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Propaganda nei Campi-Scuola: formazione o indottrinamento?
Qualcuno forse si era illuso che con la chiusura estiva delle scuole la gioiosa macchina da guerra della propaganda avrebbe rallentato il ritmo incessante delle proprie azioni all’interno del mondo giovanile e invece arriva puntuale la smentita: tutto l’armamentario si trasferisce nei campi-scuola, all’interno di un setting formativo molto più sbilanciato verso l’aspetto ludico. Vediamo così delle forze dell’ordine impegnate in dimostrazioni di “didattica avventurosa” che stimola i ragazzi attraverso  un approccio  tanto paternalistico quanto superficiale e tendenzioso, ad assumere un atteggiamento benevolo verso le forze dell’ordine, migliorando la percezione interiore che ne hanno. Considerate le ultimissime sentenze della Corte d’appello di Roma, sul caso Stefano Cucchi, in cui, dai vertici apicali fino ai livelli più bassi fin nelle stazioni territoriali coinvolte, l’Arma ha dovuto rispondere non solo di un atroce omicidio ma dopo 16 anni anche di gravissimi insabbiamenti delle indagini, il lavoro di “ricostruzione” in chiave positiva dell’immagine sembrerebbe a prima vista arduo. D’altro canto, gli investimenti degli ultimi anni, con le forze dell’ordine ormai soddisfatte per gli aumenti salariali ricevuti e le dotazioni tecniche ma soprattutto il riordino dei ruoli al loro interno, consente  all’Arma dei Carabinieri di ripulire anche l’immagine più sporca che si è sempre tentato di attribuire alle solite “mele marce”. In questo caso abbiamo i Carabinieri alle prese con la  cosiddetta “generazione Alpha”, stranamente in sintonia con l’altra Alfa, l’ Alfa Romeo “Giulia” la gazzella dei Carabinieri sulla quale sono stati fatti salire i ragazzini di una scuola di Loreto, nell’ambito di un campo estivo. Dopo la visita all’interno di una stazione  territoriale dell’Arma, questo spaccato di vita quotidiana con le stellette, i/le ragazz* si sono divertit* a bordo di questi bolidi  a quattro ruote, come tanti piccoli “alfisti”, ma anche in sella ad  una moto da enduro di ultima generazione. Non poteva mancare un altro elemento che scatena sempre la fantasie e l’empatia,  ovvero i cani della squadra cinofila, un evergreen che funziona sempre anche con i ragazzini più “digitali”.  L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, stigmatizza in questo caso le scelte “culturali” ma che noi definiremmo molto più sinceramente propaganda di “educazione militarizzata” dell’assessora del Comune di Loreto  sempre con il lasciapassare della “cultura della legalità”. Nell’ultimo anno in questa parte delle Marche ben 18 istituti e 1200 ragazz* hanno subito questa propaganda in divisa, fatta di intrattenimento ludico, di indottrinamento paternalistico alla cosiddetta “cultura della legalità” (“l’Arma come baluardo contro il male e i devianti della società”): siamo sicuri che di fronte ad una tendenza “panpenalistica” della politica, da sinistra come, ancora di più, da destra, non ci sia bisogno invece di una “cultura dei diritti”? Con un numero di omicidi in caduta libera da trent’anni (1.916 nel 1991 contro i 341 del 2023 fonte ISTAT p.17)  e in generale di tutti i reati ( circa il 50% in meno negli ultimi 10 anni in furti in casa e d’auto e rapine) si assiste invece ad un aumento dei reati tipici delle mafie, dalle “eco-mafie” , alle estorsioni, ai crimini informatici. Quindi non si spara più, la violenza non dilaga per le strade ma allo stesso tempo aumenta la percezione negativa di una società insicura: presentarsi nelle scuole con questo carico di “pericoli immaginari” vuol dire fare esattamente ciò che avviene politicamente a livello mondiale con la creazione a tavolino di sempre nuovi nemici e “stati canaglia”. Fare lo stesso anche con i bambini, questo si, che è delinquenziale oltre che anti-pedagogico!
