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SOLO PERCHÉ ROM!
COME SEMPRE RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO UNA RIFLESSIONE DEL CENTRO TAGARELLI SULLE AFFERMAZIONI DEL MINISTRO SALVINI A FINI RAZZISTICI. IN UN PAESE COME L’ITALIA CHE CON UNA ECONOMIA DI GUERRA E CHE SI RIARMA VERSO LA GUERRA QUESTA RIFLESSIONE E’ IMPORTANTE E CORAGGIOSA PERCHE’ VA CONTROCORRENTE E AFFRONTA IL PROBLEMA VERO CIOE’ QUELLO CHE TUTTI I GOVERNANTI HANNO LA NECESSITA’ DI PREPARARE LE MASSE (QUINDI ANCHE I LAVORATORI) NEL  FARLE  ACCETTARE LA GUERRA E I SACRIFICI  CONSEGUENTI.  QUINDI QUANDO CAPITA UN’OCCASIONE COME QUESTA, IL”CAPRONE IGNORANTE” ,SALVINI CHE FA IL  MINISTRO NON SE LA LASCIA SCAPPARE. BASTEREBBE  RIFLETTERE, APPUNTO, CHE QUANDO UNA NAZIONE E’ GOVERNATA DA IGNORANTI VUOL DIRE CHE LA CLASSE BORGHESE E’ ALLA FRUTTA DELLA SUA DECADENZA STORICA, PERCHE’ NON RIESCE AD ESPRIMERE  UOMINI VALIDI CON UN MINIMO D’IDEA LIBERALE CON CUI DEVONO GOVERNARE. COMPITO DELLA CLASSE LAVORATRICE, E’ SPAZZARE VIA QUESTA MARMAGLIA  BORGHESE -FASCISTA, COMPITO FACILITATO DA QUESTE CONDIZIONI DI DECADENZA DI PADRONI E GOVERNO. SI COBAS NAZIONALE. Chiediamo scusa a Pierpaolo Loi, maestro di scuola elementare in pensione che scrive sul sito di “pressenza”, perché gli rubiamo, oltre al titolo di questo post, anche parti del suo scritto. “Alcune riflessioni sono necessarie riguardo al linguaggio, e al metalinguaggio che veicola, usato dal leader della Lega, attuale Vicepresidente del Consiglio e Ministro delle Infrastrutture. Mi riferisco al suo commento in un post su X alla notizia dell’identificazione dei minori coinvolti nell’incidente stradale a Milano che ha causato la morte della signora Cecilia De Astis (per la quale ci sentiamo addolorati). I quattro minori sono tre bambini e una bambina rom (tra gli 11 e i 13 anni di età), cittadini italiani, che si son dati alla fuga dopo l’investimento. Il Ministro ha utilizzato un linguaggio a lui caro: «Campo rom da sgomberare subito, e poi radere al suolo dopo tanti anni di furti e violenze…». Linguaggio simile, utilizzato spesso in passato da leader della Lega (usare la ruspa); da Ministro dell’Interno…… In aggiunta, anche l’espressione «pseudo “genitori” da arrestare e patria potestà da annullare». Quante bravate di minori italiani finite in tragedia abbiamo letto sui giornali o ascoltato al giornale radio? Immaginiamo un simile linguaggio applicato alle famiglie sventurate di tali giovani: si dovrebbero radere al suolo case, forse interi condomini…”. (fine citazione). Fidando nell’intelligenza dei nostri lettori, aggiungiamo soltanto poche righe, per non dimenticare….. 14 giugno 2023: uno youtuber, Matteo Di Pietro (anni 20… mica un bambino), sfreccia con una Lamborghini a 150 km.all’ora in una via di Casalpalocco (tre volte tanto del limite di 50 km. orari). Come scrive il giudice per le indagini preliminari “”con l’unico ed evidente scopo di catturare l’attenzione” (tante visualizzazioni … tanti soldi). Investe in pieno un’auto e uccide un bambino di 5 anni, Manuel Proietti, oltre a causare lesioni alla mamma e alla sorellina del bimbo. Patteggerà e verrà condannato a 4 anni e 4 mesi, ma non farà neanche un giorno di carcere. E nessuno si sognerà di proporre di spianare o bruciare il condominio dove abita. 8 settembre 2024: a Viareggio “l’imprenditrice” Cinzia Dal Pino (65 anni) investe con il suo suv e uccide, passando più volte sul suo corpo, un 52 di origini marocchine, Nourdine Mezgoui, che le aveva rubato una borsa e si stava allontanando voltandole la schiena. Verrà processata il prossimo settembre per “omicidio volontario pluriaggravato da crudeltà” perché, grazie ad una telecamera di sorveglianza, la si vede chiaramente travolgere il pedone con il Suv e passare più volte sopra il suo corpo, per poi fermarsi: la donna scende, recupera la borsa, risale in auto e riparte tranquillamente. Il corpo di Mezgoui verrà ritrovato in fin di vita poco dopo; nonostante i tentativi di soccorso, morirà a causa delle gravissime ferite. Se sei povero, peggio ancora rom o “extracomunitario” (che di solito significa venire da paesi anch’essi poveri; diverso se vieni dagli USA o dalla Svizzera, nessuno osa chiamarti così..) allora si scatena la peggiore canea razzista. Se sei un ricco sfaccendato o una “imprenditrice” (sempre per restare agli esempi di cui sopra) è solo un fatto di cronaca. Maestro in questo, è la cosa che meglio sa fare, il “nostro” ministro del NON TRASPORTO Salvini (che, tra chiodi e zeppe di legno sui binari, ha reso gli spostamenti degli italiani un calvario). Si ricorda forse dell’assessore di Voghera, il leghista Massimo Adriatici, che nell’ottobre 2022 sparò a sangue freddo e uccise Youns El Boussettaoui perché “dava fastidio” (chiedeva qualche soldo fuori da un bar), da Salvini immediatamente difeso in nome della “sicurezza” (di chi?)? Solo due esempi (tra le centinaia che potremmo fare) per dire cosa? Che la vita e la responsabilità – e il linguaggio che i nostri pennivendoli usano) – sono anch’esse questione di classe. Dovremmo essere abituati: da sempre se sei un operaio hai “l’amante”, se sei un imprenditore o un politico hai “la compagna”; se rubi una mela perché hai fame vai in galera, se rubi milioni ti fanno cavaliere del lavoro. Se muori sul lavoro è una morte “bianca”, se ti schianti con il tuo costoso velivolo è un incidente e racconteranno di te vita, morte e miracoli …. Usiamo la testa e non la pancia, per capire chi sono davvero i nostri nemici. CIP TAGARELLI   L'articolo SOLO PERCHÉ ROM! proviene da S.I. Cobas - Sindacato intercategoriale.
SINDACATO E RAPPORTO PARTITO CLASSE!
SINDACATO E RAPPORTO PARTITO CLASSE Il comunismo è possibile empiricamente solo se è azione dei popoli dominanti tutti “in una volta”e simultaneamente, e questo presuppone per parte sua lo sviluppo universale della forza produttiva e quelle relazioni mondiali che il comunismo implica. Il comunismo per noi non è uno stato di cose che si dovrebbe instaurare, né un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento emergono dal presupposto oggi esistente. (Marx, L’ideologia tedesca).   comunismo e “questione sindacale”   Bisogna partire dal fatto che il marxismo, non è il frutto di escogitazioni personali di Marx ed Engels, ma un bilancio scientifico delle lotte, delle esperienze politiche, economiche e sociali, dei primi tentativi teorici del Movimento Operaio. In sostanza il marxismo è la dottrina di una classe, quella proletaria “che ha il compito di creare il vero ordine, l’ordine comunista di spezzare il dominio del capitale, di rendere impossibili le guerre, di eliminare le frontiere degli Stati, di trasformare in una comunità che lavori per sé stessa, di realizzare la fratellanza e l’emancipazione dei popoli” (Dalla piattaforma dell’Internazione Comunista approvata al 1° congresso 1919).   Per i comunisti non esiste una questione sindacale specifica, perché l’attività sindacale è inquadrata nel più complessivo progetto di trasformazione rivoluzionaria della società e quindi delle condizioni politiche per realizzare la rottura rivoluzionaria. In questo  senso la “questione sindacale” che ha ovviamente degli specifici obiettivi(di tipo rivendicativo) s’inserisce però nel progetto della conquista del proletariato alla prospettiva della rivoluzione socialista. Il primo strumento di difesa, il sindacato    I proletari che agli albori del capitalismo si trovavano isolati e indifesi di fronte al potere padronale, si riuniscono prima in casse di mutuo soccorso e in seguito in sindacati, che hanno lo scopo di organizzarli collettivamente, in contrapposizione al padronato.  “ Nella fase “liberista” del capitale, esiste oggettivamente un enorme spazio da colmare tra il “libero” gioco delle forze economiche e sociali e direzione politica della società da parte della borghesia. Il capitalismo ascendente, distrugge progressivamente le vecchie forme, dando spazio e motivi di crescita effettivi al proletariato. Dopo un iniziale tentativo di inibire il movimento indipendente di classe del proletariato, sotto la giustificazione giuridica che tra i “cittadini” e lo Stato (formalmente eguali) non devono esistere diaframmi, il capitalismo è costretto a riconoscere,esso stesso, l’esistenza del contrasto di classe e cercare di inquadrarlo nell’ambito delle proprie compatibilità per via indiretta, non con la persecuzione di una forza la cui crescita è necessaria allo sviluppo capitalistico, ma con un’influenza su di essa: grazie agli spazi di mediazione offertidallo sviluppo delle forze produttive capitalistiche si tende a legare una parte decisiva del proletariato agli interessi del capitale. La legislazione e la politica complessiva della borghesia finiscono così per “coadiuvare” dialetticamente, ai propri fini, le richieste compatibili col sistema della classe storicamente avversa. Le associazioni immediate dei lavoratori, in questa fase di “tolleranza”si trovano a svolgere la loro funzione di difesa degli interessi operai in un quadro evolutivo che apre alle rivendicazioni operaie sul salario, l’orario, la normativa,l’assistenza sociale ecc.; due diverse e opposte possibilità: l’una, di saldatura con la lotta rivoluzionaria per l’abbattimento dell’intero sistema borghese e l’affermazione della società socialista propugnate dal Partito, l’altra di lotta limitata, “corporativa”, “operaio” borghese, per il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato all’interno della società borghese, come lotta, in definitiva, per una miglior contrattazione della merce-lavoro nella perpetuazione (e difesa) del sistema basato sulla produzione mercantile.   La base economica, che dà oggettivamente luogo alla contraddizione tra le due forze in campo (borghesia e proletariato), di per sé non porta alla coscienza comunista, anzi, sin d’ora la linea del minimo sforzo inclina piuttosto verso la coscienza da parte del proletariato come classe in sè, che ha qualcosa da rivendicare all’interno dei rapporti vigenti, e ciò implica una lotta costante  dei rivoluzionari per introdurre nel movimento la coscienza delle implicazioni storiche del contrasto e indicare ai proletari finalità e mezzi per conseguire il socialismo.   Questa duplicità, dei possibili svolgimenti dell’azione sindacale, si ritrova pienamente descritta nell’opera di Marx ed Engels. Basti ricordare una lettera di Engels a Bernstein del 1879 , a dimostrazione di come il problema, poi ripreso da Lenin, della “cinghia di trasmissione”e dell’importazione della coscienza”nella classe dall’esterno dei rapporti economici immediati, non costituisca una novità: “Da un certo numero di anni – scrive Engels – il movimento operaio inglese si agita senza trovare una soluzione nel cerchio ristretto degli scioperi per ottenere un aumento del salario e una diminuzione delle ore di lavoro, e questo non mezzo per lottare contro la miseria o come mezzo di propaganda e di organizzazione, ma come fine ultimo. Inoltre, i sindacati escludono in linea di principio, nei loro statuti, ogni azione politica e, con ciò precludono l’accesso a qualsiasi attività generale della classe operaia in quanto classe per sé. Sul piano politico, gli operai si dividono in conservatori e in radicali liberi, partigiani del ministero Disraeli (Beaconsfield) e in partigiani del ministero Gladstone.  Non si può parlare qui di vero movimento operaio, perché gli scioperi che, in questa situazione, si svolgono, siano o no vittoriosi, non fanno avanzare il movimento di un solo passo” E ancora Engels, in una lettera a Marx nel 1852: “Non lavorare in seno ai sindacati nazionali, significa abbandonare le masse arretrate, o non abbastanza sviluppate, all’influenza dei capi reazionari degli agenti della borghesia, dell’aristocrazia operaia, ossia degli operai imborghesiti”. Come dimostra il passo sopracitato di Engels del 1852, le organizzazioni sindacali erano in preda all’ideologia borghese e il compito dei comunisti era di influenzarle in senso rivoluzionario. Sin da allora si poneva la necessità per i comunisti di contrastare le tendenze opportuniste e borghesi all’interno del sindacato, mirando a contrastarle e a stabilire la “cinghia di trasmissione” tra azione immediata e Partito; mirando a conseguire dall’azione rivendicativa il vero e unico risultato possibile: l’accrescimento del senso di unità e di forza del proletariato in quanto classe per sé. Questa duplicità del sindacato inclinante verso il riformismo, è data dalle condizioni oggettive dello sviluppo capitalistico nelle metropoli; tra la fine del secolo XIX° e l’inizio del secolo XX° ci fu in Europa un periodo di sviluppo economico rapido, pacifico e tranquillo del capitalismo che entrava proprio nella sua fase imperialista. Non è un caso che proprio in questo periodo cominciò ad affermarsi nel movimento operaio il revisionismo. Le idee di quest’ultimi si fondarono su quasi trent’anni di sviluppo e di espansione economica ,  per questo motivo sostenevano che il capitalismo aveva la capacità di sviluppare le forze produttive all’infinito e che le crisi sarebbero state definitivamente eliminate attraverso una continua “rivoluzione scientifica”. In sostanza il capitalismo, per i revisionisti, era un modo di produzione eterno, dotato di una capacità espansiva illimitata. L’inclinazione delle organizzazioni politiche sindacali verso il riformismo ( che sfocerà nel “tradimento” del 1914) è data dalle condizioni oggettive dello sviluppo del capitalismo nelle metropoli: condizioni che determinano, attraverso la distribuzione di briciole dei sovrapprofitti imperialisti, la formazione di un’aristocrazia operaia, legata a doppio filo alla borghesia e tramite di essa operare come “agente infiltrato” tra i lavoratori, per condizionarli  all’idolatria dell’indefinito sviluppo borghese. Nella fase “liberista” Stato, partiti, sindacati, classi sociali sono largamente “indipendenti” gli uni rispetto agli altri, nel senso che possono muoversi con una relativa reciproca autonomia (1).  La linea di direzione obbligata è data dalla necessità di infrangere totalmente i vecchi rapporti pre-borghesi. Alle spinte proletarie, in questa fase, è affidato il compito  di  portare a delle rotture i rapporti economici e sociali pre-borghesi La relativa autonomia del sindacato dal regime borghese nel periodo della 2^ Internazionale non deve ingannare quanto al suo carattere, perché essa ha dei limiti ben precisi: tale autonomia è reale ed ha un senso ben preciso perché non esiste un vincolo obbligatorio a senso unico tra azione sindacale e interessi capitalistici, e anzi la lotta sindacalepromuove nel proletariato un’estensione di forza  organizzata e ciò, però, non significa  che il sindacato sia in questa fase rivoluzionario. Non è la permanenza del sindacato in quanto tale e neppure il suo riferimento effettivo a rivendicazioni immediate della classe (in quanto classe del capitale) a qualificare il carattere rivoluzionario o meno del Movimento Operaio, ma la funzione che l’organizzazione immediata è costretta a svolgere in relazione a condizioni oggettive che tendono a spezzare il legame di “cointeressenza” borghesia-proletariato e, con ciò, l’influenza che la borghesia esercita nella classetramite l’aristocrazia operaia. Per il periodo della Seconda Internazionale (1889-1914) si può parlare di sindacati “rossi” in quanto non ancora organicamente legati (anche sul piano giuridico – formale”, che comunque viene dopo che l’integrazione si è data, a fissarla e rafforzarla) allo Stato e alle esigenze dell’economia nazionale di cui esso è garante. Ma questo fatto non sta a indicare una garanzia che si sarebbe persa poi, bensì il fatto di un’evoluzione capitalista non ancora giunta alle conseguenze estreme dell’imperialismo. Siamo ancora all’introduzione per via indiretta dell’influenza capitalistica nelle file del Movimento Operaio,” nei termini dell’elargizione delle briciole tratte dai sovrapprofitti della sistematica rapina colonialistica realizzati su scala internazionale. Questo è la fase in cui i sindacati comprendevano: “gli operai qualificati, i meglio pagati dai padroni, i sindacati, a causa della loro grettezza corporativa, vincolati dall’apparato burocratico distaccato dalla masse, corrotti dai loro capi opportunisti, non hanno tradito soltanto la causa della rivoluzione sociale ma anche la causa della lotta per migliorare le condizioni di vita degli operai da essi organizzati” (Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale – Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista – 1920).  