Tag - bullismo

Repressione e insulti a scuola verso un attivista dell’Osservatorio contro la militarizzazione
Quando due anni fa in una scuola del litorale romano un docente-attivista dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università girò per i corridoi incuriosendo soprattutto gli/le student3, lo slogan portato dal “docente-sandwich” era: «Fuori i militari dalla scuola, non farti fregare: anche dietro una scrivania sarai sempre un militare». In quell’occasione riuscimmo ad evitare l’assurdo incontro cosiddetto di orientamento che avrebbe visto entrare in azione con tutta la loro potenza di fuoco gli artiglieri di Bracciano. Bisogna però sempre mantenere alta l’attenzione per gli interventi meno appariscenti, ma direttamente riconducibili alla mobilitazione contro la cosiddetta e attualissima “guerra ibrida”. Tali interventi vengono giustificati dalla presenza di questa guerra impalpabile a suon di algoritmi o di articoli tendenziosi volti a contrastare le fake-news del “nemico” di turno, oggi la Russia e la Cina, domani chissà; poggiano anche sul contrasto al cyberbullismo, come se il bullismo fosse un fenomeno in cui la rete e i social sono presentati come il fulcro del problema, il medium che diventa il messaggio. Su questo aspetto il 17 novembre 2025, in occasione della discussione in seno all’ultima riunione del Consiglio Supremo di Sicurezza (clicca qui per l’articolo) sulle strategie per il contrasto alla guerra ibrida il ministro Crosetto  ha proposto una task-force dedicata di 5mila unità. Passati due anni sempre nella stessa scuola, pochi giorni fa, una pantera della Polizia di Stato parcheggiata davanti all’ingresso segnalava la presenza di agenti di PS all’interno. Due poliziotti in divisa e armati, infatti, parlavano di bullismo e cyber-bullismo, due vecchi cavalli da battaglia (è il caso di dirlo!) che da anni infestano le menti de3 nostri ragazz3,  che in mancanza di una formazione adeguata da parte di psicologi, sociologi, responsabili di case di accoglienza o studiosi del fenomeno, in una fase per definizione fragile, possono essere attratti più dalla figura rassicurante in divisa, con pistola nella fondina che da quella dello/a psicologo/a. Tutto ciò senza contare il percorso di vittimizzazione secondaria fatta di udienze nei tribunali, colloqui con testimoni, poliziotti/e avvocati, lo “sbatti il mostro in prima pagina” dei mass-media che sguazzano in questo brodo di cultura panpenalista e repressivo. Forte di questo retroterra di studi e di impegno sincero in vista di una smilitarizzazione almeno dei processi di apprendimento, l’attivista entra per andare a salutare e chiedere al collega che aveva portato la propria classe davanti ai poliziotti se non ci fossero proprio alternative alla figura impropria di un poliziotto che parla di questi temi. La domanda però non ha raggiunto il destinatario, ma è stata rivolta in extremis a tutta la platea e ai due poliziotti, perché il responsabile del progetto di cosiddetto “orientamento” lo ha immediatamente apostrofato in pubblico con un “Sei un imbecille, questo è il MIO progetto!” In una situazione di sano conflitto e di sana dialettica, la situazione si sarebbe raffreddata velocemente, ma forse la presenza dei poliziotti ha dato coraggio al collega violento che urlava come un ossesso davanti gli studenti e alle studentesse. I poliziotti sono quindi intervenuti nel solo modo che conoscono, anche a “casa” d’altri, dove solo la preside avrebbe titolo a intervenire, ovvero col solito braccio intorno alla spalla del docente contrario alla loro presenza, con una leggera pressione in direzione della porta, a mo’ di semplice avvertimento di stampo paternalistico. Il docente si allontana, ma inaspettatamente si affaccia dalla finestra al piano terra e tra le risate festose di tutta la giovane platea, lancia un messaggio incentrato sul rispetto della persona e contemporaneamente di un collega insegnante come lui, nella stessa scuola: “Comunque imbecille non si dice!”