Graphic-novel di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza: la militarizzazione avanza
Va avanti sempre più spedita la propaganda della “cultura militarizzata” che punta da alcuni anni anche al pubblico dei fumetti, il quale, a parte i nostalgici e/o affezionati storici, si avvicina anche alla fascia di età 20-30. Avendo a disposizione sempre nuove risorse finanziarie pubbliche, al contrario delle case editrici pienamente sul mercato, che arrancano, alzano i prezzi di copertina o chiudono, le forze dell’ordine cooptano prestigiosi disegnatori, tutti di “bocca buona”, per realizzare improbabili graphic novel, certamente non all’altezza creativa delle storie che coinvolgono personaggi come Dylan Dog, Tex o Nathan Never. Vediamo, ad esempio, cosa partorisce la mente creativa della casa editrice di Polizia Moderna, dove è nata la saga auto-definita sul loro sito web, totalmente “made in Polizia di Stato”. Come tutti sanno, in Calabria, si è accumulato negli anni un know-how che ci fa eccellere in tutto il mondo nell’ambito del business della cocaina. D’altra parte, tutte le statistiche contenute in diversi studi sulla devianza e la criminalità organizzata ci dicono che gli omicidi In particolare quelli per mafia sono in calo drastico fin dagli anni Novanta, con oltre 3mila omicidi contro i poco più di 300 degli anni ’20 del 2000. Nasce quindi l’esigenza di inventarsi un nuovo ruolo alle forze dell’ordine, non più intente a sventare sparatorie nelle strade come ci descrivevano i film delle saghe “poliziottesche” degli anni ’70, ma a infondere sicurezza nella popolazione. Questa, dal canto suo, era ed è sempre più alle prese con un’altra forma di insicurezza, quella della precarietà lavorativa, delle emergenze climatiche, della caduta in basso dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie, solo per citarne alcune. Questo ruolo protettivo quasi “materno” delle forze dell’ordine, che saranno sempre più impegnate nel sedare rivolte sociali e non più ad arrestare mafiosi incalliti, viene impersonata appunto da questi personaggi grotteschi ben disegnati, ma inseriti in sceneggiature che dire improbabili è farle un complimento! Vediamo quali sono, appunto, queste storie avventurose, quasi marziane, attraverso la presentazione del sito web della Polizia di Stato dell’ultimo numero del commissario Mascherpa impegnato in una terra infestata dalla ‘ndrangheta: «Marta e Mascherpa, si concedono una fuga d’amore sulla Sila innevata (ma col cambiamento climatico occorre andare in altissima quota per trovare neve! n.d.r.) , ma nel corso di un’escursione in slitta accadrà l’impossibile. In aiuto arriveranno i colleghi della polizia di montagna, per fortuna presenti sul posto per il servizio di sicurezza sulle piste da sci (sono anni che le piste da sci sono il più delle volte chiuse per assenza di neve, n.d.r.) Le indagini che seguiranno porteranno a sgominare una banda di criminali anche grazie all’intervento dei Nocs. Nel frattempo a Cosenza una ragazza si risveglia stordita e sta quasi per cadere dal cornicione di un palazzo storico, ma verrà salvata e aiutata da una psicologa della Polizia di Stato a ricostruire cosa è accaduto e ad affrontare una terribile verità». Come si può notare, c’è proprio un corto-circuito, un compiacimento tutto autoreferenziale verso personaggi che forzatamente vengono inseriti per dipingere ruoli accudenti e salvifici che in realtà potrebbero benissimo, e spesso già lo sono, essere svolti, per esempio, dal soccorso alpino o da associazioni di auto-mutuo aiuto per il presunto stato di disagio psicologico di cui soffrirebbe la ragazza del fumetto. Lo stile fumettistico è stato preso in prestito in passato anche per i famosi calendari, come quello del 2019 che sottolineava con enfasi come «ad ogni tavola, sono associati i nuovi segni distintivi di qualifica, che consentono di cristallizzare, anche graficamente, l’identità civile della Polizia di Stato. I nuovi segni di qualifica saranno adottati dalla Polizia di Stato nel prossimo anno e offriranno la possibilità di proiettare l’Istituzione verso il futuro, chiudendo il percorso di smilitarizzazione intrapreso con la riforma del 1981». Purtroppo non bastano dei nuovi segni di qualifica, oppure una legge, per trasformare una cultura militare in una di “servizio civile”, lo spirito repressivo legalitario è sempre più spesso all’esercizio arbitrario ed illecito della forza tipico degli anni ’70, permangono e spesso, come in questi ultimi anni, subiscono un’accelerazione dettata da chi sta al governo. Potendo contare sulle nostre tasse per produrre questi capolavori artistici per fini propagandistici, il prezzo di copertina viene interamente devoluto alla sezione Assistenza della Polizia di Stato – Piano Marco Valerio, istituito per sostenere i figli minori dei dipendenti della Polizia di Stato affetti da gravi patologie. Questa sorta di “welfare aziendale” pagato, anche se indirettamente, sempre dalle nostre tasse, va ad aggiungersi a tutti gli altri benefit degli appartenenti alle forze dell’ordine non ultimo quelli introdotto dall’ultimo ex-decreto sicurezza, che offre ai poliziotti la tutela legale gratuita in caso di controversie penali e civili. D’altra parte quest’opera di mistificazione, purtroppo, viene portata avanti anche colpendo fasce di età inferiori, quelle che abitualmente giocano a colorare le figure di alcuni album, con favole e personaggi vari. Nel “Carabifantasy da colorare”, ideato dai creativi della II Sezione ufficio Cerimoniale Stato Maggiore V Reparto presso il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, troviamo la carabiniera-Biancaneve, un carabiniere-cacciatore nerboruto che protegge un Cappuccetto Rosso intento a fare il saluto militare e la linguaccia, al lupo cattivo che scappa, è un carabiniere-Geppetto che accoglie tra le sue braccia un Pinocchio di legno. Accudimento, quasi materno, protezione, difesa dei più deboli, immagine rassicurante e pacificatrice e onnipresente, questi sono i concetti che tentano di veicolare nel pubblico dei più piccoli le forze dell’ordine nell’intento strategico di normalizzare un approccio alla vita e alla convivenza tra persone ispirato alla logica militare. Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle Scuole e delle Università
PISOGNE (BS): CHI HA FATTO SALTARE IL PRESIDIO PER LA PALESTINA?
