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Regione Sicilia, nessuna visione sull’ordinamento professionale… si tira a campare
La carne al fuoco è tanta, ma rischia di bruciare! C’è in ballo il rinnovo contrattuale del triennio 2022/2024, ma al tempo stesso si discute praticamente di tutte le code contrattuali del CCRL 2019/2021, firmato tra l’Aran Sicilia e le organizzazioni sindacali il 9 dicembre dell’anno scorso, a ben due anni e mezzo di distanza dall’analogo contratto sottoscritto a Roma per le funzioni centrali, fonte di ispirazione (praticamente un copia/incolla) per il contratto collettivo dei dipendenti della Regione Sicilia. I tavoli di confronto aperti sono tanti e vanno dall’applicazione del differenziale stipendiale, un nuovo meccanismo economico di remunerazione selettiva che sostituisce le progressioni orizzontali, fino ai criteri per le progressioni verticali, le cosiddette promozioni, secondo criteri meritocratici che vanno stabiliti in contrattazione con i sindacati; ma si deve anche discutere di misure di welfare aziendale e di lavoro agile, tutti strumenti che dovrebbero servire ad incentivare il personale sia sul piano economico che sul piano del benessere organizzativo. Tra questi, il provvedimento più atteso, proprio perché rimasto in soffitta per circa venticinque anni, è quello appena accennato delle progressioni di carriera che, però, riguarderanno complessivamente poco più di 800 dipendenti su quasi diecimila in servizio, almeno in questa prima tornata che dovrebbe vedere la luce entro la fine di quest’anno o al più tardi entro il 30 giugno prossimo.  Si tratta della possibilità di accedere, attraverso una procedura concorsuale interna, alle qualifiche immediatamente superiori a quelle attualmente possedute ed in questa prima fase riguarderà la possibilità per i coadiutori, al primo gradino della scala gerarchica, di accedere all’area degli assistenti e questi ultimi, a loro volta, di accedere alla categoria dei funzionari. Non è ancora prevista, invece, la possibilità per i funzionari di accedere alla nuova area delle elevate professionalità che quindi rimarrà momentaneamente vuota. Le aspettative sono tante ed i posti a concorso pochi, tenuto conto dei limiti assunzionali a cui è sottoposta la Regione per via dell’accordo Stato-Regione sottoscritto già da qualche anno per rientrare dal deficit causato dagli sprechi perpetrati soprattutto in ambito sanitario. Inoltre, la Regione intende privilegiare l’assunzione di giovani per le aree più elevate, motivo per cui la possibilità di progredire di carriera sarà più elevata per i dipendenti collocati nell’area più bassa. Questi sbocchi professionali, attesi da tanti anni ma sacrificati sempre sull’altare di una logica livellante che non ha mai guardato al merito e alla competenza dei lavoratori, arrivano quasi fuori tempo massimo, considerato che la platea a cui si rivolgono è in gran parte costituita da personale con più di cinquant’anni (quasi il 90%) e tra questi più della metà supera i sessant’anni. Inoltre, arrivano in una fase in cui l’ordinamento delle qualifiche si è modificato introducendo una nuova area apicale che di fatto annulla l’effetto della promozione, per chi l’avrà. Ma quali saranno i criteri per poter concorrere (e sperare di vincere!) l’agognato riconoscimento? Anzitutto, va detto che in questa fase è consentito effettuare anche le selezioni in deroga, cioè prescindendo dal titolo di studio previsto per l’accesso all’area superiore grazie alla compensazione dell’esperienza professionale maturata negli anni.  I titoli di studio saranno oggetto di valutazione, ma bisognerà tenere conto anche dell’anzianità maturata nella qualifica di provenienza, di altri titoli culturali e professionali posseduti, della valutazione ottenuta nell’ultimo triennio nonché degli incarichi ricoperti e della formazione effettuata. Si tratta quindi di un metodo comparativo che serve a valutare complessivamente la professionalità e la competenza del dipendente che chiede di accedere alla qualifica superiore; ma già su questo fronte si manifestano forti resistenze, soprattutto per quello che riguarda la valutazione degli incarichi e della formazione, considerato che l’attribuzione dei primi e la possibilità di accedere alla seconda non sempre sono stati caratterizzati da trasparenza ed equità e pertanto da parte sindacale c’è la preoccupazione che tali criteri possano finire con il favorire i soliti noti frequentatori delle stanze dei bottoni. D’altro canto non sarebbe neanche logico e coerente l’affidare la scelta, a parità di condizioni per titolo di studio e anzianità, alla maggiore anzianità anagrafica. Alla fine, il vero rischio che si correrà sarà quello di decidere di non decidere, di spostare ancora in avanti la selezione aspettando che i ranghi della Regione continuino a svuotarsi fino al completo pensionamento della generazione entrata nei ranghi dell’amministrazione tra la fine degli anni ‘80 ed i primi anni ‘90. E’ assai probabile che la prima proroga fino al 30 giugno prossimo, introdotta con il contratto 2022/2024 che sarà a breve adottato, venga utilizzata per prendere il tempo che serve a limare i criteri di selezione. Qualche considerazione, comunque vada a finire, va fatta, soprattutto guardando ad una visione più generale dell’orizzonte futuro della pubblica amministrazione regionale.  