SINDACATO E RAPPORTO PARTITO CLASSE!SINDACATO E RAPPORTO PARTITO CLASSE
Il comunismo è possibile empiricamente solo se è azione dei popoli dominanti
tutti “in una volta”e simultaneamente, e questo presuppone per parte sua lo
sviluppo universale della forza produttiva e quelle relazioni mondiali che il
comunismo implica.
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che si dovrebbe instaurare, né un
ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento
emergono dal presupposto oggi esistente. (Marx, L’ideologia tedesca).
comunismo e “questione sindacale”
Bisogna partire dal fatto che il marxismo, non è il frutto di escogitazioni
personali di Marx ed Engels, ma un bilancio scientifico delle lotte, delle
esperienze politiche, economiche e sociali, dei primi tentativi teorici del
Movimento Operaio. In sostanza il marxismo è la dottrina di una classe, quella
proletaria “che ha il compito di creare il vero ordine, l’ordine comunista di
spezzare il dominio del capitale, di rendere impossibili le guerre, di eliminare
le frontiere degli Stati, di trasformare in una comunità che lavori per sé
stessa, di realizzare la fratellanza e l’emancipazione dei popoli” (Dalla
piattaforma dell’Internazione Comunista approvata al 1° congresso 1919).
Per i comunisti non esiste una questione sindacale
specifica, perché l’attività sindacale è inquadrata nel più complessivo progetto
di trasformazione rivoluzionaria della società e quindi delle condizioni
politiche per realizzare la rottura rivoluzionaria. In questo senso la
“questione sindacale” che ha ovviamente degli specifici obiettivi(di tipo
rivendicativo) s’inserisce però nel progetto della conquista del proletariato
alla prospettiva della rivoluzione socialista.
Il primo strumento di difesa, il sindacato
I proletari che agli albori del capitalismo si trovavano isolati e indifesi di
fronte al potere padronale, si riuniscono prima in casse di mutuo soccorso e in
seguito in sindacati, che hanno lo scopo di organizzarli collettivamente, in
contrapposizione al padronato.
“ Nella fase “liberista” del capitale, esiste oggettivamente un enorme spazio
da colmare tra il “libero” gioco delle forze economiche e sociali e direzione
politica della società da parte della borghesia. Il capitalismo
ascendente, distrugge progressivamente le vecchie forme, dando spazio e motivi
di crescita effettivi al proletariato. Dopo un iniziale tentativo di inibire il
movimento indipendente di classe del proletariato, sotto la giustificazione
giuridica che tra i “cittadini” e lo Stato (formalmente eguali) non devono
esistere diaframmi, il capitalismo è costretto a riconoscere,esso
stesso, l’esistenza del contrasto di classe e cercare di inquadrarlo nell’ambito
delle proprie compatibilità per via indiretta, non con la persecuzione di una
forza la cui crescita è necessaria allo sviluppo capitalistico, ma con
un’influenza su di essa: grazie agli spazi di mediazione offertidallo sviluppo
delle forze produttive capitalistiche si tende a legare una parte decisiva del
proletariato agli interessi del capitale. La legislazione e la politica
complessiva della borghesia finiscono così per “coadiuvare” dialetticamente, ai
propri fini, le richieste compatibili col sistema della classe storicamente
avversa. Le associazioni immediate dei lavoratori, in questa fase
di “tolleranza”si trovano a svolgere la loro funzione di difesa degli interessi
operai in un quadro evolutivo che apre alle rivendicazioni operaie sul salario,
l’orario, la normativa,l’assistenza sociale ecc.; due diverse e opposte
possibilità: l’una, di saldatura con la lotta rivoluzionaria per l’abbattimento
dell’intero sistema borghese e l’affermazione della società
socialista propugnate dal Partito, l’altra di lotta limitata,
“corporativa”, “operaio” borghese, per il miglioramento delle condizioni di vita
del proletariato all’interno della società borghese, come lotta, in definitiva,
per una miglior contrattazione della merce-lavoro nella perpetuazione (e difesa)
del sistema basato sulla produzione mercantile.