La mattina di venerdì 20 giugno 2025 la rappresentante delle realtà organizzatrici del presidio contro il genocidio a Gaza in programma per domenica 22 giugno 2025 a Pisogne, in Val Camonica, provincia di Brescia, ha fatto sapere che era stata convocata in Comune, dove il locale maresciallo dei carabinieri le aveva detto che la Questura di Brescia non poteva autorizzare il presidio sul lungolago (d’Iseo) dove si doveva svolgere l’iniziativa e proponeva di spostarlo in una frazione isolata e poco visibile, Gratacasolo. Nel pomeriggio, però, la Questura di Brescia ha smentito categoricamente di aver negato l’iniziativa di solidarietà con Gaza, come Radio onda d’Urto aveva riportato raccogliendo la testimonianza dell’organizzatrice. A questo punto chiediamo che sia fatta chiarezza: chi ha boicottato il presidio per Gaza che domenica non ci sarà dopo essere stato già pubblicizzato a seguito dell’assicurazione verbale del sindaco del fatto che si potesse svolgere? Il servizio con Alessandro Bono, della redazione di Radio Onda d’Urto della Val Camonica. Ascolta o scarica.
Incontri sulle devianze giovanili con i Carabinieri: rischio militarizzazione nelle scuole di Napoli
Alla fine dell’anno scolastico appena terminato, il 3 giugno 2025 dalle 9:00 alle 11:00, si è tenuto presso uno storico Liceo del centro di Napoli, il Liceo Statale “Antonio Genovesi”, un incontro rivolto agli studenti e alle studentesse delle prime classi sul tema delle devianze giovanili dal titolo “Oltre il limite. Quando le scelta diventa rischio”, presentato come «un dialogo aperto sulle devianze giovanili e il loro significato. Confronto tra dimensione psicologica, responsabilità legale e prevenzione educativa». Dell’evento, qualche giorno dopo, è scomparsa traccia dal sito dell’Istituto e una ricerca sui più diffusi motori di ricerca, anche tramite immagine, non ha dato risultati; resta quindi solo una foto scattata alla locandina che è stata affissa sul portone della scuola e la testimonianza di alcune persone che l’hanno vista e di una nostra attivista che ne ha parlato con degli studenti e le studentesse all’ingresso della scuola. I relatori dell’iniziativa? Oltre al Dirigente Scolastico per i saluti istituzionali di rito e una docente – si presume dell’Istituto – in qualità di moderatrice, tutti i tre interventi sono a cura di “esperti” dell’Arma dei Carabinieri. Colpisce in particolare che il primo dei tre sia il Comandante del Nucleo di Psicologia della Legione Carabinieri della Campania. Perché uno psicologo interno alle Forze Armate dovrebbe essere preferibile, per dialogare coi giovani all’interno di una scuola, ad un altrə professionista? Quale ragione sta dietro a tale scelta? Per noi dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università il fatto che dei professionisti siano interni ad un corpo militare fa assumere di fatto all’iniziativa un’impostazione diversa da quella che avrebbe con esperti della società civile, improntata a un paradigma securitario, basato cioè sulla norma e la punizione prevista per chi la infrange; un paradigma lontanissimo da quello educativo, che dovrebbe prevedere il dialogo, il pluralismo, la costruzione condivisa di saperi e di valori e una motivazione intrinseca alla base dell’elaborazione personale, da parte degli educandi, di questi ultimi. Nel caso specifico, sul delicato e scivoloso tema delle devianze giovanili (devianze da cosa? da quale norma?) – e in particolare in una città come Napoli e in tempi di “Decreto Caivano” e “Decreto Sicurezza” – ci chiediamo quale dialogo aperto possa essere stato intessuto con gli/le studenti/studentesse da esperti con l’arma d’ordinanza nella fondina. Un altro aspetto di questa iniziativa, ancora poco diffuso e che ci pare assai preoccupante, è la presenza non di semplici Carabinieri, ma di esponenti delle professioni – proprio di quelle professioni che secondo noi sarebbero da preferire ai militari nella scelta di eventuali esperti esterni che intervengano nelle scuole -,  ma interni all’Arma dei Carabinieri. Questo fatto testimonia della crescente militarizzazione delle professioni, evidente anche in alcuni percorsi universitari e post universitari che vengono attivati in alcune facoltà, come ad esempio il master in psicologia militare dell’Università La sapienza di Roma (https://www.uniroma1.it/it/offerta-formativa/master/2025/psicologia-militare). Anche in altre parti d’Italia abbiamo testimonianze di giovani studenti e studentesse che dichiarano di voler lavorare, ad esempio, come biologa/o al RIS di Parma dei Carabinieri oppure psicologa/o nell’ufficio reclutamento della Marina Militare. Il fatto che si stia diffondendo un’attitudine a legare alcune occupazioni alla divisa e quindi all’attività lavorativa nelle Forze Armate è secondo noi il segno evidente che è in atto un tentativo di sovrapposizione tra il mondo civile e quello militare, atto a persuadere che