armati in corso e a proteste che cercano, in nome di un qualche richiamo al pacifismo, di contestare quella barbarie. Una simile sovraesposizione alla guerra e alla pace, tuttavia, necessita di uno sfondo di comprensione, di un contesto significativo in cui inserire i fatti, di una ermeneutica scevra da condizionamenti e prese di posizione preventive. Quel contesto storicamente imparziale e logicamente argomentato non può che essere costruito nelle scuole, cioè nei luoghi deputati all’insegnamento di orizzonti simbolici caratterizzati dalla solidarietà, dalla cooperazione, dall’accoglienza e non dal mero apprendimento di procedure, competenze tecniche e posture flessibili in linea con il mercato del lavoro. Ma, se così stanno le cose, se nelle scuole ancora insegnano docenti in carne e ossa che progettano la didattica, che adottano una sorta di immaginazione utopistica per prevedere delle finalità per il loro insegnamento, allora la loro responsabilità è totale in riferimento al bagaglio di valori che si viene a determinare nella realtà a partire dai contesti educativi. Ora, prendendo come riferimento l’universo simbolico che è scaturito dalle parole degli studenti e delle studentesse che sono intervenuti/e nelle varie occasioni in cui abbiamo portato in pubblico o nelle scuole le questioni denunciate dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, possiamo affermare con qualche grado di certezza che essi/esse già mostrano in maniera altamente preoccupante una sorta di normalizzazione della guerra e una preoccupante rassegnazione davanti al fatto che si tratterebbe di un fenomeno necessario nello sviluppo storico. La sovraesposizione mediatica a immagini di guerra e il coinvolgimento politico del nostro Paese in vari scenari bellici con annessa legittimazione mediatica ha generato, in sostanza, un’idea della guerra come tratto ineluttabile, connaturato all’umanità e alla quale non serve opporsi. Dai loro discorsi sembra quasi che sia stata riesumata una sorta di impostazione ideologica riconducibile al filosofo tedesco Hegel, il quale tendeva a rimarcare verso i primi dell’Ottocento, nell’apoteosi della boria della cultura tedesca, l’idea che la guerra fosse lo strumento naturale per l’evoluzione degli Stati. Davanti a questa condizione piuttosto diffusa, a questo mondo dato per scontato da parte dei/delle più giovani, forse sarebbe il caso di mettere da parte, per il momento, la critica del reale, l’analisi delle circostanze per cui ci sono le guerre attuali, in Palestina come in Ucraina e negli altri cinquantasei scenari mondiali. Se non altro, forse emerge la necessità, quantomeno, di affiancare a quelle analisi geopolitiche un lavoro più profondo di tipo antropologico, o addirittura ontologico, sulla guerra come destino dell’umanità e portare nelle scuole una concreta proposta didattica di pace, che ragioni storicamente e logicamente sulla necessità di ricorrere in maniera obbligata al conflitto armato per la risoluzione delle controversie nazionali o internazionali.   E tutto ciò, ovviamente, sempre con il dubbio che parlare di guerra, come di violenza e di male assoluto, nelle scuole possa essere, paradossalmente, un modo per portare all’attenzione degli studenti e delle studentesse un tema che, invece di rimanere fuori dalla storia, riesca ancora inspiegabilmente, in un clima di irrazionalismo diffuso, ad affascinare le giovani generazioni in cerca, forse, di affermazione, di riscatto, di macabra attrazione nei confronti del deprecabile pur di salire alla ribalta e ottenere notorietà. Davanti ad un simile scenario assiologico riteniamo che studiare la Pace come tema e, di conseguenza, insegnare la pace come argomento specifico sia necessario. Si tratta di un assunto che deriva da un inconfutabile dato storico, giacché dopo ogni guerra inizia il periodo di ricostruzione e di pacificazione, che spesso è anche più lungo della occorrenza della guerra, ma evidentemente il nostro gusto per l’orrido, per