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Perché protestare contro la legge di bilancio
È attualmente in corso di discussione in Parlamento la quarta legge di bilancio del governo Meloni. Una manovra di appena 18,7 miliardi di euro, con uno dei più bassi importi mobilitati negli ultimi dieci anni. Fornirà un irrilevante impulso alla crescita. Secondo le stesse stime del governo, il PIL reale crescerà di appena lo 0,7% nel 2026. I pochi decimali di crescita saranno esclusivamente dovuti alle ultime risorse del PNRR. Ciò è ancora più grave se si considera la stagnazione dell’economia italiana degli ultimi anni e la crisi, oramai strutturale, del modello di accumulazione e di sviluppo in Europa. Eppure, la questione principale non è neppure solo questa. Uno dei punti fondamentali è che questa manovra incarna pienamente la torsione conservatrice delle politiche fiscali europee. > Se, da un lato, la legge di bilancio risulta condizionata dal nuovo Patto di > Stabilità e Crescita, dall’altro, le nuove regole di austerità fungono da leva > politica per liberare risorse di bilancio a favore dell’economia di guerra. Il risultato è che il peso della spesa per investimenti pubblici (strade, ferrovie, ospedali, scuole, università, ricerca, etc…) viene significativamente ridotto. La tanto decanta politica di «risanamento dei conti pubblici» prospettata dalla maggioranza, è resa possibile solo grazie ad una ulteriore redistribuzione a favore dei profitti e della rendita. Ad aumentare sono solo le risorse a favore delle imprese e, soprattutto, quelle per i settori della difesa. Se si considera l’insieme delle voci di bilancio, per il 2026 le risorse a disposizione per la sola spesa militare diretta arriverebbero complessivamente a 33,9 miliardi di euro circa, con un incremento del 2,8% rispetto all’anno precedente. Questa è solo una parte degli incrementi per la spesa militare e, neppure, quelli più importanti. La strategia di fondo della manovra, infatti, è quella di recuperare margini di bilancio allo scopo di richiedere prossimamente il ricorso al Security Action for Europe (SAFE). Il nuovo strumento finanziario europeo istituito per sostenere gli investimenti nella difesa, che complessivamente vale 150 miliardi di euro, di cui l’Italia potrebbe ricevere 14,9 miliardi. Il SAFE sarà finanziato grazie all’emissione di obbligazioni sui mercati finanziari e le risorse saranno trasferite agli Stati membri sotto forma di prestiti garantiti dal bilancio europeo. Questa manovra non riordina solo la spesa a favore della difesa e della sicurezza. Sono complessivamente gran parte delle materie di bilancio ad esser orientate dal «regime di guerra globale». L’«economia di guerra», in realtà, è anche un potente motore di disciplinamento della società: le politiche per la maternità, quelle per l’inclusione e la parità di genere, le politiche di contrasto alla povertà fino alle politiche di sviluppo, sono tutti ambiti attraversati condizionati da questo nuovo orizzonte di guerra. PRINCIPALI DISPOSIZIONI IN MATERIA FISCALE Secondo i dati dell’ILO negli ultimi diciassette anni i salari reali italiani hanno accumulato la perdita più elevata nell’ambito dell’economie avanzate del G20, con una contrazione pari a -8,7%. La pesante «crisi salariale» italiana non ha pari in Europa. In questo quadro, così grave, il governo introduce alcune misure fiscali, del tutto inadeguate ad invertire la tendenza. La misura più sbandierata riguarda la riduzione dell’aliquota IRPEF nello scaglione 28-50 mila euro, che passerebbe dal 35% al 33%. Il limitato effetto redistributivo di questa riforma sarà del tutto inadeguato a compensare il pesante “drenaggio fiscale” che ha contribuito a decurtare i redditi da lavoro – principalmente quelli del ceto medio – erosi negli ultimi anni dall’inflazione. Insieme a questa misura, la novità molto rilevante è che il governo Meloni, attraverso la legge di bilancio, interviene di fatto direttamente sul delicato sistema della contrattazione collettiva nazionale. Sistema che continua a manifestare gravi segni di sofferenza e di inefficacia. > Solo per fare un esempio a fine settembre, secondo l’Istat, poco meno della > metà dei dipendenti (43,1% pari a circa 5,6 milioni di persone) aveva un > contratto collettivo scaduto. Qual è la logica del governo? La legge di bilancio al momento prevede un’imposta sostitutiva al 5% per gli incrementi retributivi dovuti all’attuazione di rinnovi contrattuali (del 2025-2026), limitato, però, ai soli redditi lordi inferiori a 28 mila euro. La maggioranza sostiene di incentivare in questo modo la contrattazione collettiva. CISL e UIL hanno espresso un forte apprezzamento per questa disposizione, che ha lo scopo evidente di strizzare l’occhio ad un rinnovato sistema «neo-corporativo» delle relazioni industriali. Tanto è vero, proprio questi due sindacati chiedono che tale beneficio vada solo a vantaggio dei rinnovi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Confindustria, dal canto suo, si unisce al loro coro, chiedendo semmai di rendere strutturali gli incentivi fiscali per non generare incertezze per le imprese che vorrebbero beneficiare delle medesime agevolazioni anche per gli anni futuri. Noi pensiamo che incentivare il sistema di contrattazione a regole invariate, ovvero, senza introdurre una legge sul salario minimo intercategoriale, significa non avere nessuna chance di correggere la grave crisi salariale italiana e i problemi crescenti di povertà lavorativa. Per giunta si tratta di una misura limitata nelle risorse e nei potenziali beneficiari. È anche grazie all’attuale modello di contrattazione, ereditato dalla stagione di riforme degli anni Novanta, che registriamo nel nostro paese l’inesorabile contrazione dei redditi da lavoro. Al contrario, per incentivare la contrattazione, oltre all’introduzione di un salario minimo per via legislativa, servirebbe dotarsi di regole automatiche di indicizzazione dei salari pubblici e privati, soprattutto nell’attuale congiuntura dell’economia di guerra. Il governo Meloni, per assecondare anche in questo caso le richieste di Confindustria e di CISL e UIL, contrariamente ai principi di equità sbandierati sulla stampa, intende intervenire principalmente sulle componenti accessorie del salario: quelle meno coperte dall’inflazione e che non incidono sui cumuli previdenziali a fine carriera. Infatti, la manovra prevede per il 2026-27 una decurtazione dell’imposta sostitutiva per i premi di risultato o di partecipazione agli utili di impresa (che arriverebbe al 1%), mentre il limite agevolabile salirebbe da 3 mila a 5 mila euro annui. > Accanto a questo, in maniera piuttosto perversa, sono spacciate come misure di > garanzia del potere di acquisto incentivi che sembrano avere l’unico scopo di > aumentare le forme di sfruttamento. A solo titolo di esempio, nel documento si > trovano misure fiscali a favore delle maggiorazioni corrisposte in relazione > al lavoro notturno o quello svolto nei giorni festivi e di riposo. Infine, la manovra dispone la modifica alla disciplina fiscale e dei buoni pasto elettronici incrementando da 8 a 10 euro il valore monetario non imponibile. Si tratta di una misura spot, che nelle intenzioni dovrebbe sostenere il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori del settore privato. Tuttavia, l’aumento non è automatico: la decisione di innalzare effettivamente l’importo resta infatti rimessa alla volontà del singolo datore di lavoro. Per quanto riguarda il settore pubblico, la norma non produce effetti concreti. Infatti, non viene modificato il limite di spesa che fissa ancora a 7 euro il valore massimo dei buoni pasto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Tale limite è stato introdotto dall’articolo 5, comma 7 del decreto-legge n. 95/2012 (Spending Review), convertito dalla legge n. 135/2012, e continua a vincolare tutte le amministrazioni pubbliche. Persistono inoltre alcune criticità già note: solo una parte dei lavoratori beneficiano dei buoni pasto (circa 3,5 milioni di lavoratori complessivamente, di cui circa 700.000 dipendenti pubblici), e il valore del ticket risulta insufficiente a coprire il costo reale di un pasto, che negli ultimi anni ha subito aumenti significativi. PRINCIPALI DISPOSIZIONI DI SOSTEGNO AL REDDITO Assegno di inclusione – ADI Nel 2023 le politiche pubbliche di contrasto alla povertà in Italia hanno vissuto un radicale cambiamento: dal Reddito di cittadinanza (RdC), in vigore dal 2019, si è passati a due distinte misure: l’Assegno di Inclusione (AdI) e il Supporto Formazione Lavoro (SFL). La riforma non ha puntato a rafforzare il sostegno, superando i limiti del RdC, ma ha scelto di ridefinire i criteri di accesso basandosi sulla composizione familiare anziché sul livello di povertà. La scelta di una categorialità familiare al posto di una misura di welfare universale ha fatto sì che l’Italia sia l’unico paese europeo senza uno schema di reddito minimo, risultando inoltre la più distante dagli obiettivi della Raccomandazione UE del 2023. Nel 2023 le politiche pubbliche di contrasto alla povertà in Italia hanno vissuto un radicale cambiamento: dal Reddito di cittadinanza (RdC), in vigore dal 2019, si è passati a due distinte misure: l’Assegno di Inclusione (AdI) e il Supporto Formazione Lavoro (SFL). La riforma non ha puntato a rafforzare il sostegno, superando i limiti del RdC, ma ha scelto di ridefinire i criteri di accesso basandosi sulla composizione familiare anziché sul livello di povertà. > La scelta di una categorialità familiare al posto di una misura di welfare > universale ha fatto sì che l’Italia sia l’unico paese europeo senza uno schema > di reddito minimo, risultando inoltre la più distante dagli obiettivi della > Raccomandazione UE del 2023. Per quanto riguarda l’AdI, la normativa vigente prevede una durata massima della prestazione pari a 18 mesi. Al termine di questo periodo, è possibile presentare domanda di rinnovo per ulteriori 12 mesi, ma l’erogazione riprende solo dopo un mese di sospensione obbligatoria. La nuova disposizione contenuta nella manovra elimina tale sospensione, consentendo ai nuclei beneficiari di continuare a percepire la prestazione senza soluzione di continuità, anche in occasione dei successivi rinnovi. La soppressione del mese di sospensione comporta un maggior onere finanziario. Tuttavia, l’intervento è compensato da significativi tagli al Fondo per il sostegno alla povertà e per l’inclusione attiva (dal 2026 al 2034); riduzioni che arrivano ad un fondo già inadeguatamente finanziato.  Dopo l’abolizione del RdC il governo Meloni riduce dunque gli investimenti anche sulla misura che lo ha sostituito, l’Assegno di Inclusione, che peraltro presenta un carattere fortemente categoriale. L’intenzione di riservare alle famiglie con figli, con over sessantenni, con persone con disabilità o non autosufficienza una protezione particolare ha come primo risultato ridotto il numero complessivo di beneficiari: si calcola che tra il 40% e il 47% di percettori di RdC abbia perso il diritto di ricevere l’AdI, la platea dei beneficiari risulta sostanzialmente dimezzata rispetto al RdC, nonostante l’aumento registrato dei livelli di povertà assoluta. È sempre più evidente che il passaggio dal RdC all’AdI ha aumentato la disuguaglianza economica, incidendo negativamente proprio sulle famiglie più povere. Carta «Dedicata a te» La disposizione prevede il rifinanziamento del Fondo per l’acquisto di beni alimentari di prima necessità, pari a 500 milioni di euro per ciascuno degli anni 2026 e 2027, destinato alle famiglie in condizione di povertà estrema. Il sostegno è erogato tramite l’emissione della social card “Carta Dedicata a Te” ed è finalizzato all’acquisto di beni alimentari di prima necessità da parte di nuclei familiari con un ISEE non superiore a 15.000 euro e con tutti i componenti regolarmente registrati all’anagrafe. > La misura consiste in un contributo economico una tantum per nucleo familiare, > dell’importo complessivo di 500 euro, erogato attraverso carte elettroniche. Il contributo non è cumulabile, infatti, non è riconosciuto ai nuclei familiari che comprendano percettori di altre misure di inclusione o sostegno al reddito — quali assegno di inclusione, reddito di cittadinanza, carta acquisti, ecc. — erogate a livello nazionale, regionale o comunale, né a coloro che ricevono prestazioni di disoccupazione o integrazioni salariali. Il giudizio complessivo sulla misura “Dedicata a Te” non può che essere estremamente negativo, in quanto si tratta di un intervento una tantum, concepito come un residuale sostegno di ultima istanza solo per una parte limitata del bacino di famiglie in povertà assoluta, con un focus specifico sull’emergenza alimentare. È una misura che — come altri interventi analoghi — mostra limiti significativi in termini di efficacia, non affrontando un problema che in Italia ha ormai natura strutturale. Nel 2024, infatti, ISTAT ha recentemente stimato, che siano oltre 2,2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, per un totale di 5,7 milioni di individui, il 9,8% dei residenti. Oltre ad essere un contributo insufficiente si segnala l’assenza di un meccanismo di rivalutazione automatica dell’importo rispetto all’inflazione. Ammortizzatori sociali  La manovra di bilancio non introduce novità di rilievo, limitandosi a prorogare per tutto il 2026 alcune misure già previste in deroga alla normativa vigente. La relazione tecnica non attribuisce effetti finanziari aggiuntivi alle disposizioni in esame, poiché gli stanziamenti necessari sono coperti attraverso le risorse del Fondo sociale per occupazione e formazione, già disponibili a legislazione vigente. Gli interventi di integrazione salariale prorogano misure e corrispondenti autorizzazioni di spesa introdotte negli ultimi anni, tenendo conto delle condizioni congiunturali di specifici settori in cui, nel corso del 2025, si è registrato un crescente ricorso agli ammortizzatori sociali a causa delle numerose crisi aziendali e occupazionali. Tali interventi concernono l’indennità per i lavoratori della pesca e dei call-center, l’integrazione al reddito per i dipendenti ex-Ilva, il trattamento straordinario di integrazione salariale per le imprese che operano in aree di crisi industriale complessa, o che cessano l’attività, o coinvolte da processi di riorganizzazione o di crisi aziendale, o che stipulano contratti di solidarietà, nonché per le imprese di interesse strategico nazionale. Tuttavia, al di là del semplice rifinanziamento, che andrebbe peraltro rafforzato, non si riscontrano interventi di carattere strutturale sulla disciplina degli ammortizzatori sociali. Il cosiddetto “pacchetto ammortizzatori”, pari a circa 400 milioni di euro a valere sul Fondo sociale per occupazione e formazione, secondo la Corte dei Conti richiede un attento monitoraggio, affinché l’attuazione dei nuovi interventi non comprometta la realizzazione delle misure già previste dalla normativa vigente. PRINCIPALI DISPOSIZIONI IN MATERIA DI FAMIGLIA E DI PARI OPPORTUNITÀ I 12 articoli che riguardano Famiglia e Pari opportunità possono essere, per approssimazione, raggruppati in tre macrocategorie. Famiglia e Genitorialità: * Misure dirette a sostenere il reddito e l’equilibrio vita-lavoro dei genitori. * Misure rivolte al sostegno dell’occupazione femminile. Si tratta di misure che, attraverso bonus una tantum, sussidi, decontribuzione (per i datori di lavoro) e una irrisoria integrazione al reddito, non affrontano il tema della disuguaglianza strutturale di genere, dell’autonomia economica delle donne, della redistribuzione della cura in famiglia e nella società, irrigidendo invece i ruoli familiari, istituzionalizzando il lavoro di cura come appannaggio delle donne e cristallizzando la segmentazione verso il basso dell’occupazione femminile. Trasferimenti di soldi (pochi), al posto di politiche di investimento e sviluppo. > Misure per la famiglia e le pari opportunità che appaiono contraddittorie > anche rispetto alla tanto decantata natalità “necessaria” al Paese, poiché le > scelte riproduttive sono guidate principalmente dall’indipendenza economica, > da un’occupazione di qualità e dalla presenza di servizi che garantiscano la > redistribuzione della cura. Le stesse donne/madri/lavoratrici cui questo capitolo di spesa è rivolto restano intrappolate all’interno di lavori poveri, bloccate nelle carriere lavorative e in meccanismi strutturali che impediscono il miglioramento delle condizioni economiche. Si tratta di politiche per madri, con almeno due figli (ancora meglio se tre), “doti” appetibili per le imprese (decontribuzione), che contribuiscono al reddito familiare (bonus mamme), tuttavia lavorando meno dei bread winner maschi, perché devono liberare tempo per prendersi cura della famiglia (part-time agevolato, aumento delle giornate di congedo e di malattia bambini), all’interno di un modello di conciliazione vita personale-vita familiare esclusivo, non redistribuito e non socializzato. Essenzialmente non retribuito. Welfare familiare: * Minori. * Caregiver familiare. * Sostegno abitativo. Le risorse stanziate a favore del welfare familiare (offerta socioeducativa, fondo caregiver familiare) sono irrisorie e non sufficienti. Anche l’agevolazione dovuta alla parziale riforma dell’ISEE sulle scale di equivalenza e sull’abitazione principale si basa su un meccanismo selettivo e non universale di accesso alle prestazioni. Piuttosto, il contributo per il sostegno abitativo dei genitori separati/divorziati – positiva e tardiva misura di welfare – appare un po’ demagogica (orientata maggiormente alle istanze organizzate dei “padri separati”) e rischia di opacizzare le cause profonde della disparità economica tra uomini e donne già all’interno della famiglia, che nella fase di separazione si acutizza. Sostegno a categorie specifiche di vulnerabilità: * Pari opportunità. * Reddito di libertà. * Anti-tratta. Il positivo rifinanziamento e potenziamento di misure di contrasto alla violenza e alle discriminazioni (Reddito di Libertà, Fondo anti-tratta, Fondo politiche pari opportunità) risulta poco adeguato, non solamente perché non strutturale e per l’esiguità delle risorse dedicate, ma anche perché è di corto respiro, non agganciando il tema dell’autonomia abitativa e lavorativa e, quindi, la conseguente indipendenza economica delle persone che vorrebbero proteggere. Zona economica speciale (ZES unica) e principali misure in favore delle imprese La legge di bilancio (Misure in materia di assunzioni a tempo indeterminato) introduce un esonero parziale dalla quota dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro privati, per un periodo massimo di 24 mesi, in relazione alle assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato di personale non dirigenziale effettuate tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2026. Il limite di spesa previsto è pari a 154 milioni di euro per il 2026, 400 milioni per il 2027 e 271 milioni per il 2028. La finalità dichiarata dalla disposizione è quella di incrementare l’occupazione giovanile stabile, favorire le pari opportunità nel mercato del lavoro per le lavoratrici svantaggiate, sostenere lo sviluppo occupazionale della Zona Economica Speciale per il Mezzogiorno (ZES unica) e contribuire alla riduzione dei divari territoriali. Ancora una volta si interviene a sostegno dell’occupazione delle categorie maggiormente esposte a condizioni di fragilità – giovani, donne e lavoratori del Mezzogiorno – esclusivamente attraverso una riduzione del costo del lavoro per le imprese, ricorrendo a misure temporalmente limitate. Come avvenuto negli ultimi anni, si confermano politiche per il lavoro basate essenzialmente sull’incentivazione fiscale: una strategia che, privilegiando gli effetti di brevissimo periodo rispetto a interventi di medio-lungo respiro, ha già ampiamente dimostrato una scarsa efficacia nel raggiungere gli obiettivi prefissati, soprattutto in un tessuto produttivo frammentato e complesso come quello italiano. > Per quanto riguarda le principali misure a sostegno delle imprese, la manovra > recepisce in larga parte le indicazioni di Confindustria, prevedendo incentivi > agli investimenti per una media di 2,3 miliardi di euro l’anno nel triennio, > secondo quanto riportato dalla Banca d’Italia nell’Audizione preliminare. La manovra introduce un nuovo super-ammortamento — con una maggiorazione del costo di acquisizione fino al 220% per gli investimenti effettuati nel 2026 e 2027 — rivolto ai beni materiali e immateriali che finora hanno beneficiato dei crediti d’imposta previsti dalle misure Transizione 4.0 e 5.0, in scadenza a fine anno. Confindustria esprime inoltre particolare apprezzamento per la proroga fino al 2028 del credito d’imposta per la ZES Unica del Mezzogiorno, che accoglie pressoché integralmente una sua proposta. La manovra prevede infatti l’estensione del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nella ZES Unica, già introdotto dalla legge di bilancio 2024, con un tetto di spesa pari a 2,3 miliardi nel 2026, 1 miliardo nel 2027 e 0,8 miliardi nel 2028. Il credito sarà inoltre cumulabile con altri incentivi alle imprese, tra cui l’iper-ammortamento. Nel complesso, la manovra recepisce gran parte delle richieste di Confindustria, distribuendo incentivi fiscali senza però delineare una strategia di politica industriale di medio-lungo periodo. Principali disposizioni in materia di previdenza sociale La manovra proroga fino al 31 dicembre 2026 la sola APE Sociale e introduce un modesto incremento delle pensioni minime per i soggetti in condizioni di maggiore fragilità, senza rinnovare Quota 103, Opzione Donna e i canali agevolati per i lavoratori precoci. La norma conferma l’impostazione ormai consolidata delle ultime Leggi di bilancio: nessuna riforma strutturale, ma un ulteriore irrigidimento del sistema pensionistico, volto a ridurre la spesa pubblica. Il risultato sarà un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento e assegni più ridotti. La scelta di non sospendere l’automatismo legato alla speranza di vita conferma l’indirizzo del governo: un progressivo aumento dei requisiti, che allontana sempre di più il traguardo della pensione. Dopo anni di annunci sul blocco degli adeguamenti, la manovra conferma che dal 1° gennaio 2027 il requisito salirà di un mese e dal 2028 di tre mesi. L’innalzamento dell’età pensionabile produrrà ripercussioni sul mercato del lavoro, determinando un’ulteriore rigidità nel ricambio generazionale e la prosecuzione dell’attività lavorativa anche da parte di soggetti che, come gli addetti a mansioni usuranti o gravose, incontrano maggiori difficoltà nello svolgimento del loro lavoro. Infine, la manovra in materia di previdenza prevede un rafforzamento degli investimenti in infrastrutture da parte delle forme pensionistiche complementari, introducendo la possibilità per i fondi pensione di investire in strumenti finanziari emessi da società ed enti attivi nella progettazione o realizzazione di interventi nei settori infrastrutturali turistici, culturali, ambientali, idrici, stradali, ferroviari, portuali, aeroportuali, sanitari, dei servizi pubblici immobiliari non residenziali, delle telecomunicazioni – incluse quelle digitali – nonché della produzione e del trasporto di energia. Un’evoluzione che, di fatto, interviene sulla crescente finanziarizzazione della previdenza. La copertina è di Gabriele Campanale SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Perché protestare contro la legge di bilancio proviene da DINAMOpress.
I precari INGV sulla legge di bilancio
Segnaliamo ai lettori la lettera aperta inviata dai precari INGV al ministro Bernini. Segue il testo. lettera precari INGV Qui il link all’elenco dei firmatari.
Decine di piazze per il No Meloni Day. Gli studenti pretendono un mondo nuovo
Ieri sono state oltre 30 le piazze che studentesse e studenti si sono presi, in occasione di una giornata di sciopero studentesco a cui è stato dato un nome molto chiaro e netto: No Meloni Day. Il 17 novembre è la Giornata internazionale degli studenti, da anni momento centrale dell’autunno di […] L'articolo Decine di piazze per il No Meloni Day. Gli studenti pretendono un mondo nuovo su Contropiano.
Finanziaria di guerra: l’ambiente paga le conseguenze. In piazza per cambiare tutto!
19/11 H19 Assemblea nazionale online verso il 28 e 29 novembre: Sciopero Generale e Manifestazione Nazionale Viviamo in un momento storico di forte accelerazione dell’escalation bellica e della crisi ecologica, con tutti gli effetti che entrambe hanno sui territori. In pochi anni abbiamo visto l’Unione Europea passare dalla retorica della […] L'articolo Finanziaria di guerra: l’ambiente paga le conseguenze. In piazza per cambiare tutto! su Contropiano.
I dati incoerenti dell’evasione fiscale
A quanto ammonta l’evasione delle tasse in Italia? Per dare una risposta a questa domanda nel 2009 è stata istituita una Commissione che annualmente presenta una “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva”. Nella Relazione 2024 la tabella riassuntiva del gap delle entrate tributarie e contributive riportava questi dati: 108 miliardi di euro nel 2017, 103 miliardi nel 2018, 100 miliardi nel 2019, 86 nel 2020 e 82 nel 2021. Deduzione conseguente: l’evasione è ancora elevata, ma siamo sulla buona strada, poiché la diminuzione è continua e significativa. Nella Relazione 2025 – recentemente pubblicata – nella medesima tabella si leggono questi dati sull’evasione fiscale e contributiva: 106 miliardi di euro nel 2018, 105 miliardi nel 2019, 94 miliardi nel 2020, 96 nel 2021 e 100 miliardi nel 2022. Commento conseguente: l’evasione ha avuto una lieve flessione nel 2020-2021 (molto probabilmente a causa del lockdown per il covid) e poi ha recuperato il livello antecedente alla pandemia. A questo punto sono inevitabili alcuni interrogativi. Perché nella Relazione 2025 le stime dell’evasione fiscale e contributiva sono diverse da quelle indicate lo scorso anno? Com’è possibile una modifica così elevata dei valori? I componenti e gli esperti della Commissione sono cambiati nell’ultimo anno? È noto che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”. Forse lo scorso anno si è voluto mostrare che l’evasione fosse in sensibile calo, ma poi ci si è accorti che la tesi era insostenibile, poiché non era suffragata dai dati reali? Oppure, invece, c’è stata davvero una significativa riduzione dell’evasione fiscale e contributiva nel 2020-21, ma adesso torna utile aumentare le stime di quegli anni per non mettere in luce il forte aumento dell’evasione avvenuto del 2022? La Commissione in ogni caso dovrebbe fornire qualche spiegazione, poiché non è serio a distanza di un anno alzare radicalmente alcuni valori. Per esempio, entrando nel dettaglio, nella Relazione dello scorso anno l’evasione dell’IVA nel 2021 era stata stimata in 18 miliardi di euro. Nella Relazione di quest’anno è stata ricalcolata per lo stesso anno in 28 miliardi. Ci si aspetterebbe almeno una annotazione del tipo “scusate, ci siamo sbagliati”. È il caso di ricordare che non si tratta di un’esercitazione per uno stage, ma di dati fondamentali che condizionano la politica economica e tributaria dell’Italia. Se l’evasione fiscale e contributiva fosse in aumento, il Governo dovrebbe prendere nuovi provvedimenti per contrastarla. Se invece fosse in calo, l’esecutivo potrebbe incentivare le scelte che hanno contribuito alla riduzione del gap. Ma se i dati cambiano di segno da un anno all’altro, la confusione regna sovrana. Così facendo all’opinione pubblica si danno messaggi contraddittori, mentre gli evasori possono continuare indisturbati a sottrarre risorse alle casse pubbliche. A proposito: la legge di Bilancio predisposta dal Governo e attualmente in discussione in Parlamento, prevede l’ennesima “rottamazione” delle cartelle esattoriali. Si tratta di una perdita di circa 800 milioni di euro per le casse dello Stato e il conto – come al solito – lo dovranno pagare i contribuenti onesti. Rocco Artifoni
Dallo sciopero di tutt3 allo sciopero per tutt3
Nelle ultime settimane, il dibattito pubblico è stato dominato dallo sciopero, inteso come un evento dai molteplici significati. Lo sciopero è stato: spauracchio del Governo, occasione di convergenza per le lotte, ma anche affermazione di “potere” e autonomia per le organizzazioni sindacali. Per quanto mi riguarda, lo sciopero mi coinvolge profondamente per tre motivi che ne definiscono la centralità nel mio percorso di vita: 1. Biografico: essendo figlio di un sindacalista, questa parola è sempre risuonata in casa, e lo sciopero, nella mia fantasia di bambino, era il supremo strumento di difesa contro i “cattivi” (i padroni). 2. Militante: ricordo chiaramente che uno dei primi dibattiti a cui mi approcciai nel 2008, durante il movimento dell’Onda, riguardava la possibilità di generalizzare lo sciopero, chiedendo già allora una convocazione unitaria alla Cgil e ai sindacati di base. 3. Professionale: come giuslavorista che si posiziona esclusivamente dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori (e che si occupa, tra l’altro, del settore legale e contenzioso delle Clap – Camere del Lavoro Autonomo e Precario), l’irruzione dello sciopero come momento costituente di un diritto “partigiano” (ossia contrapposto agli interessi di un’altra parte) è un ossessivo campo di studio e ricerca. > Da sempre, dunque, cerco di trovare un punto di incontro con la potenza dello > sciopero. Punto di incontro che si è concretizzato nelle giornate di lotta del > 22 settembre e, soprattutto, del 3 ottobre 2025. Per centinaia di migliaia di persone, lo sciopero, oltre a essere generale e generalizzato, è stato il primo tentativo riuscito di sciopero sociale e intersezionale — nella definizione data da Angela Davis, in cui a intersecarsi sono le lotte e non le identità. Ciò è avvenuto mediante la pratica concreta (e non la semplice evocazione) della convergenza, come momento di incontro e, allo stesso tempo di moltiplicazione e sintesi di pratiche e parole d’ordine. Le giornate di settembre e ottobre sono state a tutti gli effetti una “irruzione improvvisa in un momento imprevisto” (per fare proprie le parole di Bensaid) in grado di rompere la ciclicità e la liturgia degli scioperi generali degli ultimi tempi. Lo hanno strappato via dal ruolo di mera testimonianza in cui spesso era ricaduto negli ultimi anni, affermandone invece la propria originaria potenza. Hanno re-introdotto nel dibattito pubblico la legittimità dello sciopero “politico” (avversato per anni da politici, addetti ai lavori e settori della magistratura, che ancora oggi puntano a limitarne la forza propulsiva e trasformativa), in cui l’azione non si limita ad agire solo sul piano dell’economico, ma diventa leva di trasformazione sociale, nonché formidabile arma collettiva in grado di assicurare l’emancipazione delle subalterne e dei subalterni, mettendo in discussione il rapporto sociale di sfruttamento che ordina le nostre vite. LA POTENZA DELLO SCIOPERO IN GRADO DI DISARTICOLARE LA LEGGE La forza dirompente di queste mobilitazioni è nata dalla combinazione di rivendicazioni di portata globale e nazionale: * L’opposizione al genocidio e la richiesta di liberazione di Gaza. * La pratica della violazione dell’illegittimo blocco navale imposto dallo stato di Israele (attraverso l’azione della Global Sumud Flottilla) e il blocco dei flussi e delle stazioni. * Le lotte contro il cosiddetto regime di guerra imposto nel nostro Paese, che si manifesta mediante la militarizzazione della società, il controllo sui corpi, la guerra in ottica familista e patriarcale alle soggettività transfemministe lgbtqia+, nella gestione delle risorse per la riconversione bellica, e dallo spostamento delle risorse pubbliche sulle politiche di riarmo a scapito di salari da fame, assenza di welfare e un processo di impoverimento generale della società. Tutte queste ragioni hanno dato vita alla eccezionale piazza del 22 settembre, promossa da alcune organizzazioni sindacali. In quell’occasione, la grande assente è stata la Cgil, la quale, costretta a rimediare a tale sottovalutazione, ha proclamato anch’essa il successivo sciopero generale del 3 ottobre. Questo ha permesso di realizzare il primo sciopero unitario e convergente della storia repubblicana su temi così ampi. Espressioni del sindacalismo conflittuale e di base (Clap, Adl Cobas, Cobas, Sial Cobas) e, ovviamente, Usb hanno proclamato e/o aderito allo sciopero generale unitamente alla Cgil, sfidando anche i veti della Commissione di garanzia. > Si è fatto in modo che questo strumento, sebbene prerogativa delle > organizzazioni sindacali, diventasse davvero esercizio concreto di un diritto > a lottare da parte di lavoratrici e lavoratori, studentesse, studenti, > migranti, di tutte le oppresse e gli oppressi. In quanto scioperi politici, quelli del 22 settembre e 3 ottobre sono stati anche momenti di lotta in grado di disarticolare la cogenza della legge e porre le basi per la (ri)affermazione di diritti. La loro efficacia è risieduta anche nella capacità di bloccare o rendere impraticabile l’attuazione di leggi regressive, come la Legge 146 del 1990 che limita lo sciopero generale nei servizi essenziali, inibendo altresì il potere di precettazione solo minacciato da Salvini, nonché la liberticida Legge “Sicurezza”. Insomma, gli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre hanno determinato una cesura, un prima e dopo da cui da più parti e in più occasioni si è detto di “non voler tornare indietro”. SFUGGIRE ALLA RESTAURAZIONE Tuttavia, il dibattito e lo scontro che si è realizzato subito dopo il 3 ottobre è noto e sta rischiando di cancellare la potenza espressa dalle mobilitazioni contro il Genocidio a Gaza e il regime di guerra in corso. Oggi, infatti, ci troviamo con due date di sciopero generale proclamate: 1. 28 novembre: proclamato dapprima da Cub e Usb contro la Legge di Bilancio, con un piglio “avanguardistico” che ha agito, in maniera dissonante, al di fuori dei meccanismi di organizzazione che hanno permesso la riuscita degli scioperi unitari. Altre realtà sociali (tra cui le stesse Clap, Cobas, Adl Cobas, Sgb, Sial Cobas), singole e singoli, hanno scelto responsabilmente e lucidamente di confluire e costruire il 28 novembre, per mantenere aperto il processo di mobilitazione, cosi come richiesto a gran voce da quel complesso mondo di realtà associative, spazi sociali, singole e singole che si sono ritrovate sotto il nome di “equipaggi di terra”. 2. 12 dicembre: Nonostante gli appelli a confluire e “ripetere il 3 ottobre”, la Cgil ha deciso di convocare uno sciopero generale contro la Legge di Bilancio in questa data, presumibilmente a legge già approvata. > I motivi di tale divaricazione sono vari e, visti dalla prospettiva del > conflitto sociale aperto nel mese di settembre, e tutt’ora attuali, davvero > poco validi e ragionevoli. Indubbiamente, ha ragione il prof. Antonio Di Stasi quando sostiene che molti quadri delle organizzazioni sindacali di base e la Cgil si portano dietro una ferita storica risalente sia alla nascita del sindacalismo di base come scissione “a sinistra”, sia a quanto accaduto nel movimento del ’77 con la cacciata di Lama. Una ferita evidentemente non ancora rimarginata e tramandata. Da questo punto di vista forse aiuterebbe tutte e tutti noi, e soprattutto la possibilità di sviluppo delle lotte in questo paese, liberarci di un pezzo di memoria che evidentemente agisce come un fardello e impedisce l’azione e il cambiamento. Ma c’è dell’altro: il rapporto controverso tra organizzazione sindacale e sciopero. * Le organizzazioni sindacali (dalle più grandi alle più piccole) sono meccanismi complessi, rivolti per costituzione al loro interno (iscritte e iscritti), e la loro azione e rappresentanza riguarda soprattutto quest’ultimi. Di ciò bisogna tener conto quando si valutano le loro scelte. È innegabile che ogni organizzazioni sindacali risponda a una propria legittima autonomia, basata su logiche interne, identità specifiche e percorsi decisionali. * Invece, lo sciopero, la cui convocazione spetta alle organizzazioni sindacali, è in verità di tutte e tutti quelli che vogliono aderire, a prescindere dall’iscrizione. Dunque, la proclamazione ha ragioni “interne”, legate alle piattaforme varate in seno all’organizzazione, e da questo punto di vista potremmo dire che lo sciopero è di tutt3, ma non è detto che sia per tutt3. > Tuttavia, le ultime settimane lo hanno indicato chiaramente: lo sciopero in > grado di invertire la rotta e togliere certezze agli attori politici ed > economici di questo paese è lo sciopero “per tutt3”. Affinché lo sciopero sia per tutt3, è necessario fare come si è fatto il 3 ottobre: mettere lo sciopero a disposizione, convergere su un’unica data, e agire come moltiplicatori della “potenza” richiesta da molt3 attivist3, sindacalist3, realtà associative e singoli. Far dialogare le ragioni “interne” con quelle esterne è possibile. È possibile che sulla stessa data convergano organizzazioni sindacali differenti con parole d’ordine e pratiche diverse. Serve individuare un minimo comune denominatore fatto di rivendicazioni unificanti, pratiche e linguaggi funzionali allo sviluppo della mobilitazione, misurandosi con una presa di parola che va ben oltre i luoghi di discussione dell’organizzazione, relazionandosi con quelle soggettività che agli scioperi contribuiscono a dare corpo, gambe e anche parola. Nulla vietava, ad esempio, che le piattaforme rivendicative venissero poste in discussione in tavoli di confronto, non solo intersindacali, ma anche in processi ampi coinvolgendo associazioni, realtà sociali, singole e singole al fine di trovare delle questioni unificanti su cui rilanciare la mobilitazione. Continuare a opporsi al genocidio a Gaza, chiedere l’interruzione degli accordi commerciali con lo Stato di Israele interrompere l’esportazione di armi, rivendicare un utilizzo della spesa pubblica per potenziare la sanità, l’istruzione, il welfare a fronte dell’aumento del Pil del 5% per il programma di riarmo, aumentare i salari, rivendicare una tassa patrimoniale, poteva essere quel programma minimo su cui dare sostanza ad una mobilitazione che al momento rischia di arenarsi. Se ciò non è accaduto, è perché le ragioni interne e di natura soggettiva sono prevalse. Si è optato per la costruzione di scioperi di organizzazione e programmatici, scioperi che potremmo definire “ordinari” e in continuità con quelli che ci sono stati prima del 22 settembre 2025. Scioperi che invece di tenere aperti e alimentare spazi di conflitto, si limitano ad affermare se stessi. È forse superfluo (ma non inutile) dirsi come questa scelta, sebbene legittima e utile per il rafforzamento del ruolo dell’organizzazione sindacale, rischia pericolosamente di cancellare l’innovazione, la dirompenza e soprattutto l’efficacia degli scioperi moltitudinari del 22 settembre e 3 ottobre 2025. IL FUTURO NON È SCRITTO… Tuttavia, una strada è stata tracciata e il finale rimane “aperto”. Sappiamo bene che i processi sono meccanismi complessi, fatti di avanzamenti, errori, deviazioni e interruzioni, siamo destinate e destinati a fallire, fallire meglio. Nonostante questa battuta d’arresto, è necessario continuare a lavorare sui meccanismi di convergenza che hanno portato a fare dello sciopero generale, sociale e convergente lo strumento di organizzazione e di lotta in grado di riaprire una stagione di conflitto in questo Paese. Affinché ciò accada è necessario continuare a far si che lo sciopero continui a essere per tutt3. Su questo aspetto, tutte le organizzazioni sindacali che si sono messe a disposizione nelle settimane passate hanno una responsabilità, da cui non possono sfuggire, nei confronti di quelle centinaia di migliaia di persone che hanno attraversato le piazze del 22 settembre e 3 ottobre. Perciò, il 28 novembre, sebbene rischi di essere depotenziato dalle dinamiche sino ad ora descritte, rimane comunque un banco di prova importantissimo per continuare a navigare in acque alte e non arenarsi su logiche che rischiano di chiudere quello che potrebbe essere il prologo di una importante stagione di lotta. La copertina è di Gabriele Campanale SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Dallo sciopero di tutt3 allo sciopero per tutt3 proviene da DINAMOpress.
Togliere la reversibilità alle unioni civili? Un annuncio che apre un interrogativo sui diritti.
La proposta annunciata dal senatore Borghi non è ancora un emendamento, ma solleva interrogativi importanti sul rispetto dei diritti acquisiti e sulla necessità di monitorare con attenzione ogni tentativo di riduzione delle tutele per le unioni civili. Nei giorni scorsi, durante la discussione sulla legge di bilancio, il senatore della Lega Claudio Borghi ha dichiarato di voler proporre un emendamento per togliere alle coppie unite civilmente il diritto alla pensione di reversibilità. Ha detto: «Se vuoi la reversibilità, ti sposi». Ad oggi non risulta depositato alcun testo in Parlamento. Non si tratta quindi di una norma in esame, ma di un’intenzione politica resa pubblica. Ciò non riduce però la rilevanza del tema, perché i diritti civili non si mettono in discussione solo attraverso leggi approvate: spesso l’inizio del dibattito pubblico è il primo indicatore della direzione che una società può prendere. L’Italia ha riconosciuto le unioni civili nel 2016. Da allora, secondo i dati ISTAT, ne sono state celebrate poco più di 26.000, con un’età media intorno ai 48 anni. La questione previdenziale non è teorica: riguarda già coppie in una fase avanzata della vita lavorativa. Nonostante questo, l’impatto economico della reversibilità nelle unioni civili è estremamente ridotto. L’INPS stima che i beneficiari complessivi delle pensioni ai superstiti siano circa 1,3 milioni, per una spesa annuale intorno ai 40 miliardi di euro. La quota riconducibile alle unioni civili sarebbe inferiore allo 0,01 per cento, una cifra statisticamente irrilevante. Il valore della discussione non è quindi contabile, ma simbolico: l’idea che un tipo di famiglia possa vedersi tolta una tutela riconosciuta per legge. La normativa attuale è chiara. La legge 76 del 2016 garantisce alle unioni civili piena equiparazione con il matrimonio anche sul piano previdenziale. La Corte Costituzionale, nelle decisioni come la 138 del 2010, la 170 del 2014 e la 221 del 2015, ha più volte affermato che non può essere creato uno status inferiore per le coppie omosessuali. Il diritto alla reversibilità rientra nella protezione economica della famiglia tutelata dagli articoli 3 e 36 della Costituzione. Modificandolo selettivamente produrrebbe un trattamento discriminatorio difficilmente compatibile con l’ordinamento. Anche il confronto europeo è chiaro. Ventiquattro Paesi dell’Unione Europea riconoscono piena equiparazione tra matrimonio, unioni civili e matrimoni egualitari in materia di pensioni ai superstiti. L’Italia, con la legge del 2016, si è inserita in questo quadro. Un arretramento normativo significherebbe allontanarsi dagli standard europei oggi consolidati. È importante considerare il punto essenziale. Anche in assenza di un emendamento depositato, il fatto che un diritto possa essere messo in discussione nel dibattito politico merita attenzione immediata. Le modifiche non arrivano mai all’improvviso: nascono dichiarazioni, segnali, ipotesi che testano la disponibilità dell’opinione pubblica a un cambiamento. Monitorare questi passaggi significa evitare che un’idea marginale diventi, nel tempo, una proposta concreta. Non si tratta di allarmismo, ma di consapevolezza: un quadro di diritti stabili necessita di vigilanza continua, soprattutto quando si parla di tutele che incidono sulla vita quotidiana delle persone, come reversibilità, successioni, congedi o assistenza sanitaria. Nella discussione aperta da questa dichiarazione, la questione centrale è semplice. Non riguarda i conti pubblici, dove i numeri mostrano l’irrilevanza economica della misura, ma il modello culturale e giuridico che si vuole costruire. La reversibilità non è un beneficio aggiuntivo: deriva dai contributi versati nel corso della vita. Domandarsi se una parte della popolazione possa esserne esclusa significa interrogarsi sul valore che attribuiamo, come Paese, all’uguaglianza delle famiglie davanti alla legge. ISTAT – Dati sulle unioni civili https://www.istat.it/it/matrimoni-separazioni-divorzi INPS – Osservatorio sulle pensioni ai superstiti https://www.inps.it/dati-e-banche-dati/osservatori-statistici Legge Cirinnà (Legge 76/2016) – Testo ufficiale https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2016-05-20;76 Agenparl – Dichiarazioni di Claudio Borghi sulla reversibilità https://agenparl.eu/2025/11/10/manovra-borghi-emendamenti-vendere-mes-vale-15-miliardi-proporro-togliere-reversibilita-pensioni-unioni-civili-affitti-brevi-cancelliamo-o-cambiamo-decisamente/ Lucia Montanaro
Finanziaria del governo Meloni: economia di guerra contro la forza lavoro
Una delle principali critiche mosse alla nuova legge di bilancio del governo Meloni riguarda il ritorno all’austerità. In questi giorni è stato detto, non senza ragione, che questa manovra avrà scarsissimi effetti sulla crescita economica, polverizza le misure, senza affrontare i problemi strutturali del nostro modello di sviluppo nel contesto incerto dell’economia globale. Mancano concrete iniziative di sostegno al sistema di welfare pubblico. Le timide e parziali riforme fiscali rischiano persino di avere effetti regressivi, senza alcuna possibilità di attenuare le esplosive diseguaglianze di reddito. > È una legge di bilancio fortemente segnata dalla volontà del governo di > applicare rigidamente i vincoli del nuovo Patto di Stabilità e Crescita, > entrato in vigore nel 2024. A luglio dello stesso anno, ricordiamo, è stata attivata per l’Italia, insieme a un gruppo di altri sei paesi europei, la procedura per «disavanzo eccessivo» (Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia). Le nuove regole comunitarie impongono a molti governi di ridurre i disavanzi pubblici al fine di mantenere la traiettoria di contrazione del debito, in un mondo segnato dalla rapida rincorsa al riarmo. La discussione sulle nuove regole fiscali europee, in un continente dove le forze conservatrici e tardo-fasciste accumulano consensi, meriterebbe un approfondimento specifico. Quello che qui si proverà a fare, invece, è leggere questa legge di bilancio alla luce dell’attuale regime di guerra globale. Non si tratta solo di considerare il riordino della spesa pubblica a favore della difesa e della sicurezza e la conseguente contrazione di quella a favore degli ambiti civili. La questione di fondo è che questa nuova «economia di guerra» sembra orientare complessivamente le decisioni sul bilancio nazionale. > Le «logiche e mentalità belliche si sono insinuate e dominano sempre più le > relazioni economiche, sociali e politiche» – scrivono recentemente Mezzadra e > Hardt – «creando un’atmosfera di guerra». Diventa sempre più difficile distinguere il confine tra le politiche industriali e di sviluppo con le strategie militari. Le decisioni che riguardano le politiche fiscali di redistribuzione dei redditi da lavoro, al contempo, sono strettamente connesse alla trasformazione delle catene del valore tedesche. Come suggerito da Cynthia Enloe in Twelve feminist lessons of war, la dimensione della guerra si intreccia con l’ordine patriarcale. Non è un caso che nella legge di bilancio, le politiche per la riproduzione sociale, solo per fare un altro esempio, sono segnate da una logica morale conservatrice e familista. DEBITO PUBBLICO ED ECONOMIA DI GUERRA Dicevamo: la strategia del governo è, in primo luogo, quella di imprimere una drastica ed eccessiva riduzione del disavanzo primario. Secondo le stime del MEF contenute nel Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP), approvato al Consiglio dei Ministri il 2 ottobre (che anticipa la preparazione della legge di bilancio), il rapporto deficit/PIL nel 2026 scenderà al 2,8%, al di sotto della soglia del 3% prevista dalle regole europee. L’indebitamento netto continuerà a calare nel biennio successivo, arrivando nel 2028 al 2,3 % del PIL, distanziandosi dalla soglia limite stabilita dai Trattati. Secondo i dati sui conti pubblici rilasciati a settembre dall’Istat, nel 2024, il rapporto deficit/PIL è stato portato al 3,4% (dal 7,2% dell’anno prima, con le manovre espansive della fase pandemica alle spalle), con una discesa che continuerà anche nell’anno in corso. > La politica economica del Ministro Giorgetti a tutti gli effetti incarna la > torsione conservatrice delle politiche fiscali neoliberiste. Il forte disordine globale, il poderoso rallentamento dell’industria tedesca e, più di recente, l’incertezza dovuta ai dazi di Trump, sono solo una parte dei dati di contesto. La politica fiscale fortemente restrittiva del governo Meloni, sin dal suo insediamento, ha significativamente contribuito al risultato di un’economia asfittica. Il PIL reale, secondo le stesse previsioni del governo nel DPFP, si posizionerà allo 0,5% nell’anno in corso, per poi salire ad appena lo 0,7% nel 2026. La verità è che i pochi decimali di crescita previsti per il prossimo anno sono interamente attribuibili al residuo di spesa dei fondi PNRR. In assenza di queste risorse straordinarie, il contributo della legge di bilancio avrebbe un impatto negativo di 1,8 punti di PIL. Questa è solo una parte del problema. La debolezza dell’economia è stata interamente scaricata sulla forza lavoro. La tanto decanta politica di «risanamento dei conti» di Giorgetti si è resa possibile solo grazie a una redistribuzione a favore dei profitti e della rendita. La riduzione del disavanzo è il prodotto di una crescita iniqua e sbilanciata delle entrate fiscali, oltre che della sforbiciata di una parte dei crediti edilizi (super bonus) e altre forme di contenimento della spesa. L’aumento del gettito è spiegato dalle nuove entrate dovute alla crescita dell’occupazione dipendente, che oltre a essere povera e precaria è anche più fortemente tassata di altre fonti di reddito. In secondo luogo, le maggiori entrate per lo Stato si sono realizzate grazie al poderoso e odioso fenomeno del fiscal drag che opera sui redditi da lavoro, come conseguenza di un effetto perverso delle regole di tassazione nelle fasi inflattive. Il risultato è che le retribuzioni, a causa dell’aumento dei prezzi, oltre a perdere potere di acquisto, hanno subito una sorta di pressione fiscale ombra-aggiuntiva a vantaggio dei redditi da capitale e della ricchezza. > Giungiamo, così, a uno dei campi di maggiore tensione all’interno > dell’architettura macroeconomica neoliberale sul piano internazionale. Ancor > di più in questa nuova congiuntura segnata dalla guerra. Il governo ha stimato che il rapporto percentuale del debito sul PIL nel 2025 si attesterà intorno al 136,2% (in risalita rispetto all’anno precedente), per poi crescere nel 2026 al 137,4%. Il rialzo del rapporto debito/PIL è la doppia conseguenza della stagnazione dell’economia e dell’aumento della spesa per interessi, che arriverebbe fino al 4,3% del PIL nel 2028, a fronte di una contrazione degli investimenti pubblici nell’«economia fondamentale» (strade, ferrovie, ospedali, scuole, università, ricerca, etc…), essenziali per la nostra riproduzione sociale. Nel contesto della pandemia il livello del debito pubblico è aumentato in tutte le economie avanzate. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2025 il rapporto Debito/PIL in Ue sarà dell’83,1% (dal 79% nel 2019), in Francia salirà al 117%, in Germania passerà al 64% (dal 58,6% nel 2019), in UK sarà del 103,4%, negli Usa di Trump il 125%. Per l’”Economist” aleggerebbe sulle economie avanzate lo spettro di una inedita «crisi fiscale», del tutto diversa da quella degli anni ’70 raccontataci da James O’Connor, nel contesto delle imponenti lotte sociali. Il rapporto Debito/PIL nelle economie avanzate si attesta adesso intorno al 110%, prossimo al massimo storico, raggiunto solo durante le guerre napoleoniche, quando l’impero inglese inflisse un duro colpo ai francesi, creando le condizioni all’avvio dell’«età degli imperi» che giunse rovinosamente fino alla Grande guerra. È una articolata sequenza storica che porta a questo risultato e che ha stimolato alcuni cambiamenti strutturali nella forma di accumulazione capitalistica. Prima la crisi finanziaria del 2007-08, poi la pandemia, in ultimo, la guerra in Ucraina e in Medio Oriente. Al cuore di questa sequenza la crisi inflazionistica e soprattutto i repentini cambiamenti delle politiche monetarie. A ciò si aggiunge la fortissima tensione che investe la radice e le prospettive politiche dello statuto stesso delle banche centrali, così come le abbiamo conosciute nella stagione neoliberale. L’attacco aggressivo di Trump al governatore Powell della Fed è solo la dimostrazione, più esplicita, di questo processo profondo. In poco meno di venti anni si è passati da un modello di accumulazione fondato sull’indebitamento privato, a un altro, che vede nella nuova constituency del deficit spending “finanziarizzato” e del debito pubblico il nuovo motore della crescita. Un motore tutt’altro che stabile. Anzi, gli ingranaggi sono continuamente bloccati da attriti e forme di resistenze, se non da vere e proprie crisi. Come quando all’annuncio dei dazi di Trump nel Liberation day di aprile, gli operatori finanziari hanno risposto con uno «sciopero degli investimenti» mettendo a repentaglio la tenuta dei Treasury americani, principale salvagente del mercato finanziario globale. Di fronte a questi rischi di crisi di fiducia che potrebbero creare problemi alle finanze pubbliche il governo italiano, in linea con le teorie economiche dominanti presso la Commissione europea, risponde che il modo migliore per placare gli animal spirits della finanza sarebbe quello di ridurre tendenzialmente e in modo indiscriminato il debito, soprattutto in una fase stagnante. Senza considerare, semmai, che la soluzione risiede piuttosto nel «segreto laboratorio» della produzione della moneta e della sua circolazione, ovvero sul terreno dei sistemi di finanziamento del debito pubblico, ripensando dalle fondamenta un «governo della moneta» pienamente democratico. È in questa condizione di profonda incertezza che, l’Italia e i paesi europei, hanno intrapreso il loro cammino verso il riarmo, per rispondere al nuovo target Nato stabilito durante il summit all’Aja di giugno, dove i paesi aderenti si sono impegnati a portare la spesa per la difesa al 5% del PIL entro il 2035. VERSO UN NUOVO KEYNESISMO MILITARE FINANZIARIZZATO? La contrazione del disavanzo primario, portata oltre le raccomandazioni del Consiglio europeo di aprile, ha uno scopo principale, quello di recuperare i margini contabili necessari per finanziare la spesa militare. Stimare la spesa per la difesa non è semplice. Nella legge di bilancio ci sono allocazioni finanziarie esplicite, altre meno. Sono assegnate direttamente al Ministero della Difesa, ma anche al MEF e al MIMIT. Serve, dunque, adottare un metodo di revisione della spesa. Anche le poste attribuite palesemente alla Missione «Difesa e sicurezza del territorio», solo per fare un esempio, vanno scorporate della parte destinata alla sicurezza civile. L’osservatorio MIL€X propone da anni una metodologia di calcolo. > Per il 2026 le risorse a disposizione per la sola spesa militare diretta > arriverebbero complessivamente a 33,9 miliardi di euro circa, con un > incremento del 2,8% rispetto all’anno precedente (nel 2017 erano 23,3 miliardi > di euro a valori correnti). In dieci anni, dal 2014 al 2024, la spesa militare in percentuale del PIL è aumentata del 30,7% in Italia, più della Francia +13,2%, ma molto meno della Germania +78,1% e, soprattutto, della Polonia (+119%) e degli altri paesi dell’est Europa. È un processo che specialmente nel nostro continente si è intensificato con l’invasione russa della Crimea, accentuatosi poi negli ultimi anni. Si tratta, pertanto, di tenere insieme le dinamiche storiche così come le rotture e le accelerazioni. Questa, però, resta solo una parte delle risorse disponibili a scopi militari. La nuova strategia Nato, ampiamente affrontata nel dibattito pubblico, è stata declinata e preparata in anticipo (marzo 2025) da una comunicazione della Commissione europea, che ha previsto la possibilità di attivare la «clausola di salvaguardia» inserita nel Regolamento UE 1263/2024, che consente agli stati membri di deviare dalla traiettoria della spesa per le spese militari aggiuntive fino al 2028. Il governo Meloni, nel già richiamato DPFP, ha confermato che richiederà il ricorso al Security Action for Europe (SAFE), il nuovo strumento finanziario europeo istituito per sostenere gli investimenti nella difesa. Il Piano vale complessivamente 150 miliardi di euro e la Commissione a settembre ha pre-assegnato all’Italia una quota di 14,9 miliardi. Il SAFE sarà finanziato grazie all’emissione di obbligazioni sui mercati finanziari e le risorse saranno trasferite agli Stati membri sotto forma di prestiti garantiti dal bilancio europeo. «Entro la scadenza del 30 novembre» – si legge nel DPFP – «dovrà essere inviata alla Commissione la richiesta formale di prestiti accompagnata da un Piano dettagliato con i programmi da finanziare, se possibile mediante commesse condivise con altri Stati membri». La novità, per usare un’espressione di Daniela Gabor, è che siamo dinanzi a un intervento pubblico che assume le caratteristiche del de-risking State. La spesa pubblica rivolta all’aumento della capacità produttiva dei «sistemi d’arma» (anche attraverso partnership strategiche tra la Leonardo e la tedesca Rheinmetall, ad esempio), per la protezione delle cosiddette infrastrutture critiche, per l’innovazione e il rafforzamento della base industriale nelle applicazioni dual use, è impiegata allo scopo di minimizzare i rischi di investimento privati e opera sempre più coerentemente dall’interno dei flussi finanziari internazionali. In questo senso, intendiamo che il «keynesismo militare», non è più quello osservato durante la guerra fredda, ad esempio, poiché interagisce più dall’interno con le logiche di un complesso digitale-militare-industriale fortemente finanziarizzato. > L’altra questione con cui fare i conti è che l’orizzonte neo-austeritario del > nuovo Patto di Stabilità e Crescita e la spesa pubblica espansiva per la > difesa coesistono. Sono due facce di questa Europa sempre più autoritaria. D’altronde, non è neppure la prima volta in assoluto che queste due tendenze si intrecciano sul piano storico. Pur escludendo qualsiasi confronto diretto tra due epoche irrimediabilmente diverse, l’economista e politico italiano Maffeo Pantaleoni, consigliere e sostenitore di Mussolini nonché membro del Senato, in un articolo dal titolo esplicito «Finanza fascista» del 1923, caldeggiava per un forte rigore di bilancio secondo la più tradizionale logica liberista e, allo stesso tempo, sosteneva il mito guerresco dell’impero in armi attraverso la spesa pubblica espansiva. Sia il nazionalismo che il fascismo venivano ricondotti da Pantaleoni all’ortodossia liberista, nella speranza di realizzare un’autentica «restaurazione capitalistica» connessa ai propositi di una destra storica, con una vocazione illiberale e antidemocratica. LA GUERRA CONTRO LA FORZA LAVORO Il recente Rapporto mondiale sui salari (2024-25) dell’ILO conferma la pesante «crisi salariale» italiana. Negli ultimi diciassette anni i salari reali italiani hanno accumulato la perdita più elevata nell’ambito dell’economie avanzate del G20, con una contrazione pari a -8,7%. Pochi giorni fa l’Istat ha pubblicato le stime sulle retribuzioni contrattuali nel III trimestre dell’anno. A fine settembre risultano 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica, che coprono poco più della metà dei dipendenti (56,9%, pari a circa 7,5 milioni). Sono 29 i contratti collettivi in attesa di rinnovo, coinvolgono circa 5,6 milioni di persone, il 43,1% dei dipendenti. Se non corressimo il rischio di abusare troppo in espressioni militaresche, a ragione avremmo diritto a dire che la forza lavoro in Italia subisce gli effetti di una «guerra dei trent’anni». In questo quadro, particolarmente grave, il governo introduce tre principali misure fiscali, del tutto insufficienti (4 miliardi di euro per il 2026-28 in totale): * riduce l’aliquota IRPEF nello scaglione 28-50 mila euro, che passerebbe dal 35% al 33% (che costa 2,9 miliardi di euro nel 2026); * introduce una imposta sostitutiva al 5% per gli incrementi retributivi dovuti all’attuazione di rinnovi contrattuali (del 2025-2026), ma solo per i redditi lordi inferiori a 28 mila euro (appena 0,5 miliardi di euro nel triennio 2026-28); * per il 2026-27 l’imposta sostitutiva per i premi di risultato è decurtata dal 5% al 1%, mentre il limite agevolabile salirebbe da 3 mila euro a 5 mila euro annui (pari a 0,6 miliardi di spesa nel prossimo triennio). > Al di là dalle dichiarazioni propagandistiche della maggioranza, sono gli > stessi documenti ufficiali del MEF a dimostrare che queste misure non avranno > nessun effetto positivo sulle diseguaglianze e la povertà. Secondo le stime del ministero dell’economia l’impatto della legge di bilancio lascerà completamente inalterato il rapporto tra il reddito posseduto dal 20 per cento della popolazione con reddito più alto, rispetto al reddito posseduto dal 20 per cento della popolazione con reddito più basso (pari a 5,7% dal 2026 al 2028, in linea con l’anno precedente). Così come non cambierà nulla per l’incidenza della povertà assoluta familiare, che non si smuoverà dall’attuale 8,4%. Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che si tratti solo di misure insufficienti. Modificare i salari solo attraverso la leva fiscale redistributiva, premiando soprattutto in modo esorbitante la componente accessoria dei premi di risultato (l’intramontabile mito padronale della produttività individuale del lavoro), non significa solo fare poco. Significa, piuttosto, agire nella struttura della retribuzione, favorendo un modello di contrattazione che nel medio e lungo periodo continua a impoverire ancora di più i salari e le pensioni. È facile pensare che i governi conservatori, autoritari o espressamente tardo-fascisti vanno con la mano pesante contro chi lavora.    > È più difficile saper riconoscere che le destre non rispondono solo a > interessi capitalistici e logiche politiche “arretrate”, ma piuttosto possono > essere in grado di imporre nuove regole di produttività della forza lavoro e, > dunque, innovazioni sul terreno dello sfruttamento. È per tutte queste ragioni che diventa fondamentale contrastare la politica economica di questo governo, anche perché a questi elementi si aggiunge il problema del sostanziale definanziamento delle risorse per il welfare (sanità, ricerca, scuola, etc…). L’«economia del genocidio», per usare un’espressione della relatrice speciale dell’ONU per la Palestina Francesca Albanese, è il risultato di una complessa concatenazione di politiche sul piano internazionale, che come descritto, hanno un impatto significativo sulle politiche economiche europee. Per questo l’energia delle mobilitazioni a favore del popolo palestinese è difficilmente separabile dalle lotte sociali necessarie, qui, in Italia e in Europa. La copertina è di Flickr (dominio pubblico) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Finanziaria del governo Meloni: economia di guerra contro la forza lavoro proviene da DINAMOpress.
L’Istat smonta la propaganda del governo sulla manovra
“I fatti hanno la testa dura” è una massima che racchiude bene l’adesione che si deve avere verso le dinamiche strutturali da parte di chi vuole portare avanti un’analisi concreta di quel che si ha davanti. Se il governo è un governo padronale e mette in campo misure propagandistiche, prima […] L'articolo L’Istat smonta la propaganda del governo sulla manovra su Contropiano.
Il fallimentare bilancio di una piccola legge
Come abbiamo detto in audizione parlamentare, quella del governo è una legge di bilancio modesta e sbagliata, che condona gli evasori, grazia le grandi ricchezze, fa elemosine sociali e aumentare le spese militari. Ciò che serve, invece, è un’economia di pace, quella proposta da Sbilanciamoci! nella controfinanziaria che presenteremo il prossimo 4 dicembre_   Il disegno di legge di bilancio del governo ha raccolto nelle audizioni al Senato, e fuori, due soli encomi: quello scontato del CNEL di Brunetta e della CISL, ex sindacato di lotta e ora solo di governo della segretaria Fumarola. Per il resto la legge di bilancio è stata asfaltata – con toni istituzionali e rispettosi – dall’Istat, dalla Corte dei Conti, dalla Banca d’Italia, dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio e poi con toni più espliciti dai sindacati, dalle forze economiche e sociali, dagli enti locali. Il ministro Giorgetti, in modo doroteo, liquida questi giudizi come “tecnici”, ricordando che al governo spetta il dovere di stabilire l’orientamento politico. Di questa legge rimangono pochi aspetti positivi: non si va avanti sulla flat tax (non ci sono  i soldi) e si mantengono i conti “in ordine”. Questo, per permettersi il prossimo anno – una volta usciti dalla procedura d’infrazione – di fare una legge di bilancio elettoralistica a colpi di regalie e di prebende alle clientele. I “conti in ordine”, oggi, si mantengono facendo cassa sui lavoratori, i pensionati e utilizzando i soldi del PNRR per le coperture. Per il resto, come ha detto Sbilanciamoci! in audizione lunedì 3 novembre, si tratta di una legge lacunosa, sbagliata e modesta. E’ una legge modesta, perché più di una legge di bilancio si tratta di una leggina di bilancio, rinunciataria e senza nessuna ambizione. E’ una legge lacunosa perché è più lungo l’elenco di quello che non c’è, di quello che c’è. E’ una legge sbagliata perché condona gli evasori fiscali (viene chiamata “pace fiscale”, ma è una resa fiscale), aumenta le spese militari, grazia le grandi ricchezze e i grandi patrimoni, fa elemosine sociali invece di affrontare la povertà assoluta in crescita e le diseguaglianze che sono in aumento. La riforma dell’IRPEF favorisce i ricchi, i 2 miliardi di euro sui salari si traducono in qualche euro in più al mese sugli stipendi, le risorse stanziate per il Servizio sanitario nazionale sono una elemosina, i vari bonus, una piccola toppa di fronte alle emergenze sociali del Paese. Si tagliano i fondi alla lotta alla povertà, al trasporto pubblico locale, allo sviluppo sostenibile, agli investimenti pubblici, ai centri antiviolenza. Sullo sfondo la legge proietta le ombre di un’economia di guerra. L’aumento delle spese militari per il 2026 è di 1 miliardo e 100 milioni, ma usciti dalla procedura d’infrazione, la relazione alla legge di bilancio del MEF afferma che nel 2026 sarà dedicato alla spesa militare lo 0,15% del PIL, nel 2027 lo 0,30% e nel 2028 lo 0,50%: quindi all’incirca 22-23 miliardi di euro per le armi. Risorse sottratte alla sanità, all’ambiente, al lavoro, ai diritti e che finiranno nelle tasche dei mercanti di morte. Serve, invece, un’economia di pace, quella proposta da Sbilanciamoci! nella controfinanziaria che presenteremo al Senato il prossimo 4 dicembre. Redazione Italia