tra l’uno e l’altro non ci sia nessuna differenza; di più: la presenza di queste professionalità nelle iniziative nelle scuole ha come obiettivo quello di aumentare la fascinazione dei giovani per la divisa, come se il mondo militare fosse un luogo in cui tutte le inclinazioni personali e le aspirazioni possono trovare spazio. In territori ad alto tasso di disoccupazione giovanile come il sud Italia, in cui la carriera militare è già vista come una delle poche possibilità di impiego sicuro, ora promette anche la possibilità di realizzarsi in molti campi diversi. Noi crediamo che questa promessa sia ingannevole e vogliamo scuole libere da questa propaganda! È evidente che un professionista stipendiato dal Ministero della Difesa non è più un libero professionista, ma ha l’obbligo di fare gli interessi e di veicolare la cosiddetta “cultura della Difesa”. Alcuni liberi professionisti, come avvocati o psicologi, se assunti da un’azienda devono uscire dall’ordine professionale, a garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia che deve caratterizzare queste professioni. Perché, quando si è stipendiati dal Ministero della Difesa e a maggior ragione nel clima culturale denso di militarismo di questi anni, si vorrebbe far credere ai più giovani e alle comunità scolastiche tutte, che questi professionisti in divisa siano davvero liberi nei contesti educativi, e che facciano qualcosa di diverso dal veicolare il militarismo e i suoi valori? Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Napoli
Carabinieri e prevenzione a Livorno: chi dovrebbe veramente combattere il tumore al seno?
Segnaliamo questo articolo di propaganda uscito sulla cronaca locale di Livorno: I Carabinieri Paracadutisti del Tuscania in prima linea per la prevenzione: screening gratuiti contro il tumore al seno. A partire dal titolo, una “prima linea” che richiama tempi di guerra, l’immaginario evocativo dell’articolo mette al centro i corpi speciali dei Carabinieri come se fossero i protagonisti in un ambito dove, invece, di fatto non c’entrano nulla. I protagonisti della prevenzione sono e devono essere i medici, non certo i militari e a combattere purtroppo, non sono certo i militari, ma tutte le donne che oggi hanno un tumore e che forse avrebbero potuto prevenirlo, se avessero avuto la possibilità di controlli regolari. Condividiamo il messaggio di fondo – sia chiaro –  promuovere la cultura della prevenzione, e riportiamo integralmente le parole dei medici organizzatori «La diagnosi precoce consente di individuare lesioni anche di piccole dimensioni e quindi di intervenire tempestivamente, migliorando significativamente le possibilità di guarigione». Ma se «prendersi cura di sé è un dovere, ma anche un diritto» non capiamo come mai «operazioni di controllo clinico,[sono state] riservate [solo] alle militari e alle familiari dei militari», rendendo così quella che poteva essere un’iniziativa aperta a tutte, un mero privilegio di poche donne legato alla divisa militare. Se si possono  portare avanti operazioni di questo tipo – fondamentali per la salute pubblica  – «grazie alla disponibilità dell’Infermeria del 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti Tuscania», quello che ci deve preoccupare è lo stato di funzionamento del nostro sistema sanitario che quindi non avrebbe lo spazio per un controllo basilare come la prevenzione al cancro al seno. Eppure questa infermeria fa in ogni caso parte del patrimonio pubblico, l’eccezionalità è data quando viene utilizzata in maniera esclusiva dai militari, non certo quando viene aperta ad un pubblico più ampio. Se veramente i militari del Tuscania si volessero mettere in gioco, potrebbero rinunciare alla costruzione di una nuova infrastruttura a loro dedicata all’interno del parco naturale di San Rossore, il cui costo complessivo è stimato in 520 milioni di euro. Con tale cifra, secondo le stime fatte in parlamento durante la discussione del DL per la riduzione delle liste di attesa si potrebbe  garantire la mammografia biennale a tutte le donne dai 45 anni e fino ai 74 anni per 4 anni. Peccato che questa primavera gli emendamenti proposti in commissione sanità che puntavano a potenziare lo screening sono stati bloccati in commissione bilancio. Il tutto mentre l’Italia si appresta dietro la spinta della Nato ad aumentare le spesi militari al 5% del PIL. Quindi si tagliano i fondi per la spesa sanitaria, si investe in armamenti, ma poi si fa propaganda per i bravi militari che promuovono la prevenzione per i tumori al seno. Quando la vera urgenza, come denunciato dall’associazione Europa Donna è assicurare la possibilità di uno screening mammografico ai 2 milioni di donne a cui oggi è negata la possibilità di prevenzione Fausto Pascali, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
IC S. Giovanni Bosco di Isernia festeggia il 211° annuale di Fondazione dell’Arma dei Carabinieri: perché?