. Questo semplice episodio di disobbedienza civile nonviolenta forse un risultato lo ha ottenuto: una sorta di dissonanza cognitiva in tutta la platea presente, tutta avvolta da un clima silenzioso di apparente concentrazione, complice la presenza delle divise armate, il loro tono paternalistico ed assertivo dei due relatori e i docenti in piedi in stile panopticon. L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università più volte ha stigmatizzato queste presenze inopportune, soprattutto in un momento storico come quello attuale, ma oltre al concetto di dissonanza cognitiva applicato all’attivismo sul campo, questo esempio ci riporta dritti dritti al concetto ormai storico di McLuhan, secondo cui il medium è il messaggio: prossemica[1], tono della voce, setting dell’aula, modalità comunicative in un andirivieni di toni, ora paternalistici, ora seduttivi, ora assertivi e autoritari, si adattano alla perfezione a gran parte di questi interventi quando si è avuto modo di assistere come osservatori non partecipanti. Gli strumenti, quindi, ci sono anche dal punto di vista didattico e delle tecniche di comunicazione. Basta solo tenere gli occhi aperti e provare un pizzico di voglia di sperimentarsi sul campo! [1] La scienza che studia lo spazio o le distanze come fatto comunicativo; lo studio, cioè, sul piano psicologico, dei possibili significati delle distanze materiali che l’uomo tende a interporre tra sé e gli altri.   Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Kickboxing nelle scuole: riflessioni su bullismo e violenza
Presentare su Orizzonte Scuola (clicca qui per la notizia), seguitissimo media online, tanto da essere spesso confuso addirittura con l’ufficio stampa del MIM, le arti marziali nelle scuole contro bullismo e violenza come “la proposta innovativa di Forza Italia” è sconcertante: ci sembra oltre che un errore lessicale, in quanto la dinamica muscolare “azione-reazione” è vecchia quanto l’homo “sapiens”, anche un errore concettuale e pedagogico. Come si fa a proporre la kickboxing a Scuola, luogo di esercizio della parola, del confronto pacifico per dirimere il conflitto, come occasione per crescere e produrre pensiero critico e non come “malattia”, come idea innovativa? Altro errore da parte del collega giornalista, probabilmente dovuto ad una certa ignoranza in materia di educazione fisica e, appunto, di discipline o arti marziali, è confondere la “disciplina” con la capacità di obbedire! Altro errore è annoverare la kickboxing tra le arti marziali addirittura “millenarie”: sebbene alcune figure e posizionamenti nel combattimento derivino da arti marziali antiche la kickboxing è una versione molto violenta che trae origine da un passato relativamente recente, nel Giappone degli anni ’60, non a caso proprio quegli anni in cui il paese orientale dopo la sconfitta e la tragedia di Hiroshima e Nagasaki iniziarono ad avvicinarsi quasi da paese colonizzato, agli USA e al lato oscuro della loro cultura capitalistica di stampo anglosassone, basata notoriamente sulla sopraffazione, colonialismo di insediamento e non ultimo il genocidio. Si stimano, infatti, tra i 50 e i 60 milioni, i nativi americani uccisi in vari modi nel corso dei secoli e svariati milioni in Nordamerica, patria anche delle famigerate scuole-lager residenziali, dalla nascita degli USA. Il fenomeno del bullismo è uno di quei cavalli di battaglia dei propugnatori di una visione sicuritaria e poliziesca di un fenomeno che spesso, a torto, viene indicato come una delle emergenze principali della Scuola; peraltro, a volte seguire questa tendenza nordamericana, si rischierà di dover discutere in futuro anche di metal-detector e guardie giurate. Più di una volta l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ha stigmatizzato la presenza delle Forze dell’Ordine a scuola, in particolare la Polizia Postale, che, affrontano il tema sul versante del cyberbullismo sempre in un’ottica repressiva o fintamente preventiva, afferma “chiama il numero verde! Non sei sol3! Denuncia la violenza che hai subito, ti assisteremo noi con i nostri avvocati!”. Questo è, in sintesi, il messaggio lanciato nelle classi scolastiche, per esempio, dal progetto Bulli-Stop. Puntando sulla parte emotiva del cosiddetto “Teatro pedagogico” in cui giovani attori simulano, di fronte agli studenti e alle studentesse, situazioni del loro passato in quanto vittime di bullismo, i giovani vengono stimolati, appunto, a denunciare e ad incamminarsi in un percorso giudiziario quasi fosse un riscatto costruttivo per la crescita della persona. Come nel caso della violenza di genere, oltre al fatto che il tribunale non risolve mai nulla, si sottovaluta la vittimizzazione secondaria causata da una cronaca giornalistica scandalistica e da processi giudiziari sempre troppo lunghi. Come nel caso della Ginnastica Dinamica Militare Italiana (GDMI) secondo un approccio pedagogico distorto, secondo Forza Italia è lecito passare direttamente a “menare le mani”! Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e della università.