il torbido, sopravanza quello per la bellezza, che senza alcun dubbio viene distrutta durante la guerra. Ci siamo mai chiesti come mai nei manuali di storia in uso nelle scuole all’interno dei capitoli l’accento venga posto, con dovizia di particolari, sulla follia della guerra? Come mai ci sono ricercatori e storici che conoscono ogni dettaglio militare e decidono di corredare i nostri manuali di paragrafi interi su tecniche di guerra, materiale bellico utilizzato e scoperte militari devastanti per l’umanità? Il fatto che gli studenti e le studentesse conoscano i minimi dettagli sulle vicende di guerra obbedisce solo ad una esigenza informativa? Qual è la ricaduta educativa della sovrabbondanza di un lessico costellato di semantica di guerra e violenza? E ancora, come mai si parla di Prima, Seconda Guerra mondiale e non di Prima, Seconda Pace mondiale, che pure sono esistite, ma non godono di una consistenza ontologica prima che semantica? Sarà mai che questo eccesso di conoscenza e di ricerca inerente al tema della guerra e delle sue peculiarità sia funzionale, malgrado l’esimio lavoro degli storici di professione, alla sua normalizzazione, alla sua presenza costante all’interno dell’universo delle possibilità umane di gestione dei conflitti? Insomma, a noi pare che la sproporzione tra una “semantica di guerra” e una “semantica di pace” all’interno dei progetti educativi e dei programmi scolastici in generale, almeno dalle scuole secondarie di primo grado in poi, sia abbastanza evidente. Tutto ciò determina, in qualche modo, la costruzione di un universo simbolico nelle menti degli studenti e delle studentesse che dà consistenza ontologica alla guerra e non alla pace, mentre quest’ultima viene, nella migliore delle ipotesi, ritenuta un’appendice momentanea dell’urgenza distruttiva della guerra, percepita come connaturata all’essere umano. In realtà, non solo sappiamo con chiarezza dalla storia, dall’antropologia, dalla sociologia e dalla psicologia, che le cose non stanno proprio così, cioè che la guerra irrompe nella storia in un momento preciso, vale a dire quando le popolazioni sono diventate stanziali e si è pensato di cominciare a occupare la terra e dichiararla di proprietà esclusiva secondo una prima forma di appropriazione indebita ante litteram. Ma ciò che sappiamo con altrettanta certezza è che vi è una galassia sconfinata di studi, di teorie, di pratiche della pace, perlopiù coltivata dai Centri Studi, associazioni, circoli culturali, organizzazioni non governative, che, però, non trova dignità accademica, non trova investimenti, a differenza della galassia degli studi e delle pratiche di guerra, che incontrano gli interessi di industrie belliche che fatturano miliardi. Ad ogni modo, la semantica della pace va coltivata a partire dal lessico che utilizziamo quotidianamente. Come educatori ed educatrici che assumono l’impegno politico e civico di presentarsi come “docenti pacefondai”, si può avviare una grande rivoluzione lessicale con un piccolo sforzo consapevole orientato alla smilitarizzazione del linguaggio: mai più militanti, ma attiviste/i; mai più concentramento, ma incontro; mai più in trincea o in prima linea, ma a disposizione. Si tratta di una piccola e costante attenzione lessicale che porta con sé una più grande rivoluzione semantica, di senso, un cambiamento di prospettiva che genera nuovi orizzonti di nonviolenza, che è quello di cui la scuola e l’umanità hanno bisogno e su cui don Tonino Bello ci ammoniva tempo fa: «Smilitarizziamo il linguaggio, spesso così intriso di assurde categorie belliche, che dà l’impressione di un agghiacciante bollettino di guerra. Preserviamo i nostri ragazzi, che hanno sempre più come principale referente lo schermo televisivo, dalle trasfusioni di violenza che essi metabolizzano paurosamente» (A. Bello, Convivialità delle differenze Meridiana, Molfetta 2006, p. 51). Michele Lucivero, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università