La battaglia di Los Angeles
Un primo schizzo di queste giornate di lotta.
CARTOLINA DAL PRECIPIZIO
La violenta aggressione del senatore Alex Padilla è stata certamente fra gli
eventi più clamorosi della guerra mossa da Donald Trump alla
California. L’episodio è avvenuto durante la conferenza stampa in cui la
ministra della sicurezza Kristi Noem ha dichiarato che le sue milizie
sarebbero rimaste a Los Angeles fino alla «liberazione della città
dall’oppressivo socialismo della sindaca Karen Bass e del governatore
Gavin Newsom», la prima formulazione esplicita di un auspicato regime change in
uno Stato dell’Unione.
Dopo aver sdoganato per anni la dialettica del sopruso, dell’insulto e
dell’ingiuria, il regime che si è impadronito del governo più potente del
mondo ha adottato senza più mezzi termini la prepotenza come prassi politica e
fatto di Los Angeles il banco di prova per un salto di qualità
verso «l’autoritarismo competitivo”, il termine coniato da Steven Levitski per i
regimi come la Turchia o l’Ungheria di Orbán, in cui permangono gli orpelli
superficiali della democrazia (elezioni, cariche e istituzioni dello stato) ma
di fatto c’è poco che contrasti davvero il potere quasi assoluto di
un tiranno autocratico.
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di Luca Celada
Nel caso americano, l’uomo che vuole farsi Re riunisce disturbi della
personalità narcisista, smisurata ambizione e interessi personali, oltre a
possibili sintomi di incipiente demenza senile. La conferma elettorale e
l’immunità preventiva ottenuta dalla Corte suprema, lo rendono più potente e
pericoloso di ognuno di suoi 45 predecessori, in una carica che l’ordinamento
statunitense investe già comunque di enorme potere esecutivo.
L’attacco al senatore di Los Angeles ne è stata la rappresentazione plastica. Le
immagini di Padilla, spintonato fuori dalla sala stampa mentre tenta di
obiettare, buttato a terra e ammanettato dietro la schiena per aver posto una
domanda, hanno restituito in un piano sequenza, tutta la violenza iniettata nel
discorso pubblico in un decennio di trumpismo e dato all’America un’idea
abbastanza chiara di cosa si ottiene quando a un decennio se ne aggiunge un
altro.
L’attacco al senatore di Los Angeles ne è stata la rappresentazione plastica. Le
immagini di Padilla, spintonato fuori dalla sala stampa mentre tenta di
obiettare, buttato a terra e ammanettato dietro la schiena per aver posto una
domanda, hanno restituito in un piano sequenza, tutta la violenza iniettata nel
discorso pubblico in un decennio di trumpismo e dato all’America un’idea
abbastanza chiara di cosa si ottiene quando a un decennio se ne aggiunge un
altro.
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di Luca Celada
A Los Angeles, il presidentissimo ha deciso di imporre la presidenza reinventata
come carica imperiale. Mobilitando l’esercito e schierandolo sulle strade con
mezzi corazzati e armi da guerra in «supporto alle operazioni di
rimozione» degli immigrati, Trump ha sfondato la linea rossa della proibizione
costituzionale contro l’impiego delle forze armate per il controllo dell’ordine
pubblico.
L’obbiettivo, ovviamente, non è la semplice imposizione dell’ordine o anche il
completamento della «maggiore deportazione di sempre». L’esercito del
presidente, schierato in una città americana contro la volontà delle autorità
locali, rappresenta un oltraggio senza precedenti all’ordinamento federalista,
mirato a consolidare il potere e servire da monito ad altre amministrazioni
«inadempienti», in particolare le grandi città “santuario” dove per ordine
presidenziale, attraverso il social Truth, verranno presto dislocate altre forze
di «liberazione involontaria».
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di Luca Celada
Con l’operazione California il trumpismo ha superato a destra gli epigoni dei
sovranismi europei. Il governo che si appresta a istituire un
«ministero per la remigrazione» si pone ora a paradigma di ogni
delirio eugenetico, pur accarezzato dalle ultradestre occidentali, ma che
nessuno aveva per ora avuto l’ardire di mettere in pratica in questi termini.
