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La battaglia di Los Angeles
Un primo schizzo di queste giornate di lotta. CARTOLINA DAL PRECIPIZIO La violenta aggressione del senatore Alex Padilla è stata certamente fra gli eventi più clamorosi della guerra mossa da Donald Trump alla California. L’episodio è avvenuto durante la conferenza stampa in cui la ministra della sicurezza Kristi Noem ha dichiarato che le sue milizie sarebbero rimaste a Los Angeles fino alla «liberazione della città dall’oppressivo socialismo della sindaca Karen Bass e del governatore Gavin Newsom», la prima formulazione esplicita di un auspicato regime change in uno Stato dell’Unione. Dopo aver sdoganato per anni la dialettica del sopruso, dell’insulto e dell’ingiuria, il regime che si è impadronito del governo più potente del mondo ha adottato senza più mezzi termini la prepotenza come prassi politica e fatto di Los Angeles il banco di prova per un salto di qualità verso «l’autoritarismo competitivo”, il termine coniato da Steven Levitski per i regimi come la Turchia o l’Ungheria di Orbán, in cui permangono gli orpelli superficiali della democrazia (elezioni, cariche e istituzioni dello stato) ma di fatto c’è poco che contrasti davvero il potere quasi assoluto di un tiranno autocratico.  * * di Luca Celada Nel caso americano, l’uomo che vuole farsi Re riunisce disturbi della personalità narcisista, smisurata ambizione e interessi personali, oltre a possibili sintomi di incipiente demenza senile. La conferma elettorale e l’immunità preventiva ottenuta dalla Corte suprema, lo rendono più potente e pericoloso di ognuno di suoi 45 predecessori, in una carica che l’ordinamento statunitense investe già comunque di enorme potere esecutivo.  L’attacco al senatore di Los Angeles ne è stata la rappresentazione plastica. Le immagini di Padilla, spintonato fuori dalla sala stampa mentre tenta di obiettare, buttato a terra e ammanettato dietro la schiena per aver posto una domanda, hanno restituito in un piano sequenza, tutta la violenza iniettata nel discorso pubblico in un decennio di trumpismo e dato all’America un’idea abbastanza chiara di cosa si ottiene quando a un decennio se ne aggiunge un altro.  L’attacco al senatore di Los Angeles ne è stata la rappresentazione plastica. Le immagini di Padilla, spintonato fuori dalla sala stampa mentre tenta di obiettare, buttato a terra e ammanettato dietro la schiena per aver posto una domanda, hanno restituito in un piano sequenza, tutta la violenza iniettata nel discorso pubblico in un decennio di trumpismo e dato all’America un’idea abbastanza chiara di cosa si ottiene quando a un decennio se ne aggiunge un altro.  * * di Luca Celada A Los Angeles, il presidentissimo ha deciso di imporre la presidenza reinventata come carica imperiale. Mobilitando l’esercito e schierandolo sulle strade con mezzi corazzati e armi da guerra in «supporto alle operazioni di rimozione» degli immigrati, Trump ha sfondato la linea rossa della proibizione costituzionale contro l’impiego delle forze armate per il controllo dell’ordine pubblico. L’obbiettivo, ovviamente, non è la semplice imposizione dell’ordine o anche il completamento della «maggiore deportazione di sempre». L’esercito del presidente, schierato in una città americana contro la volontà delle autorità locali, rappresenta un oltraggio senza precedenti all’ordinamento federalista, mirato a consolidare il potere e servire da monito ad altre amministrazioni «inadempienti», in particolare le grandi città “santuario” dove per ordine presidenziale, attraverso il social Truth, verranno presto dislocate altre forze di «liberazione involontaria». * * di Luca Celada Con l’operazione California il trumpismo ha superato a destra gli epigoni dei sovranismi europei. Il governo che si appresta a istituire un «ministero per la remigrazione» si pone ora a paradigma di ogni delirio eugenetico, pur accarezzato dalle ultradestre occidentali, ma che nessuno aveva per ora avuto l’ardire di mettere in pratica in questi termini. Mentre ci si stracciavano le vesti per la caduta di Francia, Germania o Inghilterra in mano alle destre identitarie, è stato l’occidentale “faro di democrazia” a capitolare per primo. In sei mesi gli Stati Uniti hanno subito un’accelerazione vertiginosa verso un regime post-democratico che vediamo ora prendere forma. Non ha esagerato il governatore della California quando nel suo appello alla cittadinanza ha detto: «ll momento che avevamo temuto è giunto». LA “REMIGRAZIONE” E IL REGNO DI STEPHEN MILLER A differenza di molti altri leader sovranisti, Donald Trump non è un ideologo. È piuttosto il più agnostico degli opportunisti, un istintivo demagogo che ha individuato il panico identitario e la paranoia razziale come gli espedienti più efficaci per raggiungere il potere. Nel processo ha altresì abilitato pericolosi fanatici elevando figure dagli anfratti reconditi della rete e dalle milizie neofasciste a posizioni di smisurato potere – dagli autori del Project 2025 agli insurrezionalisti graziati del 6 gennaio.  Per la pratica “remigrazione” l’architetto dell’epurazione è Stephen Miller, il quarantenne ministro ombra, affettuosamente noto alle concittadine e ai concittadini come “Santa Monica Goebbles”, grazie al physique du rôle e a un fattore simpatia che lo avvicina al propagandista hitleriano. Miller è ricordato come fanatico sin dai tempi in cui frequentava il liceo di Santa Monica, il quartiere balneare di Los Angelese. Invece di dedicarsi al surf e alle canne come molte compagne e molti compagni, inveiva già allora, come unico militante conservatore della scuola, contro correttezza politica, bidelli sfaticati e soprattutto l’eccessiva presenza di studenti di origine ispanica. * di Luca Celada La rapida carriera attraverso gabinetti politici e podcast di estrema destra hanno affinato il fanatismo di gioventù in pratica di odio full-time. Oggi, come l’esponente forse più potente del gabinetto Trump, Miller è «singolarmente dotato della capacità di odiare», nelle parole del corrispondente della ABC News, Terry Moran. Moran, che per la sua valutazione postata sui social è stato licenziato dall’emittente su richiesta della Casa Bianca, ha scritto che Miller «si nutre di odio alla stregua di un sostentamento spirituale», ed è difficile dargli torto. È stato Miller, nella settimana prima che scattasse l’operazione Los Angeles, a convocare una cinquantina di comandanti di agenzie del servizio immigrazione (la più famigerata è ICE, ma ve ne sono molte altre, riunite sotto l’egida del DHS – Department of Homeland Security). In una sfuriata che testimoni dicono abbia rimbombato nei corridoi della Casa Bianca, Miller ha definito patetici i numeri degli arresti praticati fino ad allora e ordinato che venissero moltiplicati. La quota minima sarebbe stata fissata a 3000 arresti al giorno.  * di Luca Celada Basta quindi privilegiare clandestini con effettive fedine penali (e rientranti quindi nell’ipotetica categoria dell’«invasione criminale» tanto sventolata da Trump). D’ora in avanti tutto valeva, erano da prendere e far sparire immigrati da ogni dove e con ogni mezzo. I risultati non si sono fatti attendere: colonne di mezzi corazzati hanno tuonato nelle strade della città dove più della metà dei 14 milioni di cittadini sono ispanici, il 30% sono nati all’estero e potenzialmente un milione e mezzo non hanno permesso di residenza legale. Pattuglie in assetto “Falluja” [città iraqena dove l’esercito statunitense ha effettuato pesanti operazioni militari, che hanno anche portato a stragi di civili, ndr] o in alternativa squadre paramilitari con maschere sui volti e senza nominativi sulle divise, si sono sparse nei quartieri, nei posti di lavoro, poi nei campi agricoli del cesto da dove proviene più della metà della verdura del paese e dove il 75% dei braccianti non hanno permessi (con la piena connivenza delle aziende) e hanno cominciato a strappare violentemente la gente dalle loro vite.  