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Il più grande nemico dell’Europa
Giorgia Meloni è stata intervistata da Enrico Mentana al TG LA7, nel contesto di un confronto a distanza con Elly Schlein, che era stata intervistata il giorno precedente. Meloni rifiuta il confronto diretto con la segretaria del Partito democratico, sostenendo che lei si confronterà soltanto quando le opposizioni avranno una leadership unitaria — una posizione ironica per la presidente del Consiglio espressa da una coalizione che alle scorse elezioni aveva come accordo di leadership tra Salvini e Meloni vedere chi arriva primo. Durante l’intervista Meloni si è schierata nettamente a favore degli investimenti per la Difesa — che vuole dire schierarsi dalla parte di tagli draconiani su ogni altro aspetto dello stato — dicendo che il riarmo è “un processo inevitabile,” che “chiaramente, ha un costo, un costo economico, e produce una libertà politica.” Parlando del sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione russa, secondo Meloni “la pace non si costruisce con le buone intenzioni,” ma “con la deterrenza” — Mentana caritatevolmente non ha chiesto se la cosa si applica anche alla Striscia di Gaza, quando poco dopo invece Meloni sostiene la necessità del disarmo di Hamas. (TG LA7 / YouTube) Meloni ha minimizzato il rapporto sempre più teso con gli Stati Uniti, sostenendo che non parlerebbe di “un incrinarsi dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa.” La domanda arrivava in seguito alla pubblicazione del National Security Strategy da parte della Casa bianca. L’NSS è un documento che l’amministrazione statunitense stila periodicamente, e che elenca tutte le possibili preoccupazioni per la sicurezza nazionale che interessano Washington, e come la politica statunitense conta di affrontarle. Meloni sostiene di “condividere” alcuni dei giudizi espressi, e parla di un documento “assolutamente condivisibile,” che parla di temi che dagli Stati Uniti arrivano da sempre, “magari con toni più assertivi.” In realtà, nel capitolo sull’Europa dell’NSS, l’amministrazione Trump II parla della regione con, a dir poco, sdegno. Secondo i funzionari autori del documento, l’Europa rischia la “cancellazione della propria civiltà,” al punto da poter perdere il proprio stato di alleato affidabile. Il documento accusa i governi europei di “sovvertire i processi democratici,” compreso sulla volontà popolare di mettere fine alla guerra in Ucraina. Il documento sposa pienamente la teoria del complotto del piano Kalergi, scrivendo che “nel lungo termine, è più che plausibile che entro pochi decenni al massimo, alcuni membri della NATO diventeranno in maggioranza non europei,” e che quindi “è una questione aperta se considereranno il loro posto nel mondo, o la loro alleanza con gli Stati Uniti, allo stesso modo di coloro che hanno firmato la carta della NATO.” (Casa bianca) La pubblicazione del documento sembra aver preso in contropiede le autorità europee — la portavoce della Commissione europea Paula Pinho ha dichiarato di essere a conoscenza della “pubblicazione” del documento, ma che “non aveva avuto tempo di guardarlo,” ma precisando che la Commissione avrebbe “sicuramente” fatto sapere la propria posiziione. L’ex primo ministro svedese Carl Bildt — non esattamente un estremista di sinistra, è stato leader del Partito moderato — ha scritto che il documento mette l’amministrazione Trump “a destra dell’estrema destra europea.” Il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul ha commentato che “analizzerà nel dettaglio” il documento, ma ha commentato seccamente che la Germania “non ha bisogno di consigli esterni,” anche nel contesto degli alleati NATO. Al momento non risultano commenti dal collega italiano di Wadephul, il vicepremier Tajani, che in queste ore è impegnato come podcaster, annunciando il nuovo podcast della Farnesina e ospite della puntata d’esordio del podcast di Forza Italia, che si intitola Forza 4. (POLITICO / X / DW / Adnkronos / YouTube)
Trump, tra guerre e pace
Il presidente statunitense è intervenuto su Truth Social per redarguire Netanyahu in seguito all’attacco delle IDF in Siria della settimana scorsa, in cui sono state uccise 13 persone: “È molto importante che Israele mantenga un dialogo forte e sincero con la Siria e che nulla interferisca con l'evoluzione della Siria verso uno Stato ricco.” In giornata, Trump ha parlato al telefono con Netanyahu, e lo ha invitato di nuovo alla Casa bianca. La Siria ha descritto l’attacco israeliano come un “crimine di guerra.” L’amministrazione Trump II, che è una alleata vicinissima di Tel Aviv, è sempre più frustrata dagli attacchi israeliani. Parlando in condizioni di anonimato con Axios, due funzionari statunitensi si sono lamentati: “Stiamo cercando di dire a Bibi che deve smetterla perché, se continua così, finirà per autodistruggersi.” Secondo una delle due fonti, “Bibi vede fantasmi ovunque.” Non è la prima volta che Axios riporta di grandi frustrazioni a Washington per la condotta del governo Netanyahu VI in Siria. Lo scorso giugno, dopo un attacco violento contro Damasco, un funzionario aveva sospirato: “Bibi si è comportato come un pazzo. Bomba tutto in continuazione. Potrebbe compromettere tutto ciò che Trump sta cercando di fare.” (the New Arab / Associated Press / Axios) Sono altrettanto tesi i rapporti con gli stati europei nel contesto della trattativa per mettere fine alla guerra in Ucraina. Non è un segreto che gli stati europei ritengano che l’accordo originale proposto da Trump favorisse troppo la Russia — fino a poche settimane fa la posizione di pace di Bruxelles e Washington era equivalente a dire che la Russia doveva perdere la guerra. Ora, la diplomazia europea è paralizzata, ancorata a scenari di guerra con la Russia e senza capacità di esercitare influenza con gli Stati Uniti. Parlando con il Financial Times, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone ha dichiarato che la NATO sta valutando di essere “più aggressiva” e condurre azioni di guerra ibrida, di cui le autorità atlantiste accusano da tempo Mosca. Secondo l’ammiraglio finora l’alleanza è stata solo “reattiva,” mentre ora deve decidere di essere “proattiva,” ripetendo l’ormai vecchia teoria che un attacco preventivo possa costituire un’azione difensiva. Mosca ha ovviamente reagito in modo duro alle parole di Dragone: la portavoce del ministero degli Esteri russo Marija Zacharova ha parlato di un “passo estremamente irresponsabile,” e ha mosso un’accusa precisa: “Ci sembra un tentativo specifico di minare gli impegni per superare la crisi in Ucraina.” (Reuters / Financial Times / Reuters) Nel frattempo, un retroscena di Reuters riporta della trattativa tra Caracas e Washington: in una telefonata del 21 novembre, Maduro si sarebbe offerto di lasciare il governo e il paese, in cambio della piena amnistia per sé, i propri familiari, e la revoca delle sanzioni su un centinaio di funzionari venezuelani. Maduro avrebbe indicato che l’attuale vicepresidente Delcy Rodriguez avrebbe potuto guidare un governo a interim dopo le sue dimissioni. Trump avrebbe rifiutato le condizioni di Maduro, dandogli però comunque una settimana di tempo per lasciare il paese — settimana che sarebbe scaduta quando Trump ha scritto quel messaggio di difficile interpretazione sulla “chiusura” dello spazio aereo del paese. A Washington, intanto, continua la controversia sul crimine di guerra compiuto dalla marina statunitense lo scorso 2 settembre, quando sono stati attaccati i naufraghi sopravvissuti di uno degli attacchi condotti dagli Stati Uniti contro le imbarcazioni che sostengono essere di narcotrafficanti. La Casa bianca lunedì è tornata a difendere la legalità dell’operazione, senza però giustificarla in materia — o negare che sia stato condotto il secondo attacco sui sopravvissuti. (Reuters / Associated Press)
Il Piano Usa-Russia per la “pace” in Ucraina, l’ennesima messinscena
La Casa Bianca conferma che il presidente Trump sta lavorando al piano per “la fine della guerra in Ucraina, buono per entrambe le parti”. Il nuovo Piano Usa-Russia per la “pace” in Ucraina, proposto da Donald Trump, si dice sia stato creato da un gruppo di funzionari americani e russi, tra cui l’inviato statunitense Witkoff e l’inviato russo Dmitriev. Si dice che Dmitriev sia soddisfatto dell’accordo, asserendo che Putin probabilmente lo accetterà. Un piano con Mosca che il tycoon ha fatto recapitare dai suoi generali del Pentagono a Kiev, ha dichiarati l’ANSA. E Volodymyr Zelensky, pur non sbilanciandosi sui contenuti dell’iniziativa che appare fortemente penalizzante per gli ucraini, si è detto ‘pronto a collaborare’: ‘Ne parlerò con Trump’, ha detto mentre alcune fonti ucraine bollavano il piano come “assurdo e irricevibile”. Mosca ha affermato di non aver ricevuto alcuna informazione dagli USA attraverso i canali ufficiali sul piano di pace in Ucraina di cui hanno scritto diversi media internazionali. Lo ha detto la portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, al media russo RBC: “se la parte americana avesse una qualsiasi proposta, l’avrebbero comunicata attraverso i canali in uso tra i ministeri degli esteri dei due Paesi”, ma il ministero degli esteri di Mosca “non ha ricevuto niente di simile dal Dipartimento di Stato”. Interessanti anche le dichiarazioni dell’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Kaja Kallas arrivando al Consiglio Affari Esteri, precisando di “non essere a conoscenza” di un coinvolgimento degli europei alla costruzione del piano di pace degli USA. In tutto ciò non si capisce per quale motivo reale a trattare per la pace in Ucraina manchino proprio gli ucraini. Forse è l’ennesima prova – come dichiarato da analisti geopolitici e storici del calibro di Franco Cardini, Luciano Canfora e, all’epoca, Giulietto Chiesa – che la guerra in Ucraina è lo specchio di uno scontro geopolitico ed economico tra Russia e USA. Resta quindi il mistero sulla veridicità del piano di Trump: se sia una proposta seria o un’ennesima messinscena americana. Il famigerato piano Usa-Russia consisterebbe in 28 punti che ieri Axios, che ne aveva rivelato l’esistenza, ha diffuso integralmente. Ecco di seguito i punti focali: * La sovranità dell’Ucraina sarà confermata; * promulgazione di un accordo di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa che metta fine a tutte «le ambiguità degli ultimi trent’anni». * «Ci si aspetta che la Russia non invada Paesi vicini e che la Nato non si espanda ulteriormente».  Comprende «garanzie di sicurezza certe» per l’Ucraina, che però si impegna (punto 7) a scrivere nella Costituzione che non entrerà nella Nato. La quale a sua volta  E ancora: l’esercito di Kiev dovrà essere limitato a 600 mila uomini e caccia europei saranno dislocati in Polonia per proteggere l’Ucraina. * L’Ucraina si ritirerebbe dalle zone di Donetsk e Lugansk ancora controllate dall’Ucraina. Gli ucraini dovrebbero ritirarsi dall’intero Donbass e riconoscere la piena sovranità russa. Il Donbass passerebbe così sotto la sovranità di Mosca, però sarebbe una regione demilitarizzata, dove le truppe russe non potrebbero venire dispiegate. * Le forze russe congeleranno le linee lungo Kherson e Zaporozhye, rinunciando alle rivendicazioni per il resto delle regioni. * Le forze russe si ritireranno da Kharkov e Sumy. * È prevista anche la riapertura della centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata dai russi, la cui energia dovrebbe venire divisa in parti uguali tra Russia e Ucraina. * Il piano stabilisce anche che tutti i prigionieri di guerra e i corpi dei caduti saranno scambiati; tutti i civili detenuti, inclusi i bambini, verranno rilasciati. * L’Ucraina ridurrà il suo esercito a metà dei suoi attuali effettivi. l’esercito di Kiev dovrà essere limitato a 600 mila uomini e caccia europei saranno dislocati in Polonia per proteggere l’Ucraina. * L’Ucraina cederà sull’accesso alle armi a lungo raggio. * Nessuna unità straniera sarà schierata in Ucraina, inclusa la forza di pace della Coalizione dei Volenterosi guidata da Regno Unito e Francia. * L’Ucraina non entrerà in alleanze militari, inclusa la NATO, rimanendo neutrale. * La NATO includerà nei suoi statuti «una disposizione secondo la quale l’Ucraina non sarà ammessa» nell’organizzazione atlantica. * Alla voce «garanzie» il piano spiega: «se l’Ucraina invadesse la Russia perderebbe tutte le garanzie»; se la Russia invadesse l’Ucraina «oltre a una risposta militare coordinata sarebbero ripristinate tutte le sanzioni globali»; se l’Ucraina lanciasse missili verso Mosca o San Pietroburgo senza motivo «le garanzie di sicurezza saranno invalidate». * Kiev si impegna a essere «Stato non nucleare» in accordo con i trattati di non proliferazione. * il rientro della Russia nel G8 e la cancellazione delle sanzioni, con il reintegro di Mosca nell’economia globale. * la Russia non ostacolerà l’uso del fiume Dnipro da parte dell’Ucraina per le attività commerciali e saranno raggiunti accordi per il libero trasporto di grano attraverso il Mar Nero. * All’Ucraina sarà permesso di aderire all’Unione Europea. * La lingua russa sarà riconosciuta come lingua ufficiale in Ucraina, al pari dell’ucraino. * L’Ucraina concederà uno status formale alla Chiesa Ortodossa Ucraina. * Necessità di «denazificare» l’Ucraina dai battaglioni paramilitari d’estrema destra, autori di pulizie etniche contro la popolazione civile del Donbass russofono. * Il punto 25 prevede che in Ucraina si tengano le elezioni «entro cento giorni dalla firma degli accordi». L’accordo sarà «legalmente vincolante» e «la sua attuazione», come previsto da quello su Gaza, «sarà monitorata e garantita dal Consiglio di Pace, guidato da Trump». Una volta che le parti avranno accettato il memorandum e si saranno ritirate «il cessate il fuoco entrerà in vigore». Il piano Trump – sebbene non si capisca chi siano gli attori coinvolti – ha le sembianze di un accordo economico tripartito tra Stati Uniti, Europa e Russia, nel quale vengono utilizzati 100 miliardi di beni russi congelati nelle banche europee, cui si aggiunge una somma simile che dovrebbe arrivare dall’Europa per la ricostruzione dell’Ucraina. Il 50% dei proventi dovrebbe andare agli Usa. Altre somme non specificate dei beni russi congelati dovrebbero essere investite in progetti bilaterali tra Washington e Mosca. Lorenzo Poli
Gli USA di Trump aggiungono i movimenti Antifa alla lista delle “organizzazioni terroristiche”
A settembre 2025, Donald Trump ha annunciato l’intenzione di considerare i movimenti “Antifa” come “organizzazioni terroristiche”, collegando l’iniziativa all’omicidio dell’attivista politico di destra Charlie Kirk. Un omicidio che ha ancora delle trame oscure visto che non ci sono prove pubbliche che l’aggressore, Tyler James Robinson, appartenesse a un gruppo Antifa specifico, sebbene sulle cartucce del fucile utilizzato nell’omicidio siano stati trovati slogan e simboli antifascisti. Inoltre, la famiglia di  Robinson è sostenitrice dichiarata del movimento MAGA di Trump, nonostante secondo i suoi familiari Robinson si fosse “orientato verso sinistra”, radicalizzandosi addirittura durante il college. Sta di fatto che l’omicidio politico di Charlie Kirk ha fornito a Trump la perfetta giustificazione per criminalizzare le organizzazioni antifasciste militanti. Per “Antifa” si intende un movimento di sinistra con una struttura decentralizzata che si oppone all’estrema destra, al razzismo, al fascismo e al capitalismo. È stato a lungo oggetto di critiche da parte del Presidente degli Stati Uniti, che lo ha dichiarato un’organizzazione terroristica nonostante l’assenza di un leader o di un’entità formale che ne garantisca le responsabilità. Il 22 settembre 2025, Trump ha firmato un ordine esecutivo che definisce il movimento “Antifa” come “organizzazione terroristica interna“. Trump la considera “un’organizzazione militarista e anarchica che chiede esplicitamente il rovesciamento del governo degli Stati Uniti” e “utilizza mezzi illegali per organizzare e mettere in atto una campagna nazionale di violenza e terrorismo per raggiungere tali obiettivi”. Secondo l’ordine esecutivo, la strategia del movimento per raggiungere i suoi obiettivi politici passa attraverso la coercizione e l’intimidazione, ricorrendo anche ad “attacchi violenti contro l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) e altri agenti delle forze dell’ordine”. Trump ha dichiarato che il movimento “Antifa” interferisce con l’attuazione delle leggi federali “attraverso scontri armati con le forze dell’ordine” e “rivolte organizzate “, diffonde sistematicamente dati personali e intimidazioni contro politici e attivisti, reclutando, addestrando e radicalizzando giovani americani per partecipare ad atti violenti e nascondendo la propria identità e le fonti di finanziamento. In termini pratici, il decreto intende affermare che “tutti i dipartimenti e le agenzie esecutive competenti utilizzeranno tutti i poteri necessari per indagare e smantellare qualsiasi operazione illegale, in particolare quelle che coinvolgono azioni terroristiche, condotta da Antifa ” . “Chiunque affermi di agire per suo conto, o per il quale ‘Antifa’ o chiunque affermi di agire per suo conto abbia fornito supporto materiale, comprese le necessarie azioni investigative e penali contro coloro che finanziano tali operazioni “, ha aggiunto. Nell’ottobre 2025, la rappresentante repubblicana della Georgia Marjorie Taylor Greene ha presentato un disegno di legge per designare il movimento Antifa come “organizzazione terroristica”, in seguito alla decisione dell’ex presidente Donald Trump del 23 settembre di etichettarlo come tale. Nell’ambito della criminalizzazione e persecuzione dei gruppi di sinistra da parte del governo degli Stati Uniti , il Dipartimento di Stato americano si sta preparando a designare quattro gruppi affiliati al movimento Antifa che operano in Europa come “Organizzazioni Terroristiche Straniere (FTO)” e “Terroristi Globali Specificamente Designati (SDGT)”. Dal 1997, l’elenco include principalmente reti estremiste islamiche transnazionali. Tuttavia, nel 2025, l’amministrazione Trump ha aggiunto 19 organizzazioni e si prepara ad aggiungere altri quattro gruppi legati al movimento antifa in Europa , con sede in Germania, Italia e Grecia. Con queste nuove aggiunte, il numero totale di designazioni sale a 23 , il numero annuale più alto dall’introduzione di questa lista. I gruppi che saranno formalmente incorporati sono: Antifa Ost (Germania), Federazione Anarchica Informale/Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI) (Italia), Giustizia Proletaria Armata (Grecia) e Autodifesa della Classe Rivoluzionaria (Grecia). Queste organizzazioni sono state collegate ad attacchi contro strutture statali, aggressioni contro militanti nazionalisti e all’uso di esplosivi, sebbene non mantengano alcuna attività o presenza negli Stati Uniti , secondo i rapporti ufficiali europei. I funzionari statunitensi accusano questi gruppi di orchestrare o partecipare ad atti di violenza motivati politicamente , tra cui attentati , sparatorie e altri attacchi.     