Mentre ci si stracciavano le vesti per la caduta di Francia, Germania o
Inghilterra in mano alle destre identitarie, è stato l’occidentale “faro di
democrazia” a capitolare per primo. In sei mesi gli Stati Uniti hanno subito
un’accelerazione vertiginosa verso un regime post-democratico che vediamo ora
prendere forma. Non ha esagerato il governatore della California quando nel suo
appello alla cittadinanza ha detto: «ll momento che avevamo temuto è giunto».
LA “REMIGRAZIONE” E IL REGNO DI STEPHEN MILLER
A differenza di molti altri leader sovranisti, Donald Trump non è un ideologo. È
piuttosto il più agnostico degli opportunisti, un istintivo demagogo che
ha individuato il panico identitario e la paranoia razziale come gli espedienti
più efficaci per raggiungere il potere. Nel processo ha altresì abilitato
pericolosi fanatici elevando figure dagli anfratti reconditi della rete e
dalle milizie neofasciste a posizioni di smisurato potere – dagli autori del
Project 2025 agli insurrezionalisti graziati del 6 gennaio.
Per la pratica “remigrazione” l’architetto dell’epurazione è Stephen Miller,
il quarantenne ministro ombra, affettuosamente noto alle concittadine e ai
concittadini come “Santa Monica Goebbles”, grazie al physique du rôle e a un
fattore simpatia che lo avvicina al propagandista hitleriano. Miller è ricordato
come fanatico sin dai tempi in cui frequentava il liceo di Santa Monica, il
quartiere balneare di Los Angelese. Invece di dedicarsi al surf e alle
canne come molte compagne e molti compagni, inveiva già allora, come unico
militante conservatore della scuola, contro correttezza politica, bidelli
sfaticati e soprattutto l’eccessiva presenza di studenti di origine ispanica.
*
di Luca Celada
La rapida carriera attraverso gabinetti politici e podcast di estrema destra
hanno affinato il fanatismo di gioventù in pratica di odio full-time. Oggi, come
l’esponente forse più potente del gabinetto Trump, Miller è «singolarmente
dotato della capacità di odiare», nelle parole del corrispondente della ABC
News, Terry Moran. Moran, che per la sua valutazione postata sui social è
stato licenziato dall’emittente su richiesta della Casa Bianca, ha scritto che
Miller «si nutre di odio alla stregua di un sostentamento spirituale», ed è
difficile dargli torto.
È stato Miller, nella settimana prima che scattasse l’operazione Los Angeles, a
convocare una cinquantina di comandanti di agenzie del servizio immigrazione (la
più famigerata è ICE, ma ve ne sono molte altre, riunite sotto l’egida del DHS –
Department of Homeland Security). In una sfuriata che testimoni dicono abbia
rimbombato nei corridoi della Casa Bianca, Miller ha definito patetici i numeri
degli arresti praticati fino ad allora e ordinato che venissero moltiplicati. La
quota minima sarebbe stata fissata a 3000 arresti al giorno.
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di Luca Celada
Basta quindi privilegiare clandestini con effettive fedine penali (e rientranti
quindi nell’ipotetica categoria dell’«invasione criminale» tanto sventolata da
Trump). D’ora in avanti tutto valeva, erano da prendere e far
sparire immigrati da ogni dove e con ogni mezzo. I risultati non si sono fatti
attendere: colonne di mezzi corazzati hanno tuonato nelle strade della città
dove più della metà dei 14 milioni di cittadini sono ispanici, il 30% sono nati
all’estero e potenzialmente un milione e mezzo non hanno permesso di
residenza legale. Pattuglie in assetto “Falluja” [città iraqena dove l’esercito
statunitense ha effettuato pesanti operazioni militari, che hanno anche portato
a stragi di civili, ndr] o in alternativa squadre paramilitari con maschere sui
volti e senza nominativi sulle divise, si sono sparse nei quartieri, nei posti
di lavoro, poi nei campi agricoli del cesto da dove proviene più della metà
della verdura del paese e dove il 75% dei braccianti non hanno permessi (con la
piena connivenza delle aziende) e hanno cominciato a strappare violentemente la
gente dalle loro vite.
Si sono prodotte scene drammatiche di famigliari che tentavano di bloccare le
auto senza insegne sulle quali venivano caricati le desaparecidas e
i desaparecidos, e sono state arrestate e stati arrestati e a loro
volta malmenate e malmenati, bambine e bambini strappate e strappati dalle
braccia di madri, “rimozioni” strazianti anche di minorenni in affidamento…
scene scomposte di violenza indiscriminata e pianificata, documentata non solo
nei telefonini dei testimoni. Le squadracce sono spesso accompagnate da
telecamere per la produzione di filmati propagandistici. La
ministra Noem (famigerata per i selfie fatti nel lager salvadoregno
di CECOT) è notoriamente seguita da truccatori e troupe personali quando si
unisce ai rastrellamenti.
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di Luca Celada
Alcune di queste agenzie mantengono canali social dove vengono diffusi i video
degli arresti, montati su accattivanti basi musicali. Siamo oltre
i semplici “servitori dello Stato” che seguono i proverbiali ordini e più vicini
a milizie fedeli al tiranno con carta bianca per far fronte a una cittadinanza
dissenziente.
Già durante il primo mandato, gli agenti preposti al confine erano stati elevati
a una specie di guardia pretoriana da Trump, che li aveva spesso disposti in
formazione sui palchi dei suoi comizi. Lo scorso aprile il presidente ha
promulgato un ordine esecutivo intitolato “sguinzagliare le forze dell’ordine”
– le immaginabili conseguenze si stanno ora esplicitando sulle strade di Los
Angeles.
Gli agenti delle varie agenzie per l’immigrazione sono stati impiegati nella
seconda metropoli del Paese come forza di occupazione, strumenti della volontà
presidenziale. Nella sua fatidica conferenza stampa, la
ministra Noem era affiancata da un ufficiale della Border Patrol, Gerald Bovino,
che ha definito «mozzafiato» (breathtaking) la prospettiva di poter
improvvisamente menare le «mani come da tempo molti avrebbero voluto».
Occorre puntualizzare che non si tratta qui dell’interdizione di clandestini
alla frontiera. Quando si parla di “remigrazione” si intende la rimozione
di persone che in molti casi vivono a lavorano in città da decenni, hanno
famiglie, case, figlie e figli con la cittadinanza, pagano tasse.
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di Luca Celada
Quello che passa in questi giorni in città, dove interi quartieri hanno ormai le
saracinesche abbassate e la gente ha paura di uscire di casa per timore di
venire “scomparsa” senza rivedere più i propri cari, è una sindrome
“cisgiordana”: la città come territorio occupato da forze ostili, il controllo
militare di una popolazione da sottomettere e infine eliminare. Le immagini di
pattuglie in assetto di guerra che rovistano nelle stanze di bambine e bambini a
East Los Angeles non possono non rimandare quelle dei soldati IDF che si provano
i vestiti abbandonati nelle case distrutte a Gaza. Il completamento di
una metastasi “israeliana” che porta infine i suoi frutti avvelenati nel cuore
dell’Occidente connivente.
La resistenza non è tollerata, chi obietta viene arrestato e tacciato di
fiancheggiamento. L’abrogazione del giusto processo per le persone deportate,
poi per le e gli studenti straniere si è inevitabilmente allargato alla
cittadinanza e sempre più a politici di opposizione – altro sicuro sintomo
autoritario. Un’escalation intimidatoria che per ultimo ha fatto scattare le
manette, apposte dai soliti energumeni, al revisore dei conti e candidato a
sindaco di New York, Brad Lander, accusato di «fiancheggiamento». A oggi la
stessa sorte è toccata al sindaco di Newark, Ras Baraka (ostruzione di pubblico
ufficiale), alla giudice del Wisconsin Hannah Dugan (favoreggiamento di
clandestino), alla parlamentare del New Jersey LaMonica McIver (interferenza con
agenti federali) e, negli stessi locali del Congresso, all’assistente del
parlamentare di New York Jerry Nadler.
