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Lo sfollamento forzato degli abitanti di Gaza, in immagini, mappe e video
di Cate Brown, Amaya Verde e Júlia Ledur ,  The Washington Post, 19 settembre 2025.    I palestinesi sfollati si spostano con i loro averi verso sud su una strada nella zona del campo profughi di Nuseirat, in seguito ai nuovi ordini di evacuazione di Gaza City da parte di Israele. Eyad Baba/AFP/Getty Images Tre giorni dopo che Israele ha lanciato la sua offensiva terrestre per conquistare la città di Gaza, decine di migliaia di palestinesi si stanno spostando verso sud in cerca di una relativa sicurezza. All’inizio dell’operazione, gli aerei militari israeliani hanno lanciato volantini invitando quasi un milione di residenti della città a evacuare lungo la strada al-Rashid, una stretta autostrada a due corsie che costeggia l’enclave. Migliaia di volantini di carta cadono su Gaza City il 17 settembre, intimando a quasi un milione di persone di andarsene. Reuters Un uomo legge uno dei volantini lanciati dall’esercito israeliano, che esorta la popolazione a evacuare verso sud. Omar Al-Qattaa/AFP/Getty Images Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, da metà marzo più di un milione di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case, dopo che Israele ha rotto la fragile tregua con Hamas riprendendo gli attacchi su Gaza. Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), quasi un quarto di queste persone si è spostato dal nord al sud di Gaza nell’ultimo mese. Il fumo sale da un bombardamento dell’esercito israeliano nella città di Gaza, visto dalla Striscia di Gaza centrale. Jehad Alshrafi/AP I palestinesi ispezionano il luogo di un attacco israeliano notturno contro un’abitazione nella città di Gaza. Ebrahim Hajjaj/Reuters Le famiglie raccontano di aver trascorso ore nel traffico per raggiungere al-Mawasi. Abdel Kareem Hana/AP Una donna trasporta un fagotto di coperte mentre cammina verso sud. Le partenze di massa dalla città di Gaza hanno causato ingorghi lungo il percorso. Mahmoud Issa/Reuters Un gruppo di abitanti di Gaza seduti su un carro improvvisato, con un sacco di farina bianca e oggetti domestici legati per il viaggio. Eyad Baba/AFP/Getty Images Il 17 settembre si sono alzate nuvole di fumo mentre Israele continuava l’assalto via terra alla città di Gaza in quello che i palestinesi hanno descritto come il bombardamento più intenso degli ultimi due anni. Reuters Detriti di cemento costellano la strada dell’evacuazione. L’ONU stima che oltre il 90% degli edifici residenziali di Gaza siano stati danneggiati o distrutti dai bombardamenti israeliani. Abdel Kareem Hana/AP Un bambino trasporta i suoi averi lungo la strada che attraversa il centro di Gaza. I bambini rappresentano la metà degli sfollati a Gaza. Eyad Baba/AFP/Getty Images La strada costiera per al-Mawasi presenta dei rischi. L’accesso all’acqua e al cibo è limitato. La gente ha dovuto scegliere quali scorte portare con sé verso sud, dove la competizione per le risorse dopo mesi di blocco potrebbe diventare una questione di vita o di morte. Secondo le Nazioni Unite, da domenica più di 56.000 persone hanno lasciato la città di Gaza. Mahmoud Issa/Reuters La gente cammina trasportando fagotti di cibo e vestiti. Eyad Baba/AFP/Getty Images Le partenze sono continuate anche dopo il calar della notte, sotto i bombardamenti israeliani. Più di 20 agenzie umanitarie hanno chiesto ai leader mondiali di intervenire e fermare l’assalto di Israele. Centinaia di migliaia di palestinesi hanno camminato o guidato verso sud per sfuggire all’offensiva israeliana sulla città di Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che era necessario prendere il controllo della città per sconfiggere Hamas. Jehad Alshrafi/AP Una famiglia palestinese si ammassa su un camion in fuga dalla città di Gaza. Dawoud Abu Alkas/Reuters Le famiglie che arrivano ad al-Mawasi scoprono che lo spazio è limitato e le malattie dilagano. Gli operatori umanitari riferiscono che le persone pagano 80 dollari solo per un posto dove piantare una tenda. La gente cerca uno spazio dove scaricare i propri averi ad al-Mawasi. Jehad Alshrafi/AP Teloni improvvisati e tende fornite dall’ONU ricoprono l’area. Israele ha bloccato un recente carico di tende in entrata a Gaza perché i pali di metallo erano considerati articoli “a doppio uso”. Jehad Alshrafi/AP Cate Brown è giornalista e ricercatrice investigativa per la redazione internazionale del Post.  Amaya Verde è una giornalista grafica del Washington Post, con sede a Madrid. Júlia Ledur è una giornalista grafica che si occupa di notizie estere per il Washington Post. Prima di entrare a far parte del Post nel 2021, ha lavorato come editor grafico presso il COVID Tracking Project dell’Atlantic. In precedenza, ha fatto parte del team grafico di Reuters, occupandosi di politica latinoamericana, ambiente e questioni sociali con dati e immagini.  https://www.washingtonpost.com/world/interactive/2025/gaza-city-evacuation-photos-maps/?utm_campaign=wp_the7&utm_medium=email&utm_source=newsletter&carta-url=https%3A%2F%2Fs2.washingtonpost.com%2Fcar-ln-tr%2F44de55e%2F68cd3570ade2b538187cf313%2F60c8843bae7e8a415def588a%2F51%2F108%2F68cd3570ade2b538187cf313 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Sono a Gaza City, ho preparato le valigie, ma mi rifiuto di lasciare la mia casa
di Ahmed Ahmed,  +972 Magazine, 9 settembre 2025.   Il devastante attacco di Israele alla mia città sta costringendo migliaia di persone a fuggire in cerca di una “sicurezza” che sappiamo non esistere, al costo di perdere per sempre le nostre case. I palestinesi in fuga da Gaza City arrivano nel centro di Gaza, 8 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) È passato un mese da quando il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato il piano del primo ministro Benjamin Netanyahu per prendere il controllo di Gaza City, una campagna che il ministro della Difesa Israel Katz ha poi soprannominato “Gideon’s Chariots II”. Noi che viviamo ancora in quelle parti della città che Israele non ha ancora completamente rase al suolo, inizialmente speravamo che l’annuncio fosse solo un altro esempio di guerra psicologica volta a terrorizzarci e costringerci ad andarcene. Forse, pensavamo, Israele non avrebbe invaso di nuovo Gaza City, avendone già ridotto gran parte in macerie. Forse il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sarebbe intervenuto, dato che secondo alcune notizie Hamas aveva fatto importanti concessioni per raggiungere un accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi. Quella speranza è svanita quando le forze israeliane hanno iniziato a lanciare avvisi di evacuazione ordinando alla popolazione di fuggire nelle cosiddette “zone sicure” nel sud della Striscia. L’invasione terrestre è seguita quasi immediatamente, prima nel mio quartiere, Al-Sabra, dove sono nato e cresciuto, e poi nella vicina Zeitoun, dove vivono molti dei miei parenti e amici. Questa mattina, l’esercito israeliano ha intensificato le sue minacce alla popolazione civile della città, chiedendo di fuggire a tutti noi che siamo rimasti. Dal 13 agosto, le forze israeliane hanno scatenato una devastante ondata di attacchi aerei, fuoco di artiglieria e attacchi con droni sulla mia città, con Al-Sabra e Zeitoun che hanno subito il colpo più duro. Interi isolati sono stati rasi al suolo. Migliaia di persone sono fuggite. Altre migliaia rimangono intrappolate, bloccate dai bombardamenti e dal ronzio costante dei droni sopra le loro teste. I cadaveri giacciono per le strade, irraggiungibili dalle squadre di soccorso. Di notte, i robot carichi di esplosivo dell’esercito israeliano vagano per le strade, demolendo circa 300 unità abitative al giorno. Le esplosioni, che avvengono nelle prime ore del mattino, scuotono il terreno intorno a me. Se sto dormendo, mi sveglio di soprassalto terrorizzato e ho la testa che mi martella per ore. Il bombardamento di torri residenziali a più piani – che Israele definisce “grattacieli terroristici” – ha aggiunto una nuova e terrificante dimensione all’ultima campagna di pulizia etnica di Israele. Uno dei primi obiettivi di questa operazione è stata la Mushtaha Tower, un edificio residenziale di 12 piani nella parte occidentale della città di Gaza, circondato da tende improvvisate. Gli aerei da guerra israeliani lo hanno colpito poche ore dopo l’ordine di evacuazione, sostenendo senza prove che Hamas lo utilizzava per scopi militari. Il fumo sale dalla Mushtaha Tower, a ovest della città di Gaza colpita da un attacco aereo israeliano, il 5 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Da allora sono stati rasi al suolo molti altri grattacieli, tra cui la Torre Soussi, un edificio di 15 piani che potevo vedere dalla mia finestra e davanti al quale passavo ogni giorno. Ai suoi residenti sono stati concessi solo 20 minuti per raccogliere le loro cose prima che le loro case fossero distrutte. Quando la torre è crollata, la nostra casa si è riempita di polvere e detriti. Io e la mia famiglia abbiamo pianto e tossito, soffrendo per la perdita del nostro amato quartiere e delle decine di famiglie che si sono ritrovate improvvisamente per strada senza casa, senza cibo e senza futuro. Mentre scrivo, sento il rombo dei carri armati e dei bulldozer israeliani a pochi chilometri da casa mia. Centinaia di famiglie del quartiere sono già fuggite per la paura, comprese molte che si erano rifiutate di farlo durante le precedenti invasioni. Quando penso alle decine di amici, parenti e vicini già uccisi durante questo genocidio, mi chiedo quanti altri ne perderò nei prossimi giorni, quali volti vedrò per l’ultima volta e se io stesso riuscirò ad arrivare alla fine. Guardo i miei vicini che se ne vanno, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che li vedo. Forse saranno uccisi lungo la strada. Forse lo sarò io. Per pura fortuna, finora sono riuscito a sfuggire alle ferite e alla morte. Ho imparato ad adattarmi a quello che sembra uno stato di sopravvivenza permanente: mi muovo rapidamente, sto vicino ai muri e cammino sotto gli alberi per evitare di essere individuato dai quadricotteri. Tengo sempre le mani libere per dimostrare che non rappresento una minaccia, anche se per molte delle vittime di Israele questo non è stato sufficiente. Non torno mai indietro per la stessa strada da cui sono venuto e spesso cammino a zig-zag per rendere più difficile ai cecchini prendermi di mira. Sono costantemente pronto a buttarmi a terra in qualsiasi momento. La mia più grande paura è che un missile mi faccia a pezzi, rendendomi irriconoscibile, o che venga ferito senza che nessuno possa raggiungermi, lasciando il mio corpo in pasto agli animali randagi. Sono terrorizzato all’idea di uscire di casa perché ho paura di passare davanti a un edificio proprio mentre viene bombardato. So che anche se riuscissi ad arrivare in ospedale, non esiste più un sistema sanitario funzionante che possa salvarmi. I palestinesi in fuga dalla città di Gaza arrivano nel centro di Gaza, 8 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Nonostante tutto questo, ho detto alla mia famiglia che non me ne andrò. Contrariamente a quanto sostiene Israele, non c’è nessun posto sicuro dove andare: una volta distrutta tutta Gaza City, continuerà verso sud fino alla stessa “zona umanitaria” verso cui ci sta attualmente indirizzando. Un legame indissolubile Al-Sabra e Zeitoun sono tra i quartieri più antichi e densamente popolati di Gaza City, comunità molto unite dove le famiglie vivevano già molto prima della Nakba del 1948. Molti residenti hanno ereditato le loro case e le loro piccole attività dai genitori: panetterie all’angolo, falegnamerie, sartorie e mestieri tradizionali come la produzione di sottaceti e la spremitura delle olive. Prima della guerra, camminavo per i loro vicoli stretti, sempre colpito dai dettagli: le case così vicine tra loro da sembrare un unico blocco; i nonni seduti sui gradini delle loro case nel pomeriggio con una tazza di tè in mano, che offrivano preghiere e benedizioni ai passanti; le risate dei bambini che echeggiavano tra le strade; e l’aroma di musakhan e maqluba che si diffondeva dalle finestre delle cucine. Noti per la loro ospitalità, gli abitanti del posto accoglievano spesso gli stranieri con calore, a volte invitandoli a pranzo dopo una breve conversazione per strada. Nel novembre 2023, quando Israele ha minacciato per la prima volta di invadere il mio quartiere, la mia famiglia si è rifiutata di andarsene. Ci siamo chiesti ciò che ogni altra famiglia di Gaza si stava chiedendo: dove saremmo andati? C’era un posto sicuro? Ma quando i carri armati avanzarono fino a 100 metri dalla nostra casa e cominciarono a bombardare indiscriminatamente intorno a noi, prendemmo la dolorosa decisione di dividerci in tre gruppi e disperderci per la città di Gaza nelle case dei parenti, sperando che se alcuni di noi fossero stati uccisi, altri potessero sopravvivere. Andai con mio padre a casa di mia zia, a circa due chilometri di distanza, ad Al-Sahaba, nella parte orientale della città di Gaza, dove rimanemmo per quasi un mese. Ogni giorno ci avvertivamo a vicenda di non rischiare di tornare a controllare la nostra casa. Eppure, come tanti altri che erano stati costretti ad abbandonare le loro case, ci ritrovavamo ad essere attratti da esse, avvicinandoci il più possibile alla nostra casa prima che i cecchini israeliani o i quadricotteri ci costringessero ad allontanarci. Ogni volta che partivo, sapevo che forse non sarei tornato. Avrei potuto essere colpito, ucciso o lasciato sanguinante per strada senza nessuno che potesse aiutarmi. Eppure ci andavo, solo per avere la possibilità di vivere un attimo fugace all’interno della mia casa, bere una tazza di caffè, toccare i mobili familiari o sdraiarmi sul mio letto. I palestinesi trasportano i loro averi tra tende e macerie nel quartiere di Sheikh Radwan, a nord di Gaza City, il 1° settembre 2025. (Omar El-Qattaa) Il percorso di ritorno a casa è diventato un percorso di dolore, con ogni visita che aggiungeva una nuova cicatrice alla mia memoria. Passavo davanti a edifici in rovina che un tempo conferivano al quartiere il suo carattere distintivo e a vicoli ombreggiati un tempo fiancheggiati da alberi che erano diventati un tutt’uno con le macerie. Ho percorso strade dove i miei vicini erano stati uccisi, con il loro sangue ancora visibile sul terreno. Le risate dei bambini erano state sostituite dal ronzio costante e snervante dei droni e dal rombo assordante dei proiettili di artiglieria. I volti dei familiari, un tempo fonte di calore e conforto, erano pallidi per il panico. Un giorno, mentre pedalavo in bicicletta vicino al quartiere, ho sentito improvvisamente il rumore delle eliche di un quadricottero dietro di me. Per alcuni secondi sono rimasto immobile. Dovevo sdraiarmi a terra? Alzare le mani per mostrare che ero un civile disarmato? Decisi di allontanarmi immediatamente dalla zona; per quanto potessi rappresentare una minaccia minima, non c’era alcuna garanzia che non sarei stato ucciso. Da solo per strada, pedalavo cercando di andare più veloce mentre i proiettili del drone mi sfrecciavano accanto. Mi ripetei che non avrei mai più corso quel rischio. Dopo l’incidente mi sono ammalato e sono rimasto a letto per due giorni. Ma la mattina del terzo giorno mi sono ripreso. Quando finalmente siamo riusciti a tornare a casa sani e salvi, dopo che le truppe israeliane hanno finalmente lasciato il nostro quartiere, è stato come riprendere fiato dopo essere annegati. Per noi palestinesi, il legame con le nostre case non riguarda solo muri e pietre, ma la nostra stessa esistenza. Mia nonna, Sharifa, mi raccontava spesso di come fosse stata costretta a fuggire da Jaffa durante la Nakba del 1948. Suo padre portava con sé la chiave di casa, convinto che la famiglia sarebbe tornata dopo pochi giorni. Prima di morire, gliela diede. Non tornarono mai più. La casa era perduta per sempre, anche se non riuscivano ad accettare questa verità. Oggi a Gaza, molti di noi sentono di stare vivendo un’altra Nakba, ancora più devastante di quella dei nostri nonni. Ma a differenza del 1948, oggi i palestinesi capiscono che quello che ci viene presentato come uno sfollamento “temporaneo” diventa quasi sempre permanente. Ecco perché molti di noi si rifiutano di andarsene, anche se le nostre case sono sotto attacco. I palestinesi in fuga da Gaza City arrivano nel centro di Gaza, 8 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Cucchiai, un bicchiere di plastica, un piatto vuoto Nell’aprile 2024, poche settimane prima che Israele chiudesse il valico di Rafah, mio padre è riuscito a evacuare in Egitto con mia madre, la cui salute era peggiorata a causa della malnutrizione e della mancanza di accesso ai farmaci