Il sito web dell’istituto comprensivo S. Giovanni Bosco di Isernia apre così: «Il coro “Piccole Voci InCanto” dell’Istituto Comprensivo “San Giovanni Bosco” è onorato di intonare l’inno di Mameli alla celebrazione del 211° Annuale di Fondazione dell’Arma dei Carabinieri. Un ringraziamento particolare al Comandante dell’Arma il tenente colonnello Fabrizio Coppolino e di tutti i suoi collaboratori che con generosa accoglienza si è prodigato affinché fossero presenti le voci dei nostri alunni che hanno riscosso un caloroso plauso». Passi per l’intonare l’inno di Mameli in piazza per una qualche ricorrenza, ma che lo si faccia per celebrare uno dei tanti annuali di fondazione dell’Arma dei Carabinieri che per definizione si celebra appunto ogni anno risulta oltremodo misterioso quantomeno sul piano pedagogico ed educativo. Non sorprende, invece, se anche questa attività apparentemente innocente e goliardica nonché festosa sia inquadrata in una strategia più ampia di tipo propagandistico, volta a coinvolgere sempre di più e partendo dalle fasce di età sempre più prossime all’infanzia, la gioventù italiana intorno al concetto di difesa e protezione grazie alle forze dell’ordine o alle forze armate: ogni occasione, dunque, è buona. Il fatto di iniziare fin da piccoli il grande gioco della normalizzazione della “divisa” sempre più presente nelle nostre vite quotidiane, a partire da queste iniziative appunto, all’intervento all’interno delle scuole, agli open-day, alle innumerevoli serie TV, ai fumetti, ecc. ecc. da cosa nasce? Forse dall’esigenza di fare introiettare nel profondo dei giovani questa visione legalitaria, giustizialista e militaresca della convivenza civile che passa, per prima cosa, dal rispetto delle norme e poi semmai e solo in seconda battuta, dalla consapevolezza dei proprie diritti e delle modalità per difenderli? Probabilmente sì, perché le ultime indagini su campioni di giovani e meno giovani vede la percentuale di chi è disposto a dare la vita per la “patria” scendere di pari passo all’età degli intervistati. Secondo un sondaggio Gallup del 2024 solo il 14% sarebbe disposto a combattere per il proprio paese mentre il 78% si rifiuterebbe categoricamente. Scendendo alle fasce giovanili, YouTrend per SkyTg24 ci consegna un dato eclatante rispetto all’ipotesi di servizio militare obbligatorio: il 55% tra i 18 e i 35 anni è contrario e solo il 36% è favorevole. In sintesi, il “sacrificio estremo”, coinvolge non più del 20% dei giovani “arruolabili”. La propaganda militare quindi deve dare fiato alle trombe e mettere al massimo i propri motori facendo leva anche su una parvenza di parità di genere coinvolgendo al figura femminile sempre più spesso presa in prestito per ingentilire la figura militare, soprattutto nei confronti dei più piccoli: non è sorprendente, infatti, che per la prima volta la figura centrale del carosello dei Carabinieri sia appunto una carabiniera. Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
“Cultura della legalità”, i Carabinieri incontrano scolaresche a Siracusa
Riceviamo e pubblichiamo una segnalazione che arriva da Siracusa, dove sabato 31 maggio ha avuto luogo una giornata della legalità promossa dai Carabinieri. «Lo scopo di questa manifestazione è proprio essere vicini ai più piccoli, con disegni, gadget, ma anche ai più grandi, con informazioni utili, a maggior ragione in questo periodo con riguardo alle truffe agli anziani. Infatti abbiamo dei piani, abbiamo volantini e diamo informazioni». L’iniziativa, tenutasi a Siracusa, lungo piazza Minerva dalle 10 alle 18 è stata organizzata dai Carabinieri del Comando Provinciale di Siracusa ed era diretta ad alunne e alunni delle scuole siracusane. Ancora una volta, come già segnalato in molte altre occasioni, equipaggi di auto e moto dei diversi reparti dell’Arma con stand e materiale informativo, sono stati messi in “mostra” a disposizione della curiosità dei/delle più piccole/i e delle loro famiglie. Durante lo spazio espositivo le scolaresche intervenute hanno avuto modo di porre domande ai militari, fare disegni e approfondire l’importanza di mantenere comportamenti responsabili e rispettosi, sia nella vita reale che nella sfera virtuale. «È importante che bambini e ragazzi comprendano il valore delle regole e della legalità sin da piccoli» ha dichiarato la tenente colonnello Sara Pini dei Carabinieri. Ed è proprio riprendendo queste parole che come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole delle università ci interroghiamo: per quale oscuro motivo la promozione degli stessi principi di legalità e rispetto delle regole non possa essere veicolata alle scolaresche, anziché da personale in divisa, da parte dei e delle docenti all’interno della scuola? Ci chiediamo ancora: quale valore educativo e didattico rivestano tali manifestazioni agli occhi di studentesse e studenti di ogni ordine e grado se non quello di esaltare valori militareschi, improntati sulla repressione dei reati e spesso anche del dissenso, anche contro gli studenti stessi, come la cronaca recente e passata ci ha tristemente raccontato?! Ad un’attenta analisi la risposta appare evidente, perché al di la della sbandierata “cultura della legalità” e il rispetto delle regole (cosa peraltro che ogni adulta e adulto responsabile dovrebbe fare), come confermano i militari stessi impegnati in questi progetti per “rafforzare il legame tra l’Arma e i cittadini, soprattutto i più giovani» a nostro parere questo significa incentivare l’idea di un futuro in divisa a bambini e bambine, ragazze e ragazzi. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole delle università, Siracusa
