Revisionismo, controllo e militarizzazione
Articolo di Michele Lucivero
Da diversi anni ormai l’insegnamento, derubricato semanticamente ad
apprendimento, è entrato all’interno di una riflessione che apparentemente è
ammantata di ragioni pedagogiche, ma in realtà risulta completamente asservita
al mercato e a logiche neoliberiste che tendono a valorizzare la misurazione e
la standardizzazione dei prodotti finali. Questa omologazione ideologica degli
alunni e delle alunne è il risultato della messa a punto di un sottile
dispositivo di controllo dell’educazione, di cui i docenti, nell’ubriacatura
della novità didattica, pedagogica e tecnologica, finiscono per divenire
complici, diventando mere esecutori materiali, valutatori di un processo di
apprendimento scritto altrove e da altri soggetti, estranei alla crescita
intellettuale che deve proliferare all’interno delle scuole e delle università.
Distratte e distratti dall’urgenza di rincorrere l’innovazione pedagogica e la
tecnica didattica all’ultimo grido per rendere più accattivante e ammaliante
l’oggetto dell’apprendimento e raggiungere la specifica competenza da
certificare, gli e le insegnanti smarriscono il senso politico ed esistenziale
del progetto educativo e vengono spinti ad abdicare alla consapevolezza di
essere soggetti fondamentali nel passaggio dei ragazzi e delle ragazze alla vita
adulta, come mostra in maniera magistrale Gert J.J. Biesta nel suo Riscoprire
l’insegnamento. E proprio in questo vuoto progettuale dallo slancio utopistico,
quale dovrebbe essere il fine e, al tempo stesso, la postura della professione
docente, si è insinuato nella scuola in maniera beffarda un programma di
addestramento che ha delle profonde analogie con retaggi del passato, con
circostanze che in Italia, e anche altrove, abbiamo già vissuto e che come uno
spettro preoccupante ritorna sotto spoglie nuove e anche piuttosto evidenti.
Che la scuola pubblica sia sotto attacco è un’evidenza empirica che non ha
bisogno di essere dimostrata. Per capirlo basterebbe solo passare in rassegna le
pseudoriforme degli ultimi 25 anni, tutte orientate a trasformare la scuola
nell’avamposto ideologico del neoliberismo, svenduta, sia nella semantica
quotidiana, tra crediti, debiti, prodotti finali e meriti, sia nella gestione
affaristica dirigenziale, alla quadruplice radice del principio di ragione
capitalistica che si concretizza nei settori farmaceutico, digitale, energetico
e militare.
Tuttavia, negli ultimi anni in Italia il dispositivo di controllo all’interno
della scuola pubblica è andato incontro a un’accelerazione, una vera e propria
ingerenza sistematica e asfissiante, tesa, da un lato, a far passare una linea
ideologica ben determinata a uso e consumo del personale più accondiscendente e
ligio, addestrandolo a dovere, dall’altro, a intimidire e sanzionare chi
mostrava capacità critiche e intolleranza alle pressioni governative, mettendolo
a tacere.
Da docenti sensibili e attenti alla direzione intrapresa dalla scuola pubblica
abbiamo potuto constatare sin dall’ottobre del 2022 l’abitudine a utilizzare una
strana e pressante comunicazione tra centro e periferia, tra Ministero
dell’Istruzione e del Merito e singole istituzioni scolastiche. Si tratta di una
comunicazione unidirezionale fatta di lettere e missive che invitano di volta in
volta a celebrare ricorrenze particolari, che indicano la direzione
interpretativa di determinati periodi storici, che offrono surrettiziamente,
infine, prospettive ideologiche sul ruolo della stessa scuola, esautorando di
fatto il lavoro dei e delle docenti e inaugurando una fase alienante e psicotica
che altrove abbiamo definito come regime di Psicoistruzione.