Quanti Paolo ancora? Storia di un fallimento collettivo
«Ogni bambino che non viene aiutato a essere se stesso diventa un adulto che faticherà a vivere». La morte di Paolo Mendico, il quattordicenne di Santi Cosma e Damiano che il 14 settembre ha deciso di togliersi la vita, rende questa frase terribilmente attuale. Sono passati alcuni giorni e ancora oggi le domande restano senza risposta. La Procura di Cassino ha avviato indagini, l’autopsia è in corso, i dispositivi del ragazzo sono stati sequestrati. Intanto il Ministero ha avviato audizioni nella scuola che frequentava. I familiari parlano di episodi di bullismo e di vessazioni online, che forse hanno scavato nel tempo un solco di dolore. Il fatto è avvenuto a poche ore dall’inizio del nuovo anno scolastico. Per molti ragazzi questo momento coincide con l’entusiasmo di rivedere i compagni, con il desiderio di fare progetti e condividere nuove esperienze. Per altri, invece, può trasformarsi in un passaggio doloroso, carico di ansia, isolamento e paura. È in ciò che non vediamo, nei dettagli che sfuggono al nostro sguardo distratto, che a volte si nasconde il dolore più profondo. Ogni comunità che vive una tragedia simile resta sospesa tra lo sgomento e il senso di colpa. Ci si interroga su ciò che forse non è stato visto, sui segnali che potrebbero essere sfuggiti. Non esistono risposte semplici, ma esiste il dovere di fermarsi e riflettere insieme. Quello di Paolo non è un caso isolato. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo oltre settecentoventimila persone si tolgono la vita ogni anno, e per i giovani tra i quindici e i ventinove anni il suicidio è la terza causa di morte. Anche tra i giovanissimi la realtà è dura: nella fascia dieci–quattordici anni si contano più di ottomila decessi l’anno. In Europa l’UNICEF stima che tre adolescenti al giorno muoiano per suicidio, e ricorda che ansia e depressione costituiscono più della metà dei disturbi mentali giovanili. In Italia l’ISTAT registra quasi quattromila suicidi nel 2021, con un aumento del sedici per cento tra i quindici e i trentaquattro anni rispetto al 2020. Questi dati non possono essere letti di fretta, come fossero solo statistiche. È importante leggerli con attenzione e soffermarcisi con il pensiero, perché sono gli unici che ci restituiscono la dimensione reale delle cose. Dietro ogni cifra ci sono volti, storie, famiglie, comunità. Solo se partiamo da qui possiamo comprendere la gravità del problema e la necessità di agire. La scuola, che dovrebbe essere il luogo dove crescere e sentirsi accolti, diventa a volte anche lo spazio dove emergono dinamiche di esclusione e bullismo. Non è per mancanza di volontà o negligenza degli insegnanti, ma perché troppo spesso mancano strumenti, tempo e formazione. Non si può lasciare la valutazione del disagio adolescenziale alla sola sensibilità individuale, anche quando a doverlo affrontare sono operatori dell’istruzione di grande dedizione. La scuola deve essere messa nelle condizioni di operare con competenze adeguate, supportata da figure professionali formate e da percorsi che rendano la prevenzione parte integrante della vita scolastica. Un altro nodo cruciale è la salute mentale. È stato avviato un piano per portare lo psicologo nelle scuole, ma la presenza resta frammentaria, legata a progetti temporanei. Un ragazzo che soffre non può aspettare: ha bisogno di un punto di ascolto stabile, di un adulto formato, di una porta aperta sempre. Il disagio adolescenziale non è soltanto un dramma privato, ma una ferita sociale. È il segno che la comunità non è stata capace di proteggere i suoi membri più vulnerabili. Non possiamo pensare che sia un problema della sola scuola, o della sola famiglia. È una responsabilità che riguarda tutti: istituzioni, operatori sanitari, associazioni, media. Servono strumenti concreti, serve formare genitori e docenti a riconoscere i segnali di disagio, serve coinvolgere i ragazzi stessi e dare loro la possibilità di diventare parte di una rete di sostegno. La storia di Paolo non deve restare un titolo di cronaca. È un appello che chiede a tutti noi di guardare oltre le statistiche e imparare a prenderci cura, ogni giorno, delle fragilità che attraversano le