Attivisti dell’Osservatorio identificati in caserma per azione nonviolenta presso nave Amerigo Vespucci: la repressione avanza
Stamattina, 31 maggio 2025, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, nelle persone di Stefano Bertoldi e Giuseppe Curcio, si è presentato a bordo della nave Amerigo Vespucci e ha fatto un’azione assolutamente nonviolenta alla quale nessun tipo di reato era ascrivibile. Questa azione è stata fatta semplicemente con uno striscione portato in mano, non mostrato da subito, ma soltanto quando si è saliti a bordo. Gli attivisti dell’Osservatorio hanno sostanzialmente informato i presenti del motivo per cui siamo contrari alla militarizzazione delle scuole e delle università e che l’Amerigo Vespucci è uno degli strumenti principali di propaganda, soprattutto tra i giovani, infatti sono stati veramente tanti i giovani saliti a bordo in questa giornata di sabato. Ciò è accaduto mentre a Roma è in corso la manifestazione che esprime il proprio profondo dissenso al decreto sicurezza e oggi gli attivisti dell’Osservatorio sono stati testimoni proprio di quanto sia repressivo il sistema in cui siamo inseriti, infatti Bertoldi e Curcio sono stati trattenuti inutilmente per oltre due ore, pur essendo stati identificati e avendo constatato già da subito che non c’era nessun tipo di reato ascrivibile. Alla fine i due attivisti sono stati gentilmente invitati a uscire, ma solo dopo un’attesa lunghissima, durante la quale uno dei militari in sala d’aspetto ha comunicato loro di essere sottoposti a fermo di polizia, cosa che l’ufficiale più alto in grado, che ha consegnato i verbali, ha assolutamente negato trattarsi di qualcosa di simile ad un fermo. Oggi l’Osservatorio ha toccato con mano che cosa significhi alzare il tiro della repressione anche al di là della legge: si tratta della messa in atto di un atteggiamento muscolare che si misura in lunghi tempi d’attesa e inutili identificazioni che, peraltro, non sempre sono giustificate, a meno che non sono inerenti a un qualche reato. Nel caso dei due attivisti dell’Osservatorio si è andati ben oltre la dichiarazione delle semplici generalità, infatti essi sono stati caricati da una macchina della polizia e con l’inganno condotti in caserma, ben sapendo che non potevano farlo. Tuttavia, i carabinieri hanno sostenuto che li avrebbero accompagnati alla propria auto, ma essendo quest’ultima vicino alla caserma, i militari si sono poi allungati proprio verso la caserma, dove gli attivisti hanno aspettato due ore inutilmente, senza nemmeno partecipare alle cosiddette indagini, che sono racchiuse in una ventina di righe di un verbale molto sintetico. Per la cronaca sullo striscione c’era scritto «Fuori gli studenti dalla nave scuola. Fuori i militari dalla scuola» con la firma dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università e con una parte finale che era «Stop genocidio», Lo striscione è stato sequestrato dai carabinieri, tuttavia gli attivisti hanno avuto comunque l’opportunità di fare volantinaggio e constatare chi si avvicina a queste iniziative. Certamente c’erano molti studenti e studentesse, tante/i giovani, c’erano delle scuole coinvolte del territorio, perlopiù scuole superiori, ma anche dei gruppi che si riconoscevano perché avevano dei cappellini colorati in età da scuola media inferiore. Gli attivisti dell’Osservatorio hanno di portare il nostro messaggio a bordo dell’Amerigo Vespucci, nave che risale al 1931, quindi in pieno periodo fascista e, nonostante loro dicano che sulla nave non ci siano armi, resta sempre una nave militare. Durante le visite il messaggio che passa è quello di mostrare in maniera positiva quella che è la carriera militare, quindi i giovanissimi vengono avvicinati per cercare in qualche modo di far propaganda per il reclutamento. L’iniziativa nonviolenta degli attivisti dell’Osservatorio messa in atto questa mattina è stata finalizzata ad entrare nel terreo dei militari, nel loro ambiente, che è quello appunto della nave scuola Amerigo Vespucci, così come i militari sconfinano quotidianamente nel nostro ambito, quello della scuola. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Processo Spiotta, versioni contrastanti dei carabinieri sulla morte di Mara Cagol
