Come si può parlare di guerra e pace nelle scuole? Cominciamo da una Semantica di Pace
PUBBLICATO SULLA RIVISTA LA LANTERNA IL 15 LUGLIO 2025
PUBBLICATO SU WWW.AGORASOFIA.COM IL 16 LUGLIO 2025
Affermare al giorno d’oggi che non ci sia abbastanza clamore intorno ai temi
della guerra e della pace potrebbe risultare completamente fuori contesto, dal
momento che quasi quotidianamente si viene letteralmente bombardati, sia
attraverso i maggiori media mainstream sia attraverso i canali social, da
immagini e notizie relative a conflitti armati in corso e a proteste che
cercano, in nome di un qualche richiamo al pacifismo, di contestare quella
barbarie.
Una simile sovraesposizione alla guerra e alla pace, tuttavia, necessita di uno
sfondo di comprensione, di un contesto significativo in cui inserire i fatti, di
una ermeneutica scevra da condizionamenti e prese di posizione preventive. Quel
contesto storicamente imparziale e logicamente argomentato non può che essere
costruito nelle scuole, cioè nei luoghi deputati all’insegnamento di orizzonti
simbolici caratterizzati dalla solidarietà, dalla cooperazione, dall’accoglienza
e non dal mero apprendimento di procedure, competenze tecniche e posture
flessibili in linea con il mercato del lavoro. Ma, se così stanno le cose, se
nelle scuole ancora insegnano docenti in carne e ossa che progettano la
didattica, che adottano una sorta di immaginazione utopistica per prevedere
delle finalità per il loro insegnamento, allora la loro responsabilità è totale
in riferimento al bagaglio di valori che si viene a determinare nella realtà a
partire dai contesti educativi.
Ora, prendendo come riferimento l’universo simbolico che è scaturito dalle
parole degli studenti e delle studentesse che sono intervenuti/e nelle varie
occasioni in cui abbiamo portato in pubblico o nelle scuole le questioni
denunciate dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università, possiamo affermare con qualche grado di certezza che essi/esse già
mostrano in maniera altamente preoccupante una sorta di normalizzazione della
guerra e una preoccupante rassegnazione davanti al fatto che si tratterebbe di
un fenomeno necessario nello sviluppo storico. La sovraesposizione mediatica a
immagini di guerra e il coinvolgimento politico del nostro Paese in vari scenari
bellici con annessa legittimazione mediatica ha generato, in sostanza, un’idea
della guerra come tratto ineluttabile, connaturato all’umanità e alla quale non
serve opporsi. Dai loro discorsi sembra quasi che sia stata riesumata una sorta
di impostazione ideologica riconducibile al filosofo tedesco Hegel, il quale
tendeva a rimarcare verso i primi dell’Ottocento, nell’apoteosi della boria
della cultura tedesca, l’idea che la guerra fosse lo strumento naturale per
l’evoluzione degli Stati.
Davanti a questa condizione piuttosto diffusa, a questo mondo dato per scontato
da parte dei/delle più giovani, forse sarebbe il caso di mettere da parte, per
il momento, la critica del reale, l’analisi delle circostanze per cui ci sono le
guerre attuali, in Palestina come in Ucraina e negli altri cinquantasei scenari
mondiali. Se non altro, forse emerge la necessità, quantomeno, di affiancare a
quelle analisi geopolitiche un lavoro più profondo di tipo antropologico, o
addirittura ontologico, sulla guerra come destino dell’umanità e portare nelle
scuole una concreta proposta didattica di pace, che ragioni storicamente e
logicamente sulla necessità di ricorrere in maniera obbligata al conflitto
armato per la risoluzione delle controversie nazionali o internazionali.
E tutto ciò, ovviamente, sempre con il dubbio che parlare di guerra, come
di violenza e di male assoluto, nelle scuole possa essere, paradossalmente, un
modo per portare all’attenzione degli studenti e delle studentesse un tema che,
invece di rimanere fuori dalla storia, riesca ancora inspiegabilmente, in un
clima di irrazionalismo diffuso, ad affascinare le giovani generazioni in cerca,
forse, di affermazione, di riscatto, di macabra attrazione nei confronti del
deprecabile pur di salire alla ribalta e ottenere notorietà.