nostre comunità. Se hai bisogno di aiuto 114 – Emergenza Infanzia (h24, gratuito) Telefono Azzurro 1.96.96 (h24, anche chat e app) Telefono Amico Italia 02 2327 2327 (tutti i giorni 9–24) — WhatsApp 324 011 7252 (18–21) In caso di emergenza: 112 -------------------------------------------------------------------------------- FONTI * OMS – Suicidio nel mondo (2025): https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/suicide * http://UNICEF Europe – On My Mind (salute mentale adolescenti): https://www.unicef.org/eca/reports/my-mind * http://ISTAT – Cause di morte 2021 (Italia): https://www.istat.it/it/archivio/cause-di-morte Lucia Montanaro
Bullismo e cyberbullismo nei rapporti tra i ragazzi
Le relazioni tra i ragazzi possono essere difficili e non di rado i rapporti risultano caratterizzati da interazioni tra una “vittima” e uno o più “prepotenti”. Si tratta del cosiddetto fenomeno del bullismo, dove la prevaricazione dell’uno, o dei più, sull’altro avviene in maniera intenzionale e persistente nel tempo attraverso atti aggressivi di natura fisica e/o verbale e/o psicologica. L’indagine “Bambini e ragazzi: comportamenti, atteggiamenti e progetti futuri”, condotta dall’ISTAT nel 2023, i cui risultati sono stati resi noti nei giorni scorsi, ha raccolto informazioni sui comportamenti offensivi e aggressivi tra i ragazzi, coinvolgendo un campione di 39.214 individui, rappresentativo dei 5 milioni e 140mila ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 19 anni residenti in Italia. Il 68,5% dei ragazzi 11-19enni dichiara di aver subìto, nei 12 mesi precedenti, un qualche episodio offensivo, aggressivo, diffamatorio o di esclusione sia online che offline. Ad avere subìto questi atti più volte al mese è il 21% dei ragazzi; inoltre, per circa l’8% la frequenza è stata quanto meno settimanale. I maschi dichiarano di aver subìto atti di bullismo più delle femmine (21,5% contro 20,5%). La cadenza più che mensile degli eventi vessatori subìti si riscontra soprattutto tra i giovanissimi (ne è stato vittima il 23,7% degli 11-13enni) piuttosto che tra i 14-19enni (19,8%). I ragazzi residenti nel Mezzogiorno che dichiarano di non aver mai subìto, nell’anno precedente, comportamenti offensivi, non rispettosi e/o violenti è più alta rispetto ai ragazzi del Nord-ovest (il 33,5% contro il 29%). Specularmente, spostando l’attenzione su quanti hanno subìto episodi di bullismo, sono le regioni del Nord a presentare le quote maggiori di ragazzi che denunciano di aver subìto una qualche forma di atto vessatorio in maniera continuativa, ossia più volte al mese. Nel dettaglio: gli atti di bullismo hanno interessato il 22,1% dei ragazzi del Nord-est, il 21,6% di quelli del Nord-ovest e il 21% di quelli del Centro; più contenuta la quota tra i giovani residenti nel Mezzogiorno (20%). I maschi sono di solito offesi e insultati, le femmine, invece, sono escluse. Le azioni vessatorie sono tradizionalmente classificate in “dirette” e “indirette”. Il bullismo diretto è caratterizzato da un attacco frontale del bullo verso la vittima; in quello indiretto le azioni vessatorie non sono invece visibili, venendo meno il contatto tra i soggetti. All’interno di questa prima suddivisione è possibile individuare due ulteriori sottocategorie, l’una riferita agli attacchi “verbali”, l’altra agli attacchi “fisici”. Le azioni dirette possono così consistere in “offese” o “minacce/aggressioni fisiche” volte a svilire la vittima provocando in essa sofferenza e vergogna, mentre le azioni indirette sono volte a “diffamare” con pettegolezzi e calunnie o a “escludere” la vittima dal gruppo dei pari. “Di fatto, sottolinea l’ISTAT, sono le azioni dirette, nella forma delle offese e degli insulti, ad essere denunciate più frequentemente dagli 11-19enni. Più della metà dei ragazzi (55,7%) si è sentita, almeno una volta, offesa o insultata nell’anno precedente mentre le minacce e le aggressioni hanno riguardato circa 11 ragazzi su 100. Tra le forme indirette spicca l’esclusione/emarginazione che è avvertita almeno una volta dal 43% dei giovani; la diffamazione ha riguardato, invece, quasi un ragazzo su quattro”. Per quanto riguarda la ripetitività degli atti, le offese e gli insulti sono avvenuti con cadenza