Carabinieri in difficoltà di fronte alla versione ufficiale sulla morte della Cagol, tanti non ricordo, dinieghi e versioni contrastanti. Le difese ribaltano il processo per i fatti della Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze La quarta udienza del nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria per la sparatoria nella quale morì il 5 giugno del 1975 Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate rosse, e rimase mortalmente ferito l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, ha messo in luce profonde contraddizioni e smentite reciproche tra i carabinieri coinvolti. Quattro ex membri del nucleo speciale anti-Br, istituito dal generale Dalla Chiesa nel maggio del 1974, e due carabinieri in congedo delle sezioni territoriali di Canelli e Acqui Terme hanno deposto dando vita a un intreccio di versioni contrastanti, dinieghi imbarazzanti e giravolte. Si è assistito a un vero e proprio “carabinieri contro carabinieri”, senza distinzioni di grado, anzianità o competenze. Il servizio del Tgr Rainews Piemonte https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2025/05/le-drammatiche-testimonianze-di-chi-cera-sfilano-in-aula–135b6a06-3f9f-439a-a1a2-f66cc3e36b8.html Le critiche del generale Sechi L’allora braccio destro del generale Dalla Chiesa ha apertamente criticato l’operato della tenenza di Acqui Terme. Le sue censure si sono concentrate in particolare sull’operato del maresciallo Rocca, il quale, secondo la versione consolidatasi nelle carte giudiziarie, dopo aver racimolato tre uomini si sarebbe lanciato in una azzardata perlustrazione tra ruderi e cascine della zona. Sortita che culminò sul cortile della cascina Spiotta, quando la pattuglia insospettita dalla presenza di due auto e da rumori provenienti all’interno bussò alla porta, innescando (ancora oggi le versioni su su chi abbia esploso i primi colpi sono contrastanti) il sanguinoso conflitto a fuoco. 
Sechi ha spiegato che il nucleo speciale avrebbe agito in tutt’altro modo: accerchiando la zona, controllandola a distanza con uomini camuffati e apparecchi fotografici per identificare gli occupanti, seguirli e catturarli quando sarebbero usciti singolarmente. Solo in seguito, e con tutte le precauzioni del caso, si sarebbe proceduto a un’eventuale irruzione: precauzioni che sarebbero mancate nella “sconsiderata sortita” di Rocca. Il generale Sechi ha negato di aver avuto informazioni, il giorno prima della sparatoria, riguardo a irregolarità nei documenti d’identità usati per l’acquisto della cascina Spiotta. Ha anche negato che qualcuno dei suoi uomini si fosse recato a Canelli, luogo del rapimento di Vallarino Gancia da parte delle Br. Incalzato dalle difese e messo di fronte all’ispezione giudiziale del 20 giugno (con la sua firma in calce insieme a quella del pm titolare dell’indagine) in cui fu trovato un bossolo dell’arma dei carabinieri accanto al corpo della Cagol, documento richiamato dal legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani, Sechi ha detto di non ricordare l’episodio e di non sapere il motivo di quelle ricerche a distanza di 15 giorni: «doveTe chiederlo al pm, non a me» – ha replicato con fare indispettito. “Non ricordo”, dinieghi imbarazzanti e versioni contrapposte Un atteggiamento increscioso quella tenuto dal generale in congedo che tra “non ricordo” e dinieghi aggressivi ha opposto una difesa a riccio. A supportare questa posizione è intervenuta la deposizione del colonnello Seno, suo collega nel nucleo speciale. Sebbene abbia ammesso (smentendo quanto aveva appena detto Sechi) di essersi portato nella caserma di Canelli nel tardo pomeriggio del 4 giugno, dopo l’arresto di Massimo Maraschi sospettato di essere coinvolto nel rapimento, ha ostinatamente sconfessato le affermazioni del suo sottoposto dell’epoca, il vicebrigadiere Bosso. Quest’ultimo, invece, ha ricostruito in modo dettagliato la sequenza logica dei loro movimenti sul posto: l’arrivo nella caserma di Canelli per interrogare Maraschi già all’attenzione del nucleo speciale, il sopraggiungere della notizia che nella zona di Acqui Terme era stato rinvenuto il furgone abbandonato dai rapitori di Gancia nel primo tratto di fuga, lo spostamento nella caserma di Acqui dove apprese di una indagine catastale di circa 15 giorni prima che aveva rilevato la natura fittizia dei documenti d’identità usati per l’acquisto della Spiotta. Si trattava di una tecnica d’indagine adottata dagli uomini di Dalla Chiesa per smantellare la logistica brigatista. La cerimonia che interruppe l’indagine Bosso ha descritto con nitidezza la cartellina gialla dove erano riposti i fogli dell’indagine. Ha poi spiegato che, ricevuta l’informazione, con un carabiniere del posto (Lucio Prati) si recò subito a effettuare una perlustrazione a distanza della Spiotta, osservandola da un’altra cascina a circa 200 metri, per poi rientrare a Canelli in tarda serata, interrogare Maraschi “fino a estenuarlo” e tornare a Torino nella notte. Seno ha negato che