Procedendo in ordine sparso nella disamina di questo stile epistolare adottato
dal Ministero, potremmo citare l’istituzione e la riesumazione del Giorno della
Libertà, ricordato agli studenti e alle studentesse con un’apposita lettera
dallo stesso Giuseppe Valditara. Già istituito in Italia nel 2005 dal governo
Berlusconi «quale ricorrenza dell’abbattimento del muro di Berlino, evento
simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le
popolazioni tuttora soggette al totalitarismo» (Art. 1, comma 1, Legge 15 aprile
2005, n. 61), il Giorno della Libertà era, di fatto, finito nel dimenticatoio,
almeno fino all’avvento del nuovo governo di destra. In questa lettera di mezza
paginetta il Ministro, mediante il ricorso a una didattica d’occasione fatta di
date da segnare all’interno di un nuovo calendario civile, pretende di tracciare
in maniera netta il confine tra libertà e oppressione, anche in questo caso
legittimando come unico orizzonte possibile per la democrazia l’assetto
neoliberista. Sarebbe questo l’unico ordine in grado di garantire libertà e
giustizia, ma in tal modo viene giustificata l’azione disinvolta dei meccanismi
capitalistici del XXI secolo, soprattutto rispetto al quadro dei valori liberali
che essa afferma di voler tutelare.
Ora, al di là della continuità storica tra liberalismo e fascismo, che
occorrerebbe ancora una volta richiamare alla memoria, varrebbe la pena qui
rimandare alla versione più aggiornata di tale commistione, quella che si cela
dietro La maschera democratica dell’oligarchia (Laterza 2014), citando Luciano
Canfora e Gustavo Zagrebelsky.
Per rendere palese il maldestro tentativo da parte del Governo e del Ministero
dell’Istruzione e del Merito di controllare l’universo simbolico che si genera
nelle scuole, operando, al tempo stesso, un sistematico revisionismo storico, si
potrebbe far riferimento alle parole pronunciate dal Presidente del Senato
Ignazio Benito Maria La Russa nel marzo 2023. In quella occasione La Russa
riuscì a sostenere che l’episodio scatenante l’eccidio delle Fosse Ardeatine da
parte dei tedeschi poteva essere sostanzialmente evitato dai partigiani,
infatti: «È stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza: quelli
uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS,
sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani».
Assistiamo ormai da diversi anni a questa urgenza di riscrivere, mistificandola,
la storia italiana. Non si tratta di casi sporadici, ma vi è un attacco
sistematico nei confronti di tutti quegli storici e quelle storiche che tentano
di raccontare le pagine più buie della storia italiana. Appena si cerca di fare
luce su alcuni eventi con dati, testimonianze, reperti e ricostruzioni
accreditate con il metodo della ricerca storica, scatta l’intimidazione
politica, la diffamazione a mezzo stampa.
E, purtroppo, di questo clima intimidatorio, che impedisce di svolgere in
maniera critica il proprio lavoro, ne abbiamo fatto le spese personalmente, dal
momento che abbiamo subito un’interrogazione parlamentare (qui i dettagli) per
il solo fatto di aver invitato nella nostra scuola, il Liceo Scientifico
Leonardo da Vinci di Bisceglie, lo storico Eric Gobetti a presentare il suo
libro E allora le foibe?. E questa ossessione censoria nei confronti dei
convegni in cui si tratta delle vicende del confine orientale si è abbattuta
anche a Vicenza il 4 marzo 2023, quando è stata negata una sala comunale per lo
svolgimento dell’incontro sulle Foibe, e a Orvieto il 14 febbraio 2023 in
occasione del Convegno organizzato dal Cesp (Centro Studi per la Scuola
Pubblica), in cui è intervenuta direttamente la sottosegretaria all’Istruzione
Paola Frassinetti, che ha chiesto di annullare l’incontro con gli storici
Alessandra Kersevan e Angelo Bitti, inducendo la dirigente dell’istituto in cui
si sarebbe dovuto svolgere l’incontro a revocare la disponibilità della sala,
costringendo gli organizzatori a cercare solo il giorno prima un’altra sede.
Altrettanto preoccupanti sono i tentativi di intervenire direttamente da parte
del Ministero dell’Istruzione e del Merito sulla manualistica scolastica.
Abbiamo denunciato con preoccupazione e sgomento nel marzo del 2025 su Roars la
grave ingerenza in un testo di Scienze sociali in lingua inglese in uso negli
istituti professionali del gruppo Zanichelli (Revellino et al., Step into Social
Studies, Clitt 2023). A pagina 95 le autrici avevano inserito una scheda con un
riadattamento di un articolo della Ong Human Rights Watch sulla revisione
operata dal decreto-legge 130/2020 del governo pentastellato Conte II sul
decreto 113/2018 a firma di Salvini del governo precedente Conte I. La scheda,
nonostante riportasse la fonte, non è piaciuta al Ministero, che «ha segnalato
il caso» alla casa editrice e questa ha prontamente obbedito, ritirando tutte le
copie in commercio, rimuovendo la scheda dalla versione online, sostituendo nel
cartaceo il caso incriminato con il testo della legge 130/2020, «senza commenti
di parte», e inviato a tutti i dirigenti delle scuole che avevano adottato il
libro una lettera sottoscritta dalla Direttrice Generale (qui tutti i
particolari della vicenda).
Meno accondiscendenti sono stati, invece, gli autori, le autrici e l’editore di
Trame del Tempo, il manuale di storia accusato nel maggio 2025 da parte della
deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli di aver indebitamente attribuito
una sorta di continuità tra il fascismo e il partito al governo, la cui
direzione è affidata a Giorgia Meloni, cioè lo stesso partito al quale la
deputata Montaruli, che chiede ispezioni e accertamenti presso l’Associazione
italiana editori, appartiene. Se Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo
Greppi e Marco Meotto, storiche e storici di professione, autori e autrici del
manuale, hanno preferito non intervenire nella polemica, in questo caso è stato
direttamente l’editore, Alessandro Laterza, erede di una storica tradizione
antifascista che ha in Benedetto Croce il suo antesignano, che non si è lasciato
intimidire e ha dichiarato: «Senza ricamarci troppo: siamo nell’anticamera della
censura e della violazione di non so quanti articoli della Costituzione»,
chiudendo in maniera epica la querelle con Augusta Montaruli.
Eppure, e forse proprio per questo non piace al Governo, il manuale Trame del
Tempo ci era risultato particolarmente gradito. Analizzando una quindicina di
manuali per il triennio delle scuole secondarie di secondo grado in cerca di una
narrazione storica che non fosse marcatamente colonialista e riflettesse in
maniera critica il nostro passato, anche con riferimenti espliciti a Edward Said
e all’orizzonte postcoloniale, proprio quello di Ciccopiedi, Colombi, Greppi e
Meotto riportava un giudizio molto positivo. Ma, si sa, la direzione presa dal
Ministero con le nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola
dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione vira verso un arretramento
interpretativo di marca chiaramente colonialista che, nonostante sia stato
ampiamente criticato dalla Società Italiana di Didattica della Storia, potrebbe
già aver intimorito qualche editore più attento all’aspetto economico piuttosto
che a quello educativo.
Tra revisionismo storico e militarizzazione dell’istruzione si colloca, invece,
l’abitudine invalsa dal 2023 di celebrare in pompa magna il 4 novembre come la
Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, invitando nelle scuole a
vario titolo Esercito, Carabinieri e Marina Militare oppure conducendo intere
scolaresche all’interno delle caserme per svolgere cerimonie plateali di
alzabandiera, intonazione dell’inno nazionale e altre manifestazioni piuttosto
muscolari del ruolo e delle capacità delle Forze Armate. La celebrazione del 4
novembre è stata, di fatto, istituita con una legge approvata il 1° marzo 2023,
affinché si celebri la «difesa della Patria», il «ruolo delle Forze Armate» e si
facciano conoscere agli studenti alle studentesse le loro attività.
L’evidente propaganda militarista di tale celebrazione ha mobilitato studenti,
studentesse, docenti, genitori e anche l’Osservatorio contro la militarizzazione
delle scuole e delle università, che in un momento particolarmente critico per i
nostri tempi, con una guerra mondiale alle porte e con l’innalzamento della
spesa militare al 5% del Pil nazionale, hanno mostrato la loro totale
indignazione sia per i dieci milioni di morti della Prima guerra mondiale, che
il 4 novembre vorrebbe evocare, sia per le vittime di tutte le guerre e dei
genocidi in corso. Ma il punto è che le celebrazioni ufficiali del 4 novembre
fanno parte di un’insistente propaganda bellica che promana direttamente dalle
istituzioni governative, che cerca di assuefarci all’idea che la guerra sia
inevitabile, che i genocidi siano «difesa», che il riarmo e le spese militari
siano necessarie per la sicurezza e che i giovani debbano arruolarsi per
diventare dei soldati.