Si sono prodotte scene drammatiche di famigliari che tentavano di bloccare le auto senza insegne sulle quali venivano caricati le desaparecidas e i desaparecidos, e sono state arrestate e stati arrestati e a loro volta malmenate e malmenati, bambine e bambini strappate e strappati dalle braccia di madri, “rimozioni” strazianti anche di minorenni in affidamento… scene scomposte di violenza indiscriminata e pianificata, documentata non solo nei telefonini dei testimoni. Le squadracce sono spesso accompagnate da telecamere per la produzione di filmati propagandistici. La ministra Noem (famigerata per i selfie fatti nel lager salvadoregno di CECOT) è notoriamente seguita da truccatori e troupe personali quando si unisce ai rastrellamenti.  * di Luca Celada Alcune di queste agenzie mantengono canali social dove vengono diffusi i video degli arresti, montati su accattivanti basi musicali. Siamo oltre i semplici “servitori dello Stato” che seguono i proverbiali ordini e più vicini a milizie fedeli al tiranno con carta bianca per far fronte a una cittadinanza dissenziente. Già durante il primo mandato, gli agenti preposti al confine erano stati elevati a una specie di guardia pretoriana da Trump, che li aveva spesso disposti in formazione sui palchi dei suoi comizi. Lo scorso aprile il presidente ha promulgato un ordine esecutivo intitolato “sguinzagliare le forze dell’ordine” – le immaginabili conseguenze si stanno ora esplicitando sulle strade di Los Angeles. Gli agenti delle varie agenzie per l’immigrazione sono stati impiegati nella seconda metropoli del Paese come forza di occupazione, strumenti della volontà presidenziale. Nella sua fatidica conferenza stampa, la ministra Noem era affiancata da un ufficiale della Border Patrol, Gerald Bovino, che ha definito «mozzafiato» (breathtaking) la prospettiva di poter improvvisamente menare le «mani come da tempo molti avrebbero voluto». Occorre puntualizzare che non si tratta qui dell’interdizione di clandestini alla frontiera. Quando si parla di “remigrazione” si intende la rimozione di persone che in molti casi vivono a lavorano in città da decenni, hanno famiglie, case, figlie e figli con la cittadinanza, pagano tasse.  * * di Luca Celada Quello che passa in questi giorni in città, dove interi quartieri hanno ormai le saracinesche abbassate e la gente ha paura di uscire di casa per timore di venire “scomparsa” senza rivedere più i propri cari, è una sindrome “cisgiordana”: la città come territorio occupato da forze ostili, il controllo militare di una popolazione da sottomettere e infine eliminare. Le immagini di pattuglie in assetto di guerra che rovistano nelle stanze di bambine e bambini a East Los Angeles non possono non rimandare quelle dei soldati IDF che si provano i vestiti abbandonati nelle case distrutte a Gaza. Il completamento di una metastasi “israeliana” che porta infine i suoi frutti avvelenati nel cuore dell’Occidente connivente.  La resistenza non è tollerata, chi obietta viene arrestato e tacciato di fiancheggiamento. L’abrogazione del giusto processo per le persone deportate, poi per le e gli studenti straniere si è inevitabilmente allargato alla cittadinanza e sempre più a politici di opposizione – altro sicuro sintomo autoritario. Un’escalation intimidatoria che per ultimo ha fatto scattare le manette, apposte dai soliti energumeni, al revisore dei conti e candidato a sindaco di New York, Brad Lander, accusato di «fiancheggiamento». A oggi la stessa sorte è toccata al sindaco di Newark, Ras Baraka (ostruzione di pubblico ufficiale), alla giudice del Wisconsin Hannah Dugan (favoreggiamento di clandestino), alla parlamentare del New Jersey LaMonica McIver (interferenza con agenti federali) e, negli stessi locali del Congresso, all’assistente del parlamentare di New York Jerry Nadler.  * * di Luca Celada Ognuno di questi è un inesorabile passo verso l’extralegalità che arruola reparti scelti al servizio diretto del regime e sancisce il ministero di Giustizia come arma di repressione di stato. Sono passati sei mesi ma gli Stati Uniti sono già lontani anni dal Paese che furono. E c’è la sensazione di essere sulla soglia di un’escalation ancora più sanguinosa, una marea montante di violenza politica che questa settimana ha registrato l’assassinio di Melissa Hortman, la capogruppo democratica nel Parlamento del Minnesota, giustiziata nella sua casa assieme al marito da un fanatico antiabortista. Per chi ha seguito la parabola trumpista non si tratta di una sorpresa ma dello sviluppo inevitabile dei semi di astio e odio piantati senza tregua a ogni livello della dialettica e della società. L’ESTENSIONE AGLI ALTRI STATI Mentre Tom Homan (“zar” delle deportazioni) e gli altri scherani rivendicano il diritto e l’intenzione di rimanere a Los Angeles «finché vorremo e rimuovere chiunque e dovunque ogni giorno», non c’era bisogno dei tweet notturni di Trump per capire che il modello è replicabile e preventivato in tutte le città ove occorrerà «impartire una lezione». Tutto lascia supporre una continuata escalation dello scontro sociale intenzionalmente ricercato ed esasperato per imporre condizioni insostenibili ed eventuali ulteriori giri di vite nel caso di inevitabili reazioni.  Perché sennò sarebbe stato reclutato Enrique Tarrio, il neofascista dei Proud Boys che stava scontando una pena di 22 anni di reclusione per sedizione, prima di essere graziato e liberato assieme agli altri 1.400 imputati del tentato golpe del 6 gennaio? Nel giorno delle manifestazioni No Kings, mentre il governatore della Florida Ron DeSantis comunicava alla cittadinanza che sarebbe stato lecito e legale investire manifestanti con la propria auto, Tarrio invitava cittadine e cittadini ad assistere le autorità denunciando immigrati irregolari tramite l’apposita app per la delazione (IceRaid) che a fronte della denuncia anonima prevede ricompense in criptovaluta.  * di Luca Celada Il sistema utilizza l’intelligenza artificiale per individuare soggetti target, parte del massiccio trasferimento di materiali e sistemi militari al complesso industriale-repressivo. Mentre nel cielo di Los Angeles volteggiano elicotteri militari Black Hawk e le manifestazioni vengono monitorate da droni Predator MQ-9 reaper in dotazione alla Customs and Border patrol (gli stessi usati per raccogliere intelligence in Iraq e Afganistan), il governo ha firmato un contratto di $130 milioni con la Palantir di Peter Thiel per analizzare e «raffinare» dati di sorveglianza delle persone migranti. Uno scorcio del panopticon distopico che si va delineando con la partecipazione attiva del complesso tech-militare di Silicon Valley. È un complesso securitario che trova la prima applicazione su larga scala non contro la cupola criminale di cui vaneggia la demagogia, ma contro la popolazione sul cui lavoro poggia la possente economia californiana, quarta nella classifica mondiale – quella «gente da terzo mondo» che il nazionalismo bianco vorrebbe ora che fosse «sfruttata a casa propria».  * di Luca Celada Los Angeles, la metropoli più multietnicamente integrata è l’anatema del modello sovranista che esige dunque la sua distruzione. Perché il “completamento della missione» di cui farneticano i comunicati e gli editti su Truth Social equivarrebbe all’estinzione della vita cittadina, quella di un territorio il cui congenito meticciato affonda nella storia (e nella conquista militare che a metà Ottocento lo strappò al Messico). Una geografia bilingue e biculturale, dall’identità non tanto divisa quanto stratificata, segnata da guerre e conquiste, immigrazioni incrociate, in cui, come sostengono i circa 50 milioni di persone di origine ispanica che abitano non solo a Los Angeles o in California ma in tutto il Southwest (California, Arizona, Nuovo Messico e Texas), la gente non ha passato il confine, ma è stata attraversata dalle frontiere fluide e mutevoli. Imporre la scelta binaria ha men che meno senso qui, dove è proprio la dualità, invece, a essere realtà quotidiana, accettata, per inciso, anche dagli altri gruppi etnici, senza particolari patemi. Esigere prove di lealtà nazionale misconosce insomma le dinamiche fondamentali di una comunità che si è in buona parte mossa oltre assunti coloniali che le forze del suprematismo pretendono ora di reintrodurre con la forza, il nefasto “esperimento” denunciato dalla sindaca Karen Bass.   * di Luca Celada Il senatore Padilla, figlio di un cuoco di fast food e di una collaboratrice domestica, giunto a laurearsi al MIT e a farsi eleggere, rappresenta l’essenza della parabola classica che nel crogiolo americano muove dall’immigrazione attraverso sacrificio e lavoro fino ai frutti della generazione istruita che esprime l’investimento generazionale collettivo. Il sogno americano nella sua forma più paradigmatica – articolo di fede delle e degli immigrati ispanici come lo fu prima di loro per le ondate irlandesi, mediterranee ed est europee.   Le botte date a Padilla come una volta ai «messicani presuntuosi», puntando al membro più prestigioso della classe marginalizzata, non solo promuovono la criminalizzazione di massa ma ristabiliscobo icasticamente le gerarchie razziali.  Ed è impressionate assistere alla rapidità con cui il regime torna a imporre antichi schemi. Scheletri e fantasmi di antichi razzismi nazionali si agitano catarticamente sulle strade dove le squadracce imperversano con un’impunità che nemmeno il Ku Klux Klan nelle campagne sudiste aveva. Nel mirino delle colonne corazzate che possono apparire in ogni luogo, o le auto non identificate da cui in ogni momento possono balzare fuori individui mascherati vi è infatti l’intera popolazione non bianca per la quale si prospetta, ora concretamente, il ritorno a un’America “great” solo per qualcun altro. Questo «laboratorio di innovazione autoritaria», come lo ha definito la storica del fascismo Ruth Ben Ghiat, che, nel suo 250° anniversario, potrebbe mettere fine all’esperimento americano, ha quindi molto in comune con patologie nazionali fin troppo note. di Luca Celada Nei giorni della protesta del No Kings e di quelle precedenti, ho visto in quasi ogni loaclità – Downtown, Paramount, South Central, sui campus – giovani latinos e latinas, di solito ragazze con cartelli su cui dichiaravano di esser presenti «para mis padres», per i miei genitori. In inglese o spagnolo proclamavano il bisogno fisiologico di esserci per ripagare genitori e antenati dei sacrifici che li avevano portati fin la.  Ricordo in particolare Jenesis, 18 anni, che all’imbrunire del 11 giugno, negli ultimi minuti prima del coprifuoco ci ha tenuto a venire dal sobborgo ispanico di Huntington Park con la toga della cerimonia del diploma conseguito quello stesso pomeriggio, per mostrare al cordone di cinquanta agenti in tenuta anti-sommossa il suo cartello che rifiutava il teorema della «crisi dell’immigrazione». E mostrargli la faccia della propria meglio gioventù e del meglio che ha da offrire questo Paese oggi in bilico su un precipizio. L’immagine di copertina è di Luca Celada SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La battaglia di Los Angeles proviene da DINAMOpress.
Proteste per gli attacchi agli immigrati e retate continuano in tutti gli Stati Uniti
A Los Angeles il procuratore federale ha annunciato mercoledì le accuse penali contro due manifestanti e ha minacciato di perseguire altre persone che stavano esercitando il loro diritto di protesta. “Questi sono solo i due casi che siamo riusciti a incriminare. Stiamo esaminando centinaia di persone. Abbiamo video. L’FBI sta raccogliendo video. Stiamo raccogliendo immagini delle bodycam e dei social media. Stiamo raccogliendo tutto” ha dichiarato Bill Essayli. Le proteste contro gli attacchi agli immigrati stanno prendendo piede in tutti gli Stati Uniti e hanno colpito almeno 35 città. Nello Stato di Washington, in seguito alle proteste mercoledì il sindaco di Spokane ha imposto un coprifuoco in tutta la città. Continuano anche le retate. In Nebraska, decine di persone sono state arrestate in un impianto di produzione di carne a Omaha. Un giudice federale ascolterà oggi la richiesta della California di limitare la presenza della Guardia Nazionale e dei Marines inviati da Trump a Los Angeles alla protezione degli edifici federali. Le truppe della Guardia Nazionale sono state coinvolte nell’arresto di civili e hanno accompagnato gli agenti dell’immigrazione nei loro raid a Los Angeles, provocando paura e caos in tutta la città. Mercoledì le proteste della comunità sono proseguite per il sesto giorno. Il centro di Los Angeles è rimasto sotto coprifuoco per la seconda notte di fila. Le famiglie arrestate durante le retate dell’ICE a Los Angeles sono state tenute in scantinati con accesso limitato a cibo e acqua e alcuni detenuti sono stati trasferiti fuori dallo Stato, in Texas, poiché le strutture locali non erano preparate all’aumento di nuovi detenuti. I parenti dei rapiti dicono di non avere idea di dove siano stati portati i loro cari o delle loro condizioni. “Siamo angosciati e non sappiamo dove sia. Non siamo riusciti a trovarlo e questo è ingiusto. Vorremmo giustizia per lui. E vorremmo vivere senza la paura continua di venire arrestati” si è sfogata Kimberly Hernández, il cui padre è scomparso dopo un raid nell’autolavaggio in cui lavorava.     Democracy Now!
Proteste per i raid anti migranti a Los Angeles, Trump manda i Marines e raddoppia la presenza della Guardia Nazionale
Le proteste sono continuate a Los Angeles lunedì, mentre  Trump ha annunciato l’invio di 700 Marines in città dal vicino Camp Pendleton. Il loro arrivo a Los Angeles è previsto per questa sera, in aggiunta ad altri 2.000 membri della Guardia Nazionale che sono stati inviati per reprimere le proteste scoppiate dopo un’ondata di raid dell’ICE a Los Angeles. La California sta facendo causa in risposta al dispiegamento della Guardia Nazionale e dei Marines da parte di Trump, che il governatore Gavin Newsom ha definito un “palese abuso di potere”. La sindaca di Los Angeles Karen Bass ha accusato l’amministrazione Trump di fomentare il caos e di fare di Los Angeles un “banco di prova” per imporre un regime autoritario in altre città statunitensi. “Dobbiamo fermare i raid. Questo non dovrebbe accadere nella nostra città. Non è giustificato e serve solo ad aumentare il caos. Questo caos è iniziato a Washington, D.C. Giovedì la città era pacifica. Venerdì non lo era più, a causa dell’intervento del governo federale. Non credo che la nostra città debba essere un banco di prova, un laboratorio” ha dichiarato Karen Bass.     Democracy Now!