essenziali. Da allora, segue le notizie di Gaza 24 ore su 24, con una preoccupazione del tutto fisica per noi che siamo rimasti. Cerca di nascondere la sua paura durante le nostre videochiamate su WhatsApp (quando la connessione lo permette), ma la paura è evidente dal tremito della sua voce ogni volta che ci chiama per assicurarsi che siamo ancora vivi, soprattutto dopo le notizie dei bombardamenti ad Al-Sabra. “Ho perso 7 chili nelle ultime due settimane”, mi ha detto in una videochiamata lo scorso fine settimana. Ho continuato a insistere che non ce ne saremmo andati, ma lui ci ha esortato a essere pronti a fuggire in qualsiasi momento: a indossare abiti larghi che ci permettano di correre, a tenere le scarpe vicino al posto dove dormiamo e ad assicurarci che una persona resti sveglia mentre gli altri riposano. Ci ha detto, quando possibile, di dare da mangiare ai bambini – i miei nipoti e le mie nipoti – più di quanto possano mangiare, perché potrebbe essere il loro ultimo pasto per giorni. Se fuggiamo, ha detto che dovremmo dividerci in gruppi, mantenere le distanze, persino prendere strade separate per massimizzare le nostre possibilità di sopravvivenza. I bambini dovrebbero correre per primi; se qualcuno di loro fosse ferito, gli adulti potrebbero trasportarlo. Dobbiamo portare con noi solo lo stretto necessario e, qualunque cosa accada, dobbiamo continuare a correre. Ma entrambi sappiamo che questa volta è diverso. L’attuale operazione di Israele a Gaza City sembra ancora più violenta e distruttiva di qualsiasi altra cosa vista in precedenza. Non si tratta più di bombardare aree specifiche, ma di non lasciare nulla in piedi, come hanno fatto a Rafah, Jabalia e Beit Hanoun. Io e le mie sorelle abbiamo preparato delle piccole borse con lo stretto necessario. Anche se siamo ancora alla fine dell’estate, abbiamo incluso vestiti invernali e piccole coperte; non sappiamo a cosa avremo accesso in futuro. Abbiamo messo in valigia cucchiai, un bicchiere di plastica, un piatto vuoto, oggetti che diventano inestimabili quando si perdono. E abbiamo messo in valigia i nostri documenti d’identità, i passaporti e un piccolo foglio di carta con i dati personali e i numeri di telefono nel caso in cui venissimo uccisi o feriti. I palestinesi trasportano i loro averi tra tende e macerie nel quartiere di Sheikh Radwan, a nord di Gaza City, il 1° settembre 2025. (Omar El-Qattaa) Guardo la mia casa, la mia biblioteca piena dei libri che mi hanno plasmato, come “1984” e “La fattoria degli animali” di George Orwell, i vestiti che ho scelto con cura nel corso degli anni, la scrivania dove ho studiato e continuo a scrivere. Guardo i materassi, le porte, il pavimento. Poi guardo la piccola borsa che ho in mano. Vorrei poter mettere tutta la mia vita, tutta la mia casa, in quella borsa. Lo sfollamento non è solo il trasferimento da un luogo all’altro. È come una versione dell’inferno in cui sei diviso in due, con il corpo in un posto e l’anima intrappolata da qualche altra parte. Conosco molte persone che sono fuggite verso sud in cerca di sicurezza, solo per scoprire che non c’era alcun rifugio, nessuno spazio dove dormire e nessuna protezione dagli attacchi di Israele. Così sono tornate alle loro case nel nord, nonostante il rischio costante di essere uccise. Per coloro che nel sud riescono a trovare un piccolo monolocale da affittare, i prezzi sono incredibilmente alti, a volte centinaia di volte superiori a quanto possono permettersi. Il governo israeliano sostiene che nel sud ci sia una “zona sicura” e che vengano forniti aiuti umanitari. Ma tutto ciò che ci aspetta lì è ulteriore umiliazione, privazioni e distruzione. Proprio come nel nord, l’obiettivo sembra essere il nostro completo annientamento. Mia nonna ha conservato la chiave di casa sua dal 1948 fino alla sua morte. Io non ho nessuna chiave da conservare, solo una borsa. E mi chiedo: i miei figli porteranno questa borsa come lei portava quella chiave? Ahmed Ahmed è lo pseudonimo di un giornalista di Gaza City che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di ritorsioni. https://www.972mag.com/gaza-city-bombing-displacement-evacuation Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.