tutto ciò sia avvenuto, sostenendo che Bosso si fosse confuso con il giorno successivo. Tuttavia, di fronte alla contestazione dell’avvocato di Moretti, Francesco Romeo, riguardo l’inutilità di un sopralluogo la sera successiva, a sparatoria avvenuta e morti sul terreno, Seno è rimasto in silenzio. A questo punto è emersa un ulteriore sconcertante circostanza: secondo Bosso, dal comando centrale di Torino sarebbe giunta l’indicazione di sospendere l’indagine e rientrare, perché il mattino successivo era prevista una cerimonia per la festa dell’Arma, durante la quale diversi membri del nucleo (che avevano partecipato all’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974) dovevano essere premiati. L’attività operativa sarebbe ripresa nel pomeriggio del 5. Questa circostanza, concordata tra il maresciallo Rocca e il colonnello Seno secondo Bosso, è stata negata da Seno. Il confronto negato e i punti fermi emersi dall’udienza I pubblici ministeri, che non hanno lesinato domande per appurare i fatti, hanno chiesto un confronto tra Seno e Bosso, ritenendo che uno dei due stesse mentendo o non ricordando correttamente. La corte, tuttavia, ha respinto la richiesta, ritenendola superflua. Una decisione che non aiuta la chiarezza ma sembra voler tutelare l’apparato. 
La mattina successiva è avvenuto il fatto drammatico con l’improvvida decisione di Rocca che, all’insaputa del Nucleo, ha deciso di partire con una sua pattuglia alla volta della Spiotta per condurre un’ispezione culminata nello scontro a fuoco. I membri del nucleo speciale, secondo le testimonianze in aula di Bosso e Pedini Boni, altro ex carabiniere del nucleo speciale, sarebbero giunti sul posto solo nel primo pomeriggio, a disastro avvenuto. Le testimonianze non hanno chiarito l’esistenza di una scala gerarchica tra nucleo speciale e sezioni territoriali in caso di indagini per terrorismo, lasciando irrisolto chi dovesse prendere in mano le operazioni e stabilire tempi e modi dell’inchiesta. Il capitano Aragno (caserma di Canelli) e il vicebrigadiere Villani (polizia giudiziaria della procura di Acqui) hanno risposto che le indagini erano state subito prese in carico dal nucleo speciale, alimentando un infinito “scaricabarile”. Nonostante ciò, l’udienza ha fissato dei punti fermi importanti: si è compreso che il vero arcano della vicenda ruota attorno alle circostanze dell’uccisione di Margherita Cagol. Le dichiarazioni del carabiniere Villani sulle perplessità del medico che condusse l’autopsia riguardo alla versione ufficiale della sua morte, i dubbi e le domande poste all’appuntato Barberis (che disse di averle sparato a distanza mentre evitava la Srcm lanciata da Azzolini) e l’incredulità degli altri colleghi rispetto a questo racconto, hanno ulteriormente incrinato la versione data per vera sulla sua morte. Chi è dalla parte della verità? I punti oscuri, le reticenze, i silenzi, le indagini carenti (i bossoli esplosi dai carabinieri scomparsi e le loro armi mai periziate), e il silenziamento della vicenda, inducono a pensare che l’atteggiamento tenuto dai diversi corpi dell’Arma sia stata la diretta conseguenza delle modalità con cui venne uccisa la Cagol. Con le sue dichiarazioni il brigatista Azzolini ha riempito uno dei tasselli mancanti di quella giornata, compiendo un passo chiarificatore verso la verità. A distanza di 50 anni i carabinieri sollevano ancora cortine fumogene, fuggendo le loro responsabilità. A cosa serve questo processo, a comminare i soliti ergastoli ai brigatisti, colpevoli a priori, o a cercare la verità fino in fondo sull’accaduto? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Prove fatte sparire per coprire la verità sull’omicidio di Mara Cagol
Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso di Paolo Persichetti da Insorgenze Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere» di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito scomparso dall’indagine. La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto meno conosciute ed applicate». I bossoli scomparsi Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso. Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone. In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…) Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era sentito». Un vuoto di mezz’ora
 Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo? Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad ora non hanno ricostruito questi momenti. Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili. L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi. Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra». Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per giunta in un’area ispezionabile. Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma sembra un po’ tardi per lamentarsene). La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il vero arcano del nuovo processo in corso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp