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Lontano da dove?
Comunque finisca, all’ombra di Gaza c’è una realtà politica che resta in piedi. Quella che negozia il male minore, che ogni giorno si misura con la perdita di tutto. Personalmente sono inseguito da una svista, un errore nella messa a fuoco che mi porta a confondere Gaza City con lo Shtetl e scambiare le vecchie parole per la migrazione degli ebrei dell’Europa centrorientale con le immagini dei profughi in fuga dalla città distrutta o dai villaggi di contadini. Cerco di mettere in fila qualche frammento per ritrovare un filo. Che ci sia una pulizia etnica e una deportazione o migrazione coatta mi pare un fatto. E che ci siano campi o spazi di segregazione pure. Se li chiamo Lager sembra un partito preso, ma quello sono e lo sono anche i “centri di accoglienza”. Altri fatti certi. La Nakba non è iniziata il 7 ottobre. Certo. Ma un qualche salto deve pure esserci stato se siamo ad un punto di non ritorno. Un salto, o anche solo quello che Benjamin descrisse come un taglio non marginale. Ed ecco che il mio Shtetl si avvicina a queste immagini di famiglie in fuga. Un apologo jiddish ricordava che ad un migrante che annunciava la sua partenza venne chiesto dove sarebbe andato. Lui rispose: lontano. Il suo paesano gli disse: lontano da dove? A me pare che oggi si veda che oltre al dramma storico geograficamente circoscritto ci sia un’altra dipartita. Quella di un’intera tradizione culturale con l’esperienza che oggi ne possiamo fare da testimoni superstiti. Mi pare che, da una parte e dall’altra, delle identità riconosciute si siano screditate proprio in quel tratto che pareva costitutivo, e penso all’ebraismo ma anche all’atlantismo e al diritto internazionale o all’ONU. Azzarderei qualcosa di simile per i fondamentalisti islamici, che però conosco meno. A lume di naso però credo che Twin Towers e 7 Ottobre potrebbero facilmente aggiungersi alla lista di un “il più pulito ha la rogna”. Cosa resta di quelle identità e cosa insegna la tradizione? Ha un bel dire Landini che la lotta di Gaza si lega a quella degli sfruttati contro gli sfruttatori. Due cavalli zoppi non ne fanno uno in buona salute. Perché solo la povertà dell’esperienza umana, la miseria della nuda carne, che è condizione comune di ogni campo di sterminio, è stata di nuovo rivelata senza pudore, e la sua veste migliore strappata. Ogni narrazione pare stroncata e ridotta ad una conta macabra, persino affermata pubblicamente con quel “se non accettano il piano finiremo il lavoro”. Quella frase a me pare una parafrasi letterale della “soluzione finale”, ma qui e ora è stata pronunciata ad alta voce. E non c’è nessuna ideologia che le sappia tener testa. Aggiungo che senza una qualche ideologia è impossibile non ridurre l’esperienza ad una successione cronologica di stati. Bit senza alcun valore intrinseco. Un taglio, quindi. Questo taglio rende ibrida non la guerra, che infame e bastarda lo è sempre stata, ma le maschere della civiltà. Quella di un ebraismo custode della differenza e dell’occidente paladino della democrazia. Maschere che pare ritrovino il loro ruolo solo quando vengono fatte a pezzi e bistrattati i corpi che le indossano. Non è stato tutto fatto in un giorno: ricordo le polemiche degli anni ottanta per il revisionismo dei Nuovi Filosofi; ma è un fatto che l’esercizio per lo più retorico e quotidiano di una memoria antistorica è in questo giro di giostra arrivato al suo capolinea. Così che Israele oggi può rivendicare insieme il titolo certificato del deposito di quella memoria (un titolo di razza e religione) contando sulla forza di una internazionale fascista e suprematista (che si fregia persino di quel legame tra sangue e suolo di cui la storia della persecuzione antisemita si era alimentata). Contingente, come le connessioni in campo, e necessario, che ci sia un’altra storia. Ma quale e dove? Quindi un taglio, che probabilmente si ripete a fronte di ogni monumento eretto, dentro ogni Stato ed ogni Realpolitik. E non si tratta di sviste momentanee o stato di eccezione, non una ontologia o metafisica, ma