L’inserimento nell’elenco delle organizzazioni terroristiche attiverà una serie di misure , tra cui il congelamento dei beni sotto la giurisdizione statunitense , il divieto di ingresso nel territorio statunitense per i membri e la possibilità di perseguire penalmente le persone negli Stati Uniti che forniscono supporto materiale ai gruppi . È la prima volta che Washington attribuisce la qualifica di organizzazione terroristica a organizzazioni Antifa all’estero. L’ampliamento senza precedenti della lista statunitense delle “organizzazioni terroristiche straniere”, includendo gruppi di sinistra europei è una decisione liberticida, antidemocratica e intrusiva negli affari esteri europei, oltre ad essere paradossale: è assurdo mettere sullo stesso piano narcotrafficanti ed attivisti antifascisti. Paradossale e insensata in quanto gli esperti di terrorismo internazionale hanno sottolineato più volte cheche i gruppi Antifa, sia USA sia europei, non hanno commesso atti di violenza premeditati contro i civili né hanno mai minacciato la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. L’inclusione di gruppi europei ha suscitato preoccupazione tra esperti e governi di tutto il continente. L’ex direttore dell’Ufficio di designazione del Dipartimento di Stato, Jason Blazakis, ha spiegato che i gruppi europei selezionati “non hanno avuto una sola vittima associata alle loro azioni“, anche se alcuni sono stati accusati di attacchi contro figure o strutture di gruppi nazionalisti in Europa. La legge statunitense richiede che un’organizzazione designata commetta atti di violenza premeditati contro i civili e costituisca una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Gli esperti avvertono che queste condizioni non sono chiaramente soddisfatte nel caso dei gruppi europei recentemente inclusi.     La designazione delle organizzazioni Antifa in Europa apre la strada a indagini o procedimenti penali nei confronti dei cittadini statunitensi sospettati di avere legami con loro, poiché la legge federale proibisce di fornire supporto materiale a entità designate come terroristiche. Lo specialista Daniel Byman, del Center for Strategic and International Studies, ha affermato che ” la legge è molto potente se esiste un qualsiasi collegamento con un gruppo designato, anche se il sostegno è minimo “.   L’espansione include anche i cartelli latinoamericani , tra cui il cartello di Sinaloa , il Tren de Aragua e, come annunciato dal Segretario di Stato Marco Rubio, il fantasmagorico “Cartel de los Soles” che Washington associa falsamente al governo venezuelano. Questa classificazione, sostiene l’Amministrazione, consentirebbe azioni militari e legali nell’ambito della “lotta al narcoterrorismo”. Da settembre, il Dipartimento della Difesa ha condotto più di 80 operazioni letali , tra cui attacchi a piccole imbarcazioni nel Pacifico e nei Caraibi. I critici del Congresso mettono in dubbio la legalità di queste azioni.   Ulteriori informazioni: https://www.telesurtv.net/trump-nombra-antifa-organizacion-terrorista/ https://www.telesurtv.net/eeuu-grupos-antifa-carteles-terroristas/ https://www.telesurtv.net/eeuu-designara-terroristas-grupos-europeos/   Lorenzo Poli
Zohran Mamdani, quali posizioni su Palestina, Israele e sionismo?
“Rispondiamo all’oligarchia e all’autoritarismo con la forza che temono. Se c’è un modo per terrorizzare un despota è smantellare le condizioni che gli hanno consentito di accumulare potere” –  con queste parole Zohran Mamdani ha festeggiato nella notte italiana la sua elezione a sindaco di New York. Il secondo più giovane della storia, il primo musulmano, e secondo alcuni persino “socialista”, ma è meglio stare cauti prima di dare etichette non veritiere. Vi era molto entusiasmo a sinistra, in Italia, anche su Obama (il “Premio Nobel per la Pace preventivo” che iniziò una serie di guerre imperialiste senza fine), per Joe Biden (che non ha fatto altro che proseguire le politiche neoliberiste e atlantiste di sempre) e per la sua vice-presidente Kamala Harris (che fu una grande operazione di marketing, volto a riqualificare la sua immagine di ex-procuratrice Iron Lady, e di comunicazione politica fine a se stessa che svanì subito dopo l’elezione). Tutti esempi pessimi che possono avere a che fare con la “sinistra neoliberale”, ma non con la sinistra di sempre: quella socialista e anti-sistema che parla di disuguaglianze sociale, giustizia sociale, diritto alla casa, ridistribuzione delle ricchezze e un’altra politica internazionale che “elevi ad interlocutore”, eviti i conflitti e parli il linguaggio del multipolarismo. Detto questo non si possono negare dei fattori importanti. La vittoria di Mamdani è stata netta con il 50% dei voti con un’affluenza record: hanno votato oltre 2 milioni di newyorkesi come non succedeva dal 1969. Scrive OttolinaTV: “Assiste invece incredula la coalizione di gruppi e interessi – dai repubblicani ai democratici più moderati, ai ricchi e potenti di New York – che hanno fatto di tutto per appoggiare il principale rivale, Andrew Cuomo, il politico della potentissima vecchia guardia democratica, che si è fermato al 41,6 per cento dei voti. Al palo sono rimaste anche diverse diverse lobby ebraiche che hanno fatto di tutto per ostacolare Mamdani date le sue posizioni pro-Palestina.” Ha creato molte divisioni, all’interno della popolazione ebraica di New York, la candidatura alla carica di sindaco di Zohran Mamdani, vincitore delle primarie democratiche e noto per le sue “posizioni filo-palestinesi” e “vicine alla sinistra radicale” (almeno così i media mainstream hanno detto). Verso la fine di giugno 2025, un gruppo di circa sei rabbini ortodossi statunitensi ha contattato il membro dell’Assemblea di New York City Micah Lasher per parlare dell’allora presunto candidato democratico alla carica di sindaco della città, Zohran Mamdani. L’appello del 27 giugno era incentrato sulle preoccupazioni che i rabbini e le loro comunità nutrivano nei confronti di un candidato che si era rifiutato di condannare lo slogan filo-palestinese “globalizzare l’intifada” e aveva anche sostenuto il movimento di boicottaggio di Israele. https://www.timesofisrael.com/new-york-reps-endorsement-of-zohran-mamdani-roils-orthodox-rabbis-on-upper-west-side/ “Se il candidato comunista Zohran Mamdani vincesse le elezioni a sindaco di New York è altamente improbabile che io contribuisca con fondi federali, se non per il minimo indispensabile, alla mia amata prima casa, perché, come comunista, questa città un tempo grande ha zero possibilità di successo, o addirittura di sopravvivenza!” – si legge in un vecchio post di Donald Trump, che addirittura definisce Mamdani “comunista” – “Qualsiasi ebreo che vota per Zohran Mamdani, un comprovato e autoproclamato odiatore di ebrei, è una persona stupida!” – ha ri-scritto sempre Trump su X a urne aperte. Un appello rivolto esplicitamente alla comunità ebraica newyorkese, preceduto da quello del console generale di Israele a New York ed ex Ministro del Likud, Ofir Akunis. https://www.today.it/mondo/mamdani-new-york-elezioni-sindaco-trump-ebreo-stupido.html   Il post di Trump su Truth Poche ore prima, infatti, anche il diplomatico israeliano aveva attaccato Mamdani, affermando che rappresenta un “chiaro e immediato pericolo per la comunità ebraica” di New York a causa del suo sostegno alle manifestazioni pro-palestinesi in città. Per Akunis, riporta il quotidiano israeliano Haaretz, l’elezione di Mamdani rappresenterebbe una “minaccia chiara e immediata per le istituzioni ebraiche” e le sinagoghe, la maggior parte delle quali sono sorvegliate dal Dipartimento di polizia di New York. Circa una settimana fa, circa 650 rabbini di tutti gli USA si sono opposti pubblicamente al candidato democratico Zohran Mamdani, esprimendo le loro preoccupazioni in una lettera, in cui hanno condiviso i loro punti di vista sul perché ritengono che il 34enne socialista non sia adatto a diventare il leader di New York City, che ospita la più grande popolazione ebraica al di fuori di Israele. La lettera afferma che la sua elezioni potrebbe portare alla “normalizzazione politica dell’antisionismo”, cosa impossibile in un Paese come gli USA. Firmata da oltre 1.100 rabbini, la lettera cita i rabbini di New York Ammiel Hirsch ed Elliot Cosgrove , che avevano ciascuno pubblicato i propri sermoni e video anti-Zohran, insistendo sul fatto che Mamdani rappresenta “un pericolo per la sicurezza degli ebrei della città” e che “il sionismo è parte integrante dell’identità ebraica”.  https://jewishcurrents.org/the-rabbinic-freak-out-about-zohran-mamdani Secondo un sondaggio di settembre della Quinnipiac University, il 75% degli elettori ebrei aveva un’opinione negativa di Mamdani, e solo il 19% ne aveva un’opinione positiva. Si tratta di una minoranza rumorosa, principalmente di giovani che lo sostengono o perché antisionisti, o perché essendo lui giovane si identificano con lui, o perché non sono particolarmente legati alla comunità. Tuttavia, durante tutta la campagna elettorale, Mamdani si è sempre fatto fotografare con importanti personalità del mondo ebraico americano nel tentativo di scoraggiare gli ebrei che gli si oppongono e indurli a rassegnarsi al fatto che verrà eletto: “Sono onorato di ricevere oggi l’appoggio del rabbino Moshe Indig e dei leader Ahronim a Williamsburg, dove si è unito a noi anche il mio amico Lincoln Restler. Insieme combatteremo la piaga dell’antisemitismo e costruiremo una città che sia adatta a ogni newyorkese” – scrisse Mamdani su Instagram. Non è un caso che durante Sukkot, Mamdani è andato a festeggiare con la comunità dei Satmar (ortodossi antisionisti, ndr). Le polemiche sembrano appartenere solamente all’ala ultraconservatrice del sionismo, dal momento che Jews for Racial and Economic Justice (Jfrej), gruppo progressista della comunità ebraica americana, ha da sempre sostenuto la candidatura di Mamdani: «Zohran è un amico. E’ venuto alla mia sinagoga l’anno scorso, è stato lì per tre o quattro ore, solo ad ascoltare le persone e a parlare con loro ho avuto conversazioni personali con lui. Ed è tutto fuorché un antisemita. Ha promesso di aumentare dell’800% il budget per combattere i crimini d’odio. E ha detto di voler lasciare al suo posto la commissaria di polizia di New York Jessica Tisch (che è ebrea, ndr) nonostante la sua famiglia abbia investito 1.2 milioni di dollari contro di lui». – ha dichiarato, in un breve discorso ai volontari di Jfrej, Abby Stein (1), rabbina figlia di immigrati ebrei da Israele, sottolineando come lei stessa abbia respirato l’antisionismo dei suoi genitori che affonda nelle convinzioni religiose hassidiche. Eppure, è errato definire l’elettorato ebraico di Mamdani come interamente “antisionista”. Secondo la stessa rabbina «Zohran sostiene la Palestina, ma naturalmente questo non fa parte della sua piattaforma politica, il motivo per cui se ne parla è che si continua a interrogarlo senza sosta su questo, come se il suo programma girasse intorno alla Palestina». La comunità ebraica non avrebbe motivo di avere paura in quanto Mamdani ha contato anche sul sostegno dei sionisti liberal-progressisti: «Dalle mie conversazioni con tante persone, direi che almeno metà degli ebrei che lo sostengono si definiscono sionisti progressisti o liberali. Per esempio Brad Lander (2). Molti di loro condividono la sua posizione su Israele: non ha mai detto che non ha diritto a esistere, ma che non può esistere in quanto stato suprematista ebraico». Oggi sappiamo che Israele esiste proprio in quanto “entità sionista”, ovvero un non-Stato senza Costituzione fondato sul teocon che nasce da un’ideologia politica nazionalista, etnocentrica e suprematista che è il sionismo. Israele non sarebbe mai nato senza il movimento sionista, quindi come può diventare oggi uno Stato non-suprematista se Israele, oltre a non essere uno Stato e a non avere confini, è nato su un’ideologia suprematista? Questa è l’ambiguità che si cela dietro tutta la questione del conflitto israelo-palestinese, che non è un semplice tifo calcistico, ma un questione complessa che richiede studio, conoscenza e soprattutto consapevolezza. Ci si chiede: Zohran Mamdani saprà chiarirsi, prendendo serie posizioni, lontane dal cerchiobottismo, o dovrà cedere – come molti prima di lui – alla realpolitik? E’ inutile farsi troppe illusioni. Come ha scritto molto bene OttolinaTV: “Non può essere certo un Mamdani qualunque a cambiare le strutture del capitalismo e dell’imperialismo americano. Da abitanti della periferia dell’Impero la domanda che dovrebbe veramente interessarci è quanto il successo di figure del genere rallentino o accelerino il declino dell’Impero stesso. Oppure, nel breve periodo, è giusto chiedersi se Mamdani diventerà come già successo in passato il volto friendly e Woke dell’ultraimperialista e capitalista Partito Democratico o potrà magari convincere il partito a virare su posizioni un po’ meno antipopolari e militariste di quelle passate (Clinton, Obama, Biden, Harris etc)”.   (1) A Williamsburg (Brooklyn), dove vive la più grande comunità hassidica al mondo, Abby Stein era stata ordinata rabbino, ma nel 2015 ha intrapreso la transizione di genere e ora è una rabbina. (2) Il revisore dei conti del municipio di New York arrestato dall’Ice per aver difeso dei concittadini immigrati.   Fonti ulteriori: https://ottolinatv.it/2025/11/05/mamdani-il-socialista-antisemita-che-ha-conquistato-new-york-cambiera-anche-imperialismo-usa/ https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-mamdani_e_listerismo_liberal/39602_ 63470/? https://www.today.it/mondo/mamdani-new-york-elezioni-sindaco-trump-ebreo-stupido.html https://www.nytimes.com/2025/09/22/nyregion/mamdani-rosh-hashana-jewish-holidays.html   Lorenzo Poli
Fridays For Future torna in piazza contro il governo: dalla Palestina alla COP30 più fatti e meno parole vuote
Tra due settimane, a sei mesi dall’ultimo sciopero globale per il clima Fridays For Future torna per le strade di tutta Italia per riportare al centro un grande assente nel dibattito pubblico degli ultimi due anni: la crisi climatica. “Dalla siccità in Sicilia fino alle alluvioni nel nord il nostro Paese ha attraversato un’altra estate da film distopico di fantascienza. Eppure non è di fantascienza che si tratta: negli ultimi 10 anni le morti per ondate di calore sono raddoppiate in Italia” afferma Simona Di Viesti di Fridays For Future. Da quando il movimento è nato 7 anni fa molte cose sono cambiate, oggi viviamo in un mondo in cui la transizione ecologica è una realtà e si sta muovendo anche rapidamente. Ma allo stesso tempo la crisi climatica è peggiorata in modo tragico, sono stati raggiunti alcuni punti di non ritorno e sulle prime pagine dei giornali non si parla mai di queste cose. “La politica insieme a molti altri attori parla di clima in modo marginale; sembra di essere tornati a prima del 2019” commenta ancora Simona. Questa manifestazione vuole mandare un messaggio chiaro ai governi del mondo: affrontate la crisi climatica oppure fatevi da parte. Le richieste sono le stesse dal 2022, quelle contenute nell’Agenda climatica redatta dal movimento prima che la coalizione di Giorgia Meloni vincesse le elezioni, ma il problema oggi è che nessuno sembra ascoltarle. Serve dare uno scossone, cambiare gli equilibri. Da Trump al governo italiano, il bilancio fatto da Fridays For Future è negativo: “Questi governi non parlano di clima perché metterebbe in pericolo gli interessi fossili da cui sono sorretti. Nell’amministrazione Trump, secondo il Guardian, si contano oltre 40 funzionari legati strettamente alle industrie di gas e petrolio” racconta Guglielmo Rotunno di FFF. Ma anche in Italia la situazione è poco incoraggiante: “Tanto da portare la Corte di Cassazione a pronunciarsi. Re Common e Greenpeace hanno ottenuto una vittoria storica quest’estate nei confronti di ENI, MEF e Cdp: la Suprema Corte ha affermato che sono legittime le cause intentate per i danni derivanti dal cambiamento climatico” continua Guglielmo. Ma Fridays For Future non dimentica il tragico contesto internazionale in cui ci troviamo, dalla Palestina fino ai crescenti conflitti in Europa che hanno portato ad un piano di Riarmo europeo che dirotta i fondi destinati alla riconversione ecologica. Nello specifico il regime coloniale, genocida e di apartheid di Israele dipende fortemente dal sostegno energetico esterno per mantenere le sue operazioni. In risposta, i palestinesi hanno chiesto un embargo energetico totale per fermare il genocidio e contribuire alla liberazione della Palestina. Queste richieste di embargo energetico sono in linea con le richieste dei sindacati palestinesi di interrompere il sostegno all’apparato militare israeliano, un movimento che ha già acquisito un vasto slancio globale. Gli embarghi energetici oggi rappresentano uno strumento potente per far rispettare il diritto internazionale e costringere Israele a porre fine al suo regime coloniale e genocida. Per questo Fridays For Future Italia aderisce alle richieste della campagna internazionale: 1. Fermare tutte le esportazioni di energia verso Israele. 2. Porre fine a tutte le importazioni di energia israeliana. 3. Disinvestire dai progetti di estrazione e dalle joint venture con le società energetiche israeliane. Nella striscia di Gaza la situazione resta drammatica e profondamente ingiusta, la pace raggiunta non rispetta l’autodeterminazione del popolo palestinese e rischia di assomigliare ad un colonialismo non dichiarato. Ma non solo: l’impunità verso lo Stato di Israele mette in discussione il diritto internazionale e il ruolo stesso delle Nazioni Unite, attaccate senza pudore dagli alleati di Netanyahu. Tra 10 giorni inizierà in Brasile la COP30, ovvero la trentesima Conferenza delle parti sul clima, che coinvolge quasi tutti i governi del mondo. A organizzarla sono proprio le Nazioni Unite: “E’ necessario ribadire che la cooperazione tra popoli e Paesi è l’unica strada. Ma non solo: questa COP deve portarci dalle parole ai fatti, dopo 30 anni tutti gli ultimatum sono scaduti: i governi del mondo devono agire oppure levare le tende” dice Mattia Catania del movimento FFF. Il 14 novembre Fridays For Future ci invita a “diventare marea”. Per questa battaglia servono tutti e tutte: studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giornaliste e giornalisti, movimenti, associazioni, sindacati. Una grande piazza per gridare al mondo che la crisi climatica esiste ancora e deve essere affrontata.   Fridays For Future