La base economica, che dà oggettivamente luogo alla contraddizione tra le due
forze in campo (borghesia e proletariato), di per sé non porta alla coscienza
comunista, anzi, sin d’ora la linea del minimo sforzo inclina piuttosto verso la
coscienza da parte del proletariato come classe in sè, che ha qualcosa da
rivendicare all’interno dei rapporti vigenti, e ciò implica una lotta costante
dei rivoluzionari per introdurre nel movimento la coscienza delle implicazioni
storiche del contrasto e indicare ai proletari finalità e mezzi per conseguire
il socialismo.
Questa duplicità, dei possibili svolgimenti dell’azione sindacale, si ritrova
pienamente descritta nell’opera di Marx ed Engels. Basti ricordare una lettera
di Engels a Bernstein del 1879 , a dimostrazione di come il problema, poi
ripreso da Lenin, della “cinghia di trasmissione”e dell’importazione della
coscienza”nella classe dall’esterno dei rapporti economici immediati, non
costituisca una novità:
“Da un certo numero di anni – scrive Engels – il movimento operaio inglese si
agita senza trovare una soluzione nel cerchio ristretto degli scioperi per
ottenere un aumento del salario e una diminuzione delle ore di lavoro, e questo
non mezzo per lottare contro la miseria o come mezzo di propaganda e di
organizzazione, ma come fine ultimo. Inoltre, i sindacati escludono in linea di
principio, nei loro statuti, ogni azione politica e, con ciò precludono
l’accesso a qualsiasi attività generale della classe operaia in quanto classe
per sé. Sul piano politico, gli operai si dividono in conservatori e in radicali
liberi, partigiani del ministero Disraeli (Beaconsfield) e in partigiani del
ministero Gladstone. Non si può parlare qui di vero movimento operaio, perché
gli scioperi che, in questa situazione, si svolgono, siano o no vittoriosi, non
fanno avanzare il movimento di un solo passo”
E ancora Engels, in una lettera a Marx nel 1852:
“Non lavorare in seno ai sindacati nazionali, significa abbandonare le masse
arretrate, o non abbastanza sviluppate, all’influenza dei capi reazionari
degli agenti della borghesia, dell’aristocrazia operaia, ossia degli operai
imborghesiti”.
Come dimostra il passo sopracitato di Engels del 1852, le organizzazioni
sindacali erano in preda all’ideologia borghese e il compito dei comunisti
era di influenzarle in senso rivoluzionario. Sin da allora si poneva la
necessità per i comunisti di contrastare le tendenze opportuniste e borghesi
all’interno del sindacato, mirando a contrastarle e a stabilire la “cinghia di
trasmissione” tra azione immediata e Partito; mirando a conseguire dall’azione
rivendicativa il vero e unico risultato possibile: l’accrescimento del senso di
unità e di forza del proletariato in quanto classe per sé.
Questa duplicità del sindacato inclinante verso il riformismo, è data dalle
condizioni oggettive dello sviluppo capitalistico nelle metropoli; tra la fine
del secolo XIX° e l’inizio del secolo XX° ci fu in Europa un periodo di sviluppo
economico rapido, pacifico e tranquillo del capitalismo che entrava
proprio nella sua fase imperialista. Non è un caso che proprio in questo periodo
cominciò ad affermarsi nel movimento operaio il revisionismo. Le idee di
quest’ultimi si fondarono su quasi trent’anni di sviluppo e di
espansione economica , per questo motivo sostenevano che il capitalismo aveva
la capacità di sviluppare le forze produttive all’infinito e che le crisi
sarebbero state definitivamente eliminate attraverso una continua “rivoluzione
scientifica”. In sostanza il capitalismo, per i revisionisti, era un modo di
produzione eterno, dotato di una capacità espansiva illimitata.
L’inclinazione delle organizzazioni politiche sindacali verso il riformismo
( che sfocerà nel “tradimento” del 1914) è data dalle condizioni oggettive dello
sviluppo del capitalismo nelle metropoli: condizioni che determinano, attraverso
la distribuzione di briciole dei sovrapprofitti imperialisti, la formazione di
un’aristocrazia operaia, legata a doppio filo alla borghesia e tramite di essa
operare come “agente infiltrato” tra i lavoratori, per condizionarli
all’idolatria dell’indefinito sviluppo borghese.