qualcosa di storico e determinato, ogni volta compiuto da qualcuno che ha dovuto lottare con la resistenza di altri. Ritrovo così per mio limite la parola tanto abusata “resistenza” e la vedo in relazione specifica a questo taglio, quello che ha disconnesso oggi questo presente proprio dalla storia della Shoah (non so e non riesco a farmi un’idea sulla possibilità che le odierne manifestazioni di massa siano una controtendenza) e separato la storia dell’Olocausto dalla lotta al nazifascismo. Anche qui ho omesso di proiettare questo schema discorsivo sulla Nakba, per mia personale ignoranza di quel mondo. Mi limito così alle mie di storie e parole, come resistenza, antifascista, proletario… c’è un taglio e una povertà di esperienza, quella che mi fa passare dai forconi ai gilet gialli e poi ad un’altra corsa, sempre aspettando che sia quella giusta. Perché sono stato fortunato e non sono dovuto andare “lontano. Lontano da dove?”. Michele Ambrogio
Mia nonna è sopravvissuta alla Nakba, io sopravviverò a questo?
di Areej Almashharawi,  Palestine Studies, 5 settembre 2025    Nella penombra della sua stanza distrutta, la voce di mia nonna riecheggia nelle mie orecchie. Mi ricorda che devo sopravvivere, raccontare la nostra storia come ha fatto lei. Sopravvivo per mia nonna. Mia nonna, Mansoura, che in arabo significa vittoriosa, fu costretta a lasciare la sua casa durante la Nakba nel 1948. Credeva che sarebbe tornata presto, ma non è mai riuscita a tornare indietro. Io, la sua nipote più giovane, me ne sono andata di casa 21 mesi fa, credendo che sarei tornata presto. Quel “presto” è durato 15 mesi. In un certo senso, forse sono più fortunata di mia nonna: sono tornata in quel che resta della mia casa. “Una mattina mi sono svegliata con i continui rumori dei bombardamenti”, mi ha detto, con voce flebile. Era solo una bambina di 11 anni nel 1948. Era una ragazza ordinata e brillante che eccelleva nei suoi studi. “Ero la migliore a scuola e mio padre mi amava più di ogni altra cosa. Era un costruttore edile e io lo aiutavo sempre quando lavorava in paese. Ero la sua figlia unica e prediletta “. In una buia e cupa mattina d’estate, mia nonna si svegliò in un’atmosfera caotica intorno a lei. Si era diffusa la notizia che i soldati israeliani avevano raggiunto e distrutto i villaggi vicini, uccidendo le persone che vi abitavano. In risposta a ciò, suo padre decise prontamente di evacuare il loro villaggio, insieme a tutti gli altri che vivevano lì. Da lì è iniziata la ricerca della sopravvivenza. Al Muharraqa è la nostra città d’origine. Si trova a soli 14 km da Gaza, ma non ci è permesso visitarla. Durante quel terribile giorno del 1948, le strade di Al Muharraqa si riempirono di persone che correvano in varie direzioni, incerte sulla loro destinazione, mentre cercavano la sopravvivenza. Mia nonna ricorda: “Mio padre aveva un asino sul quale mi mise mentre uscivamo dal villaggio”. Se ne sarebbero andati per qualche giorno, fino a quando gli attacchi israeliani non si fossero fermati, ma quegli attacchi non si sono mai fermati. Sono scappati, all’inizio senza meta, poi ad Al Nuseirat, nel centro di Gaza, dove una famiglia che conoscevano li ha ospitati nella loro terra. La prima notte, racconta, “dormivamo sotto un lenzuolo di nylon nel terreno, ma i bombardamenti intensi ci hanno costretto ad entrare nella casa delle persone che ci ospitavano, lasciando dietro di noi l’asino di mio padre e il cavallo di mio zio”. I cavalli significano molto per i palestinesi. Il cavallo apparteneva al cugino di mia nonna, che è stato ucciso dalle forze israeliane dopo che si è rifiutato di evacuare il villaggio. “Solo poche ore dopo che avevamo lasciato gli animali, un attacco israeliano ha colpito il posto. L’asino è stato ucciso e il cavallo è rimasto ferito”, mi dice con gli occhi pieni di lacrime. Nessun medico poteva aiutare il cavallo che era gravemente ferito. Il cavallo è morto pochi giorni dopo. Dopo aver capito che non sarebbero mai più tornati ad Al-Muharraqa, sembrava iniziare una nuova vita per la mia nonnina e la sua famiglia a Gaza. Si è sposata e ha cresciuto i suoi cinque figli, incluso mio padre. Il 7 marzo 2023 mi sono svegliata, mi sono preparata per andare al lavoro, sono andata nella stanza di mia nonna e l’ho salutata, non sapendo che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio, per sempre. Non avrei mai pensato che un giorno sarei stata grata per la sua morte. Sono grato che ci abbia lasciati prima di essere costretta a rivivere la Nakba, costretta a evacuare di nuovo la sua casa. Sopravvivere Solo sette mesi dopo la sua scomparsa, il 7 ottobre 2023, le nostre vite si sono fermate. Da quel giorno, la Nakba è ricominciata a Gaza. Le strade sono piene di gente che si dirige senza una meta. La distruzione è ovunque e non c’è un rifugio sicuro. “Evacuare in aree sicure verso sud”. Hanno detto le forze israeliane. Erano arrivati a casa nostra. Dove potevamo andare? Non avevamo altra scelta che evacuare a Rafah, se volevamo sopravvivere. La mia prima perdita dopo mia nonna è stato il mio gatto. Con i suoni intensi dei bombardamenti intorno, non ho avuto la possibilità di portare con me il mio gatto, Basboos. Ho perso un altro pezzo della mia vita. Mancanza di cibo, mancanza di acqua, mancanza di tutto ciò che ci offre la vita, questa era la nostra nuova vita a Rafah. Quasi 500 persone vivevano sul pavimento in cui io e la mia famiglia ci eravamo rifugiati. A causa della mancanza di privacy e di articoli igienici, sono stato infettato dalla varicella da altri bambini nella stanza. Pensavo che la sofferenza sarebbe finita lì. Non è stato così. Siamo stati costretti a evacuare di nuovo, a Khan Younis. Ho sperimentato per la prima volta il viaggio su un asino quando sono stato evacuato ad al-Mawasi a Khan Younis. La parte peggiore è stata che quando siamo arrivati, la nostra tenda non era ancora montata e i bisogni umani di base, come un bagno, non erano disponibili. Abbiamo trascorso 9 mesi lì, in una tenda di nylon che non ci proteggeva dal caldo dell’estate o dal freddo dell’inverno. Ma la minima privacy in quella piccola tenda condivisa solo con i membri della famiglia era una cosa enorme per me. Poi, dopo decine di cessate il fuoco falliti, ne è entrato in vigore uno fragile e siamo potuti tornare a casa. Ancora una volta, abbiamo affrontato un altro viaggio infernale: camminare di notte per tornare a casa. È stata una notte agrodolce quando siamo tornati. Eravamo felici di essere tornati a casa e tristi perché non era più casa. La nostra casa è diventata una rovina permanente di muri, finestre e porte rotte. Ma facciamo tutto il possibile per farla sentire come a casa. Con tende e lenzuola di nylon, cerchiamo di ricucire la nostra casa e le nostre vite. Mi trovo proprio davanti alla stanza di mia nonna, respirando il suo profumo meraviglioso, familiare, quello che mi ricorda la sua tenerezza e le sue calde preghiere. La immagino sdraiata pacificamente sul suo letto, e ringrazio silenziosamente Dio per non averle fatto rivivere tutto questo. L’aggressione non è ancora finita. Gli ordini di evacuazione sono di nuovo presenti. Dire addio a ogni pezzo della mia amata città, Gaza, e alla mia vita, è ciò che faccio ogni singolo giorno. Trovo quasi impossibile tornare alla mia precedente vita normale. Tutto ciò che una volta ci offriva una vita semi-stabile non è più disponibile. Abbiamo riposto qualche speranza in ogni possibilità di un cessate il fuoco e abbiamo ricevuto solo la delusione. Piango in una lingua che nessuno capisce, per tutto quello che ho perduto e per quello che deve ancora venire. Ma sono ancora fiduciosa, e manterrò viva la speranza per mia nonna e per la Palestina. Sopravvivo. https://www.palestine-studies.org/en/node/1657795 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Lo sfollamento forzato degli abitanti di Gaza, in immagini, mappe e video
di Cate Brown, Amaya Verde e Júlia Ledur ,  The Washington Post, 19 settembre 2025.    I palestinesi sfollati si spostano con i loro averi verso sud su una strada nella zona del campo profughi di Nuseirat, in seguito ai nuovi ordini di evacuazione di Gaza City da parte di Israele. Eyad Baba/AFP/Getty Images Tre giorni dopo che Israele ha lanciato la sua offensiva terrestre per conquistare la città di Gaza, decine di migliaia di palestinesi si stanno spostando verso sud in cerca di una relativa sicurezza. All’inizio dell’operazione, gli aerei militari israeliani hanno lanciato volantini invitando quasi un milione di residenti della città a evacuare lungo la strada al-Rashid, una stretta autostrada a due corsie che costeggia l’enclave. Migliaia di volantini di carta cadono su Gaza City il 17 settembre, intimando a quasi un milione di persone di andarsene. Reuters Un uomo legge uno dei volantini lanciati dall’esercito israeliano, che esorta la popolazione a evacuare verso sud. Omar Al-Qattaa/AFP/Getty Images Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, da metà marzo più di un milione di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case, dopo che Israele ha rotto la fragile tregua con Hamas riprendendo gli attacchi su Gaza. Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), quasi un quarto di queste persone si è spostato dal nord al sud di Gaza nell’ultimo mese. Il fumo sale da un bombardamento dell’esercito israeliano nella città di Gaza, visto dalla Striscia di Gaza centrale. Jehad Alshrafi/AP I palestinesi ispezionano il luogo di un attacco israeliano notturno contro un’abitazione nella città di Gaza. Ebrahim Hajjaj/Reuters Le famiglie raccontano di aver trascorso ore nel traffico per raggiungere al-Mawasi. Abdel Kareem Hana/AP Una donna trasporta un fagotto di coperte mentre cammina verso sud. Le partenze di massa dalla città di Gaza hanno causato ingorghi lungo il percorso. Mahmoud Issa/Reuters Un gruppo di abitanti di Gaza seduti su un carro improvvisato, con un sacco di farina bianca e oggetti domestici legati per il viaggio. Eyad Baba/AFP/Getty Images Il 17 settembre si sono alzate nuvole di fumo mentre Israele continuava l’assalto via terra alla città di Gaza in quello che i palestinesi hanno descritto come il bombardamento più intenso degli ultimi due anni. Reuters Detriti di cemento costellano la strada dell’evacuazione. L’ONU stima che oltre il 90% degli edifici residenziali di Gaza siano stati danneggiati o distrutti dai bombardamenti israeliani. Abdel Kareem Hana/AP Un bambino trasporta i suoi averi lungo la strada che attraversa il centro di Gaza. I bambini rappresentano la metà degli sfollati a Gaza. Eyad Baba/AFP/Getty Images La strada costiera per al-Mawasi presenta dei rischi. L’accesso all’acqua e al cibo è limitato. La gente ha dovuto scegliere quali scorte portare con sé verso sud, dove la competizione per le risorse dopo mesi di blocco potrebbe diventare una questione di vita o di morte. Secondo le Nazioni Unite, da domenica più di 56.000 persone hanno lasciato la città di Gaza. Mahmoud Issa/Reuters La gente cammina trasportando fagotti di cibo e vestiti. Eyad Baba/AFP/Getty Images Le partenze sono continuate anche dopo il calar della notte, sotto i bombardamenti israeliani. Più di 20 agenzie umanitarie hanno chiesto ai leader mondiali di intervenire e fermare l’assalto di Israele. Centinaia di migliaia di palestinesi hanno camminato o guidato verso sud per sfuggire all’offensiva israeliana sulla città di Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che era necessario prendere il controllo della città per sconfiggere Hamas. Jehad Alshrafi/AP Una famiglia palestinese si ammassa su un camion in fuga dalla città di Gaza. Dawoud Abu Alkas/Reuters Le famiglie che arrivano ad al-Mawasi scoprono che lo spazio è limitato e le malattie dilagano. Gli operatori umanitari riferiscono che le persone pagano 80 dollari solo per un posto dove piantare una tenda. La gente cerca uno spazio dove scaricare i propri averi ad al-Mawasi. Jehad Alshrafi/AP Teloni improvvisati e tende fornite dall’ONU ricoprono l’area. Israele ha bloccato un recente carico di tende in entrata a Gaza perché i pali di metallo erano considerati articoli “a doppio uso”. Jehad Alshrafi/AP Cate Brown è giornalista e ricercatrice investigativa per la redazione internazionale del Post.  