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di Luca Celada
Ognuno di questi è un inesorabile passo verso l’extralegalità che
arruola reparti scelti al servizio diretto del regime e sancisce il ministero di
Giustizia come arma di repressione di stato. Sono passati sei mesi ma gli Stati
Uniti sono già lontani anni dal Paese che furono.
E c’è la sensazione di essere sulla soglia di un’escalation ancora più
sanguinosa, una marea montante di violenza politica che questa settimana ha
registrato l’assassinio di Melissa Hortman, la capogruppo democratica nel
Parlamento del Minnesota, giustiziata nella sua casa assieme al marito da un
fanatico antiabortista. Per chi ha seguito la parabola trumpista non si tratta
di una sorpresa ma dello sviluppo inevitabile dei semi di astio e odio piantati
senza tregua a ogni livello della dialettica e della società.
L’ESTENSIONE AGLI ALTRI STATI
Mentre Tom Homan (“zar” delle deportazioni) e gli altri scherani rivendicano
il diritto e l’intenzione di rimanere a Los Angeles «finché vorremo e
rimuovere chiunque e dovunque ogni giorno», non c’era bisogno dei tweet
notturni di Trump per capire che il modello è replicabile e preventivato in
tutte le città ove occorrerà «impartire una lezione». Tutto lascia supporre una
continuata escalation dello scontro sociale intenzionalmente ricercato ed
esasperato per imporre condizioni insostenibili ed eventuali ulteriori giri di
vite nel caso di inevitabili reazioni.
Perché sennò sarebbe stato reclutato Enrique Tarrio, il
neofascista dei Proud Boys che stava scontando una pena di 22 anni di
reclusione per sedizione, prima di essere graziato e liberato assieme agli
altri 1.400 imputati del tentato golpe del 6 gennaio? Nel giorno delle
manifestazioni No Kings, mentre il governatore
della Florida Ron DeSantis comunicava alla cittadinanza che sarebbe stato lecito
e legale investire manifestanti con la propria auto, Tarrio invitava cittadine e
cittadini ad assistere le autorità denunciando immigrati irregolari tramite
l’apposita app per la delazione (IceRaid) che a fronte della denuncia anonima
prevede ricompense in criptovaluta.
*
di Luca Celada
Il sistema utilizza l’intelligenza artificiale per individuare soggetti
target, parte del massiccio trasferimento di materiali e sistemi militari al
complesso industriale-repressivo. Mentre nel cielo di Los Angeles volteggiano
elicotteri militari Black Hawk e le manifestazioni vengono monitorate da
droni Predator MQ-9 reaper in dotazione alla Customs and Border patrol (gli
stessi usati per raccogliere intelligence in Iraq e Afganistan), il governo ha
firmato un contratto di $130 milioni con la Palantir di
Peter Thiel per analizzare e «raffinare» dati di sorveglianza delle
persone migranti. Uno scorcio del panopticon distopico che si va delineando con
la partecipazione attiva del complesso tech-militare di Silicon Valley.
È un complesso securitario che trova la prima applicazione su larga scala non
contro la cupola criminale di cui vaneggia la demagogia, ma contro la
popolazione sul cui lavoro poggia la possente economia californiana, quarta
nella classifica mondiale – quella «gente da terzo mondo» che il nazionalismo
bianco vorrebbe ora che fosse «sfruttata a casa propria».
*
di Luca Celada
Los Angeles, la metropoli più multietnicamente integrata è l’anatema del modello
sovranista che esige dunque la sua distruzione. Perché il “completamento della
missione» di cui farneticano i comunicati e gli editti su Truth Social
equivarrebbe all’estinzione della vita cittadina, quella di un territorio il cui
congenito meticciato affonda nella storia (e nella conquista militare che a
metà Ottocento lo strappò al Messico). Una geografia bilingue e biculturale,
dall’identità non tanto divisa quanto stratificata, segnata da guerre e
conquiste, immigrazioni incrociate, in cui, come sostengono i circa 50 milioni
di persone di origine ispanica che abitano non solo a Los Angeles o in
California ma in tutto il Southwest (California, Arizona, Nuovo Messico e
Texas), la gente non ha passato il confine, ma è stata attraversata dalle
frontiere fluide e mutevoli.
Imporre la scelta binaria ha men che meno senso qui, dove è proprio la dualità,
invece, a essere realtà quotidiana, accettata, per inciso, anche dagli altri
gruppi etnici, senza particolari patemi. Esigere prove di lealtà nazionale
misconosce insomma le dinamiche fondamentali di una comunità che si è in buona
parte mossa oltre assunti coloniali che le forze del suprematismo pretendono ora
di reintrodurre con la forza, il nefasto “esperimento” denunciato dalla sindaca
Karen Bass.
*
di Luca Celada
Il senatore Padilla, figlio di un cuoco di fast food e di una collaboratrice
domestica, giunto a laurearsi al MIT e a farsi eleggere, rappresenta l’essenza
della parabola classica che nel crogiolo americano muove dall’immigrazione
attraverso sacrificio e lavoro fino ai frutti della generazione istruita che
esprime l’investimento generazionale collettivo. Il sogno americano nella sua
forma più paradigmatica – articolo di fede delle e degli immigrati ispanici come
lo fu prima di loro per le ondate irlandesi, mediterranee ed est europee.
Le botte date a Padilla come una volta ai «messicani presuntuosi», puntando al
membro più prestigioso della classe marginalizzata, non solo promuovono la
criminalizzazione di massa ma ristabiliscobo icasticamente le gerarchie
razziali.
Ed è impressionate assistere alla rapidità con cui il regime torna a imporre
antichi schemi. Scheletri e fantasmi di antichi razzismi nazionali si agitano
catarticamente sulle strade dove le squadracce imperversano con un’impunità che
nemmeno il Ku Klux Klan nelle campagne sudiste aveva. Nel mirino delle colonne
corazzate che possono apparire in ogni luogo, o le auto non identificate da cui
in ogni momento possono balzare fuori individui mascherati vi è infatti l’intera
popolazione non bianca per la quale si prospetta, ora concretamente, il ritorno
a un’America “great” solo per qualcun altro. Questo «laboratorio di innovazione
autoritaria», come lo ha definito la storica del fascismo Ruth Ben Ghiat, che,
nel suo 250° anniversario, potrebbe mettere fine all’esperimento americano, ha
quindi molto in comune con patologie nazionali fin troppo note.
di Luca Celada
Nei giorni della protesta del No Kings e di quelle precedenti, ho visto in quasi
ogni loaclità – Downtown, Paramount, South Central, sui campus – giovani latinos
e latinas, di solito ragazze con cartelli su cui dichiaravano di esser
presenti «para mis padres», per i miei genitori. In inglese o
spagnolo proclamavano il bisogno fisiologico di esserci per ripagare genitori e
antenati dei sacrifici che li avevano portati fin la.
Ricordo in particolare Jenesis, 18 anni, che all’imbrunire del 11 giugno, negli
ultimi minuti prima del coprifuoco ci ha tenuto a venire dal sobborgo
ispanico di Huntington Park con la toga della cerimonia del diploma
conseguito quello stesso pomeriggio, per mostrare al cordone di cinquanta agenti
in tenuta anti-sommossa il suo cartello che rifiutava il teorema della «crisi
dell’immigrazione». E mostrargli la faccia della propria meglio gioventù e del
meglio che ha da offrire questo Paese oggi in bilico su un precipizio.
L’immagine di copertina è di Luca Celada
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