Scuola siciliana si “forma” con i cani da guerra dei Marines USA di Sigonella
Addestrarli per condizionarne mente, psicologia, affettività e renderli animali-robot da guerra in mano agli eserciti in guerra. A Sigonella, la grande base aeronavale alle porte di Catania – in prima linea nei più sanguinosi conflitti del pianeta – un team specializzato di US Navy si dedica alla “formazione” militare dei cani, attività tutt’altro che etica ma a cui guardano con sempre maggiore attenzione e curiosità alcune scuole siciliane. “Gli studenti dell’Istituto Professionale Alberghiero Giovanni Falcone di Giarre incontrano e salutano i Military Working Dogs (MWD) alla Naval Air Station di Sigonella”, titola un servizio pubblicato qualche giorno fa dal Defence Visual Information Service (DVIS), il network multi-mediatico del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America. “L’incontro con il K-9 team di US Navy è avvenuto l’8 aprile 2025 presso il campo in erba di NAS 2. La base strategica di Sigonella abilita i militari USA, degli alleati e delle nazioni partner a operare e rispondere quando richiesto, garantendo la sicurezza e la stabilità in Europa, Africa ed Asia Centrale”. Con l’articolo anche una fotogallery della visita “educativa” della scuola di Giarre: in copertina insegnati e studenti gioiosamente in posa accanto ad addestratori, un paio di cani-cavia e perfino due marines USA con addosso pesanti giubbotti antiproiettile. E‘ ancora il Defence Visual Information Service del Pentagono a ricostruire storia e funzioni bellico-sicuritarie dei Military Working Dogs di Sigonella. “In tempi antichi, i cani erano impiegati per rompere le formazioni nemiche, caricando i ranghi e abbattendo il maggior numero di soldati possibile”, scrive il DVIS. “I cani sono stati usati in ogni guerra americana dalla Guerre Civile ai nostri moderni conflitti odierni. Essi sono serviti come mascotte, corrieri, sentinelle, esploratori e perfino come cacciatori di topi sulle navi. Oggi i cani sono utilizzati per cercare esplosivi, scovare narcotici e catturare i cattivi, sia in patria che all’estero. Essi stanno spesso nella prima linea di difesa tra le nostre forze armate e il nemico”. “I Military Working Dogs giocano un ruolo importante tra la flotta e la Naval Air Station Sigonella”, aggiunge il newwork multi-mediatico delle forze armate USA. “I cani dell’unità MWD sono vitali nella protezione delle persone della base e possono intervenire per fermare persone sospette e rilevare esplosivi e droga. Una parte dell’addestramento è dedicato all’individuazione di narcotici e materiale esplosivo così come all’addestramento al pattugliamento”. Il team cinofilo in forza alla grande stazione aeronavale siciliana spiega poi quanto sia importante la relazione che si instaura tra gli addestratori e gli animali-soldato. “Devono essere in grado di lavorare insieme in situazioni stressanti e intense”, spiega uno dei trainer di US Navy. “Ci alleniamo ogni giorno, tutti i giorni. Ogni luogo in cui andiamo è un’opportunità addestrativa. Per costruire veramente le abilità e le competenze dei Military Working Dogs è richiesta attenzione e dedizione costante”. “Focus dell’addestramento è il servizio di pattugliamento con il lavoro di morditura”, spiega senza troppi giri di parole un secondo marine di Sigonella.  “I gestori iniziano ogni cane con comandi e movimenti di obbedienza, premiandoli con i loro giocattoli quando si comportano correttamente, e poi si passa all’addestramento giornaliero al pattugliamento. Gli addetti approfittano dell’accensione degli irrigatori per testare le capacità dei cani di ignorare le distrazioni causate da essi durante l’inseguimento di un ricercato. Utilizziamo fattori ambientali che normalmente non vedono per testare il loro impegno nel perseguire un sospettato. Li facciamo correre verso il campo per mordere l’esca attraverso un flusso di acqua corrente, avvicinandoli progressivamente alla sorgente dell’acqua per vedere se essa o la sua pressione influenzano il loro impulso a mordere”. Il 17 dicembre 2021 il team cinofilo di Sigonella ha festeggiato il “pensionamento” di Weezy, cane militare in forza al MWD da più di dieci anni. A lui è stato dedicato l’ennesimo servizio multi-mediale del Dipartimento della Difesa USA. “Weezy è nato nell’aprile 2009 e ha iniziato il suo addestramento sugli esplosivi nella base aerea di Lackland, Texas nel marzo 2011”, riporta il DVIS. “Successivamente Weezy è stato trasferito ad un reparto del Corpo dei Marine di stanza a Fort Bragg, in North Carolina. Nel luglio del 2011, il cane ha raggiunto il Centro di combattimento aereo-terrestre dei Marine di Twentynine Palms, California, per condurre l’addestramento prima del trasferimento in Afghanistan. In questo paese Weezy ha preso parte ad operazioni di individuazione di ordigni esplosivi improvvisati, a supporto e difesa di innumerevoli membri in servizio”. Dopo un anno nell’inferno di guerra afghano, il cane ha fatto ritorno a Fort Bragg e successivamente è stato assegnato alla base navale di Souda Bay (Creta) e infine al dipartimento sicurezza di NAS Sigonella. “Weezy ha riportato gravi ferite mentre stava completando un’esercitazione all’interno di un deposito di Souda Bay, con la frattura di tibia e perone”, aggiunge il Defence Visual Information Service. “Sono volati così 19 mesi per Weezy, in cui è stato sottoposto a tre interventi chirurgici e a riabilitazione, e finalmente è potuto tornare a svolgere pienamente il suo lavoro”. Chissà se i marines USA hanno rivelato agli studenti dell’Istituto Alberghiero qualche particolare sull’ignobile trattamento imposto alle unità cinofile votate a svolgere compiti di guerra. Di certo per la loro giovane età i ragazzi di Giarre difficilmente hanno avuto modo di conoscere quanto accaduto e immortalato in tragiche pose nel carcere-lager di Abu Ghraib, Iraq, dove nei primi mesi del 2004 i militari USA hanno torturato e stuprato, anche con l’ausilio di cani, un enorme numero di prigionieri. Nel giugno 2004 un reportage del Washington Post rivelò che gli ufficiali dei servizi segreti USA avevano formalmente autorizzato i team cinofili di US Army ad utilizzare i cani per terrorizzare i detenuti. Il prestigioso quotidiano pubblicò in particolare le testimonianze di due sergenti a cui fu richiesto di portare i cani nel “carcere degli orrori” per gli interrogatori. “In alcuni casi abbiamo fatto avvicinare i cani che abbaiavano furiosamente fino a 15 centimetri dai prigionieri terrorizzati”, hanno ammesso i militari. “Alcuni detenuti sono stati morsi dagli animali”. Secondo un’altra testimonianza citata dal Washington Post, un investigatore dei servizi militari ha riferito di aver visto una squadra con i cani stringere in un angolo due prigionieri, uno dei quali strillava e cercava di ripararsi dietro l’altro. “Quando ho chiesto cosa stessero facendo i due militari mi hanno risposto che stavano facendo una gara per vedere quanti prigionieri riuscivano a fare urinare per la paura”. I marines di Sigonella sono ormai un partner “educativo” di fiducia dell’Istituto Alberghiero “Giovanni Falcone”. Lo scorso 25 marzo, nell’ambito del programma Community Relations di “volontariato linguistico, culturale e civico” promosso da US Navy, si è tenuto nell’aula magna della scuola il convegno dal titolo Opportunità in Uniforme: Testimonianze a Confronto tra USA e Italia, con lo scopo di “sottolineare le opportunità lavorative offerte dalle forze dell’ordine”, come riporta la circolare a firma della dirigente, professoressa Monica Insanguine. Undici giorni prima erano stati ospiti dell’Istituto una nutrizionista statunitense e il responsabile Relazioni Esterne della NAS Sigonella, Alberto Lunetta, per un incontro di formazione sulla “dieta mediterranea” con gli allievi del corso di istruzione per adulti. Il 4 aprile 2024, l’Istituto “Giovanni Falcone” aveva ospitato le mogli di alcuni ufficiali in forza alla Marina degli Stati Uniti d’America (first lady la signora Kerry Collins, moglie del contrammiraglio Brad Collins, comandante della Regione Navale Europa, Africa Centrale e delle forze aeronavali USA) per “apprezzare da vicino l’offerta formativa della scuola presso il quale i militari statunitensi svolgono da diversi anni attività di volontariato linguistico”, così come riportato dagli organi di stampa locali. “L’evento ha rappresentato un momento significativo nella promozione dello scambio culturale tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia, evidenziando il ruolo fondamentale che istituzioni come l’Istituto Alberghiero Falcone di Giarre e la base NAS Sigonella svolgono nel rafforzare i legami e la cooperazione tra le due nazioni”. Screenshot Antonio Mazzeo, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università Articolo pubblicato in Stampalibera.it il 24 aprile 2025,  https://www.stampalibera.it/2025/04/24/scuola-siciliana-si-forma-con-i-cani-da-guerra-dei-marines-usa-di-sigonella/