Amaya Verde è una giornalista grafica del Washington Post, con sede a Madrid. Júlia Ledur è una giornalista grafica che si occupa di notizie estere per il Washington Post. Prima di entrare a far parte del Post nel 2021, ha lavorato come editor grafico presso il COVID Tracking Project dell’Atlantic. In precedenza, ha fatto parte del team grafico di Reuters, occupandosi di politica latinoamericana, ambiente e questioni sociali con dati e immagini.  https://www.washingtonpost.com/world/interactive/2025/gaza-city-evacuation-photos-maps/?utm_campaign=wp_the7&utm_medium=email&utm_source=newsletter&carta-url=https%3A%2F%2Fs2.washingtonpost.com%2Fcar-ln-tr%2F44de55e%2F68cd3570ade2b538187cf313%2F60c8843bae7e8a415def588a%2F51%2F108%2F68cd3570ade2b538187cf313 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Sono a Gaza City, ho preparato le valigie, ma mi rifiuto di lasciare la mia casa
di Ahmed Ahmed,  +972 Magazine, 9 settembre 2025.   Il devastante attacco di Israele alla mia città sta costringendo migliaia di persone a fuggire in cerca di una “sicurezza” che sappiamo non esistere, al costo di perdere per sempre le nostre case. I palestinesi in fuga da Gaza City arrivano nel centro di Gaza, 8 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) È passato un mese da quando il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato il piano del primo ministro Benjamin Netanyahu per prendere il controllo di Gaza City, una campagna che il ministro della Difesa Israel Katz ha poi soprannominato “Gideon’s Chariots II”. Noi che viviamo ancora in quelle parti della città che Israele non ha ancora completamente rase al suolo, inizialmente speravamo che l’annuncio fosse solo un altro esempio di guerra psicologica volta a terrorizzarci e costringerci ad andarcene. Forse, pensavamo, Israele non avrebbe invaso di nuovo Gaza City, avendone già ridotto gran parte in macerie. Forse il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sarebbe intervenuto, dato che secondo alcune notizie Hamas aveva fatto importanti concessioni per raggiungere un accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi. Quella speranza è svanita quando le forze israeliane hanno iniziato a lanciare avvisi di evacuazione ordinando alla popolazione di fuggire nelle cosiddette “zone sicure” nel sud della Striscia. L’invasione terrestre è seguita quasi immediatamente, prima nel mio quartiere, Al-Sabra, dove sono nato e cresciuto, e poi nella vicina Zeitoun, dove vivono molti dei miei parenti e amici. Questa mattina, l’esercito israeliano ha intensificato le sue minacce alla popolazione civile della città, chiedendo di fuggire a tutti noi che siamo rimasti. Dal 13 agosto, le forze israeliane hanno scatenato una devastante ondata di attacchi aerei, fuoco di artiglieria e attacchi con droni sulla mia città, con Al-Sabra e Zeitoun che hanno subito il colpo più duro. Interi isolati sono stati rasi al suolo. Migliaia di persone sono fuggite. Altre migliaia rimangono intrappolate, bloccate dai bombardamenti e dal ronzio costante dei droni sopra le loro teste. I cadaveri giacciono per le strade, irraggiungibili dalle squadre di soccorso. Di notte, i robot carichi di esplosivo dell’esercito israeliano vagano per le strade, demolendo circa 300 unità abitative al giorno. Le esplosioni, che avvengono nelle prime ore del mattino, scuotono il terreno intorno a me. Se sto dormendo, mi sveglio di soprassalto terrorizzato e ho la testa che mi martella per ore. Il bombardamento di torri residenziali a più piani – che Israele definisce “grattacieli terroristici” – ha aggiunto una nuova e terrificante dimensione all’ultima campagna di pulizia etnica di Israele. Uno dei primi obiettivi di questa operazione è stata la Mushtaha Tower, un edificio residenziale di 12 piani nella parte occidentale della città di Gaza, circondato da tende improvvisate. Gli aerei da guerra israeliani lo hanno colpito poche ore dopo l’ordine di evacuazione, sostenendo senza prove che Hamas lo utilizzava per scopi militari. Il fumo sale dalla Mushtaha Tower, a ovest della città di Gaza colpita da un attacco aereo israeliano, il 5 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Da allora sono stati rasi al suolo molti altri grattacieli, tra cui la Torre Soussi, un edificio di 15 piani che potevo vedere dalla mia finestra e davanti al quale passavo ogni giorno. Ai suoi residenti sono stati concessi solo 20 minuti per raccogliere le loro cose prima che le loro case fossero distrutte. Quando la torre è crollata, la nostra casa si è riempita di polvere e detriti. Io e la mia famiglia abbiamo pianto e tossito, soffrendo per la perdita del nostro amato quartiere e delle decine di famiglie che si sono ritrovate improvvisamente per strada senza casa, senza cibo e senza futuro. Mentre scrivo, sento il rombo dei carri armati e dei bulldozer israeliani a pochi chilometri da casa mia. Centinaia di famiglie del quartiere sono già fuggite per la paura, comprese molte che si erano rifiutate di farlo durante le precedenti invasioni. Quando penso alle decine di amici, parenti e vicini già uccisi durante questo genocidio, mi chiedo quanti altri ne perderò nei prossimi giorni, quali volti vedrò per l’ultima volta e se io stesso riuscirò ad arrivare alla fine. Guardo i miei vicini che se ne vanno, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che li vedo. Forse saranno uccisi lungo la strada. Forse lo sarò io. Per pura fortuna, finora sono riuscito a sfuggire alle ferite e alla morte. Ho imparato ad adattarmi a quello che sembra uno stato di sopravvivenza permanente: mi muovo rapidamente, sto vicino ai muri e cammino sotto gli alberi per evitare di essere individuato dai quadricotteri. Tengo sempre le mani libere per dimostrare che non rappresento una minaccia, anche se per molte delle vittime di Israele questo non è stato sufficiente. Non torno mai indietro per la stessa strada da cui sono venuto e spesso cammino a zig-zag per rendere più difficile ai cecchini prendermi di mira. Sono costantemente pronto a buttarmi a terra in qualsiasi momento. La mia più grande paura è che un missile mi faccia a pezzi, rendendomi irriconoscibile, o che venga ferito senza che nessuno possa raggiungermi, lasciando il mio corpo in pasto agli animali randagi. Sono terrorizzato all’idea di uscire di casa perché ho paura di passare davanti a un edificio proprio mentre viene bombardato. So che anche se riuscissi ad arrivare in ospedale, non esiste più un sistema sanitario funzionante che possa salvarmi. I palestinesi in fuga dalla città di Gaza arrivano nel centro di Gaza, 8 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Nonostante tutto questo, ho detto alla mia famiglia che non me ne andrò. Contrariamente a quanto sostiene Israele, non c’è nessun posto sicuro dove andare: una volta distrutta tutta Gaza City, continuerà verso sud fino alla stessa “zona umanitaria” verso cui ci sta attualmente indirizzando. Un legame indissolubile Al-Sabra e Zeitoun sono tra i quartieri più antichi e densamente popolati di Gaza City, comunità molto unite dove le famiglie vivevano già molto prima della Nakba del 1948. Molti residenti hanno ereditato le loro case e le loro piccole attività dai genitori: panetterie all’angolo, falegnamerie, sartorie e mestieri tradizionali come la produzione di sottaceti e la spremitura delle olive. Prima della guerra, camminavo per i loro vicoli stretti, sempre colpito dai dettagli: le case così vicine tra loro da sembrare un unico blocco; i nonni seduti sui gradini delle loro case nel pomeriggio con una tazza di tè in mano, che offrivano preghiere e benedizioni ai passanti; le risate dei bambini che echeggiavano tra le strade; e l’aroma di musakhan e maqluba che si diffondeva dalle finestre delle cucine. Noti per la loro ospitalità, gli abitanti del posto accoglievano spesso gli stranieri con calore, a volte invitandoli a pranzo dopo una breve conversazione per strada. Nel novembre 2023, quando Israele ha minacciato per la prima volta di invadere il mio quartiere, la mia famiglia si è rifiutata di andarsene. Ci siamo chiesti ciò che ogni altra famiglia di Gaza si stava chiedendo: dove saremmo andati? C’era un posto sicuro? Ma quando i carri armati avanzarono fino a 100 metri dalla nostra casa e cominciarono a bombardare indiscriminatamente intorno a noi, prendemmo la dolorosa decisione di dividerci in tre gruppi e disperderci per la città di Gaza nelle case dei parenti, sperando che se alcuni di noi fossero stati uccisi, altri potessero sopravvivere. Andai con mio padre a casa di mia zia, a circa due chilometri di distanza, ad Al-Sahaba, nella parte orientale della città di Gaza, dove rimanemmo per quasi un mese. Ogni giorno ci avvertivamo a vicenda di non rischiare di tornare a controllare la nostra casa. Eppure, come tanti altri che erano stati costretti ad abbandonare le loro case, ci ritrovavamo ad essere attratti da esse, avvicinandoci il più possibile alla nostra casa prima che i cecchini israeliani o i quadricotteri ci costringessero ad allontanarci. Ogni volta che partivo, sapevo che forse non sarei tornato. Avrei potuto essere colpito, ucciso o lasciato sanguinante per strada senza nessuno che potesse aiutarmi. Eppure ci andavo, solo per avere la possibilità di vivere un attimo fugace all’interno della mia casa, bere una tazza di caffè, toccare i mobili familiari o sdraiarmi sul mio letto. I palestinesi trasportano i loro averi tra tende e macerie nel quartiere di Sheikh Radwan, a nord di Gaza City, il 1° settembre 2025. (Omar El-Qattaa) Il percorso di ritorno a casa è diventato un percorso di dolore, con ogni visita che aggiungeva una nuova cicatrice alla mia memoria. Passavo davanti a edifici in rovina che un tempo conferivano al quartiere il suo carattere distintivo e a vicoli ombreggiati un tempo fiancheggiati da alberi che erano diventati un tutt’uno con le macerie. Ho percorso strade dove i miei vicini erano stati uccisi, con il loro sangue ancora visibile sul terreno. Le risate dei bambini erano state sostituite dal ronzio costante e snervante dei droni e dal rombo assordante dei proiettili di artiglieria. I volti dei familiari, un tempo fonte di calore e conforto, erano pallidi per il panico. Un giorno, mentre pedalavo in bicicletta vicino al quartiere, ho sentito improvvisamente il rumore delle eliche di un quadricottero dietro di me. Per alcuni secondi sono rimasto immobile. Dovevo sdraiarmi a terra? Alzare le mani per mostrare che ero un civile disarmato? Decisi di allontanarmi immediatamente dalla zona; per quanto potessi rappresentare una minaccia minima, non c’era alcuna garanzia che non sarei stato ucciso. Da solo per strada, pedalavo cercando di andare più veloce mentre i proiettili del drone mi sfrecciavano accanto. Mi ripetei che non avrei mai più corso quel rischio. Dopo l’incidente mi sono ammalato e sono rimasto a letto per due giorni. Ma la mattina del terzo giorno mi sono ripreso. Quando finalmente siamo riusciti a tornare a casa sani e salvi, dopo che le truppe israeliane hanno finalmente lasciato il nostro quartiere, è stato come riprendere fiato dopo essere annegati. Per noi palestinesi, il legame con le nostre case non riguarda solo muri e pietre, ma la nostra stessa esistenza. Mia nonna, Sharifa, mi raccontava spesso di come fosse stata costretta a fuggire da Jaffa durante la Nakba del 1948. Suo padre portava con sé la chiave di casa, convinto che la famiglia sarebbe tornata dopo pochi giorni. Prima di morire, gliela diede. Non tornarono mai più. La casa era perduta per sempre, anche se non riuscivano ad accettare questa verità. Oggi a Gaza, molti di noi sentono di stare vivendo un’altra Nakba, ancora più devastante di quella dei nostri nonni. Ma a differenza del 1948, oggi i palestinesi capiscono che quello che ci viene presentato come uno sfollamento “temporaneo” diventa quasi sempre permanente. Ecco perché molti di noi si rifiutano di andarsene, anche se le nostre case sono sotto attacco. I palestinesi in fuga da Gaza City arrivano nel centro di Gaza, 8 settembre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Cucchiai, un bicchiere di plastica, un piatto vuoto Nell’aprile 2024, poche settimane prima che Israele chiudesse il valico di Rafah, mio padre è riuscito a evacuare in Egitto con mia madre, la cui salute era peggiorata a causa della malnutrizione e della mancanza di accesso ai farmaci essenziali. Da allora, segue le notizie di Gaza 24 ore su 24, con una preoccupazione del tutto fisica per noi che siamo rimasti. Cerca di nascondere la sua paura durante le nostre videochiamate su WhatsApp (quando la connessione lo permette), ma la paura è evidente dal tremito della sua voce ogni volta che ci chiama per assicurarsi che siamo ancora vivi, soprattutto dopo le notizie dei bombardamenti ad Al-Sabra. “Ho perso 7 chili nelle ultime due settimane”, mi ha detto in una videochiamata lo scorso fine settimana. Ho continuato a insistere che non ce ne saremmo andati, ma lui ci ha esortato a essere pronti a fuggire in qualsiasi momento: a indossare abiti larghi che ci permettano di correre, a tenere le scarpe vicino al posto dove dormiamo e ad assicurarci che una persona resti sveglia mentre gli altri riposano. Ci ha detto, quando possibile, di dare da mangiare ai bambini – i miei nipoti e le mie nipoti – più di quanto possano mangiare, perché potrebbe essere il loro ultimo pasto per giorni. Se fuggiamo, ha detto che dovremmo dividerci in gruppi, mantenere le distanze, persino prendere strade separate per massimizzare le nostre possibilità di sopravvivenza. I bambini dovrebbero correre per primi; se qualcuno di loro fosse ferito, gli adulti potrebbero trasportarlo. Dobbiamo portare con noi solo lo stretto necessario e, qualunque cosa accada, dobbiamo continuare a correre. Ma entrambi sappiamo che questa volta è diverso. L’attuale operazione di Israele a Gaza City sembra ancora più violenta e distruttiva di qualsiasi altra cosa vista in precedenza. Non si tratta più di bombardare aree specifiche, ma di non lasciare nulla in piedi, come hanno fatto a Rafah, Jabalia e Beit Hanoun. Io e le mie sorelle abbiamo preparato delle piccole borse con lo stretto necessario. Anche se siamo ancora alla fine dell’estate, abbiamo incluso vestiti invernali e piccole coperte; non sappiamo a cosa avremo accesso in futuro. Abbiamo messo in valigia cucchiai, un bicchiere di plastica, un piatto vuoto, oggetti che diventano inestimabili quando si perdono. E abbiamo messo in valigia i nostri documenti d’identità, i passaporti e un piccolo foglio di carta con i dati personali e i numeri di telefono nel caso in cui venissimo uccisi o feriti. I palestinesi trasportano i loro averi tra tende e macerie nel quartiere di Sheikh Radwan, a nord di Gaza City, il 1° settembre 2025. (Omar El-Qattaa) Guardo la mia casa, la mia biblioteca piena dei libri che mi hanno plasmato, come “1984” e “La fattoria degli animali” di George Orwell, i vestiti che ho scelto con cura nel corso degli anni, la scrivania dove ho studiato e continuo a scrivere. Guardo i materassi, le porte, il pavimento. Poi guardo la piccola borsa che ho in mano. Vorrei poter mettere tutta la mia vita, tutta la mia casa, in quella borsa. Lo sfollamento non è solo il trasferimento da un luogo all’altro. È come una versione dell’inferno in cui sei diviso in due, con il corpo in un posto e l’anima intrappolata da qualche altra parte. Conosco molte persone che sono fuggite verso sud in cerca di sicurezza, solo per scoprire che non c’era alcun rifugio, nessuno spazio dove dormire e nessuna protezione dagli attacchi di Israele. Così sono tornate alle loro case nel nord, nonostante il rischio costante di essere uccise. Per coloro che nel sud riescono a trovare un piccolo monolocale da affittare, i prezzi sono incredibilmente alti, a volte centinaia di volte superiori a quanto possono permettersi. Il governo israeliano sostiene che nel sud ci sia una “zona sicura” e che vengano forniti aiuti umanitari. Ma tutto ciò che ci aspetta lì è ulteriore umiliazione, privazioni e distruzione. Proprio come nel nord, l’obiettivo sembra essere il nostro completo annientamento. Mia nonna ha conservato la chiave di casa sua dal 1948 fino alla sua morte. Io non ho nessuna chiave da conservare, solo una borsa. E mi chiedo: i miei figli porteranno questa borsa come lei portava quella chiave? Ahmed Ahmed è lo pseudonimo di un giornalista di Gaza City che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di ritorsioni. https://www.972mag.com/gaza-city-bombing-displacement-evacuation Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.