più che mensile per oltre il 14% degli 11-19enni, mentre l’esclusione ha coinvolto con frequenza quotidiana oltre un giovane su 10. I maschi vittime di offese continue sono il 16% (contro il 12,3% riscontrato tra le ragazze), mentre le 11-19enni ripetutamente escluse durante l’anno sono il 12,2% (i ragazzi lo sono nell’8,5% dei casi). Il confronto tra gli 11-13enni e i 14-19enni evidenzia altre peculiarità: i primi subiscono maggiormente forme vessatorie di tipo verbale, come le offese e gli insulti sperimentati almeno una volta nell’anno dal 58% di questo collettivo o la diffamazione da oltre uno su quattro. Viceversa, i 14-19enni risultano afflitti soprattutto dai comportamenti di natura fisica: minacce e aggressioni raggiungono l’11,2% del collettivo (contro il 10% riscontrato tra gli 11-13enni), mentre atteggiamenti di esclusione colpiscono una quota del 43,4% (contro il 42,3% tra gli 11-13enni). Relativamente al cyberbullismo, per il 9% dei maschi l’oltraggio online è ripetuto nel tempo. L’essere connessi oggi rappresenta un’esperienza connaturata alla quotidianità e gli adolescenti sono i maggiori fruitori di questa tecnologia: oltre il 90% dei giovani 11-19enni ha dichiarato di trascorrere almeno un paio di ore al giorno su internet. Il cyberbullismo è una particolare forma di bullismo che si avvale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (invio di messaggi offensivi, insulti o di foto umilianti tramite sms, e-mail, chat o social network) per molestare una persona per un periodo più o meno lungo. Un aspetto che differenzia il cyberbullismo dal bullismo offline (cioè in presenza) consiste nell’assenza, nel momento in cui avviene l’oltraggio, di un contatto faccia a faccia tra vittima e aggressore. Tuttavia, non si può escludere che gli atti oltraggiosi online precedano, o siano preceduti, da quelli offline. L’Istat certifica come il 30,1% degli 11-19enni abbia dichiarato di aver subìto atti vessatori sia offline sia online. Ad essere stato vittima di atti esclusivamente online è il 3,8% dei ragazzi. Da ciò deriva che i ragazzi che hanno dichiarato di aver subìto, nel corso del 2023, un qualche comportamento oltraggioso online ammontano a circa il 34%: decisamente più i maschi che le femmine, con una differenza di 7 punti percentuali. “I dati sul bullismo e il cyberbullismo tra i giovani presentati da ISTAT presentano un fenomeno allarmante, ma parziale. La rilevazione, infatti, si riferisce al 2023, ma è evidente che sono in fortissimo aumento tutte le forme di cyberbullismo e di violenza digitale in rete. Tutto questo, rende lo scenario molto più complicato rispetto a quello analizzato dal report, dal momento che si assiste ad un forte spostamento del fenomeno sul digitale, ha dichiarato Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro. Occorre considerare che molto dipende dalle capacità di rilevazione che vengono attivate. Ci sono contesti, infatti, dove la paura di segnalare episodi di bullismo è ancora molto alta. Di conseguenza esistono fenomeni sommersi e nascosti che fanno fatica a trovare riscontro nei numeri”. Le segnalazioni arrivate alla linea d’ascolto del 114– Emergenza Infanzia, il servizio di pubblica utilità istituto e promosso dal Dipartimento per le Politiche della Famiglia – Presidenza del Consiglio dei Ministri e gestito da Telefono Azzurro, evidenziano infatti come soltanto nel 2024, siano stati gestiti ben 104 casi di bullismo e 14 casi di cyberbullismo. Tra i minori coinvolti i più piccoli avevano soltanto 5 anni, con una maggioranza di richieste d’aiuto arrivate dal Lazio, Toscana, Sicilia e Veneto. Qui il Report: Bullismo-e-cyberbullismo-nei-rapporti-tra-i-ragazzi.   Giovanni Caprio
Bullismo, cyberbullismo e violenza di genere, Carabinieri in cattedra a Pachino(SR)