Nella fase “liberista” Stato, partiti, sindacati, classi sociali sono largamente
“indipendenti” gli uni rispetto agli altri, nel senso che possono muoversi con
una relativa reciproca autonomia (1). La linea di direzione obbligata è data
dalla necessità di infrangere totalmente i vecchi rapporti pre-borghesi. Alle
spinte proletarie, in questa fase, è affidato il compito di portare a delle
rotture i rapporti economici e sociali pre-borghesi La relativa autonomia del
sindacato dal regime borghese nel periodo della 2^ Internazionale non deve
ingannare quanto al suo carattere, perché essa ha dei limiti ben precisi: tale
autonomia è reale ed ha un senso ben preciso perché non esiste un vincolo
obbligatorio a senso unico tra azione sindacale e interessi capitalistici, e
anzi la lotta sindacalepromuove nel proletariato un’estensione di forza
organizzata e ciò, però, non significa che il sindacato sia in questa fase
rivoluzionario.
Non è la permanenza del sindacato in quanto tale e neppure il suo riferimento
effettivo a rivendicazioni immediate della classe (in quanto classe del
capitale) a qualificare il carattere rivoluzionario o meno del Movimento
Operaio, ma la funzione che l’organizzazione immediata è costretta a svolgere in
relazione a condizioni oggettive che tendono a spezzare il legame di
“cointeressenza” borghesia-proletariato e, con ciò, l’influenza che la borghesia
esercita nella classetramite l’aristocrazia operaia.
Per il periodo della Seconda Internazionale (1889-1914) si può parlare di
sindacati “rossi” in quanto non ancora organicamente legati (anche sul piano
giuridico – formale”, che comunque viene dopo che l’integrazione si è data, a
fissarla e rafforzarla) allo Stato e alle esigenze dell’economia nazionale di
cui esso è garante. Ma questo fatto non sta a indicare una garanzia che si
sarebbe persa poi, bensì il fatto di un’evoluzione capitalista non ancora giunta
alle conseguenze estreme dell’imperialismo. Siamo ancora all’introduzione per
via indiretta dell’influenza capitalistica nelle file del Movimento
Operaio,” nei termini dell’elargizione delle briciole tratte dai sovrapprofitti
della sistematica rapina colonialistica realizzati su scala
internazionale. Questo è la fase in cui i sindacati comprendevano: “gli operai
qualificati, i meglio pagati dai padroni, i sindacati, a causa della loro
grettezza corporativa, vincolati dall’apparato burocratico distaccato dalla
masse, corrotti dai loro capi opportunisti, non hanno tradito soltanto la causa
della rivoluzione sociale ma anche la causa della lotta per migliorare le
condizioni di vita degli operai da essi organizzati” (Tesi sul movimento
sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale – Secondo Congresso
dell’Internazionale Comunista – 1920).
I fattori della degenerazione sindacale, che si manifesteranno più tardi in
maniera traumatica sono già in atto e consistono nella posizione oggettiva
dell’aristocrazia operaia, in relazione alle risorse del capitalismo in ascesa
che ne rendono praticabile l’influenza sulle masse stesse, indipendentemente dal
fatto che tra “vertice” e “massa” esista una frattura di interessi. Il distacco
dell’aristocrazia operaia dalla massa, insomma, non è tale, in questa fase, da
compromettere l’egemonia politica sul Movimento Operaio. Non è quindi un
problema d’immoralità o tradimento,se nel cuore del Movimento Operaio
organizzato (Germania) e nel momento traumatico della crisi capitalistica
sfociata nella prima guerra mondiale imperialista (1914-1918), si arrivi al 4
agosto della socialdemocrazia e del sindacato.
Col primo dopoguerra la vecchia burocrazia sindacale cerca di ostacolare il
passaggio dei sindacati da organi influenzati dalla borghesia ad organi della
rivoluzione. Nelle tesi del secondo congresso della Terza internazionale viene
sostenuto: la borghesia si appoggia su questa “forza d’inerzia dell’ideologia
della vecchia aristocrazia operaia”, ma questa è, d’altra parte, indebolita “dal
processo di soppressione dei privilegi dei singoli gruppi del proletariato dal
livellamento verso il basso delle condizioni di vita operaia, dalla
generalizzazione dell’insicurezza e della miseria”. I lavoratori entrano, in
questa fase, a frotte nei sindacati vincendo lo sbarramento loro apposto
dall’aristocrazia operaia, per affermare i propri interessi, oggettivamente
antagonisti rispetto alleesigenze del capitale. È su questo “terreno
rivoluzionario” che i comunisti devono fondare la loro prospettiva”. (*)
(*) Da “PARTITO E CLASSE – Rivista teorica n.1-1980 dei NUCLEI LENINISTI
INTERNAZIONALISTI
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“I sindacati creati dalla classe operaia nel periodo di sviluppo pacifico del
capitalismo erano organizzazioni degli operai in lotta per aumentare il prezzo
della forza-lavoro e per migliorare le condizioni del suo impiego. I marxisti
rivoluzionari miravano a collegarsi con il partito politico del proletariato, la
socialdemocrazia, perché affrontassero insieme la lotta per il socialismo. Per
gli stessi motivi per cui la socialdemocrazia internazionale, con pochissime
eccezioni, si dimostrò no già strumento della lotta rivoluzionaria del
proletariato per l’abbattimento del capitalismo, ma un’organizzazione che
tratteneva il proletariato dalla rivoluzione nell’interesse della borghesia, per
gli stessi motivi dunque anche i sindacati durante la guerra dimostrano nella
maggior parte dei casi di essere parte dell’apparato bellico della borghesia;
essi aiutarono la borghesia a spremere il più possibile la classe operaia al
fine di poter condurre più energicamente la guerra a vantaggio degli interessi
capitalistici…così hanno abbandonato la lotta sindacale contro gli imprenditori,
e a questi criteri si sono ispirati non soltanto le associazioni libere in Gran
Bretagna e America, non soltanto i cosiddetti liberi sindacati “socialisti” in
Germania e Austria, ma anche le associazioni sindacali in Francia” (Dalle tesi
del secondo Congresso dell’Internazionale Comunista del 17 luglio-7 agosto
1920).
Breve esposizione sulle prime forme di organizzazioni operaie
La prima forma di protesta collettiva furono le rivolte di fabbrica volte alla
distruzione delle macchine. Quasi tutta l’Europa poté assistere nel corso del
secolo XVII alle rivolte operaie contro la cosiddetta bandmuhle (macchine per
tessere nastri e passamani). Tale lotta operaia contro le macchine cominciò già
dalla sua invenzione. Ma essa si trasformò in lotta di massa solo all’inizio del
XIX secolo. Il movimento “luddista” ebbe la sua culla a Nottingham,
nell’Yorkshire e nel Lanchshire, praticava in modo organizzato la distruzione
delle macchine. Il capo del movimento era una figura mitica, il “Generale Ludd”.
Essendo la polizia impotente, contro i luddisti, il governo impiegò l’esercito;
e per riportare definitivamente i lavoratori alle macchine fu decretata la pena
di morte per chi distruggeva le macchine. Nel gennaio del 1813 furono impiccati
tre luddisti e una settimana dopo, per un attacco alla fabbrica di Cartwright,
l’inventore del telaio meccanico, furono impiccate altre quattordici persone.
Con l’aiuto di un provocatore il governo fu in grado di sbaragliare il movimento
luddista. Comunque, questi metodi di lotta, proseguirono anche in seguito e
riguardarono in particolare quelle fabbriche che di tanto in tanto introducevano
nuove macchine. Così all’inizio degli anni trenta del XIX secolo i braccianti
diretti da John Swing, una figura altrettanto mitica come quella del “Generale
Ludd”, bruciarono i granai e distrussero le trebbiatrici meccaniche. Ancora nel
1831 i minatori in sciopero nel Nothumberland distrussero gli impianti di
ventilazione.
“L’ostilità degli operai si esprimeva solo in un confuso sentimento di odio nei
confronti dei loro sfruttatori, nel desiderio di vendicarsi dei capitalisti. La
loro lotta si traduceva allora in rivolte isolate di operai che distruggevano
gli edifici e rompevano le macchine, malmenavano i dirigenti della fabbrica,
ecc. Era la prima forma del movimento operaio, la sua forma iniziale, ed essa è
stata necessaria perché l’odio per il capitalista è stato sempre e dovunque il
primo impulso che ha portato gli operai a difendersi. Ma il movimento operaio
russo ha superato questa fase iniziale. Superata la fase dell’odio confuso verso
il capitalista, gli operai hanno cominciato a capire l’antagonismo di interessi
che oppone la classe operaia a quella dei capitalisti” (da un articolo di Lenin,
per la Russia, scritto in prigione il 25 novembre del 1896).
Come disse Marx: “Ci vogliono tempo ed esperienza finché l’operaio apprenda a
distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i suoi
attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di
sfruttamento…Il telaio a vapore, in Inghilterra ha gettato nella miseria 800
mila tessitori, non si tratta di macchine reali che dovrebbero essere
rimpiazzate da un certo numero di operai, ma si tratta d’un effettivo numero di
operai che è stato realmente rimpiazzato ossia sostituito dalle macchine” (K.
Marx, Il Capitale, Libro I, Macchine e grande industria).
“laddove la macchina invade lentamente un campo della produzione, essa genera la
miseria cronica degli strati operai che sono in concorrenza con essa. Laddove
avanza rapidamente l’effetto è di massa e acuto. La storia dell’umanità non
presenta spettacolo più tremendo della estinzione degli artigiani tessitori di
cotone inglesi, lenta e protrattasi per decenni e giunta a termine nel 1838.
Parecchi di essi morirono di fame molti vegetarono a lungo insieme alle loro
famiglie con 2 pence e mezzo al giorno. Tremendo invece fu l’effetto che le
macchine inglesi per la lavorazione del cotone produssero nelle Indie Orientali,
il cui governatore generale rivelava nel 1834-35 “è difficile trovare nella
storia del commercio un parallelo e una tale miseria. Le ossa dei tessitori di
cotone imbiancano le pianure dell’India” (Riccardo in Principles).
Con questo processo di introduzione dei macchinari il talento dell’operaio viene
poco alla volta sostituito “il perfezionamento delle macchine per ottenere un
dato risultato non solo obbliga a diminuire il numero degli operai adulti
impiegati, ma soppianta una classe più abile, adulti con bambini, uomini, con
donne. (Ure Philosophy of manifactures).
“nella misura in cui i capitalisti sono costretti dal movimento che abbiamo
descritto, a sfruttare su scala più grande i mezzi di produzione giganteschi già
esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve del credito, nella
stessa misura aumentano i terremoti industriali, in cui il mondo del commercio
si mantiene soltanto sacrificando agli dei inferi una parte della ricchezza, dei
prodotti e perfino delle forze produttive: in una parola, nella stessa misura
aumentano le crisi. Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto
che, nella misura in cui la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi
mercati, diventa più grande, il mercato mondiale sempre più sicontrae, i nuovi
mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, perché ogni crisi precedente ha
già conquistato al commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato
o sfruttato dal commercio in modo superficiale. Ma il capitale non vive soltanto
del lavoro. Signore ad un tempo barbaro e grandioso, egli trascina con sé
nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono
nelle crisi” (Marx, Il Capitale, libroII) “Le vicende dell’industria del cotone
inglese – sostiene Marx nel 1 libro del Capitale – possono illustrare nel modo
migliore le vicende dell’operaio di fabbrica. Dal 1770 al 1815 l’industria del
cotone subì un calo o un ristagno di 5 anni. In questo periodo di 45 anni i
fabbricanti inglesi avevano il monopolio delle macchine e del mercato mondiale.