Un capitolo a parte costituisce il ricorso sistematico alla sanzione,
espressione più alta del paradigma del controllo, del «sorvegliare e punire»
foucaultiano, nei confronti di docenti che osano esprimere pubbliche critiche
verso il Governo e i suoi apparati. Proprio in occasione della ricorrenza del 4
novembre la collega Elena Nonveiller, docente del Liceo Foscarini di Venezia,
viene denunciata all’amministrazione dell’Istruzione per violazione del «codice
di comportamento» dei dipendenti pubblici entrato in vigore nel 2023. La sua
colpa sarebbe quella di aver scritto su Facebook «Frecce tricolori di me…a», in
occasione dello show del reparto dell’Aeronautica Militare sui cieli del
capoluogo veneto, una spettacolarizzazione militaresca pericolosa, costosissima
e inquinante per la popolazione. Peggio è andata al collega Christian Raimo,
sospeso per tre mesi dall’insegnamento, con una decurtazione del 50% dello
stipendio, perché reo di aver criticato il Ministro Giuseppe Valditara durante
un dibattito pubblico sulla scuola.
Per tutte queste ragioni abbiamo ritenuto fondato parlare di segnali evidenti di
un fascismo eterno, parafrasando l’espressione di Umberto Eco. Una forma di
Ur-fascismo che si manifesta ciclicamente, con più o meno evidenza, in assoluta
continuità con determinate fasi di crisi del capitalismo. Potremmo elencare in
successione: il culto della tradizione, mediante l’ossessione occidentalista; il
rifiuto della critica e il sospetto per la cultura, e su questi punti potremmo
analizzare la fenomenologia dello spirito che parla attraverso gli ultimi due
ministri della Cultura, Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli; l’attacco al
pacifismo cui fa seguito una cultura della morte, che è una cultura della
guerra, portata fin dentro le scuole, le università e la società civile per
cercare di normalizzarla, renderla familiare, accettabile e preparare le guerre
di domani, facendo impennare le spese militari al 5%, quando le scuole e le
università rimangono fatiscenti, insicure e impraticabili nei mesi estivi nelle
zone più calde del paese.
La militarizzazione delle scuole e delle università, epifenomeno della
fascistizzazione del nostro paese, risponde a un piano ben architettato dal
Ministero della Difesa per aggredire i luoghi in cui sono presenti i giovani e
fare arruolamento, come si può leggere nel Programma della Comunicazione del
Ministero della Difesa del 2019 e in quello più aggiornato del 2025. A leggere
questi documenti non si va molto lontano da quanto scriveva nel 1938 il prof.
Eugenio Grillo in La cultura militare nelle scuole medie, un testo giuridico in
cui si commentava il Regio decreto del 15 luglio 1938-XVI, n. 1249, recante
Norme per l’insegnamento della Cultura Militare nelle scuole medie:
«L’insegnamento della Cultura Militare nelle scuole ha scopo integrativo. È
inteso, cioè, a concorrere alla preparazione del cittadino-soldato. Il compito
affidato alla scuola civile in questo settore, la cui importanza diventa sempre
più evidente, non è tanto quello di darci dei tecnici nel senso letterale della
parola e neppure di creare dei professionisti, quanto quello eminentemente
educativo di alimentare, rafforzare e rendere consapevole nei giovani lo spirito
militare, che è oggi una delle loro caratteristiche migliori».
Insomma, messi tutti in fila, oggi come un secolo fa, i segni di una chiara
fascistizzazione della società civile, a partire dalla scuola, sono piuttosto
evidenti. Non vederli è il sintomo di una diffusa e colpevole indifferenza, di
cui, però, come educatori ed educatrici, dovremmo mettere a parte gli studenti e
le studentesse, giacché gli anticorpi della Resistenza vanno lentamente
esaurendosi e si rischia di finire come le rane bollite.
* Michele Lucivero è dottore di ricerca in Etica e antropologia. Storia e
fondazione presso l’Università del Salento e insegna Filosofia e storia al liceo
Da Vinci di Bisceglie. Giornalista pubblicista, cura il blog Agorà. La filosofia
in Piazza ed è promotore dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle
scuole e delle università.
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