La prima è senza dubbio legata al fatto che il modello organizzativo e gestionale, e quindi anche il sistema delle carriere, ancorché spacciato per nuovo e fortemente innovativo, è oltremodo vetusto e superato dai moderni modelli organizzativi che la Regione stenta a capire, ancor prima che cercare di realizzare.  Lo si vede con la discussione sul lavoro agile (smart working) in cui ancora non si è capita fino in fondo la logica di questo strumento, e cioè il lavoro per obiettivi sganciato da vincoli spaziali e temporali. Lo si vede anche nel nuovo ordinamento delle carriere che ripropone ancora una visione fortemente gerarchica basata su più livelli (dovevano passare a tre aree, ma sono rimaste a quattro) senza che ci sia alcun reale collegamento con le competenze richieste da una moderna amministrazione che ancora si attarda – da oltre vent’anni dalla “riforma” della PA regionale – ad individuare i profili professionali di cui avrebbe urgente bisogno. A questo si aggiunga che i livelli retributivi della pubblica amministrazione, e di quella regionale in particolare, sono fra i più bassi in Europa e non più commisurati al reale incedere dei processi inflattivi che tornano a viaggiare su due cifre, quando i contratti si rinnovano ancora ad una cifra con la virgola. Non è un caso che l’ultimo contratto delle funzioni centrali sia stato firmato separatamente da alcune sigle e che la preintesa sulle funzioni locali venga firmata solo adesso con l’opposizione della Cgil: il 5,8% di aumento contrattuale non basta minimamente a compensare un’inflazione nel triennio pari al 16%. Siamo, quindi, al punto da cui eravamo partiti: la carne al fuoco è tanta, ma rischia di bruciarsi! Per non parlare poi del fatto che tutto questo non viene minimamente legato ad un progetto di rinnovamento della pubblica amministrazione che le ridia fiducia agli occhi dei cittadini.  C’è però un elemento di novità su cui sarà il caso di tornare a parlare: il ricambio generazionale dopo due decenni di blocco del turn over, una boccata d’ossigeno che potrebbe portare, insieme alla competenza di giovani laureati, anche qualche idea veramente nuova su cui fondare la Regione di domani.   Enzo Abbinanti
Sport e militarizzazione: accordi tra Esercito, Regione Lombardia e Ufficio Scolastico
Quanti sono gli impianti oggi aperti alla cittadinanza e fruibili anche al di fuori dell’appartenenza ad una società sportiva? È una domanda che merita risposta, se pensiamo che le palestre nei plessi scolastici non sono mai aperte ai giovani nel pomeriggio e, quando non restano chiuse, sono a disposizione, previo pagamento, di società sportive. Pensiamo ai tanti giovani non iscritti a una società e alla rilevanza sociale che avrebbe un servizio sportivo gratuito pomeridiano. Ma è proprio lo sport uno degli ambiti privilegiati dalle forze armate, che reclutano atleti di prestigio nei loro gruppi sportivi e attraverso gli stessi diffondono un’immagine non di guerra delle attività svolte. In altre occasioni lo sport si coniuga con campagne di vario genere, ad esempio il progetto “Sport per la legalità” tenutosi al Centro Sportivo Olimpico dell’Esercito di Roma: Sport per la legalità: l’Esercito al fianco dei giovani – Esercito Italiano In questo caso, invece, il progetto che segnaliamo e denunciamo (clicca qui per la notizia), frutto di un accordo tra Esercito Italiano, Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia, è una delle tante iniziative delegate dalla pubblica istruzione all’esercito, evitando di mettere in campo gli insegnanti di educazione civica e di scienze motorie, che avrebbero strumenti e competenze sportive e professionali per svolgere questo campo. In queste settimane molti giuristi hanno investito di domande e riflessioni la pubblica opinione proprio sulle responsabilità di stati e aziende (pubbliche e private), istituzioni e intellettuali rispetto al genocidio del popolo palestinese ricordandoci che la cultura della legalità potrebbe svilupparsi dal ripudio della guerra. E in tempi di conflitti bellici ci chiediamo perché demandare all’esercito la diffusione della cultura e dei valori dello sport, adducendo la motivazione che proprio la presenza delle forze armate sia utile a promuovere un modello educativo virtuoso e uno stile di vita da adottare. Sorvoliamo sugli interventi di rappresentanti del Governo e delle istituzioni regionali che poi seguono sempre la medesima traccia che vede nella divisa un valore aggiunto, nell’esercito lo strumento di civilizzazione dei popoli e portatore di valori indiscussi. E la retorica militarista all’occorrenza si cela dietro a centri sportivi che organizzano corsi per Aiuto Istruttore di Educazione Fisica, per Istruttore di Discipline Sportive e per Assistente Bagnanti, ai quali hanno affidato strutture connesse alle forze armate con compiti formativi ed educativi e perfino percorsi atti a costruire nuove professionalità. Ancora una volta, la presenza dei militari nelle scuole di ogni ordine e grado e nella società diventa strumento di educazione e formazione, di orientamento professionale, di educazione civica con la scuola pubblica che abdica ai suoi tradizionali compiti facendosi sostituire da strutture militari, come avveniva in tempi lontani e bui nei quali le libertà democratiche erano sospese. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università