Davanti ad un simile scenario assiologico riteniamo che studiare la Pace come
tema e, di conseguenza, insegnare la pace come argomento specifico sia
necessario. Si tratta di un assunto che deriva da un inconfutabile dato storico,
giacché dopo ogni guerra inizia il periodo di ricostruzione e di pacificazione,
che spesso è anche più lungo della occorrenza della guerra, ma evidentemente il
nostro gusto per l’orrido, per il torbido, sopravanza quello per la bellezza,
che senza alcun dubbio viene distrutta durante la guerra.
Ci siamo mai chiesti come mai nei manuali di storia in uso nelle scuole
all’interno dei capitoli l’accento venga posto, con dovizia di particolari,
sulla follia della guerra? Come mai ci sono ricercatori e storici che conoscono
ogni dettaglio militare e decidono di corredare i nostri manuali di paragrafi
interi su tecniche di guerra, materiale bellico utilizzato e scoperte militari
devastanti per l’umanità? Il fatto che gli studenti e le studentesse conoscano i
minimi dettagli sulle vicende di guerra obbedisce solo ad una esigenza
informativa? Qual è la ricaduta educativa della sovrabbondanza di un lessico
costellato di semantica di guerra e violenza? E ancora, come mai si parla di
Prima, Seconda Guerra mondiale e non di Prima, Seconda Pace mondiale, che pure
sono esistite, ma non godono di una consistenza ontologica prima che semantica?
Sarà mai che questo eccesso di conoscenza e di ricerca inerente al tema della
guerra e delle sue peculiarità sia funzionale, malgrado l’esimio lavoro degli
storici di professione, alla sua normalizzazione, alla sua presenza costante
all’interno dell’universo delle possibilità umane di gestione dei conflitti?
Insomma, a noi pare che la sproporzione tra una “semantica di guerra” e una
“semantica di pace” all’interno dei progetti educativi e dei programmi
scolastici in generale, almeno dalle scuole secondarie di primo grado in poi,
sia abbastanza evidente. Tutto ciò determina, in qualche modo, la costruzione di
un universo simbolico nelle menti degli studenti e delle studentesse che dà
consistenza ontologica alla guerra e non alla pace, mentre quest’ultima viene,
nella migliore delle ipotesi, ritenuta un’appendice momentanea dell’urgenza
distruttiva della guerra, percepita come connaturata all’essere umano.
In realtà, non solo sappiamo con chiarezza dalla storia, dall’antropologia,
dalla sociologia e dalla psicologia, che le cose non stanno proprio così, cioè
che la guerra irrompe nella storia in un momento preciso, vale a dire quando le
popolazioni sono diventate stanziali e si è pensato di cominciare a occupare la
terra e dichiararla di proprietà esclusiva secondo una prima forma di
appropriazione indebita ante litteram. Ma ciò che sappiamo con altrettanta
certezza è che vi è una galassia sconfinata di studi, di teorie, di pratiche
della pace, perlopiù coltivata dai Centri Studi, associazioni, circoli
culturali, organizzazioni non governative, che, però, non trova dignità
accademica, non trova investimenti, a differenza della galassia degli studi e
delle pratiche di guerra, che incontrano gli interessi di industrie belliche che
fatturano miliardi.
Ad ogni modo, la semantica della pace va coltivata a partire dal lessico che
utilizziamo quotidianamente. Come educatori ed educatrici che assumono l’impegno
politico e civico di presentarsi come “docenti pacefondai”, si può avviare una
grande rivoluzione lessicale con un piccolo sforzo consapevole orientato alla
smilitarizzazione del linguaggio: mai più militanti, ma attiviste/i; mai
più concentramento, ma incontro; mai più in trincea o in prima linea, ma a
disposizione. Si tratta di una piccola e costante attenzione lessicale che porta
con sé una più grande rivoluzione semantica, di senso, un cambiamento di
prospettiva che genera nuovi orizzonti di nonviolenza, che è quello di cui la
scuola e l’umanità hanno bisogno e su cui don Tonino Bello ci ammoniva tempo fa:
«Smilitarizziamo il linguaggio, spesso così intriso di assurde categorie
belliche, che dà l’impressione di un agghiacciante bollettino di guerra.
Preserviamo i nostri ragazzi, che hanno sempre più come principale referente lo
schermo televisivo, dalle trasfusioni di violenza che essi metabolizzano
paurosamente» (A. Bello, Convivialità delle differenze Meridiana, Molfetta 2006,
p. 51).
Michele Lucivero, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università