Trump minaccia ripresa di test nucleari, un passo indietro pericoloso e inaccettabile. L’Italia lo condanni
La Rete Italiana Pace e Disarmo, partner della Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN, Premio Nobel per la Pace 2017), condanna con forza le recenti dichiarazioni del Presidente statunitense Donald Trump, che sui social media ha annunciato di aver “dato istruzioni al Dipartimento della Guerra di iniziare a testare le armi nucleari alla pari di Russia e Cina”. Si tratta di un’affermazione gravissima, oltre che ambigua: né la Russia né la Cina – così come tutte le potenze nucleari, USA compresi – stanno oggi effettuando test nucleari, ma soltanto prove sui sistemi di consegna e lancio di tali ordigni. Non è dunque chiaro cosa intenda realmente il Presidente Trump, ma è chiaro invece come ogni eventuale ritorno ai test concretizzerebbe un passo indietro pericoloso, irresponsabile e inaccettabile. Testare un’arma nucleare significa in definitiva usarla: le esplosioni “sperimentali” non sono banali e innocue prove scientifiche, ma veri e propri atti di violenza contro persone e ambiente con conseguenze devastanti e durature. Tra di esse: contaminazione radioattiva, malattie, malformazioni, traumi collettivi, distruzione di ecosistemi. Le comunità che in passato hanno subito gli effetti dei test nucleari continuano ancora oggi a pagarne il prezzo. Ripetere quei crimini sarebbe moralmente e politicamente indifendibile. Storicamente i test sono serviti non solo a perfezionare la capacità distruttiva delle testate, ma anche a inviare segnali di forza e “postura minacciosa” a potenziali avversari: un linguaggio di intimidazione e paura che potrebbe riporta l’intera umanità sull’orlo dell’abisso di una mutua distruzione completa. L’annuncio di Trump dimostra quanto sia fragile la sicurezza globale e quanto si confermi al contrario urgente l’eliminazione definitiva delle armi nucleari. Finché esisteranno, la minaccia del loro uso — anche in ambito di prova — resterà reale. La loro abolizione resta l’unica vera garanzia contro una catastrofe futura. Questa dichiarazione infiammatoria giunge in un contesto di crescente escalation nucleare: la Corea del Nord ha annunciato nuovi test missilistici in concomitanza con la visita di Trump nella regione; la NATO ha recentemente condotto le proprie esercitazioni annuali che simulano l’impiego di armi nucleari (operazione Steadfast Noon); la Russia ha effettuato manovre e dimostrazioni delle proprie capacità missilistiche strategiche. E gli stessi Stati Uniti stanno già testando i sistemi di consegna nucleare, inclusi i meccanismi di comando e controllo e tutti i componenti della cosiddetta “triade nucleare” (aerea, terrestre e marina). In tale scenario, l’annuncio di Trump rischia di innescare una nuova corsa agli armamenti e di vanificare decenni di sforzi diplomatici per il disarmo. È importante ricordare che il Presidente USA ha parlato di “Dipartimento della Guerra”, ma la responsabilità dei test nucleari statunitensi non appartiene a quel dicastero bensì al Dipartimento dell’Energia: un’ulteriore prova della confusione e della pericolosità del messaggio lanciato. Non va poi dimenticato come lo stesso Trump, sin dal suo secondo insediamento, aveva riconosciuto la pericolosità delle armi nucleari e la necessità di ridurle. Le sue parole attuali smentiscono quelle promesse e si aggiungono alla modernizzazione e all’espansione in corso dell’arsenale nucleare USA, un progetto miliardario che allontana il mondo da ogni prospettiva di pace e sicurezza sostenibile. A fronte di tutto questo, l’Italia non può rimanere in silenzio. Nel corso della recente Audizione parlamentare della campagna Italia Ripensaci, la Rete Italiana Pace e Disarmo ha ribadito la necessità di una scelta chiara, quella del disarmo nucleare globale, in coerenza con i principi della nostra Costituzione e con la tradizione diplomatica del Paese: “Non possiamo arrenderci al rischio esistenziale di una guerra nucleare. L’Italia deve scegliere da che parte stare: dalla parte della vita, del diritto internazionale e della Pace”. Il nostro Paese sostiene da sempre il Trattato sulla messa al bando totale dei test nucleari (CTBT), considerandolo uno strumento cruciale per la sicurezza internazionale e proprio per tale motivo dovrebbe oggi esprimere con forza, insieme ai partner europei, ferma condanna e chiara contrarietà all’ipotesi di ripresa dei test da parte degli Stati Uniti, anche in virtù del fatto che armi nucleari statunitensi sono ancora dislocate sul nostro territorio. Se davvero vogliamo costruire sicurezza e stabilità, dobbiamo imboccare la strada del disarmo, del dialogo e della cooperazione multilaterale. Rete Italiana Pace e Disarmo rinnova il suo appello al governo e al Parlamento italiani: è tempo di aderire al Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN) come già fatto dalla maggioranza degli Stati del mondo, sostenendo con decisione ogni percorso verso un mondo libero da armi nucleari.     Rete Italiana Pace e Disarmo
No Kings Day: 7 milioni di persone partecipano alle manifestazioni anti-Trump in tutti gli Stati Uniti