Bullismo, cyberbullismo, uso inconsapevole e imprudente dei social network e i rischi connessi alla pubblicazione di foto e dati sensibili, questi alcuni dei temi affrontati mercoledì 9 aprile scorso con studentesse e studenti delle seconde e terze classi dell’I.S. “M. Bartolo” e delle classi quinte della Scuola Primaria Verga “S. Mallia” di Pachino (SR), in cattedra i Carabinieri della Stazione di Pachino(SR) che hanno completato la “speciale lezione” accompagnando gli alunni e alunne delle scuole primarie a conoscere e salire bordo delle gazzelle in dotazione all’Arma “e provare le diverse strumentazioni di cui sono dotate”. Oltre al bullismo e cyberbullismo con studentesse e studenti di Pachino si è inoltre affrontato il tema della violenza di genere focalizzato con la distribuzione di un “Violenzametro”, “..un segnalibro realizzato dall’Arma dei Carabinieri per stimolare e diffondere una maggiore consapevolezza sui segnali di rischio e sui comportamenti che possano nascondere i sintomi di una relazione tossica”. Ancora una volta accogliamo una delle numerose segnalazioni giunte da tutta Italia in merito ad attività svolte da militari all’interno delle scuole di ogni ordine e grado, personale in divisa che sostituisce gli e le insegnanti e in molti casi anche altri esperte/i esterni in discipline specifiche quali l’ambito medico, psicologico, pedagogico, legale, o di prima accoglienza come il personale dei centri antiviolenza. Anche in questo caso, come già accaduto in molte altre iniziative organizzate e proposte a scuola con le medesime modalità ci chiediamo quale possa essere il valore aggiunto di un approccio prettamente e formalmente di tipo repressivo, quale è senza dubbio quello fornito da personale militare o delle forze dell’ordine su tematiche così delicate. D’altra parte appare ormai acclarato, studi scientifici lo confermano, che il contrasto a fenomeni come bullismo, cyberbullismo e violenza di genere ma anche l’educazione ad un uso più consapevole della dimensione on line nella nostra vita debbano essere compresi ed affrontati fornendo a ragazze e ragazzi non soltanto nozioni tecniche e statistiche ma chiavi di lettura decisamente più centrate sull’essere umano e sul riconoscimento di sentimenti, pulsioni, stati d’animo che tali accadimenti sono destinati a scatenare. In altre parole un lavoro di sensibilizzazione e prevenzione che parta dagli effetti, troppo spesso deleteri, generati da situazioni di abuso e violenza di ogni tipo, in ambito virtuale così come nella vita reale, per avviare nelle nuove generazioni un necessario cambiamento culturale. Nella fattispecie l’incontro in questione si inquadra nell’ambito del progetto di diffusione della cultura della legalità tra i giovani, promosso dal Comando Generale dell’Arma in collaborazione con il MIUR.Un legame sin troppo stretto e, come dicevamo, dal dubbio valore didattico quello tra i due dicasteri (Istruzione e Difesa), pesantemente stigmatizzato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università che da tre anni a questa parte raccoglie e denuncia, facendole emergere, le centinaia di segnalazioni pervenute su innumerevoli modalità di propaganda militarista diffusa nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado e nelle università italiane. Parliamo di protocolli d’intesa tra uffici scolastici provinciali, regionali e forze armate o forze dell’ordine, corsi di formazione di ogni tipo e sui temi più disparati tenuti da personale militare, merchandising con gadgets militari ed infine ma non ultime per pervasività, offerte formative per ragazze e ragazzi delle superiori di orientamento alla carriera militare. Ad accomunare tutte queste attività, come dimostra l’evoluzione dei conflitti di ogni epoca, il tentativo di normalizzazione e diffusione di una “cultura della difesa” secondo la quale l’altro da se viene visto non come risorsa ma come nemico di cui diffidare e persino temere, peggio ancora se straniero. È veramente questo il messaggio che vogliamo infondere nei futuri cittadini e cittadine del nostro Paese? Un messaggio dedito alla ricerca della performance a tutti i costi, in un ambiente che seleziona le menti più brillanti lasciando indietro chi non regge il passo, privilegiando la competizione fine a se stessa? La nostra risposta è un secco NO. Ribadiamo con forza il valore educativo-formativo della scuola, non solo come fornitrice di contenuti/competenze ma come agente di cambiamento nella crescita culturale e sociale di chi la frequenta, un cambiamento orientato alla formazione di menti critiche e divergenti, in un ambiente che non lasci indietro nessun3 e che si orienti verso valori di pace e non violenza.