I fattori della degenerazione sindacale, che si manifesteranno più tardi in maniera traumatica sono già in atto e consistono nella posizione oggettiva dell’aristocrazia operaia, in relazione alle risorse del capitalismo in ascesa che ne rendono praticabile l’influenza sulle masse stesse, indipendentemente dal fatto che tra “vertice” e “massa” esista una frattura di interessi. Il distacco dell’aristocrazia operaia dalla massa, insomma, non è tale, in questa fase, da compromettere l’egemonia politica sul Movimento Operaio. Non è quindi un problema d’immoralità o tradimento,se nel cuore del Movimento Operaio organizzato (Germania) e nel momento traumatico della crisi capitalistica sfociata nella prima guerra mondiale imperialista (1914-1918), si arrivi al 4 agosto della socialdemocrazia e del sindacato. Col primo dopoguerra la vecchia burocrazia sindacale cerca di ostacolare il passaggio dei sindacati da organi influenzati dalla borghesia ad organi della rivoluzione. Nelle tesi del secondo congresso della Terza internazionale viene sostenuto: la borghesia si appoggia su questa “forza d’inerzia dell’ideologia della vecchia aristocrazia operaia”, ma questa è, d’altra parte, indebolita “dal processo di soppressione dei privilegi dei singoli gruppi del proletariato dal livellamento verso il basso delle condizioni di vita operaia, dalla generalizzazione dell’insicurezza e della miseria”. I lavoratori entrano, in questa fase, a frotte nei sindacati vincendo lo sbarramento loro apposto dall’aristocrazia operaia, per affermare i propri interessi, oggettivamente antagonisti rispetto alleesigenze del capitale. È su questo “terreno rivoluzionario” che i comunisti devono fondare la loro prospettiva”.  (*) (*) Da “PARTITO E CLASSE –  Rivista teorica n.1-1980  dei NUCLEI LENINISTI INTERNAZIONALISTI ——————————————————————————————————————————————————————————-   “I sindacati creati dalla classe operaia nel periodo di sviluppo pacifico del capitalismo erano organizzazioni degli operai in lotta per aumentare il prezzo della forza-lavoro e per migliorare le condizioni del suo impiego. I marxisti rivoluzionari miravano a collegarsi con il partito politico del proletariato, la socialdemocrazia, perché affrontassero insieme la lotta per il socialismo. Per gli stessi motivi per cui la socialdemocrazia internazionale, con pochissime eccezioni, si dimostrò no già strumento della lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento del capitalismo, ma un’organizzazione che tratteneva il proletariato dalla rivoluzione nell’interesse della borghesia, per gli stessi motivi dunque anche i sindacati durante la guerra dimostrano nella maggior parte dei casi di essere parte dell’apparato bellico della borghesia; essi aiutarono la borghesia a spremere il più possibile la classe operaia al fine di poter condurre più energicamente la guerra a vantaggio degli interessi capitalistici…così hanno abbandonato la lotta sindacale contro gli imprenditori, e a questi criteri si sono ispirati non soltanto le associazioni libere in Gran Bretagna e America, non soltanto i cosiddetti liberi sindacati “socialisti” in Germania e Austria, ma anche le associazioni sindacali in Francia” (Dalle tesi del secondo Congresso dell’Internazionale Comunista del 17 luglio-7 agosto 1920).   Breve esposizione sulle prime forme di organizzazioni operaie La prima forma di protesta collettiva furono le rivolte di fabbrica volte alla distruzione delle macchine. Quasi tutta l’Europa poté assistere nel corso del secolo XVII alle rivolte operaie contro la cosiddetta bandmuhle (macchine per tessere nastri e passamani).  Tale lotta operaia contro le macchine cominciò già dalla sua invenzione. Ma essa si trasformò in lotta di massa solo all’inizio del XIX secolo. Il movimento “luddista” ebbe la sua culla a Nottingham, nell’Yorkshire e nel Lanchshire, praticava in modo organizzato la distruzione delle macchine. Il capo del movimento era una figura mitica, il “Generale Ludd”. Essendo la polizia impotente, contro i luddisti, il governo impiegò l’esercito; e per riportare definitivamente i lavoratori alle macchine fu decretata la pena di morte per chi distruggeva le macchine. Nel gennaio del 1813 furono impiccati tre luddisti e una settimana dopo, per un attacco alla fabbrica di Cartwright, l’inventore del telaio meccanico, furono impiccate altre quattordici persone. Con l’aiuto di un provocatore il governo fu in grado di sbaragliare il movimento luddista. Comunque, questi metodi di lotta, proseguirono anche in seguito e riguardarono in particolare quelle fabbriche che di tanto in tanto introducevano nuove macchine. Così all’inizio degli anni trenta del XIX secolo i braccianti diretti da John Swing, una figura altrettanto mitica come quella del “Generale Ludd”, bruciarono i granai e distrussero le trebbiatrici meccaniche. Ancora nel 1831 i minatori in sciopero nel Nothumberland distrussero gli impianti di ventilazione. “L’ostilità degli operai si esprimeva solo in un confuso sentimento di odio nei confronti dei loro sfruttatori, nel desiderio di vendicarsi dei capitalisti. La loro lotta si traduceva allora in rivolte isolate di operai che distruggevano gli edifici e rompevano le macchine, malmenavano i dirigenti della fabbrica, ecc.  Era la prima forma del movimento operaio, la sua forma iniziale, ed essa è stata necessaria perché l’odio per il capitalista è stato sempre e dovunque il primo impulso che ha portato gli operai a difendersi. Ma il movimento operaio russo ha superato questa fase iniziale. Superata la fase dell’odio confuso verso il capitalista, gli operai hanno cominciato a capire l’antagonismo di interessi che oppone la classe operaia a quella dei capitalisti” (da un articolo di Lenin, per la Russia, scritto in prigione il 25 novembre del 1896). Come disse Marx: “Ci vogliono tempo ed esperienza finché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento…Il telaio a vapore, in Inghilterra ha gettato nella miseria 800 mila tessitori, non si tratta di macchine reali che dovrebbero essere rimpiazzate da un certo numero di operai, ma si tratta d’un effettivo numero di operai che è stato realmente rimpiazzato ossia sostituito dalle macchine” (K. Marx, Il Capitale, Libro I, Macchine e grande industria). “laddove la macchina invade lentamente un campo della produzione, essa genera la miseria cronica degli strati operai che sono in concorrenza con essa. Laddove avanza rapidamente l’effetto è di massa e acuto. La storia dell’umanità non presenta spettacolo più tremendo della estinzione degli artigiani tessitori di cotone inglesi, lenta e protrattasi per decenni e giunta a termine nel 1838. Parecchi di essi morirono di fame molti vegetarono a lungo insieme alle loro famiglie con 2 pence e mezzo al giorno. Tremendo invece fu l’effetto che le macchine inglesi per la lavorazione del cotone produssero nelle Indie Orientali, il cui governatore generale rivelava nel 1834-35 “è difficile trovare nella storia del commercio un parallelo e una tale miseria. Le ossa dei tessitori di cotone imbiancano le pianure dell’India” (Riccardo in Principles). Con questo processo di introduzione dei macchinari il talento dell’operaio viene poco alla volta sostituito “il perfezionamento delle macchine per ottenere un dato risultato non solo obbliga a diminuire il numero degli operai adulti impiegati, ma soppianta una classe più abile, adulti con bambini, uomini, con donne. (Ure Philosophy of manifactures). “nella misura in cui i capitalisti sono costretti dal movimento che abbiamo descritto, a sfruttare su scala più grande i mezzi di produzione giganteschi già esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve del credito, nella stessa misura aumentano i terremoti industriali, in cui il mondo del commercio si mantiene soltanto sacrificando agli dei inferi una parte della ricchezza, dei prodotti e perfino delle forze produttive: in una parola, nella stessa misura aumentano le crisi. Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, diventa più grande, il mercato mondiale sempre più sicontrae, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, perché ogni crisi precedente ha già conquistato al commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio in modo superficiale. Ma il capitale non vive soltanto del lavoro. Signore ad un tempo barbaro e grandioso, egli trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi” (Marx, Il Capitale, libroII) “Le vicende dell’industria del cotone inglese – sostiene Marx nel 1 libro del Capitale – possono illustrare nel modo migliore le vicende dell’operaio  di fabbrica. Dal 1770 al 1815 l’industria del cotone subì un calo o un ristagno di 5 anni. In questo periodo di 45 anni i fabbricanti inglesi avevano il monopolio delle macchine e del mercato mondiale. Dal 1815 al 1821 depressione, 1822 e 1823 anni di prosperità, 1824 soppressione delle leggi contro le coalizioni operaie con conseguente enorme estensione generale delle fabbriche, 1825 crisi; 1826 grande miseria e rivolta tra gli operai cotonieri; 1827 lieve miglioramento, 1828 grande aumento dei telai meccanici dell’esportazione; 1829 punta massima dell’esportazione, che supera tutte le precedenti annate, soprattutto in India; 1830 mercati saturi, stato di profonda crisi, dal 1831 al 1833 calo costante, il commercio con l’Asia orientale (India e Cina) viene tolto al monopolio della Compagnia delle Indie Orientali, 1834 grande aumento di fabbriche e di macchine, deficienza di mano d’opera. La nuova legge sui poveri dà incremento alla migrazione dei lavoratori agricoli nei distretti industriali. I bambini vengono strappati dalle contee rurali. Tratta degli schiavi bianchi. 1835 grande prosperità. Nello steso tempo i tessitori a mano di cotone muoiono di fame. 1836 prosperità. 1837 e 1838 depressione e crisi. 1838 depressione e crisi. 1839 ripresa. 1840 profonda depressione, rivolte, interventi militare. 1841 e 1842 tremende sofferenze degli operai di fabbrica. Nel 1842 i fabbricanti, nell’intenzione di far revocare le leggi sul grano, promuovono una serrata. Gli operai si riversano a migliaia nello Yorkshire, vengono ributtati dalle forze armate, i loro capi sono condotti dinanzi al tribunale del Lancaster. 1843 grave miseria. 1844 ripresa. 1845 grande prosperità. Nel 1846 dapprima si continua sullo slancio appresso sintomi di reazioni. Revoca delle leggi sul grano. 1847 crisi. Riduzione generale dei salari del 10% e oltre, per festeggiare la big loaf (grande pagnotta). 1848 calo continuo. Manchester sotto protezione militare. 1849 ripresa. 1850 prosperità. 1851 calo dei prezzi delle merci, salari bassi, continui scioperi. Nel 1852 ha inizio un miglioramento. Si susseguono gli scioperi i fabbricanti minacciano di ricorrere a mano d’opera straniera. 1853 aumento dell’esportazione. Sciopero di otto mesi e grande miseria a Preston. 1854 prosperità, saturazione dei mercati. 1855 arrivano voci su fallimenti negli Stati Uniti, Canada, nei mercati dell’Asia orientale. 1856 grande prosperità. Aumento delle fabbriche. 1860 zenit dell’industria del cotone inglese. I mercati dell’India e dell’Australia e altri ancora si sono saturati a un tal punto, che ancora nel 1863 non hanno terminato di assorbire tutte le merci. Trattato di commercio con la Francia. Grandissimo aumento delle fabbriche e delle macchine. Nel 1861 lo slancio continua un po’, reazione, guerra civile americana, carestia di cotone. Dal 1862 al 1863 crollo completo”. Inizialmente i sindacati furono unioni temporanee create durante gli scioperi. Dato che la legge proibiva ogni unione tra gli operai, in seguito soprattutto all’influenza che ebbero gli avvenimenti della rivoluzione francese e che portò in Gran Bretagna le leggi del 1799-1800, che incrementarono la repressione contro i lavoratori, gli operai costituirono delle società segrete. Solo dopo una lotta tenace per il diritto di associazione, che gli operai portarono avanti insieme alla borghesia radical-democratica, e dopo una serie di lotte dure e sanguinose nel 1824 ottennero il diritto di associazione, e sebbene l’anno successivo a tale legge furono apportate alcune limitazioni, gli operai iniziarono a utilizzare tale diritto. In tutti i posti di lavoro si costituirono trade-unions con lo scopo di: 1) Fissare il salario, regolarlo sul profitto del datore di lavoro, elevarlo quando il momento fosse propizio e mantenerlo dappertutto a un medesimo livello per un medesimo mestiere. 2)Limitare l’assunzione di apprendisti, per mantenere viva la richiesta di operai e difendere il livello del salario. Engels a conoscenza dei tentativi degli operai inglesi di costituire un sindacato su scala nazionale, diceva: “Quando ciò fu possibile e si dimostrò vantaggioso, gli operai di uno stesso mestiere di singoli distretti si unirono talvolta in un’associazione federata e organizzarono assemblee di delegati in date stabilite. In singoli casi, si cercò di unire in una sola grande associazione per tutta l’Inghilterra gli operai di tutto il regno, con un’organizzazione particolare per ogni categoria” (F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra ). Engel descrive i metodi di lotta dei sindacati: in primo luogo c’è lo sciopero, poi la lotta contro i crumiri e quindi l’esercizio di forme di pressione contro chi rifiuta di unirsi al sindacato. Engels mentre riconosce che il sindacalismo è una forma necessaria dell’organizzazione operaia, nello stesso tempo ne comprende i limiti: “La storia di queste associazioni è una lunga serie di sconfitte degli operai, interrotta da qualche vittoria isolata. E’ naturale che tutti questi sforzi non possono mutare la legge economica secondo la quale sul mercato del lavoro il salario viene determinato dal rapporto tra domanda e offerta” (F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra – I movimenti operai). Ma anche quando gli scioperi possono sembrare inconcludenti, è chiaro che gli operari devono lottare contro la diminuzione del salario, poiché in mancanza di tali azioni i capitalisti non metterebbero dei limiti alla loro avidità: “Ma queste associazioni e scioperi che ne derivano assumono un’ importanza specifica in quanto rappresentano il primo tentativo degli operai di abolire la concorrenza tra loro. Essa presuppone la consapevolezza che il potere della borghesia poggia unicamente sulla concorrenza degli operai tra di loro, cioè sul  frazionamento del proletariato, sul reciproco contrapporsi dei singoli operai” (Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra – I movimenti operai). Ai socialisti utopisti che condannavano gli scioperi Engels ne ricorda il valore educativo: “In generale questi scioperi sono soltanto scaramucce di avamposti, talvolta però ci sono gli scontri di una certa importanza; non decidono nulla, ma sono la prova migliore che la battaglia decisiva tra proletariato e borghesia si sta avvicinando. Sono la scuola di guerra in cui gli operai si preparano alla grande lotta inevitabile; sono i pronnuciamentos di singoli categorie di operai sulla adesione al grande movimento operaio (…) E come scuole di guerra, queste lotte sono di un efficacia insuperabile “ (Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra). Le Trades’Union – osserva Marx al Congresso dell’Internazionale a Ginevra  del 1866 – “devono interessare con molta attenzione dei settori industriali dove le retribuzioni sono più misere, come nel caso dei lavoratori agricoli, i quali sono stati ridotti di importanza eccezionalmente sfavorevoli. Devono far nascere la convinzione in tutto il mondo che i loro fini, invece d’essere circoscritti in limiti stretti ed egoisti, mirano all’emancipazione dei milioni oppressi”. In Miseria della filosofia Marx descrive il processo di trasformazione della classe operaia in classe per sé: “Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non lo è ancora per sé stessa. Nella lotta, della quale abbiamo segnalato solo alcune fasi, questa massa di riunisce, si costituisce in classe per sé stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica”. L’organizzazione di scioperi, l’istituzione di sindacati, la loro estensione sul piano nazionale andarono di pari passo con la loro politica , assumendo una certa rilevanza politica negli anni 1836-1837. Questa fu l’epoca dell’organizzazione del primo partito operaio: il partito Cartista. “Nelle associazioni e negli scioperi l’opposizione rimaneva isolata, erano singoli operai e gruppi di operai a combattere contro i borghesi quando la lotta diventava generale, raramente ciò avveniva per volontà degli operai, e in quei pochi casi alla base di quella volontà vi era il cartismo. Nel cartismo, invece, è l’intera classe che insorge contro la borghesia e che attacca prima di tutto il suo potere politico, il muro di leggi con il quale essa si è circondata” (F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra). Fino ad allora il movimento della classe operaia veniva usato dalla borghesia contro i suoi nemici: “Da una parte anche la grande industria stava appena uscendo dall’infanzia, com’è provato già dal fatto che esso apre il ciclo periodico della sua vita moderna soltanto con la crisi del 1825. Dall’altra parte, la lotta delle classi era respinta nello sfondo, politicamente per la discordia tra i governi e l’aristocrazia feudale schierati intono alla Santa Alleanza, e la massa popolare guidata della borghesia, economicamente per la contesa tra capitale industriale e proprietà fondiariaaristocratica” (Marx, Il Capitale, Libro 1). Solo dopo il 1830 in Inghilterra, quando la borghesia radicale si piegò così facilmente ad un compromesso che diede il potere politico alla borghesia industriale, ci fu una profonda scissione tra l’avanguardia della classe operaia e la borghesia. Solo i cambiamenti prodotti dalla rivoluzione di luglio e l’insurrezione degli operai francesi di Lione (1831-1834) diedero impulso all’idea dell’autonomia politica della classe operaia, che fino ad allora aveva giocato il ruolo di ala radicale del partito della borghesia. “La rivoluzione di febbraio – scrive Marx in Le lotte di classe in Francia del 1848 al 1850-  era stata conquistata dagli operai con l’aiuto passivo della borghesia. I proletari si consideravano a ragione come i vincitori di febbraio e avanzavano le pretese orgogliose del vincitore. Si doveva batterli nella strada, ma contro la borghesia. Come per la repubblica di febbraio con le sue concessioni socialiste, per fare ufficialmente della repubblica borghese l’elemento dominante. La borghesia doveva respingere le rivendicazioni del proletariato con le armi in mano. E la vera culla della repubblica borghese  non è la rivoluzione di febbraio, ma la disfatta di giugno… Agli operai  non rimase altra alternativa: o morire di fame o scendere in campo. Essi risposero il 22 giugno con la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna. Fu una lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordine borghese. Il velo che avvolgeva la repubblica fu lacerato. È noto con che valore e genialità senza esempio gli operai, senza capi, senza un piano comune, senza mezzi, per la maggior parte senz’armi, tennero in scacco per cinque giorni l’esercito, la Guardia mobile, la Guardia nazionale di Parigi e la Guardia nazionale accorsa dalle province. È noto come la borghesia si rifacesse con brutalità inaudita del pericolo coso, massacrando più di tremila prigionieri”. “Dopo la loro eroica impresa di giugno – dall’Indirizzo del Consiglio Generale della Associazione Internazionale dei Lavoratori, sulla guerra civile in Francia nel 1871 – i repubblicani borghesi dovettero però retrocedere dalla prima fila alla retroguardia del “partito dell’ordine”, combinazione formata da tutte le frazioni e fazioni rivali delle classi possidenti nel loro antagonismo ormai aperto contro le classi produttrici. La forma più adatta del loro governo comune fu la repubblica parlamentare con Luigi Bonaparte presidente. Esso fu un regime di terrorismo di classe aperto e di deliberato insulto della “vile moltitudine”. Se, come diceva Thiers la repubblica parlamentare era il regime che” meno divideva le differenti frazioni della classe dirigente”, esso apriva un abisso fra questa classe e il corpo intiero della società escluso dalle sue file ristrette…Il frutto naturale della repubblica del “partito dell’ordine” fu il Secondo Impero.  Esso fu salutato in tutto il mondo come il salvatore della società. Sotto il suo dominio la società borghese, libera di preoccupazioni politiche, raggiunse uno sviluppo che essa stessa non aveva mai sperato. La sua industria e il suo commercio assunsero proporzioni colossali: la speculazione finanziaria celebrò delle orge cosmopolite: la miseria delle masse fu messa in rilievo da una ostentazione sfacciata di un lusso esagerato, immorale, delittuoso”. Dal crollo del cartismo in poi (dal 1848 fino alla fine del XIX secolo) il capitale dominò la forza lavoro, riuscendo a snaturare la spinta propulsiva dei lavoratori indirizzandola verso forze politiche corporative – professionali. La limitatezza economicista non solo portò le Trade Unions o i sindacati nei vari paesi verso una politica interna al sistema di contrattazione della forza lavoro o a costituire casse mutuali, ma ad essa si contrappose il risveglio della lotta operaia e alla creazione dei propri partiti politici ( il Labour Party in Inghilterra). In Inghilterra, comunque, l’adesione operaia al partito era condizionata da una pratica ed una teoria tradunionista. Politica questa che Marx aveva già combattuto all’interno della 1 Internazionale, perché per  esso non sono importanti in sé e per sé le rivendicazioni economiche, ma in quanto battaglie rivolte ad un fine rivoluzionario. La successiva delusione dei lavoratori verso il Labour Party, perché riformista borghese, li portò ad un atteggiamento benevolo verso il sindacalismo rivoluzionario francese e verso il sindacato industriale americano. Per un certo periodo si determinò nel movimento della classe operaia una divisione tra i fautori di una lotta economica “rivoluzionaria” e i sostenitori della lotta politica. Nascerà in questa fase il “socialismo delle Gilde” in cui si pretendeva che lo Stato, proprietario dei mezzi produttivi del lavoro, lasciasse amministrare ai lavoratori le cooperative di produzione e le cooperative di lavoro. Per eliminare le differenze di reddito a livello nazionale, lo Stato doveva incassare da ogni Gilda una tassa. Il socialismo delle Gilde non poneva quindi, la distruzione e la rivoluzione  dello Stato come punto di approdo al socialismo, ma come fine l’autogoverno, dopo un periodo di amministrazione degli operai dell’economia. In certe situazioni le Gilde propugnavano delle istituzioni paritetiche tra il sindacato ed il padronato anticipando, così, il corporativismo fascista.                                          Il primo strumento di autonomia, il partito   Alla fine dell’800 e gli inizi del 1900 la degenerazione dei sindacati come organi di controllo della classe operaia a favore delle borghesie è completato in tutti i paesi ed il grado di integrazione con lo Stato è talmente avanzato che faranno parte dell’apparato di guerra della borghesia. La stessa sorte avvenne, a parte poche eccezioni, in tutti i paesi europei. Il Partito Socialdemocratico Tedesco nasce come partito a dimensione nazionale nel maggio 1875, dalla fusione tra l’Associazione Generale dei Lavoratori Tedeschi (ADAV) di Lassale e il Partito Operaio Socialdemocratico (SDAP) di Bebel e Liebknecht. Le impostazioni di questi due partiti erano diverse. L’ADAV seguendo l’impostazione di Lassale sulla “Legge bronzea del salario”, secondo la quale i capitalisti pagano gli operai un salario minimo appena sufficiente alla soddisfazione dei bisogni primari necessaria per il mantenimento della manodopera, riteneva superflua l’organizzazione sindacale in quanto riteneva primario la formazione di associazioni produttive a credito statale. Per questi motivi uno dei primi obiettivi dell’ADAV (e successivamente della socialdemocrazia tedesca fino al 1919)  era il suffragio universale, come premessa per ottenere la democratizzazione dello Stato. Lo SDAP invece lavorava per la creazione di un forte movimento sindacale. L’ADAV, dopo la morte di Lassale e sotto l’influsso delle lotte operaie che cominciarono a svilupparsi dalla metà del XIX secolo, cambiò posizione rispetto alla costruzione di organizzazioni sindacali, si arrivò così alla fondazione di due unioni sindacali nazionali, da cui scaturì negli anni a seguire importanti impulsi al superamento della divisione del Movimento Operaio tedesco. Il Programma di Gotha approvato dal congresso di riunificazione fu criticato da Marx ( Critica del programma di Gotha, del 1875), ed era in  sostanza una critica alle posizioni lassalliane espresse all’interno del programma del partito unificato. In sintesi gli elementi fondamentali della critica di Marx al programma erano: 1° Nel programma si diceva che il lavoro è fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, senza specificare, però, che anche la borghesia sosteneva questa posizione e, inoltre si contrapponeva il proletariato alla borghesia e al precapitalistico  “dispotismo militare”, come  fosse “unica massa reazionaria”. Per Marx,  il programma rinunciava a mettere in discussione la proprietà privata dei mezzi produttivi e aveva obiettivi limitati all’ambiente sociale esistente.  Per Marx, il valore non proviene solo dal lavoro ma anche dalla natura, che offre a quest’ultimi tutti i mezzi e di suoi oggetti. 2) Il programma, inoltre, rinunciava alla definizione stessa dello sfruttamento: una volta acquistata al suo prezzo la forza-lavoro, ossia al valore necessario al suo mantenimento e riproduzione, il suo impiego produca ( per un tempo di lavoro il cui valore è superiore a quello per cui è stata acquistata) un plusvalore di cui si appropria l’acquirente della forza-lavoro stessa, il capitalista. La posizione tipica della corrente lassaliana, era soprattutto una deviazione statalista in quanto ricercava l’appoggio dello Stato nello sviluppo delle organizzazioni operaie e cooperative. Il partito unificato venne sottoposto a dura prova dalla legislazione antisocialista di Bismarck,iniziata nel 1878 e finita nel 1890,  anno della caduta di questi. Il partito in questo periodo sviluppò un robusto apparato per poter distribuire le proprie pubblicazioni. Gli iscritti alla SPD che alla fine della legislazione antisocialista erano più di 50.000, erano diventati 384.327 nel 1905-1906, e 1.085.905 ( il 90% di questi erano operai) nel 1913-1914. Gli iscritti al sindacato arrivarono a 2.283.661 nel 1914. Il partito nel 1890 ebbe 1.427.298 voti con 35 deputati eletti, nel 1912 (che furono le ultime elezioni in Germania prima dello scoppio della guerra) passò a 4.250.000 voti con 110 deputati eletti. Questa progressione dei risultati elettorali creava la convinzione della possibilità di un’ascesa irresistibile e lineare del partito verso il raggiungimento della maggioranza assoluta nel paese e di conseguenza verso il potere.   Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale imperialista si assisté a questa dinamica: la burocrazia sindacale cerca di ostacolare il passaggio dei sindacati da organi influenzati dalla borghesia a organi della rivoluzione, mantenendo i sindacati “come organizzazione dell’aristocrazia operaia che rendono impossibile alle masse operaie mal pagate l’entrata in esse” (Dalle tesi del 2°Congresso dell’Internazionale Comunista, 1920). Si tratta di capire perché lo sforzo promosso dall’Internazionale Comunista non è andato in porto. Il fatto è che nel periodo cominciato dalla rivoluzione di ottobre si scontrarono tutte le debolezze maturate negli anni precedenti, che hanno impedito alla sinistra marxista della Seconda Internazionale di porre prima dello scontro decisivo, in termini utili, la questione della preparazione rivoluzionaria. Il lungo ciclo pacifico di sviluppo capitalistico precedente alla scoppio della prima guerra mondiale imperialista, non solo aveva creato le basi materiali dello sviluppo del revisionismo all’interno del movimento operaio, ma il limite vero stava nel fatto che la lotta antirevisionista era soprattutto confinata in discussioni teoriche, poco influenti sulla pratica del movimento reale. Il nodo fondamentale stava nell’assenza (tranne che in Russia) di  Partiti in grado di prevenire non solo teoricamente, ma programmaticamente e organizzativamente il momento dello scontro, di tradurre in azione politica i principi rivoluzionari . La devastatrice teoria antipartitosi manifesterà in mille forme anche nel cuore dell’Internazionale Comunista: autorganizzazione delle masse, priorità dei consigli, spontaneità ecc. Tra le correnti costitutive dell’Internazionale Comunista c’erano tendenze fortemente influenzate da posizioni che furono definite da Lenin come“estremiste”. Il gruppo dei Tribunisti olandesi, che formavano il nucleo del Partito Comunista Olandese sorto nel novembre del 1918, era stato parte costitutiva della sinistra di Zimmerwald e dei suoi esponenti di primo piano come A. Pannekoek e H. Roland-Holst ne avevano diretto la rivista teorica e politica, il Vorbote. I rivoluzionari olandesi che già nel 1909 si erano separati dai riformisti del loro paese (Il collettivo redazonale di “Die Tribune,” a cui apparteneva Gorter e Pannekoek, venne espulso dal partito operaio socialdemocratico SDAP ad opera di Troelstra), erano stati durante la prima guerra mondiale imperialista i più vicini a Lenin (Gli “olandesi” erano stati tra i primi durante la prima guera mondiale a denunciare i iformisti rompendo anche gli indugi della stessa sinistra tedesca rispetto ai Kautskisti) . Tuttavia esistevano delle divergenze politiche (sulla questione nazionale: posizione diversa da Lenin era anche quella di Rosa Luxemburg degli internazionalisti di Brema i quali sostenevano che era finita l’epoca delle guerre nazionali, sui sindacati, la concezione del partito, sulla questione dell’esercizio della dittatura proletaria, sulla l’insurrezione che solo un’avanguardia ben organizzata può dirigere le masse e sulla prospettiva strategica ) che in seguito sarebbero diventate posizioni tra Lenin ed i Tribunisti incompatibili (gli olandesi rimarcacano il fatto che c’era una grandissima differenza tra l’Europa Orientale e quella  Occidentale dal punto di vista dello sviluppo capitalistico e contestavano a Lenin la possibilità di usare la stessa tattica usata in Russia; mettevano in discussione l’utilizzo dell’azione parlamentare in senso rivoluzionario e la possibilità di lavorare nei sindacati e di prenderne la direzione, per essi erano potenze controrivoluzionarie che bisognava distruggere favorendo l’Unione operaia fatta dal coordinamento degli operai di fabbrica che dovevano sviluppare a “raggera” lo spirito rivoluzionario delle masse: “Come i partiti comunisti si erigono davanti ai partiti socialpatrioti, così anche la nuova formazione , l’Unione operaia, deve schierarsi di fronte al sindacato”…”Nella misura in cui l’importanza della classe aumenta-come in Germania- si riduce in proporzione l’importanza dei capi. Ciò non vuol dire che non dobbiamo avere i migliori capi possibili: i migliori tra i migliori non sono ancora abbastanza buoni e noi li stiamo ancora cercando. Ciò significa soltanto che rispetto all’importanza delle masse, quella dei capi diminuisce”….”Non avete osservato, compagno Lenin, che non esistono dei “grandi” capi in Germania? Si tratta sempre di uomini ordinari. Ciò dimostra che questa rivoluzione deve essere inanzitutto opera delle masse e non dei capi”…..”Sarà la rivoluzione delle masse, non perchè è bene o bello, o ben ideato da qualcuno, ma perchè la cosa è condizionata dai rapporti economici e di classe” -risposta di Gorter a Lenin, 1920) In un certo senso, quelli che Lenin definiva “estremisti” erano per un partito di quadri, qualitativamente preparati, in grado di dirigere la “nave,”ma su un piano ideologico e principista che avevano il compito di orientare le masse con l’unico metodo “del rovesciamento incondizionato della borghesia per quindi istituire la dittatura proletaria di classe, per la realizzazione del socialismo”(Da un opuscolo edito dal gruppo locale di Francoforte che apparteneva alla tendenzadei Comunisti di sinistra tedeschi): esaltavano, nei paesi a maggior sviluppo capitalistico, il ruolo delle masse (come se queste, anche se organizzate nelle Unioni, fossero preservate dal tarlo opportunista) e la relativa importanza dei capi, svalutando, nei fatti, il ruolo e la formazione, in prospettiva, del partito organo di direzione politica di massa o addirittura sciogliere i partiti proclamando “l’inutilità e il loro carattere borghese”. Trotskij nel discorso pronunciato nella seduta del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista del 24 novembre del 1920, in risposta a Gorter sostenne: “L’educazione delle masse e la selezione dei capi, lo sviluppo della spontaneità delle masse, l’istituzione d’un controllo sui capi, sono tutti fatti interdipendenti che si condizionano reciprocamente. Non conosco ricette che permettono di riportare artificialmente il centro dell’azione dai capi alle masse. Gorter indica la propaganda di un gruppo selezionato. Ammettiamolo, per un istante. Ma fino a quando questa propaganda non avrà conquistato le masse, il centro dell’azione, evidentemente, sarà tra coloro che la faranno, capi e iniziatori. La lotta contro i capi, il più delle volte, non fa che esprimere nel modo più demagogico la lotta contro le idee e i metodi rappresentati da certi capi. Se queste idee e questi metodi sono buoni, l’influenza dei capi in questione corrisponde a quella di un buon metodo e di buone idee, e parlano a nome delle masse soltanto coloro i quali sanno conquistare le masse. In linea generale, i rapporti tra le masse e i capi dipendono dal livello politico e intellettuale della classe operaia, dal fatto che essa ha o non ha tradizioni rivoluzionarie e l’abitudine ad agire collettivamente, e, infine, dallo spessore dello strato proletario che è passato nella scuola della lotta di classe e dell’educazione marxista. Non esiste un problema dei capi e delle masse preso a sé. Il partito comunista, allargando continuamente la sua sfera d’influenza, penetrando in tutti i campi della vita e dell’azione della classe operaia, trascinando nella lotta per la trasformazione sociale masse operaie sempre più larghe, approfondisce e allarga, di conseguenza, la spontaneità delle masse operaie senza per questo ridurre il ruolo dei capi, al quale dà invece un’ampiezza storica senza precedenti legandolo più strettamente all’azione spontanea delle masse e sottomettendolo al loro controllo cosciente e organizzato”. Coloro che apparteneva a queste correnti “estremiste”, negli anni venti, portarono all’estremo questo concetto arrivando a mitizzare il ruolo indifferenziato della massa stessa e la sua spontaneità). Nel KPD (Partito Comunista Tedesco) il più importante partito comunista esistente (dopo quello bolscevico) l’egemonia dello Spartakusbund era tutt’altro che indiscussa, come si vide  nel 1918 al congresso costitutivo del partito. Sotto l’etichetta organizzativa dei Comunisti Internazionalisti (IKD) si raggruppavano numerose tendenze di estrema sinistra: il gruppo che si era raccolto intorno alla rivista Arbeitepolitik, in cui aveva svolto un ruolo importante A. Pannekoek, ciò che restava del circolo di intellettuali che faceva capo alla rivista Lichtsrahlen, la corrente “unionista” di Amburgo che, sotto l’influenza di un ex militante del sindacato americano IWW, Fritz Wolfheim, rivendicava la separazione tradizionale del lavoro fra partito e sindacato. Tutte queste tendenze erano accumunate da una caratteristica ben precisa: “ Criticando la propria versione del marxismo rivoluzionario, (…) riscoprono semplicemente dietro una prassi e delle parole d’ordine che essi credono “nuove”, tendenze assai prossime alle correnti anarchiche e sindacaliste che il marxismo a suo tempo era riuscito a sconfiggere in seno al movimento operaio, ma che riemergono ora sotto il peso della sconfitta e dell’impotenza di fronte alle burocrazie” (P. Broué – Rivoluzione in Germania 1917-1923 – Einaudi). Nell’ottobre del 1919 dalla spaccatura del KPD nasce il KAPD e nei mesi sucessivi tutta una serie di gruppi internazionali, gli iWW americani, gli Shop Stewards inglesi, la frazione di Bordiga in Italia respingevano l’impostazione tattiva di Lenin ed il Partito Bolscevico (è del 1920 l’opusclo di Lenin su “L’estremismo, malattia infantile del comunismo) L’anello di congiunzione delle varie tendenze costitutive dell’Internazionale Comunista (bolscevica, la sinistra marxista della Seconda Internazionale, le varie tendenze anarchiche e sindacaliste) era costituito dall’identificazione del potere inteso come democrazia proletaria, fondato su istituti nuovi quali i soviet (i consigli degli operai), dei contadini e dei soldati in contrapposizione alla democrazia parlamentare difesa dai partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale. In sostanza la tematica consigliare non fu un patrimonio esclusivo di alcuni gruppi (come i Tribunisti olandesi e gli operaisti tedeschi), ma fu uno degli aspetti programmatici fondamentali presenti all’atto di nascita del movimento comunista internazionale. Le deformazioni delle tendenze di estrema sinistra riflettevano,però, la fiducia del “movimento-tutto” contrapposto alla teoria e alla prassi di Partito , il legame tra lotta immediata e lotta prospettica veniva meno, gli “estremisti” sottovalutavano l’importanza del ruolo del partito, sopravvalutando la spinta e la spontaneità delle masse come fattore sul quale si sarebbe determinato la direzione politica: la sconfitta della rivoluzione tedesca del novembre del 1918 e di quella ungherese non fu recepita e capitalizzata dai “sinistri” per comprendere che non erano sufficienti le condizioni di crisi e la combattività delle masse per far trionfare le rivoluzioni.   Lenin e l’estremismo Solo quando esiste un nucleo solido di Partito è data la possibilità di tentare di stringere questo legame, acuendo, partendo dalle lotte per il pane e il lavoro, la frattura tra borghesia e proletariato. L’esperienza del movimento operaio italiano dagli inizi del 1900 al 1923     In Italia e successivamente in Germania, la forma fascista e nazista di dominazione capitalista nasce come risposta della borghesia alla necessità (che diventa una necessità oggettiva per la borghesia da quando il capitalismo è entrato nell’epoca imperialista) di centralizzare al massimo le proprie forze con il conseguente intervento dello Stato nella direzione dell’economia. Questo fenomeno, che fino al 1914 era sporadico o solo abbozzato, si diffuse universalmente nel ventennio fra le due guerre mondiali. Da allora tale intervento è divenuto permanente e sempre più massiccio. Questa tendenza al capitalismo di Stato non modifica i rapporti di produzione, non rappresenta una novità rispetto al capitalismo classico, anzi ne è l’estrema conseguenza. È questo un chiaro segno della decadenza del capitalismo. Le nazionalizzazioni, i monopoli statali ecc. non sorgono, in sistema capitalistico, come conseguenza della prosperità economica, ma come risposta alla crisi, come mezzi per salvare dal fallimento e perpetuare i monopoli di questo o quel ramo dell’industria; il controllo dello Stato sull’economia nazionale serve a impedire, attraverso la centralizzazione delle decisioni, il tracollo del sistema sotto il peso delle sue contraddizioni. Il primo grande impulso all’estensione del controllo statale è stato dato dalle esigenze dell’economia di guerra durante la prima guerra mondiale imperialista; in numerosi paesi le conseguenze della guerra – difficoltà economiche, instabilità sociale dovuta anche alla radicalizzazione della lotta di classe in molti paesi – fecero mantenere e allargare tale controllo anche dopo la guerra. Dopo la prima guerra mondiale imperialista, in presenza di una grave crisi economica, politica e sociale e di un’effettiva effervescenza delle masse proletarie che arriva sino a tentativi di mettere in causa il potere statale borghese. Per questi motivi, per quest’ultimo, in questo periodo, diventa una necessità passare sopra il cadavere delle organizzazioni classiste smantellandole (soprattutto in paesi come l’Italia e in Germania). Il sindacalismo anche quello riformista, è considerato un pericolo, non in sé, o per presunte velleità rivoluzionarie di esso, ma per il ponte che si sarebbe potuto creare nel corso di un processo rivoluzionario tra l’organizzazione di massa di difesa economica immediata e il partito rivoluzionario, nonostante la volontà collaborazionista dei dirigenti riformisti. Resta anche per il fascismo la necessità di avere una qualche forma di politica sindacale con compiti di mediazione e di tramite nei confronti della classe operaia affidati ai sindacati di Stato dentro il quadro dell’ideologia corporativa. Il corporativismo è la dottrina politica elaborata dai teorici dello Stato fascista. Esso costituisce il fondamento ideologico di quel diritto pubblico che prevede una disciplina organica delle forze produttive. L’ideologia corporativa assume le forze produttive come entità omogenee, sotto il profilo sociale ed economico e in ordine al supremo interesse della potenza nazionale. Il diritto corporativo disciplina le forze produttive in quanto corpora le organizzazioni delle parti sociali, trasformandole, appunto, in corporazioni cui si attribuiscono funzioni costituzionali di carattere normativo, consultivo, conciliativo. La corporazione associa, attraverso la coazione giuridico – militare, lavoratori e proprietari all’interno di ciascun settore della produzione, realizzando contemporaneamente il controllo/repressione e la rimozione della lotta tra le classi. I sindacati corporativi (che organizzano padroni e lavoratori, in linea verticale di continuità) definiscono i contratti collettivi di lavoro. La Magistratura corporativa del lavoro previene o risolve i conflitti di lavoro, in un contesto, dove il divieto di sciopero, sanzione giuridica necessaria contro l’attività sociale dei lavoratori, è ideologicamente pareggiato dal divieto di serrata, sanzione giuridica superflua data la diretta repressione statale dello sciopero. Il fine politico del corporativismo è la potenza imperialistica della nazione, cioè la potenza dei capitalisti. Il sindacalismo fascista attrasse in Italia, ex dirigenti sindacali (come gli ex segretari della CGL Rigola e D’Aragona). Infatti, lo scioglimento della CGL fu effettuato non solo con la violenza squadrista (borghese) diretta, ma anche con l’adesione al regime dei vecchi bonzi riformisti. Formalmente, è diversa la via che lo Stato prese nei confronti del Sindacato nei paesi a regime politico democratico borghese. Qui, a differenza che nel fascismo, non si tratta di coazione aperta, ma la “libera” azione sindacale divenne sempre più nella sostanza, dipendente dalle esigenze del capitalismo nazionale. Alla classe operaia si chiede ciò che il fascismo chiede ai proletari sottomessi al suo gioco: di farsi responsabili esecutori degli interessi nazionali, di “tutto il popolo”, di legarsi al processo di centralizzazione e concentrazione del capitalismo imperialista. I due metodi (dittatoriale fascista e democratico) non si oppongo quanto al fondo, e danno anzi luogo a curiose osmosi, di cui l’esempio tedesco è ricco d’insegnamenti. Quando nel 1878, Bismarck cominciò ad avviare la legislazione antisocialista, adottò nello stesso tempo, una politica di riforme sociali (creazione di un sistema di assicurazioni contro infortuni e malattie, pensioni di vecchiaia ecc.). Nel 1890 (con la defenestrazione di Bismarck) la borghesia trovò più proficua la linea dell’inserimento legale del movimento operaio nei gangli dello Stato: ne sarà premiata nel 1914 con il passaggio del riformismo politico e sindacale al più spietato social – sciovinismo. La forma d’integrazione “democratica” del sindacato tiene finché è possibile tacitare la classe con consistenti briciole (economiche e politico-sociali). Al di là di questo resta il ricorso della borghesia al fascismo o, sulla sinistra, a forme come il governo delle sinistre, in cui si demanda il compito di condurre la “lotta dura” per strappare alla borghesia il “controllo” sulla vita economica nazionale, ovvero (dove il gioco funziona) per sostituirsi ad un certo personale dello Stato borghese come classe dirigente nazionale, capace di rilevare la macchina inceppatasi dell’economia e della società borghesi. Quest’ultimo caso rappresenta il limite estremo della mistificazione borghese, in quanto è il trionfo del Capitale impersonale, retto sulle spalle dei proletari e all’insegna delle bandiere rosse; esso è il trionfo della democrazia imperialista quale massimo esempio di concentrazione totalitaria delle forze borghesi.   Sindacalismo rivoluzionario, anarcosindacalismo e consigliarismo come risposta al riformismo   Il sindacalismo rivoluzionario. La crescente integrazione delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, in questa fase, non si estendeva ad una gran parte del mondo del lavoro. Erano esclusi, in misura diversa da paese a paese, quote più o meno consistenti (per quanto eterogenee) di lavoratori: un esteso comparto dell’artigianato francese minacciato dal procedere dell’industrializzazione, fette consistenti di lavoro dequalificato e marginale, britannico e nordamericano, stuoli di contadini senza terra. Un insieme, come si vede, di frazioni di classe accomunanti dalla loro posizione periferica, ma ancora consistente della forza-lavoro. Il mentore del sindacalismo rivoluzionario fu, senza dubbio, G. Sorel, che aggiunse profondità e spessore al progetto sindacalista (pur intrattenendo che dei rapporti sporadici col movimento sindacalista e non avendo mai un coinvolgimento diretto con esso, anche perché la sua avversione assoluta per la società borghese lo rendeva insofferente e ostile verso le conquiste e i miglioramenti parziali perseguiti invece dalle organizzazioni operaie). Il sindacalismo rivoluzionario faceva leva sulla profonda, radicale insoddisfazione nei confronti della società borghese nei suoi tratti fondamentali, in primo luogo verso la sua forma democratica di governo politico delle masse.  Ad essa era imputata il suo inconfessabile conservatorismo, lo pseudo egualitarismo e la narcotizzazione delle masse dovuto all’emergere di una casta professionalizzata di professionisti della politica, cresciuta con il sistema parlamentare e le sue compagini partitiche. Ciò che i sindacalisti rivoluzionari mettevano soprattutto in discussione era la capacità di queste istituzioni a rappresentare i reali bisogni dei lavoratori, alla quale era contrapposta l’azione diretta, cioè il rifiuto di qualsiasi forma di delega e l’impegno individuale nella trasformazione della società. All’artificialità dei rapporti politici, opponevano la naturalità dei rapporti economici, al cittadino il produttore, al partito la classe operaia organizzata nel sindacato. Lungi però dall’adagiarsi o rianimare i sindacati esistenti, i sindacalisti rivoluzionari si dedicarono all’edificazione di organizzazioni operaie alternative a quelle esistenti. L’esautorazione della politica a vantaggio dei rapporti economici produttivi rendeva, ai loro occhi, superflua l’elaborazione di una linea strategica. A essa, era contrapposta la capacità di individuare il momento più propizio all’attuazione dello sciopero generale, che avrebbe, così,  bloccato l’intera attività produttiva fino al collasso definitivo del capitalismo. Poiché il lavoro era considerato l’unico elemento vitale dell’ordinamento sociale e lo Stato borghese non sarebbe stato in grado di fronteggiare una paralisi totale del sistema produttivo, lo sciopero generale s’identificava con la rivoluzione. L’obiettivo primario del movimento era quindi l’abbattimento della società capitalista, la sua sostituzione con la società dei produttori ed erano, perciò, avversari acerrimi del socialismo della Seconda Internazionale e delle organizzazioni sindacali legalitarie. Il sindacalismo rivoluzionario non vedeva nella centralità operaia, come classe che lotta politicamente per sè contro tutte le frazioni borghesi l’elemento di fondo: le lotte locali, di azienda o di categoria, in quanto lotte economiche, andavano bene, purché se ne togliesse il veleno della collaborazione di classe per arrivare al rovesciamento del potere borghese e all’espropriazione dei padroni. Questa visione dello sciopero generale espropriatore, riduceva, alla fine, la conquista della società alla lotta dei lavoratori per la gestione ed il controllo delle  fabbriche. Le divergenze teoriche tra quello che era definito “marxismo ortodosso” e sindacalismo rivoluzionario erano profonde. I teorici del sindacalismo rivoluzionario respingevano l’impianto teorico della Seconda Internazionale, che veniva identificato nelle posizioni di Kautskj. Essi (e sotto certi aspetti non avevano torto) lo consideravano un determinismo storico, che teoricamente portava al fatalismo e nella pratica al riformismo. Quello che i sindacalisti rivoluzionari respingevano , non era tanto il marxismo in sé, quanto l’evoluzionismo automatico della socialdemocrazia : quella strana miscela tra Marx , Darwin e Spencer e altri pensatori positivisti, che era allora spacciato per marxismo. A dire il vero nell’Occidente, la prima generazione di intellettuali che dichiarò di utilizzare l’analisi marxista, era nata attorno al 1890 e fondeva in maniera naturale Marx con le influenze culturali radicali borghesi prevalenti all’epoca. Per molti di loro il marxismo, per quanto teoria nuova e originale, apparteneva alla sfera generale del pensiero progressista, sebbene politicamente più radicale e connesso specificamente al proletariato. Vediamo di fornire sinteticamente qualche ragguaglio sulle esperienze nazionali più significative del sindacalismo rivoluzionario. La Cgt in Francia prima del 1914 Centro d’irradiazione del movimento rivoluzionario in Europa fu la Francia, sia per precocità che per originalità e complessità di quel movimento, che fornì il modello alle esperienze successive.Esso dovette la sua vitalità a un insieme di fattori economici, politici e ideologici. Il ritmo relativamente lento dell’industrializzazione in Francia aveva perpetuato molti piccoli laboratori, soprattutto nel settore dei beni lusso come la seta, i pizzi, la porcellana e i gioielli. In parte a causa di ciò, il movimento sindacale francese si sviluppò su base geografica piuttosto che lungo direttrici industriali o di mestiere. Un’istituzione chiave fu la Bourse de Travail locale, che combinava in sé i ruoli di una Borsa di Lavoro (nel senso letterale del termine), di un circolo sociale e culturale operaio e in seguito, di un organismo sindacale. La dimensione municipale, prefigurava il modello federativo della società preconizzata da P. J. Proudhon e conferì loro una flessibilità ignorata dalla rigida e gerarchica tradizione corporativa. Ideatore delle Borse di Lavoro fu F. Pelloutier. Alla fine del XIX secolo una folta pattuglia di anarchici, messi in crisi dall’isolamento in cui li aveva gettati l’ultima ondata terrorista, confluì nelle Borse. La nuova appartenenza finì per avere la meglio su quella originaria, al punto che costoro furono sconfessati dal movimento anarchico. In questo periodo i sindacati francesi guadagnarono un assetto stabile con la fondazione della Cgt nel 1895, alla quale aderirono tanto le Borse che le federazioni di mestiere, costituite in sezioni autonome. A livello politico, il sindacalismo francese era condizionato dalla molteplicità dei partiti socialisti presenti nel paese. Mentre negli altri paesi europei si svilupparono partiti socialdemocratici unitari di massa, fu quindi “naturale”, per il movimento sindacale di tali paesi, essere affiliato a quei partiti. In Francia, però, negli anni ’90 del XIX secolo, c’era una mezza dozzina di partiti socialisti che si batteva l’uno contro l’altro e che davano luogo a scissioni in continuazione. Perciò quando fu fondata la Cgt, non c’erano solo anarchici ben noti come Pouget, ma anche socialisti riformisti dichiarati (i “possibilisti”) e i giacobini di vecchio stampo. L’indipendenza dei sindacati dai partiti politici rappresentò, inizialmente, un adattamento empirico alla peculiarità della situazione francese, e soltanto in seguito fu sancita dalla dottrina sindacale. Pelloutier, uno dei suoi teorici, mirava a liberare il movimento operaio francese sia dai “maestri parlamentari”, i quali affermavano che “qualsiasi trasformazione sociale è subordinata alla conquista del potere politico”, sia, dai “maestri rivoluzionari” i quali sostenevano che “nessuna iniziativa socialista sarebbe stata possibile prima del cataclisma purificatore”. Il sarcasmo, verso i “maestri rivoluzionari”, era diretto principalmente verso i blanquisti, fautori dell’insurrezionalismo. All’azione parlamentare e all’insurrezione i sindacalisti contrapponevano, come si diceva prima, lo sciopero generale. La Carta di Amiens della Cgt, del 1906, dichiarava che l’organizzazione “prepara l’emancipazione integrale, che non può realizzarsi se non attraverso l’espropriazione dei capitalisti e preconizza come mezzo di azione lo sciopero generale”. Sebbene la sconfitta della Comune di Parigi fosse ancora ben viva, i sindacalisti della Cgt supposero, implicitamente, che la borghesia francese fosse “troppo civile” da ricorrere al terrore di massa contro la classe operaia in difesa della sua proprietà. Nonostante le sue denunce contro il parlamentarismo, la dottrina sindacalista, si basava, a su modo, su una serie di illusioni nella democrazia borghese. Una delle precondizioni, per uno sciopero generale rivoluzionario, risiedeva nell’organizzazione della stragrande maggioranza degli operai nel movimento diretto dai sindacalisti. La strategia sindacalista implicava che la rivoluzione socialista fosse una prospettiva relativamente a lungo termine. Ma nel 1901, soltanto il 10% degli operai francesi erano membri di un qualche tipo di organizzazione sindacale. Un decennio dopo soltanto, un operaio industriale su sei era sindacalizzato, e uno su dieci era iscritto alla Cgt. Persino all’apice della loro forza e della loro influenza, i sindacalisti francesi non ebbero la capacità organizzativa di mettere in pratica il loro programma di sciopero generale per “espropriare la classe capitalista”. Quando nel 1905, le diverse fazioni socialiste si unificarono per formare la Sfio (Section Françaisede L’Internationale Ouvrière) i sindacalisti dovettero definire i propri rapporti rispetto ai  partiti che rivendicavano di rappresentare la classe operaia. La risposta fu la Carta di Amiens, che era una dichiarazione di indipendenza da tutti i partiti politici. Al parlamentarismo della Sfio i sindacalisti della Cgt contrapposero l’azione diretta. Che cosa tale termine significasse concretamente fuspiegato nel 1905 da E. Pouget nel testo “Le Syndicat”: “Se il miglioramento che chiedono è un problema di azione di governo, i sindacati perseguono tale obiettivo attraverso la pressione di massa sulle pubbliche autorità, non cercando di portare in parlamento dei deputati ad esso favorevoli. Se il miglioramento ricercato deve essere strappato direttamente ai capitalisti (…) i loro mezzi sono svariati, sebbene seguano sempre il principio dell’azione diretta. A seconda della situazione, essi fanno uso dello sciopero, del sabotaggio, del boicottaggio, dell’autorità del sindacato”. Bisogna rilevare che, fondamentalmente, l’azione diretta era considerata e motivata come un mezzo più efficace della pressione parlamentare per strappare delle concessioni ai capitalisti e al governo. In effetti, per oltre un quinquennio, la Cgt mise in atto una sorta di mobilitazione permanente che gettò la borghesia francese in un clima di profonda inquietudine. L’ondata di scioperi che caratterizzò il 1906, che sembrava preludere ad uno sbocco insurrezionale, fu ben presto troncatadalla repressione governativa. Anche lo sciopero ferroviario del 1910, fu schiacciato rapidamente quando il governo incorporò i lavoratori nell’esercito e militarizzò le ferrovie. Comunque, tutti gli scioperi che la Cgt proclamò in questo periodo, avevano come scopo immediato e diretto l’ottenimento, da parte dei lavoratori contro i capitalisti (e il loro governo), di salari più alti, di giornate lavorative più brevi e di migliori condizioni lavorative. I sindacalisti rivoluzionari francesinon s’impegnarono mai in scioperi – neppure in scioperi di protesta – per obiettivi politici. Queste sconfitte ebbero delle conseguenze sulla Cgt e nel movimento operaio francese. La Cgt vide dimezzare i propri iscritti (i 700.000 aderenti nel 1911 si ridussero a 300.000 tre anni dopo), mentre al contrario la Sfio riusciva a far crescere il suo credito negli ambienti operai, soprattutto grazie a due grandi campagne: la prima, è quella contro il carovita, in favore della creazione di cooperative di consumo e di servizi pubblici municipali, la seconda, si svolse contro la “legge dei tre anni”, che allungava di un anno la durata del servizio. Senza tenere conto di queste due grandi campagne nazionali e del riscontro che ebbero, non si spiegherebbero né l’aumento delle adesioni al partito, né il successo elettorale della primavera del 1914. La Sfio, che al momento della sua nascita nel 1905 aveva 34.000 aderenti, nel 1914 ne aveva quasi 90.000 e raccoglierà nelle elezioni del 1914 più di 1.400.000 voti (quasi il 17% degli elettori), che le varranno l’elezione di 102 deputati. Il predominio del sindacalismo rivoluzionario in seno al movimento operaio francese coincise con la minaccia di una guerra imperialista su scala europea. L’antimilitarismo fu quindi un elemento chiave della dottrina sindacalista francese, e il congresso della Cgt del 1908 a Marsiglia adottò la seguente risoluzione: “Il Congresso ripete la formula della (Prima) Internazionale: ‘Gli operai non hanno patria’; e aggiunge: Visto che, di conseguenza, ogni guerra non è che un oltraggio contro i lavoratori, e si tratta di un mezzo sanguinoso e terribile per distoglierli dalle loro rivendicazioni, il Congresso dichiara necessario, dal punto di vista internazionale, istruire i lavoratori affinché in caso di guerra rispondano alla dichiarazione di guerra con la dichiarazione di uno sciopero generale rivoluzionario”. Queste dichiarazioni rimasero in realtà solo delle belle parole. Quando giunse il momento della verifica, nell’agosto del 1914, la Cgt non fece nulla. Nessun appello allo sciopero generale e neppure una manifestazione contro la guerra. Un certo numero di dirigenti della Cgt, in particolare il suo segretario generale Léon Jouhaux, annunciarono immediatamente il loro appoggio alla guerra e, in seguito collaborarono strettamente con il governo nel mobilitare la classe operaia al macello imperialista. Quei militanti sindacalisti che, come Pierre Monatte e Alfred Rosmer, rimasero fedeli ai principi dell’internazionalismo proletario, si ritrovarono a far parte di una minoranza isolata all’interno di un’organizzazione in cui, soltanto qualche giorno prima, erano ancora delle figure dirigenti e rispettate. Le scelte della Cgt, erano state prefigurate in precedenza da tutta una serie di scelte che aveva preso e dalla prassi che tenne in determinati momenti della storia politica francese ed europea. Durante la crisi marocchina del 1905 – una diatriba interimperialista che aveva come posta in gioco l’influenza e il controllo sul Marocco – tutti in Francia pensavano che la guerra con la Germania potesse scoppiare da un momento all’altro. I dirigenti della Cgt non fecero nulla di più che convocare manifestazioni e pubblicare manifesti. Non vi fu alcun tentativo di organizzare scioperi di protesta contro le mire imperialiste del proprio paese. Quando nel 1913 il governo francese estese la durata del servizio militare obbligatorio, dai due ai tre anni, i dirigenti della Cgt respinsero l’eventualità di proclamare uno sciopero generale contro questo provvedimento che era largamente impopolare. L’antimilitarismo della Cgt, in definitiva, era quasi esclusivamente e uniderezionale di opposizione alla guerra contro la Germania. Quando nel 1911 le truppe francesi repressero in Marocco una ribellione e nell’anno seguente il Marocco fu formalmente trasformato in protettorato francese, la Cgt non mosse un dito. La direzione della Cgt fu effettivamente indifferente alle conquiste coloniali dello stato imperialista francese. I sindacalisti rivoluzionari francesi, in sintesi, limitarono l’azione diretta solamente nella sfera delle relazioni economiche, tra gli operai e i capitalisti. Probabilmente uno dei motivi di tutto ciò, fu l’adagiarsi ai pregiudizi nazionalisti presenti in molti operai della Cgt( Se i dirigenti della Cgt avessero dichiarato uno sciopero contro l’intervento militare francese in Marocco, rischiavano di incontrare una significativa opposizione all’interno delle loro file che poteva portare, perfino, a una scissione). I sindacalisti rivoluzionari francesi organizzarono e diressero un’organizzazione operaia sulla base di un tradeunionismo combattivo. Essi non preparano mai realmente i lavoratori che dirigevano e influenzavano ad uno scontro decisivo con lo Stato borghese, ma piuttosto si adattarono sempre più alla coscienza politica della loro base.  Il sindacalismo rivoluzionario italiano. Il movimento sindacalista francese fu, a un tempo, il terreno di coltura del sindacalismo europeo e la sua espressione più moderata. Esportate in Italia e in Spagna, le dottrine del sindacalismo rivoluzionario assunsero espressioni più radicali. Anche a causa dello scarso sviluppo industriale, la diffusione del movimento socialista e sindacale era prevalentemente concentrata nelle aree centro-settentrionali, inoltre, la presenza socialista mostrava una forte caratteristica provinciale; il PSI si mostrava radicato in molte realtà più periferiche rispetto alle linee dello sviluppo industriale e tra i contadini in primo luogo della Pianura Padana. Una delle forme peculiari dell’insediamento socialista in quest’area fu rappresentata proprio dal nesso strettissimo che – in seguito alla progressiva conquista da parte dei socialisti di molti comuni, nel ventennio che precedette l’avvento del fascismo – si venne a stabilire tra Leghe agrarie, le amministrazioni comunali, che si fecero promotrici della municipalizzazione di alcuni servizi e il movimento cooperativistico. In ogni caso, la complessiva debolezza del movimento operaio italiano si rifletteva nel rapporto tra il PSI e le organizzazioni sindacali, che nel corso di tutta la fase che precedette il fascismo si rivelò complesso. Il movimento sindacale si era strutturato secondo le due modalità organizzative prevalenti: le federazioni di mestiere e le Camere del Lavoro. Le federazioni di mestiere erano sorte nella maggior parte dei casi ai primi anni del Novecento e avevano conosciuto una rapida diffusione nazionale arrivando a contare nel 1902 altre 200.000 iscritti. Si trattava di strutture che organizzavano verticalmente le diverse categorie operaie. La maggioranza delle federazioni di categoria, salvo alcune eccezioni (come la Federazione dei ferrovieri), costituirono dei punti di forza dei settori riformisti del PSI. Sorte sul modello francese, con il carattere di ufficio di collocamento e di arbitrato nelle vertenze sindacali, le Camere del Lavoro avevano avuto una grande diffusione negli anni Novanta dell’Ottocento. Queste strutture riunivano orizzontalmente e in conformità a un criterio territoriale tutte le categorie di lavoratori. Col passare degli anni avevano allargato le loro funzioni fino a configurarsi in molte realtà come centri propulsivi delle organizzazioni operaie e di resistenza. Questo tipo d’istituzioni, conobbero all’inizio del Novecento una notevole generalizzazione (da 14 che erano nel 1900, diventarono 76 nel 1902). Malgrado che nei loro statuti facessero professione di apoliticità, le Camere del Lavoro in molte città, giacchéorganizzavano anche i lavoratori non qualificati e i disoccupati, vedevano al loro interno una forte presenza anarchica ed esprimevano un atteggiamento politico più radicale rispetto alle Federazioni di mestiere. In Italia, il movimento sindacalista nacque all’interno del PSI e fu originariamente diretto da uomini che ci consideravano marxisti ortodossi. Il primo organo del sindacalismo rivoluzionario italiano fu il giornale L’Avanguardia socialista, fondato nel 1902 da Arturo Labriola (questi conciliatosi con il nemico sarà il ministro del Lavoro che verrà mandato dal governo Giolitti a cercare di concilare la Fiom con gli industriali nell’occupazione delle fabbriche negli anni ’20, in modo che il movimento non travalicasse la lotta per le rivendicazioni economiche e si allargasse l’agitazione sul terreno politico e della lotta di piazza) . Gramsci definì il primo sindacalismo italiano come: “l’espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per un blocco con i contadini”. L’ala sindacalista del PSI fu per cinque anni percepita come una sorte di parafrasi  dell’esperienza d’oltralpe in chiave socialista, ben rappresentata dagli scritti di Arturo Labriola. In occasione del Congresso regionale lombardo del PSI svoltasi a Brescia nel 1904, la corrente sindacalista fece approvare una mozione che dichiarava: “Riaffermando il carattere permanente ed intrasigentemente rivoluzionario e contrario allo Stato borghese dell’azione proletaria, il Congresso dichiara degenerazione dello spirito socialista la trasformazione dell’organizzazione politica della classe operaia in partito prevalentemente parlamentare, costituzionale e possibilista monarchico; respinge quindi come incoerente con il principio della lotta di classe e con la vera essenza della conquista proletaria dei pubblici poteri ogni collaborazione del proletariato colla borghesia, sia mediante la partecipazione a qualunque Governo monarchico o repubblicano di iscritti al partito, sia mediante l’appoggio a qualunque indirizzo di Governo della classe borghese”. Al Congresso nazionale del PSI che si svolse Bologna (1904) le correnti di sinistra del PSI (gli intransigenti di Ferri in alleanza con i sindacalisti rivoluzionari), che nel mese precedente avevano assunto il controllo di alcune delle più importanti federazioni socialiste, conquistano la maggioranza e assunsero la direzione del partito. Labriola e la corrente sindacalista rivoluzionaria propagandavano incessantemente lo sciopero generale. Appena cinque mesi dopo il Congresso di Brescia e poche settimane dopo che il Congresso di Amsterdam della Seconda Internazionale (agosto 1904) ebbe respinto l’applicabilità dello sciopero generale, un tale sciopero dilagò in tutta Italia nel settembre del 1904. Esso fu proclamato, dopo l’ennesimo eccidio di lavoratori compiuto dalla forza pubblica a Buggeru in Sardegna, per protestare contro la violenza repressiva scatenata dal governo nei confronti delle manifestazioni operaie. Esso si svolse senza incidenti di grande rilievo per la scelta dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti,  che lasciò che lo sciopero si esaurisse da solo e si risolvessee in una sconfitta, mostrando in tal modo la forza ma anche i limiti del movimento, mettendo in evidenza l’ineguale diffusione del socialismo nelle diverse aree geografiche e l’assenza di un solido collegamento politico, sindacale a livello nazionale. I sindacalisti rivoluzionari erano consapevoli che una delle cause del fallimento dello sciopero generale, era stato l’assenza di un progetto politico e di un reale coordinamento tra le lotte. Ma, soprattutto, erano consapevoli che la Direzione del PSI non aveva potuto (e neanche voleva) orientare il movimento in senso rivoluzionario. Per i sostenitori del sindacalismo rivoluzionario, dunque, lo svolgersi degli eventi dava un’ulteriore prova del divorzio che vi era tra il partito socialista, riformista e il proletariato “essenzialmente rivoluzionario”. Traggono, però, da questo sciopero generale, l’aspetto positivo che si basava sul fatto che il nord industrializzato avesserisposto con uno sciopero agli scontri che avevano avuto le vittime tra i lavoratori del sud. Inoltre, per tutta la durata dell’agitazione, il centro operativo del movimento era stato la Camera del Lavoro e non il partito, il che significava, dal punto di vista dei sindacalisti rivoluzionari, che le idee Soreliane iniziavano a essere applicate anche in Italia. Gli esiti dello sciopero generale del 1904 e, più in generale, gli insuccessi nelle lotte rivendicative del biennio 1904-1905 portarono a una riorganizzazione del movimento sindacale, con la nascita nel 1906 della Confederazione generale del lavoro (Cgl) – che guidata da R. Rigola (fino al 1918) diventò un caposaldo dei riformisti. La stipulazione di un accordo formale tra la Direzione socialista e la Cgl (Firenze ottobre 1907), che rispecchiava l’impostazione data dal Congresso della Seconda Internazionale a Stoccarda (agosto 1907), stabiliva che al PSI spettava la direzione del movimento politico, mentre alla Cgl quello economico. Quest’accordo limitava l’attività del partito che, anche nel caso di scioperi politici o di azioni di solidarietà, avrebbe dovuto procedere in accordo con la Confederazione. I riformisti riuscirono a riconquistare progressivamente una posizione preminente nel PSI, aiutati dalla crisi che investì la coalizione che era uscita vincente nel Congresso di Bologna. Al Congresso di Firenze del settembre 1908, riassunsero completamente la guida del PSI. Il Congresso adottava la tesi di Filippo Turati su una specie di collaborazione fra partito e  organizzazione economica e poneva al bando il sidacalismo rivoluzionario I riformisti – che potevano avvalersi dell’appoggio della Cgl – sfruttarono a loro favore gli insuccessi che erano derivati dagli scioperi promossi, negli anni precedenti, dai sindacalisti rivoluzionari. Nel partito socialista l’opposizione si riduceva a sparuti ed eterogenei nuclei della sinistra socialista: E. Longobardi criticava il partito perchè “considerava la Confederazione del Lavoro come tutto il movimento operaio italiano …. Nella nostra Confederazione del Lavoro si riflette così il tipo che va prendendo il movimento operaio in altri paesi nei quali rappresenta un’aristocrazia operaia; non è un movimento di massa, ma quello di un’aristocrazia; la Confederazione riproduce in sè i caratteri dell’unionismo inglese; e non ha nemmeno quelli che appaiono nelle sue ultime manifestazioni, ma quelli distintivi del veccio unionismo”. La Confederazione Generale del Lavoro, uscita dal Congresso di Modena del settembre 1908 con un assetto organizzativo alquanto rafforzato, tendeva comunque ad affermare la propria autonomia rispetto alle istanze politiche (12) Nel luglio del 1907, in occasione di un’assemblea di sindacalisti rivoluzionari che si tenne a Ferrara (dove le organizzazioni sindacali, particolarmente forti , avevano organizzato con successo alcuni scioperi nel maggio e nel giugno dello stesso anno), essi decisero di uscire dal PSI per concentrare tutti i loro sforzi verso l’azione sindacale. In quest’ottica va vista la loro decisione di rafforzare la presenza nella Cgl, dove già al congresso di fondazione avevano raccolto, insieme agli anarchici, un terzo dei voti, e potevano contare soprattutto sull’adesione di molte Camere del Lavoro. Nel novembre del 1907, durante una riunione che ebbe luogo a Parma, i sindacalisti rivoluzionari decisero di creare un Comitato nazionale della resistenza, contrapposto all’organismo riformista destinato nelle intenzioni, a raccogliere il più vasto consenso del proletariato . Una nuova generazione di attivisti, formatasi con la frequentazione delle Camere del Lavoro e gli scioperi duri, prende la direzione delle lotte in corso. In effetti, già all’indomani dello sciopero generale del 1904 alcuni militanti operai, radicalizzano la propria posizione, cominciano a dare ascolto all’ideologia sindacalista rivoluzionaria. Il sindacalismo rivoluzionario, acquista così un reale peso storico, tramutandosi in una forza dotata d’impatto sociale. I più brillanti dei nuovi agitatori sindacali alla testa dei grandi scioperi contadini del 1907 e del 1908, diventeranno i dirigenti del sindacalismo rivoluzionario: Michele Bianchi, Alceste De Ambris, Filippo Corridoni (uomini che concepiscono il sindacalismo come una lotta radicale, di classe e antipartitica, convinti che un’élite operaia ben organizzata possa sempre catalizzare attorno a sé il conflitto contro la borghesia e (12) Nel Congresso del Partito Socialista di Firenze, apertosi 10 giorni dopo quello sindacale, Rigola dichiarava: “ Non per recriminare, ma per dirvi che è tempo di decidersi, metto molto chiara la questione. O il Partito avrà una Direzione che andrà d’accordo, dove si può andare, con la Confederazione del Lavoro nelle linee generali, ed allora il rapporto ci sarà…….Oppure. nel caso contrario, vi diciamo fin da ora che i rapporti sono rotti. Poichè il socialismo, in fin dei conti, non lo fanno poi tutto nemmeno i circoli socialisti, ma lo possono fare anche le organizzazioni economiche”.   uscirne vittoriosa). Il sindacalismo rivoluzionario esprimeva le esigenze di democrazia sindacale, di partecipazione diretta, di autonomia di classe, che agitavano le masse lavoratrici e che venivano disattese dai riformisti. La loro limitatezza era rappresentata dalla loro organizzazione etereogenea sul piano politico e dal fatto che consideravano la presa del potere, come espropriazione proletaria,della fabbrica che era in mano ai padroni, tramite lo sciopero generalizzato. La tesi dell’élite sindacalista combattente, sarà messa alla prova dei fatti nel 1908, con lo sciopero contadino di Parma, che vedeva opposti gli operai agricoli  all’associazione dei proprietari terrieri. Lo sciopero inizia il primo maggio, come risposta di tutti i lavoratori alla serrata decisa dai proprietari, giunta ormai al  43° giorno. In breve tempo la Camera del Lavoro di Parma diventa grazie ai contributi versati dagli aderenti al sindacato. Alto è il livello della disciplina interna e dell’organizzazione, il che permette a più di 33.000 lavoratori di cessare ogni attività per oltre otto settimane. Lo sciopero si chiuse con l’intervento dell’esercito, che dopo lo scontro tra scioperanti e crumiri (protetti dalleforze dell’ordine), occupa la Camera del Lavoro, confiscando il fondo di solidarietà e vari documenti. Il fallimento di questa lotta provocava una drastica riduzione degli iscritti. I sindacalisti rivoluzionari, nel maggio del 1909, tenevano a Bologna un convegno nazionale con la partecipazione delle Camere del Lavoro di Parma, Piacenza, Ferrara, Adria, S.Felice sul Panaro, Sampierdarena, Brescia, Vicenza, Piombino, Ancona,, Napoli, del Sindacato ferrovieri, della Lega generale dei lavoratori di Roma, più di 140 mila organizzati. In tale istanza, dal dibattito molto confuso, estemporaneo e poco prospettico di inquadramento della classe operaia, usciva la volontà di aderire in massa alla Confederazione in nome dell’”unità proletaria, base di una seria ed intensa azione sindacale” e ribadendo la valenza dello sciopero generale rivoluzionario “arma per eccellenza di espropriazione della borghesia”. Per i sindacalisti, la possibilità di esercitare una qualche influenza nella Confederazione presupponeva, quanto meno, l’inserimento nel suo ambito di tutte le loro forze. Ciò che non avvenne. Le buone intenzioni dei sindacalisti venivano deluse da un atteggiamento pretestuoso della Confederazione, questa impose che l’adesione dei sindacalisti rivoluzionari avvenisse singolarmente e non come componente di minoranza, ridimensionandone, così, la loro rappresentanza. “Il tracollo dei sindacalisti rivoluzionari di creare un’istituzione contrapposta alla Confederazione del Lavoro ed il loro rientro nei suoi ranghi segnavano un indiscutibile vittoria dei riformisti, ne rafforzavano l’egemonia e aumentavano il prestigio del vertice dell’organismo centrale”(13). Nel congresso di Padova del 1911, il segretario della Confederazione Rigola giustificava l’operazione di sfoltimento dei sindacalisti riv. Sostenendo che questo era “un passo verso la serietà del movimento operaio che bisognava fare tosto o tardi”.L’IDEA, giornale di Parma dei riformisti, incalzava i sindacalisi perchè, se dissidenti uscissero allo scoperto: “Chi ha un concetto diverso della rivoluzione sociale proletaria è tempo ormai che si sbottoni senza tante riserve. Chi non crede a questa lenta e metodica preparazione come a quella più adatta ad addurre a risultati positivi e tangibili, chi spera nel mito dello sciopero generale espropriatore e frattanto si limita alla ginnastica dello sciopero, condita con accenni più o meno insurrezionali deve dire se considerare la massa operaia già preparata al gran fato e come  (13) IL SINDACATO IN ITALIA Idomeneo Barbadoro pag.14 intende addurvela”. La confederazione per ammissione dello stesso R.Rigola, non era stata all’altezza, nel Congresso, di tracciare le grandi direttive dell’azione sindacale e doveva provvedere a definire le linee portanti dell’azione sindacale, nel cui ambito dovevano operare le varie categorie, ma ne rinviava l’attuazione a un indeterminato futuro. A nome della sinistra socialista E.Mastracchi denunciava le violazioni confederali dei principi della lotta di classe, i tentativi di “schiacciare qualsiasi movimento, il pericolo è che il proletariato oggi minaccia di chiudersi in un corporativismo gretto, privo di idealismo.”La votazione finale dava 116.584 suffragi ai riformisti, 53.118 ai sindacalisti, 10.032 agli intransigenti e 1808 astenuti. Le divisioni nella maggioranza, però, non definiva un’impostazione necessaria a fronteggiare la grave congiuntura economica e la contoffensiva del padronato. Uno degli argomenti costanti della propaganda sindacalista fu quello antimilitarista. L’impresa tripolina colse di sorpresa il riformismo politico e sindacale. Con il precipitare degli eventi cresceva l’agitazione nella base socialista e sindacale e cominciava ad avere tra i punti di riferimento la Federazione giovanile del Psi e la Federterra. Nel settembre del 1911 vi fu il tentativo di mettere in pratica lo sciopero generale contro la guerra di conquista della Libia da parte dell’Italia. Tuttavia anche se appoggiato (tiepidamente) dal PSI e dalla Cgl, lo sciopero non riuscì a modificare le cose e, in più, all’interno del movimento la componente intellettuale capitanata da Arturo Labriola appoggiò l’intervento militare (l’impresadi Tripoli,  per il Labriola, sollecitava gli “accenni della volontà conquistatrice, contro il pacifismo borghese e il riformismo socialista, che spingevano verso la quiete operosa e mediocre, verso uno stato di ingloriosa pigrizia e di ben ripartita miseria.” E ai compagni di corrente, perplessi sulla sua scelta, diceva: “Sapete perchè il proletariato d’Italia non è buono a fare una rivoluzione? Perchè appunto esso non è nemmeno buono a fare una guerra. Lasciate che la borghesia lo abitui a battersi sul serio e poi vedrete che imparerà a battere la stessa borghesia! Tollerate che spazziamo la fetida pigrizia del nostro costume. Oggi forse non c’è impresa più rivoluzionaria di questa da tentare in Italia”), seguendol’esempio di Sorel che in quello stesso periodo, in Francia, stava collaborando con il movimento reazionario nazional-monarchico dell’Action Française. La borghesia italiananel 1911 operava non solo sul piano internazionale per controllare e dominare la Libia contro gli interessi prospettici del proletariato, ma apri contemporaneamente all’interno del paese un’offensiva antioperaia consolidando la struttura gerarchica, autoritaria di fabbrica, accentuando la piena flessibilità della manodopera. L’offensiva padronale si dispiegava in una fase di bassa congiuntura e tendeva ad indebolire oggettivamente la forza operaia ed il sindacato : la disoccupazione aumentava a ritmi accelerati e nel 1912 la recessione segnava un ulteriore inasprimento. I vertici del riformismo sindacale avvertivano che la linea dell’avversario di classe affossava concretamente la loro impostazione politica fiorita negli anni del boom, che vedeva la conquista graduale da parte del proletariato delle leve di potere e l’illusione sulla democrazia industriale. Gli operai più combattivi  non mancavano di opporre una tenace resistenza. “Da parte sua il sindacalismo rivoluzionario coglieva con relativa prontezza la possibilità di ritagliarsi un notevole spazio, di operare in proprio persino accarezzando disegni egemonici, aperte dal nuovo indirizzo del padronato e dalle carenze dei concorrenti: e con maggior perspicacia dei riformisti, collegava la svolta alla guerra di Libbia e ai più generali cambiamenti del quadro italiano ed europeo. P. Fontana, constatava che il capitalismo “progressivo, liberista, pacifico” non era ormai che un ricordo….Cominciava quindi una fase di conflitti sociali di crescente asprezza, che rendeva impossibile al riformismo di “incanalare una situazione rivoluzionaria nell’alveo di una pacifica evoluzione…. In realtà, i sindacalisti rifiutavano la prassi di arroccarsi nella difensiva seguita da gran parte degli organismi Confederali; facevano appello alla combattività delle masse per affrontare la sfida del padronato; e raccoglievano le spinte autonomiste e le istanze, spesso confuse, emergenti nella classe operaia, offrendo loro mezzi di espressione e canali d’intervento.”(14). Dopo alterne vicende, che vedevano i riformisti perdere il controllo su alcune importanti sezioni del proletariato italiano e al contrario il rafforzamento dei sindacalisti rivoluzionari, quest’ultimi in un convegno indetto a Parma, a latere della manifestazione contro la guerra, si dettero appuntamento per un congresso da convocare a Modena e si assegnarono il compito di raggruppare e coordinare tutte le organizzazioni dissidenti dall’indirizzo della Confederazione, organizzando per questo un Comitato di azione diretta: la soluzione cercava di mantenersi ancora interlocutoria con la Confederazione per evitare una connotazione scissionista: ma, ammetteva più tardi M.Massotti, “a Parma tutti i convenuti uscirono dalle riunioni con la matematica convinzione che si stava maturando un nuovo organismo sindacale italiano”. Il 1912  è anche l’anno del Congresso dei socialisti (Reggio Emilia –luglio ) dove avveniva la vittoria degli intransigenti-massimalisti-sinistra socialista contro i riformisti, il punto femo che era uscito dall’assise politica era l’organizzazione economica doveva essere subordinata al partito e che il Psi aveva come interlocutore sindacale la Confederazione del Lavoro, ma apriva un rapporto anche con le dissidenze interne dei sindacalisti rivoluzionari per rovesciare la dirigenza riformista, nello stesso tempo riconosceva valide le critiche di quest’ultimi al vertice confederale, ma sconfessava nettamente la scissione. Per i sindacalisti rivoluzionari il cambiamento che era avvenuto alla guida del partito non modificava il loro giudizio sul Psi, restava sempre un partito parlamentarista ed elezionista staccato dai problemi delle masse proletarie. Per l’Internazionale, giornale dei sindacalisti, l’attacco antisocialista ne diventava uno sport giornaliero.Tra i sindacalisti rivoluzionari, in vista del Congresso di Modena, si apri un dibattito tra chi voleva restare nella Confederazione (la tesi entrista di I. Bitelli sosteneva: anzichè dividere ciò che è già unito, in questa fase in cui le condizioni del proletariato sono depresse, bisognava riproporre l’ingresso della corrente nella Confederazione per modificarne gli indirizzi, confermando al “Comitato dell’Azione Diretta il carattere di coordinatore della minoranza sindacalista confederata”) e chi, come Amilcare De Ambris, propugnava la formazione di un altro sindacato, perchè la conquista dell’istanza confederale era “resa impossibile dagli artifizi opposti, con squisita settaria ipocrisia, da coloro che ne detengono la dirigenza, all’entrata delle nostre più valide organizzazioni……….La Confedrazione non poteva che restare, malgrado tutti i nostri sforzi, qual’è ora: un organismo chiuso ed irriducibile, dove i sindacati entrati non potranno essere che minoranze, messi nell’assoluta impossibilità di scalfire il concetto informatore della Confederazione stessa, la quale, lungi dal modificarsi di fronte ai suoi insuccessi, si ostina più che mai a proseguire sulla via intrappresa” (15) Il conteggio finale al Congresso di Modena vedrà vincitore la mozione di A. De Ambris con 42.114 voti, contro 28.836 di I.Bitelli e 2300 astenuti. “Pertanto, l’Unione sindacale italiana (USI), che  (14) Barbadoro Il sindacato in Italia ( 1908-1914) pag. 174 (15) relazione al Congresso di Modena di A. De Ambris nasceva con l’assise di Modena, da un lato divideva lo schieramento di classe, indebolendolo nel momento in cui subiva l’offensiva padronale; e, dall’altro, irrigidiva, con la sua stessa esistenza, le posizioni contrapposte, ostacolando la ricerca di una linea più efficiente e di una direzione aliena dei cedimenti e dalle avventure, consapevole degli obiettivi e dei mezzi per conseguirli. E,inoltre, la sua genesi era sollecitata a sposare qualsiasi causa, ad assorbire le spinte di ogni genere, senza filtrarle e incalanarle in una prospettiva generale, con il risultato di imbarcarsi in iniziative avventate, destinate a concludersi in disastrose disfatte dei lavoratori”(16). L’atteggiamento in questa fase della maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari rimase, però, sul terreno antimilitarista.Dal Congresso di Modena, l’Usi dei sindacalisti rivoluzionari, insieme gli anarchici, organizzavapiù di 100.000 membri, alla fine del 1913(17), allorchè la Cgl ne contava 300.000.  I membri dell’USI svolgono un’attività intensa, impegnandosi in numerose vertenze, sia nel settore agricolo che in quello industriale. Nel 1913, l’USI diresse le maggiori agitazioni operaie, favorita in questo anche da un certo appoggio da parte del PSI. Gli epicentri delle lotte operaie furono prima Torino e poi Milano, dove gli operai metallurgici s’imposero come avanguardia del proletariato. L’Unione Sindacale Milanese (USM), a meno di due settimane della sua costituzione, diresse una vertenza tra gli operai delle ditte automobilistiche milanesi (Isotta Fraschini, E. Bianchi e Alfa). L’Internazionale del 19 aprile 1913 recava, nella rubrica Cronache operaie italiane, una breve nota,in cui s’informava che l’80% degli operai delle tre fabbriche aveva approvato un memoriale e l’eventuale sciopero, qualora il memoriale fosse respinto, “era opinione comune che il risultato delle trattative fosse nullo”.(18) Poiché la previsione era esatta, lo stesso 19 aprile, gli oltre mille operai dei tre stabilimenti si astenevano dal lavoro, iniziando uno sciopero che si sarebbe poi esteso gradualmente ad altre fabbriche e dal 19 maggio avrebbe coinvolto tutto il comparto metallurgico, fino a raggiungere la soglia dei 40.000 scioperanti. Nei giorni 27 e 29 maggio, lo sciopero eraappoggiato con l’astensione di oltre 2000 tramvieri, il cui sindacato aveva come segretario Alceste De Ambris. L’estensione dello sciopero al personale tramviario, provocò degli scontri violenti e l’arresto di numerosi leader sindacali e politici, tra cui Decio Bacchi (segretario del sindacato metallurgico dell’USM) e di Filippo Corridoni (uscito a marzo dalla CGdL). I sindacalisti rivoluzionari riuscirono a mantenere un certo grado di compattezza e unità all’interno dei metallurgici. La Camera del Lavoro e la FIOM erano tagliate fuori perché emarginate, a causa dalla strategia adottata in precedenza da questa. Scriveva il Questore: “I socialisti, nella presente contingenz, non hanno e trovano seguito per opporre serio e risoluto ostacolo alla tendenza da cui per l’occasione sembrano dominante alcune classi lavoratrici per l’Unione sindacale”.(19)L’atteggiamento della segreteria nazionale della Cgl era quello della consueta tattica riformista, di circoscrivere la lotta e di limitare la solidarietà all’aspetto finanziario, utilizzando forme di mediazione politica, che difficilmente avrebbe potuto funzionare data l’intransigenza degli (16,) Barbadoro  IL SINDACATO IN ITALIA 1908-1914   pag.228 (17) Secondo M. Antonioli, nel suo libro AZIONE DIRETTA E ORGANIZZAZIONE OPERAIA, SINDACALISMO RIVOL. E  ANARCHISMO TRA LA FINE  DELL’OTTOCENTO E FASCISMO, gli aderenti all’USI nel 2012 erano 87100 (18)   Alla viglia dello sciopero degli automobilisti, l’Internazionale, aprile 1913 (19 ) Asmi, Pref. Mi, Gab., serie I, busta 302, Agitazione e scioperi operai, 1913, questore e prefetto, 24 maggio 1913. interlocutori e delle autorità cittadine e centrali. Questo sciopero terminò alla fine di maggio, con un accordo tra le parti piuttosto modesto, se rapportato alle richieste operaie. Nel resoconto dell’Avantidell’assemblea tenutasi all’USM per annunciare il contenuto del concordato, Pulvio Zocchi,segretario della commissione delegata alle trattative, faceva rilevare che “la vittoria odierna non è tanto nei miglioramenti economici conseguiti, quanto nel riconoscimento dell’organizzazione stessa e nell’affermazione dei suoi principi”.(20) Ma le condanne inflitte al Bacchi e agli altri organizzatori dell’USM (Corridoni invece sarebbe stato processato agli inizi di luglio, condannato e rimesso in libertà il 14 settembre) provacarono, due settimane dopo, un nuovo sciopero generale cittadino, cuiaderiva anche la Camera del Lavoro, che in questo modo tentava di uscire dal suo isolamento, ma quando ormai lo sciopero defluiva, mentre Mussolini promuoveva attivamente la mobilitazione e utilizzava la spinta unitaria contro il vertice della Cgl. La critica da parte dei vertici del PSI era che“l’allargamento dello sciopero generale di Milano, in quanto movimento economico, non era conforme ai criteri socialisti”(Lazzari), mentre per l’ala più intransigente della sezione milanese – Valera, Agostini, Allevi, Galassi, Pirani, Casati- era l’occasione per dichiarare la sua “incondizionata solidarietà” e soprattutto l’intesa tra la Camera del Lavoro di Milano e l’USM senza che la Cgl fosse preavvertita, portarono alle dimissioni di Rigola e del Comitato Direttivo della Confederazione. Che l’adesione della Camera del Lavoro di Milano non fosse semplicemente di facciata lo si vide il 16 giugno, quando una folla di 40.000 operai riunita a comizio alla Casa del popolo, tentava di portarsi in corteo nel centro cittadino, scontandosi con le forze dell’ordine che accerchiavano la zona. Numerosi furono i feriti e i fermati, tra i quali figuravano anche il segretario Camerale, Adelino Marchetti. Il giorno seguente, rappresentanti della Camera del Lavoro e dell’USM concordarono la chiusura dello sciopero, riuscendo a convincere la massa recalcitrante degli scioperanti solo con l’annuncio dell’impegno del Prefetto a lasciare in libertà gli arrestati. Appena terminatosi lo sciopero generale, e nel mezzo della crisi confederale, scoppiava a Milano un nuovo sciopero, quello del materiale mobile ferroviario, destinato a prolungarsi per i due mesi successivi. Lo sciopero, iniziato il 19 giugno, si trasforma il 28 luglio in uno sciopero generale metallurgico, diventato il 4 agosto uno sciopero generale cittadino e poi uno sciopero generale nazionale, che si effettuerà l’11 e il 12 agosto, nelle zone nelle quali i sindacalisti erano più forti e in genere nei centri industriali del Centro-Nord, con l’eccezione di Torino, dove era in atto un’ondata repressiva dopo la lotta conclusiva degli automobilisti. L’atteggiamento della Camera del Lavoro appariva mutato, rispetto a quello tenuto in occasione dello sciopero generale di maggio. In questa circostanza il vertice camerale non si mostrava contrario all’agitazione, non tentava di ostacolarla né di circoscriverla, bensì manteneva una posizione “neutrale” che però diventava favorevole dopo una riunione tenutosi il 7 agosto nei locali dell’Avanti, alla presenza di Lazzari, Rigola e Mussolini. La fine dello sciopero generale a Milano, in conformità a un compromesso definito “un puro e semplice armistizio, (…) un rinvio della soluzione, apparentemente per ragioni tecniche e di elaborazione dei dati, in realtà per una precisa valutazione politica circa il reciproco grado di resistenza delle due forze in campo”(21) era accolta con sollievo da parte della Camera del 20 Lo sciopero automobilistico è finito. Il lavoro sarà ripreso domani, Avanti, 31 maggio 1913 21 A. Pepe, Lotta di classe e crisi industriale in Italia p.204. Lavoro. Lo sciopero di agosto aveva mostrato non solo una leadership camerale che inseguiva i sindacalisti, ma aveva fatto affiorare una crescente divisione interna destinata a diventare sempre più profonda (22) e in qualche modo a condizionare la linea della Camera del Lavoro nei mesi successivi.  Durante gli scioperi del 1913 la Cgl ebbe difficoltà enormi a imporre le sue direttive alla Camera del Lavoro di Milano. Questo periodo di lotta portò alla ribalta la grande fabbrica, assommando due differenti cicli di rivendicazione, espressione della collocazione nel ciclo di produzione. Da un lato gli operai professionalizzati in categorie come tipografi, muratori, ferrovieri orientati verso rivendicazioni volte alla delimitazione del potere decisionale del padronato in fabbrica, dall’altra la forza di lavoro generica, la cui preoccupazione principale era la rivalutazione salariale in senso egualitario e la trasformazione del cottimo. D’altronde il lento e graduale passaggio dal sindacato di mestiere al sindacato di industria ebbe una forte accelerazione. La categoria perse i suoi connotati corporativi, e la struttura sindacale si adattò alle trasformazioni portando, a partire degli anni ’10, a uno spostamento del baricentro nei rapporti tra i vari livelli sindacali a favore di quello federale, processo che troverà la sua manifestazione più chiara negli anni della prima guerra mondiale imperialista. Alla vigilia della prima guerra mondiale imperialista, uno sciopero generale su scala nazionale eruppe come reazione all’uccisione di alcuni manifestanti antimilitaristi ad Ancona. Viene dichiarato lo sciopero generale, che coinvolge tutto il paese. Sostengono l’astensione del lavoro il PSI, la Cgl e il Sindacato dei ferrovieri (SFI). A Milano Corridoni e Mussolini prendono la testa di numerosi manifestanti. In qualche zona lo sciopero prende le sembianze di una e vera e propria rivolta, come in Romagna, dove si giunge quasi alla ribellione armata. Durante, quella che fu chiamata la “Settimana rossa” che durò dal 7 al 14 giugno 1914, molti sindacalisti rivoluzionari pensarono che fosse giunto il momento per la rivolta generale che avevano tanto a lungo predicato, per abbattere il governo, la monarchia e il dominio della borghesia. Ma mancando il partito armato di una posizione politica, di un piano d’ azione per la lotta rivoluzionaria decisiva e di una Direzione temprata, in senzo marxista, che lo mettesse in pratica, e una coscienza di classe tra le masse ben presto lo sciopero si esaurì. Il sindacalismo nazionalistico in Italia Subito dopo si profila il problema dell’intervento nella guerra mondiale imperialista. Quasi tutte le componenti del sindacalismo concordavano che in caso di conflitto generalizzato l’Italia sarebbe dovuto scendere in campo a fianco della Francia e della Gran Bretagna. L’impero prussiano legato all’Austria – Ungheria, rappresentava il simbolo stesso della reazione. Allo scoppio delle ostilità, il sindacalismo rivoluzionario prese la testa dell’interventismo di sinistra. Il che provocò forti dissidi all’interno dell’USI, la quale aveva adottato nell’agosto del 1914, una risoluzione che chiedeva all’Italia di restare neutrale, minacciando, nello stesso tempo, di dichiarare uno sciopero generale rivoluzionario nel caso in cui il governo avesse deciso, nonostante tutto, di entrare in guerra e quale che fosse il campo scelto. Il 18 agosto 1914, alla tribuna dell’U.S.M., Alceste De Ambris lancia un violento attacco contro il neutralismo, sostenendo la necessità di aiutare la Francia e la Gran Bretagna contro la reazione teutonica e mettendo la guerra sullo stesso piano della rivoluzione francese. Questa dichiarazione (22) Questa divisione rifletteva quelle che c’erano nel PSI. a cui aderiscono alcuni sindacalisti rivoluzionari membri dell’USI (tra cui Corridoni, il capo dell’U.S.M., che in quel momento era in prigione), provoca una profonda spaccatura nell’organizzazione. La maggioranza guidata dall’anarchico Armando Borghi, sceglie la neutralità, mentre l’U.S.M., la Camera del Lavoro di Parma e un certo numero di sindacalisti rivoluzionari escono dall’USI e fondano all’inizio dell’ottobre 1914, il Fascio Rivoluzionario di Azione Internazionalista. Al Fascio aderisce prontamente Mussolini decidendo di abbandonare la posizione neutralistica del PSI e cominciando la pubblicazione nel novembre 1914 del Popolo d’Italia. Quando l’Italia entra in guerra, l’evoluzione ideologica del sindacalismo rivoluzionario ha aggiunto ormai un punto di non ritorno. La sintesi socialista nazionale che era maturata prima del 1914, alla prova del fuoco della guerra imperialista accelerò ulteriormente questo processo. Il 1917 è l’anno della disfatta di Caporetto e della rivoluzione di ottobre. I sindacalisti interventisti, si schierarono più che mai con la nazione (borghese) contro una rivoluzione che mette in pericolo l’interesse nazionale e che rappresenta un modello di una rivoluzione “distruttrice”. Perciò è del tutto naturale che nel maggio 1918 alcuni sindacalisti rivoluzionari, assieme alcuni socialisti autonomi (non appartenenti al PSI) fondano l’Unione Socialista Italiana (USI), un movimento politico che si presenta come una sintesi delle posizioni interventiste di sinistra con le ideologie nazionalistiche. Nelle elezioni del 1919, l’USI conquista 12 seggi in Parlamento: tra gli eletti, Arturo Labriola, che accettò il Ministero del Lavoro, propostogli da Giolitti. Nel giugno 1918 è fondata l’Unione Italiana del Lavoro (UIL), da parte dei sindacalisti interventisti. L’Unione sindacale milanese e i metalmeccanici che organizzava, la Camera di Lavoro di Parma e i lavoratori agricoli che la componevano ne erano le roccaforti, ma ebbe influenza anche negli ambienti sindacali repubblicani romagnoli, fra gli operai di La Spezia, nonché fra gli impiegati, specialmente di Roma. Il sindacato si distinse per le sue posizioni patriottiche, anti-colletiviste e anti-socialiste, per il suo progetto di Parlamento corporativo legiferante (nell’ambito della riforma del Consiglio superiore del Lavoro). Il giornale della Confederazione L’Italia Nostrache prenderà in seguito il nome di Battaglie dell’U.I.L. fa suo lo slogan “La patria non si nega, si conquista!”, e la UIL diventa, negli anni del biennio rosso, tra il 1919 e il 1920, il centro di raccordo di un movimento che si vuole sindacalista e nazionale. Lo sciopero di Dalmine scoppia nel marzo 1919, dove gli operai occuparono lo stabilimento. Per la prima volta, gruppi di operai sindacalizzati cercano di dimostrarsi capaci di dirigere la produzione e di gestire la produzione e la fabbrica. Ma in pochi giorni lo sciopero è represso dall’esercito. I capi dell’agitazione appartenenti alla UIL, attribuiranno il fallimento agli intrighi del PSI e della Cgl. Da questo momento, l’ideologia sindacalista nazionale sosterrà l’idea della partecipazione diretta alla gestione dell’impresa. Quando nell’agosto-settembre 1920 gli operai occupano le fabbriche, i sindacalisti della UIL ritengono che gli operai, per evitare un intervento violento da parte dello Stato, devono entrare in possesso dell’intero settore industriale, facendolo funzionare appieno. I leader del sindacalismo nazionale (com’è giusto definirli) presentano la loro proposta di autogestione, al ministro del Lavoro Arturo Labriola e al Presidente del Consiglio Giolitti, che riesce alla fine, con un compromesso con la Cgl,  a far cessare l’occupazione delle fabbriche. I sindacalisti nazionali ritenevano che la vera natura del conflitto in Italia, durante il periodo del biennio rosso, fosse anche di natura politica ma soprattutto economica, ritengono che lo sciopero generale, per quanto provocato da fattori economici, debba portare ad una soluzione di ordine politico, da applicare a tutto il paese. Questa idea, avrà come sbocco una concezione di tipo corporativista e produttivistica, in conformità a un modello economico molto lontano dal socialismo marxista, che pur aveva costituito, quasi vent’anni prima, il punto di partenza e la teoria di riferimento dei sindacalisti rivoluzionari. Quando, nel settembre 1919, scopia l’affare di Fiume, il sindacalismo nazionale appoggia senza esitazione D’Annunzio: per la UIL, Fiume è parte integrante dell’Italia. De Ambris, che vi aveva soggiornato alla fine del 1919, torna nella città  istriana nel gennaio dell’anno seguente, con la mansione di Segretario di Gabinetto del Comando della città. Con questo titolo, il leader sindacale presenta a D’Annunzio un primo abbozzo del testo che diventerà, alcuni mesi dopo, la nuova Costituzione della città: la Carta del Carnaro. Questo documento politico, che da molti èconsiderato una delle principali prefigurazioni del corporativismo fascista, diventerà nel 1920 il manifesto del sindacalismo nazionale. L’insuccesso dell’occupazione delle fabbriche e il fallimento dell’impresa fiumana, sono alla base della decisione presa da molti ex sindacalisti rivoluzionari (ora sindacalisti nazionali) di passare sotto la bandiera nazionalista fascista. Fondato da Mussolini a Milano dopo la manifestazione di Piazza Santo Stefano, il 23 marzo 1919, il movimento fascista conta, tra i suoi membri fondatori,eminenti dirigenti del sindacalismo rivoluzionario, da Agostino Lanzillo a Miche Bianchi. Tra il 1919 e il 1920, i legami tra il fascismo e il sindacalismo si fanno sempre più stretti fino al momento in cui, verso la fine del 1920, il fascismo non mostrerà – specialmente nelle campagne – il suo lato più violento e reazionario. Negli anni 1920-22 si assiste al rafforzamento del fascismo come movimento politico. Dal punto del sindacalismo, in questi anni, si tratta di sapere se sia possibile cambiare il fascismo dall’interno oppure se, al contrario, si debba cercare di dividerlo per recuperarne l’ala sinistra. Prevale alla fine la prima soluzione: aderiscono al movimento fascista, allora, numerosi esponenti del sindacalismo, compresi alcuni teorici e dirigenti di prestigio, Panunzio, Orazio, Olivetti, Bianchi, Rossi, Dinale. Saranno quasi tutti leali servitori del movimento e poi del regime, e lo resteranno anche quando, nel fascismo trionfante, ben poco sarà sopravvissuto degli obiettivi del sindacalismo rivoluzionario. (23) L’USI dopo il 1914 L’USI resistette alla bufera interventista del settembre 1914, che testimoniava la profonda vocazione internazionalista della maggior parte dei quadri e della base, ma anche e soprattutto su come l’USI avesse ormai radici tanto solide nelle realtà locali da poter resistere alla “svolta” (23) Senza dimenticare che altri sindacalisti come Alceste De Ambris, divennero poi degli antifascisti   interventista della sua leadership quasi al completo. Secondo un documento, stilato verso la fine del 1917 da Armando Borghi (24), l’USI contava 48.000 aderenti, concentrati soprattutto in Liguria e Toscana (metallurgici e minatori). Cifra non irrilevante, se si tiene conto che molte delle organizzazioni locali, soprattutto in campo agricolo e nel settore edilizio erano state completamente svuotate dalla chiamata alle armi. Naturalmente non è solo con il numero delle tessere, o solo con queste, che si può valutare il peso effettivo di un organismo sindacale, ma è certo che la stessa continuità organizzativa in periodi così difficili – non bisogna dimenticare che l’USI non faceva parte del Comitato di Mobilitazione Industriale – non deve essere sottovalutata. Alla fine del conflitto, l’USI era in grado di riorganizzare le proprie file proprio partendo dalle posizioni conservate durante il periodo bellico. Stando alle cifre nel 1919-1920, l’organismo avrebbe avuto 180.000 iscritti a metà del 1919, circa 300.000 gli inizi del ’20 e circa 500.000 nell’autunno dello stesso anno. Può darsi che questi dati siano inflazionati, ma il punto è che la sproporzione di forze con la Cgl era sensibile, ma è altrettanto vero che alcune centinaia di migliaia di aderenti non possono essere completamente dimenticati. L’organizzazione sindacalista tra la fine del 1922 e gli inizi del 1923 fu in pratica distrutta. Ugo Fedeli ha scritto nella sua Breve storia dell’Unione Sindacale Italiana (25) “In realtà, dopo l’andata al potere fascisti, nell’ottobre del 1922, le attività sindacali erano difficilissime, e quasi impossibile il semplice riunirsi. L’USI ebbe quasi subito le sue sedi e le sue Camere del Lavoro distrutte; imprigionati e costretti a fuggire all’estero i suoi militanti, essa fu costretta ad interrompere ogni attività in Italia”. Un esposto dell’USI al Ministero dell’Interno del novembre 1922, firmato Borghi, Giovannetti, Meschi, Negro, parlava di “quasi tutte le … organizzazioni Sindacali e Camere del Lavoro distrutte o poste in condizione di non poter funzionare regolarmente, specie in  seguito all’occupazione delle proprie sedi da parte delle autorità e col tacito assenso di queste”.(26) Alla fine del 1923 l’organo centrale dell’organizzazione Guerra di classe era stato chiuso dalle autorità. Nel 1924, anche a seguito del clima politico all’assassinio di Matteotti, il movimento sindacalista sembrava dare segni di nuova vitalità. Nell’ottobre di quell’anno vedeva il primo numero di Rassegna Sindacale, rivista mensile dell’USI, uscita fino al giugno del 1925. Questa ripresa non “dovuta alla diminuita pressione fascista, ma soprattutto all’accresciuta capacità di resistenza delle masse alle azioni violente che tuttora si esercitano, ove più o meno, sugli individui e sulle collettività operaie”. “In Liguria le masse operaie hanno intensificato la loro attività organizzativa…In Puglia si è in pieno rigoglio di riorganizzazione provinciale … subacquea…Nell’Emilia, oltre ai gruppi sindacali, si è ricostituita qualche organizzazione provinciale nostra per opera dei buoni elementi rimasti…In Toscana si sono accresciute le  (24) v.Antonioli, B.Bezza: Alcune linee interpretative per una storia dell’Unione Sindacale Italiana, un inedito di Armando Borghi. In Primo Maggio, giugno-settembre 1973 (25) In Volontà, giugno/luglio/agosto 1957 (26) As Milano, Gabinetto di Prefettura, b.1043, USI  1912-1925 relazioni con i lavoratori con i quali non era prima possibile alcuno scambio di idee…A Milano sono state tenute parecchie riunioni di categoria, consigli di sezione, ecc. Inoltre hanno avuto luogo due convegni nazionali e due riunioni del Consiglio generale dell’USI”.(27)) Dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, il Prefetto di Milano ordina lo scioglimento dell’USI. Nonstante ciò, rimanevano nei vari centri abitati (città e paesi) dei gruppi sindacali che continuavano la loro attività. Nonostante la continua attività repressiva da parte delle autorità (numerosi militanti erano arrestati e molti quadri cominciavano a emigrare), nell’aprile 1925 si riuscì a tenere un Convegno dei metallurgici liguri, in cui si parlava di ricostituzione del Sindacato Metallurgico e di altri raggruppamenti sindacali facente capo all’USI ligure e Convegno sindacalista pugliese (dove furono costituiti diversi sindacati regionali d’industria). Al Convegno di Genova fu votata una risoluzione sul problema dell’unità sindacale dove si prospettava la “fusione degli organismi sindacali proletari che sono sul terreno della lotta di classe” e a determinate condizioni, tra le quali: “Assoluta autonomia e indipendenza sindacale da tutti i partiti e aggruppamenti politici e dai governi”, “Organizzazione locale e nazionale per industria; unione locale dei sindacati o Camere del Lavoro. Esclusione assoluta di aggruppamenti e comitati sindacali di partito. Rappresentanza proporzionale in tutti i congressi e nelle cariche delle organizzazioni sindacali con forte prevalenza degli organizzati sugli organizzatori stipendiati dalle organizzazioni sindacali. Incompatibilità a coprire cariche pubbliche per gli organizzatori durante il periodo in cui coprono cariche o funzioni stipendiate in seno alle organizzazioni sindacali”.(28) Questa proposta non fu presa in seria considerazione dalla Cgl. Al VI° Congresso della Cgl (10-13 dicembre 1924), in cui gli unitari (29) si riconfermarono maggioranza e imponevano la propria linea, nonostante l’opposizione dei massimalisti e dei comunisti, non lasciava nessun dubbio della scarsissima volontà della corrente egemone nella Cgl di venire a un accordo con i sindacalisti dell’USI. Va detto che le polemiche più accese, in questa fase, furono fatte da quelli che erano definiti gli “anarchici confederali”.(30) Spartaco Stagnetti ed Ettore Sottovia, e alcuni dei nomi più illustri dell’anarchismo come Malatesta, Luigi Fabbri e i sindacalisti dell’USI dall’altra. Fin dal 1923,Fabbri aveva posto il problema dell’unità sindacale. Bisognava cercare i punti convergenza e lavorare contro la scissione tra le forze sindacaliste da un lato e quelle repubblicane dall’altro. In (27) Rassegna Sindacale, 22 ottobre 1924 (28) In Calendimaggio, numero unico di Primo Maggio, edito dall’USI (sez. dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori), Milano 1924 (29) Ovvero i membri del Partito Socialista Unitario (PSU). Nel 1922 a causa delle trattative per la formazione di un nuovo governo da parte della delegazione socialista con a capo Turati, i riformisti furono espulsi dal PSI e diedero vita al PSU (30) Erano chiamati così gli anarchici che erano impegnati all’interno della CGL sostanza “L’opposizione dal di fuori assai meno efficace di quella che si sarebbe potuta esercitare dal di dentro, non impedì alla Confederazione di diventare mastodontica. Il colosso aveva, come s’è visto, le basi di argilla; e le critiche dall’esterno si son viste dar ragioni dai fatti. Ma a che prò se questi fatti hanno danneggiato praticamente, se non moralmente, tutte le organizzazioni sindacali, anche le più ostili alla confederazione, ma agenti sullo stesso terreno di classe?”.(31)  Verso la fine del 1924, le proposte unitarie degli anarchici che erano impegnati all’interno della Cgl, incominciavano a farsi sentire. Ma fu soprattutto agli inizi del 1925, cioè dopo lo scioglimento ufficiale dell’USI, che tali sollecitazioni si precisavano in tutta la loro chiarezza. Fu soprattutto l’intervento di Malatesta, che indubbiamente era il più autorevole, rappresentate dell’anarchismo italiano a smuovere le acque. In un articolo apparso su Pensiero e Volontà, dopo aver espresso il compiacimento per la fusione della UIL e di qualche organizzazione bianca nel Cremonese e nel Bergamasco con la Cgl, dichiarava: “Io, anche se dovessi su questo punto trovarmi in disaccordo con qualche compagno particolarmente affezionato ad una speciale organizzazione benemerita del proletariato italiano e più affine alle idee e ai metodi anarchici, mi auguro che il movimento fusionista continui e progredisca fino ad abbracciare tutti quei lavoratori che in un grado qualunque ed un qualsiasi modo sentono l’ingiustizia cui sono vittime nell’attuale società, che vogliono lottare contro i padroni per il miglioramento e per l’emancipazione e che, comprendono l’impotenza in cui si trova il lavoratore isolato, cercando nella solidarietà con i loro compagni di classe e magari si facessero antesignani di questa tendenza, che rappresenta per l’intimo desiderio di quel gran numero di lavoratori che si sentono fratelli con tutti quelli che lavorano e soffrono con loro e non comprendono le ragioni di certe divisioni di sentono sfiduciati e disgustati – non già, s’intende, perché gli anarchici indulgano ai metodi della Confederazione Generale, ma perché cerchino di far trionfare colla propaganda e coll’esempio metodi che credono migliori e soprattutto fraternizzino colle masse organizzate nella Confederazione e facciano modo, per quel che da loro dipende, che i lavoratori siano uniti e solidali nella lotta contro i padroni”.(32) La posizione di Malatesta non costituiva una particolare novità. La sua convinzione, che il sindacato non potesse essere che riformista, era stata espressa più volte, a partire dal Congresso anarchico internazionale di Amsterdam del 1907, lo aveva portato a non favorire in modo particolare un organismo sindacale rispetto ad un altro. Nello stesso periodo, sulle colonne di Fede, Carlo Molaschi, una delle figure di maggior spicco dell’Unione Anarchica Italiana, proponeva apertamente la liquidazione dell’USI. La sua proposta, analogamente a quanto andavano a sostenere alcuni “anarchici confederali”, era quello di creare “gruppi libertari sindacali” all’interno della Cgl. Questa presa di posizione suscitò aspre critiche da parte degli ambienti sindacalisti dell’USI. Questo dibattito si trascinò, senza che nessuno modificasse le rispettive posizioni. Quest’ultimo dibattito dimostrò l’attaccamento dell’USI all’autonomia dal politico. (31) L. Fabbri, il problema dell’unità sindacale, in Critica Politica, 25 febbraio 1923 (32)E. Malatesta, L’unità sindacale, in Pensiero e Volontà, 16 febbraio – 6 marzo 1925.     L’anarco-sindacalismo L’anarco-sindacalismo è una la corrente dell’anarchismo legata al movimento operaio attraverso il sindacalismo. È un metodo di organizzazione e di lotta dei lavoratori attuata attraverso i sindacati che si differenzia dagli altri movimenti anarchici poiché spesso si differenzia, instaura alleanze con altre organizzazioni ideologicamente affini, anche se non anarchiche. Esso pone la lotta di classe al centro delle problematiche della trasformazione sociale. In altri termini, i militanti anarco-sindacalisti definiscono il sindacato come una forma naturale d’organizzazione dei lavoratori in funzione emancipatrice, antiautoritaria e rivoluzionaria; rifiutando quindi il principio dei partiti, delle associazioni o dei raggruppamenti corporativistici. Il sindacato è quindi, secondo i sindacalisti anarchici, una struttura che permette alle classi subalterne di organizzare la lotta secondo le scelte individuali raggruppate in collettivi e non secondo scelte dettate dal potere politico (in altri termini “dal basso verso l’alto e non dall’alto verso il basso”). L’anarco-sindacalismo ritiene che lo Stato sia un comitato esecutivo degli interessi della borghesia, però a differenza dei marxisti ne auspicano la sua abolizione senza nessuna forma di transitorietà (come la dittatura del proletariato), rifiutando ogni rappresentanza politica parlamentare e non riponendo alcuna fiducia nelle leggi e nelle istituzioni. In conformità a queste premesse i militanti anarco-sindacalisti hanno teorizzato diverse metodologie: lo sciopero generale a disposizione della classe operaia per riappropriarsi degli strumenti di produzione; l’azione diretta (come l’occupazione dei luoghi di lavoro, i picchetti ecc.), il boicottaggio e il sabotaggio (rifiuto della produzione di determinate merci e il boicottaggio da parte del proletariato dei prodotti in questione). L’anarco-sindacalismo concede unicamente fiducia all’individuo singolo, immesso però nella collettività del sindacato, invogliandolo a portare avanti un’azione economica contro il padronato, spingendolo a riappropriarsi delle libertà perdute e professando ideali antiautoritari. L’anarco-sindacalismo e il sindacalismo rivoluzionario rifiutano entrambi il dualismo organizzativo (a differenza del comunismo anarchico), in altre parole quell’idea organizzativa che separa l’organizzazione di massa (come il sindacato) dall’organizzazione politica. Entrambi propongono l’azione diretta come principio fondante dell’organizzazione e per entrambi, il sindacato nasce come rivoluzionario e si deve contrapporre al padronato e allo Stato sino allo scontro frontale: organizzazione politica e sindacato sono quindi fusi insieme in entrambi i modelli organizzativi. Le differenze stanno dal fatto che mentre l’anarco-sindacalismo è per forza anarchico, il sindacalismo rivoluzionario non è necessariamente anarchico. Il sindacalismo rivoluzionario fu una rottura non solo nei confronti del socialismo legalitario e riformista, ma anche nei confronti dell’anarchismo di com’era alla fine del XIX secolo (azione individuale terroristica, propagandismo). Esso fu un tentativo di sintesi fra la teoria marxista dell’analisi di classe e la tradizione anarchica della lotta senza intermediari politici. Per questo motivo tutti i movimenti rivoluzionari di azione diretta furono etichettati alternativamente come: industrialismo rivoluzionario, sindacalismo rivoluzionario o anarco-sindacalismo. All’interno del movimento anarchico le idee degli anarco-sindacalisti furono contrastate dei comunisti anarchici, i quali ritengono che accanto all’organizzazione di massa debba operare un’organizzazione specifica, ossia un organismo che, operando dall’interno delle masse ne sappi determinare la coscienza e orientarle verso una direzione   L'articolo SINDACATO E RAPPORTO PARTITO CLASSE! proviene da S.I. Cobas - Sindacato intercategoriale.