Circa 7 milioni di persone hanno partecipato sabato 18 ottobre al No Kings Day contro l’autoritarismo del presidente Trump. Secondo gli organizzatori, le manifestazioni si sono svolte in circa 2.600 località in tutti i 50 Stati, in quella che è stata una delle più grandi giornate di protesta nella storia degli Stati Uniti, superando il primo No Kings Day di giugno. A Chicago la protesta si è estesa per due miglia, con circa 250.000 persone scese in strada. Il sindaco Brandon Johnson si è rivolto alla folla e ha chiesto uno sciopero generale. Si stima che 200.000 persone abbiano manifestato a Washington, D.C., dove il senatore Bernie Sanders ha denunciato: “Questo momento non riguarda solo l’avidità di un uomo, la corruzione di un uomo o il disprezzo di un uomo per la Costituzione. Riguarda una manciata di persone tra le più ricche della Terra, che nella loro insaziabile avidità si sono appropriati della nostra economia e del nostro sistema politico per arricchirsi a spese delle famiglie lavoratrici di tutto il Paese.” Ad Atlanta è intervenuta tra gli altri l’ex candidata governatrice e attivista per il diritto di voto Stacey Abrams. “Viviamo in un momento in cui gli etnofascisti sono al comando del governo, in cui i nazionalisti cristiani stanno definendo la politica economica, in cui una polizia segreta ci dice chi siamo. La loro destinazione è la divisione. La loro destinazione è la distruzione. E la loro destinazione è negata. Non torneremo indietro e non gli permetteremo di farci cambiare idea“ ha dichiarato.  Il presidente Trump ha risposto alle proteste pubblicando un video generato dall’intelligenza artificiale che lo mostra con indosso una corona mentre pilota un jet con la scritta ”King Trump” e versa quello che sembra essere liquame sulla testa dei manifestanti. Trump ha anche ripetuto la sua minaccia di indagare sul filantropo miliardario George Soros, che accusa di aver contribuito a finanziare la protesta. Il No Kings Day ha attirato folle enormi nonostante i tentativi del presidente della Camera Mike Johnson e di altri repubblicani di etichettarlo come una manifestazione di “odio verso l’America”.       Democracy Now!
No Kings Day, uno slogan legato alla storia americana
Sabato 17 ottobre i cittadini degli Stati Uniti da costa a costa sono scesi in piazza per la seconda edizione del “No Kings Day” durante la quale si sono svolte 2.700 manifestazioni. La prima si è tenuta il 14 giugno 2025 e secondo gli organizzatori ha portato nelle strade del Paese oltre cinque milioni di americani (undici secondo altre stime), proprio nel giorno della commemorazione nazionale dei 250 anni dell’esercito; data che, sempre a detta dei “maligni pacifisti”, era stata scelta dal governo in coincidenza con il compleanno del neo presidente per compiacerne il narcisismo. Il No Kings Day è stato il pacco regalo a sorpresa. In verità dietro agli slogan “No Thrones, No Crown, No Kings” (no ai troni, no alle corone, no ai re) si trova una delle pagine più importanti della storia americana. Alla fine di settembre mio marito ed io ci siamo regalati un weekend a Filadelfia con annesso tuffo storico nelle vicende che hanno portato alla nascita di questo immenso Paese. La città, che fu sede del primo Congresso e dove venne scritta la Costituzione (congegnata nel 1787 e ratificata nel 1788), oggi offre ottimi tour storici, a cui siamo stati felici di partecipare. I partecipanti vengono invitati a sedere negli scranni che furono occupati dai padri fondatori (a me è toccato il posto di Robert Rutherford della Virginia) mentre una giovane ben istruita racconta i fatti dell’epoca. Molta enfasi viene posta sulla figura di Benjamin Franklin, un po’ perché è stato un personaggio chiave del periodo, un po’ perché elesse Filadelfia come sua dimora. Di lui possiamo dire che fu un patriota e padre fondatore oltre che un fine diplomatico, uno scienziato, un inventore, un attivista, un giornalista, un pubblicista, un editore e un musicista (e probabilmente ho dimenticato qualcosa). Chiaramente siamo di fronte a un uomo d’intelligenza superiore, che, forse anche influenzato dall’epoca in cui visse, sposò gli ideali e la filosofia illuminista mettendo la ragione al centro e alla guida di scelte epocali, di cui, mi permetto di scrivere, beneficiamo ancora oggi. La guida ha spiegato che è alle sue idee illuministe e al suo grande carisma che dobbiamo una Costituzione laica e senza re. Alcuni dei patrioti infatti pensavano che la forma migliore fosse una copia della monarchia; non ne conoscevano altre e ai loro occhi appariva come la struttura più stabile. Si era ipotizzato un presidente eletto a vita. Fu Benjamin Franklin a smontare le loro idee e a convincerli che la scelta di ripetere una forma di potere che si era dimostrata stupidamente autoritaria non si addiceva agli uomini del nuovo mondo (che proprio nuovo non era) e che loro dovevano architettare qualcosa di meglio del re! Da questi presupposti nacque la prima Costituzione degli Stati Uniti. Nei secoli il testo ha subito diverse modifiche, che non ne hanno intaccato l’originario spirito rivoluzionario e antimonarchico. Il movimento NoKings con la sua pacifica esuberanza ricorda al presidente quali sono le sue origini e che se per caso si fosse montato la testa dopo il ricevimento al Castello di Winsor è meglio che torni in fretta con i piedi per terra, si dia una calmata e ascolti il popolo, il quale non vuole che la Guardia Nazionale invada le strade, i parchi e i quartieri delle città, così come mal sopporta che i propri vicini vengano braccati da nerboruti personaggi mascherati (gli agenti dell’ICE, Immigration and Customs Enforcement) e per niente al mondo è disposto a limitare la propria libertà di parola, per la cui difesa è disposto a tutto. Dunque non basteranno le minacce e le rappresaglie sui posti di lavoro e dentro le università per farlo desistere dal difendere la democrazia, la libertà e i diritti civili. Marina Serina
Convegno materiali | Ecologie della resistenza – di Francesco Demitry
Come le piazze e le flotille stanno riconfigurando lo spazio politico creando alleanze globali «dal fiume al mare»   Non si può comprendere quanto sta avvenendo in Palestina considerandolo come fenomeno isolato: essa riflette una crisi ecopolitica globale, dove guerre, logiche di profitto e meccanismi di controllo si intrecciano in un unico conflitto mondiale. Bisogna [...]