Dal 1815 al 1821 depressione, 1822 e 1823 anni di prosperità, 1824 soppressione
delle leggi contro le coalizioni operaie con conseguente enorme estensione
generale delle fabbriche, 1825 crisi; 1826 grande miseria e rivolta tra gli
operai cotonieri; 1827 lieve miglioramento, 1828 grande aumento dei telai
meccanici dell’esportazione; 1829 punta massima dell’esportazione, che supera
tutte le precedenti annate, soprattutto in India; 1830 mercati saturi, stato di
profonda crisi, dal 1831 al 1833 calo costante, il commercio con l’Asia
orientale (India e Cina) viene tolto al monopolio della Compagnia delle Indie
Orientali, 1834 grande aumento di fabbriche e di macchine, deficienza di mano
d’opera. La nuova legge sui poveri dà incremento alla migrazione dei lavoratori
agricoli nei distretti industriali. I bambini vengono strappati dalle contee
rurali. Tratta degli schiavi bianchi. 1835 grande prosperità. Nello steso tempo
i tessitori a mano di cotone muoiono di fame. 1836 prosperità. 1837 e 1838
depressione e crisi. 1838 depressione e crisi. 1839 ripresa. 1840 profonda
depressione, rivolte, interventi militare. 1841 e 1842 tremende sofferenze degli
operai di fabbrica. Nel 1842 i fabbricanti, nell’intenzione di far revocare le
leggi sul grano, promuovono una serrata. Gli operai si riversano a migliaia
nello Yorkshire, vengono ributtati dalle forze armate, i loro capi sono condotti
dinanzi al tribunale del Lancaster. 1843 grave miseria. 1844 ripresa. 1845
grande prosperità. Nel 1846 dapprima si continua sullo slancio appresso sintomi
di reazioni. Revoca delle leggi sul grano. 1847 crisi. Riduzione generale dei
salari del 10% e oltre, per festeggiare la big loaf (grande pagnotta). 1848 calo
continuo. Manchester sotto protezione militare. 1849 ripresa. 1850 prosperità.
1851 calo dei prezzi delle merci, salari bassi, continui scioperi. Nel 1852 ha
inizio un miglioramento. Si susseguono gli scioperi i fabbricanti minacciano di
ricorrere a mano d’opera straniera. 1853 aumento dell’esportazione. Sciopero di
otto mesi e grande miseria a Preston. 1854 prosperità, saturazione dei mercati.
1855 arrivano voci su fallimenti negli Stati Uniti, Canada, nei mercati
dell’Asia orientale. 1856 grande prosperità. Aumento delle fabbriche. 1860 zenit
dell’industria del cotone inglese. I mercati dell’India e dell’Australia e altri
ancora si sono saturati a un tal punto, che ancora nel 1863 non hanno terminato
di assorbire tutte le merci. Trattato di commercio con la Francia. Grandissimo
aumento delle fabbriche e delle macchine. Nel 1861 lo slancio continua un po’,
reazione, guerra civile americana, carestia di cotone. Dal 1862 al 1863 crollo
completo”. Inizialmente i sindacati furono unioni temporanee create durante gli
scioperi. Dato che la legge proibiva ogni unione tra gli operai, in seguito
soprattutto all’influenza che ebbero gli avvenimenti della rivoluzione francese
e che portò in Gran Bretagna le leggi del 1799-1800, che incrementarono la
repressione contro i lavoratori, gli operai costituirono delle società segrete.
Solo dopo una lotta tenace per il diritto di associazione, che gli operai
portarono avanti insieme alla borghesia radical-democratica, e dopo una serie di
lotte dure e sanguinose nel 1824 ottennero il diritto di associazione, e sebbene
l’anno successivo a tale legge furono apportate alcune limitazioni, gli operai
iniziarono a utilizzare tale diritto. In tutti i posti di lavoro si costituirono
trade-unions con lo scopo di: 1) Fissare il salario, regolarlo sul profitto del
datore di lavoro, elevarlo quando il momento fosse propizio e mantenerlo
dappertutto a un medesimo livello per un medesimo mestiere. 2)Limitare
l’assunzione di apprendisti, per mantenere viva la richiesta di operai e
difendere il livello del salario.
Engels a conoscenza dei tentativi degli operai inglesi di costituire un
sindacato su scala nazionale, diceva: “Quando ciò fu possibile e si dimostrò
vantaggioso, gli operai di uno stesso mestiere di singoli distretti si unirono
talvolta in un’associazione federata e organizzarono assemblee di delegati in
date stabilite. In singoli casi, si cercò di unire in una sola grande
associazione per tutta l’Inghilterra gli operai di tutto il regno, con
un’organizzazione particolare per ogni categoria” (F. Engels, La situazione
della classe operaia in Inghilterra ).
Engel descrive i metodi di lotta dei sindacati: in primo luogo c’è lo sciopero,
poi la lotta contro i crumiri e quindi l’esercizio di forme di pressione
contro chi rifiuta di unirsi al sindacato. Engels mentre riconosce che il
sindacalismo è una forma necessaria dell’organizzazione operaia, nello stesso
tempo ne comprende i limiti: “La storia di queste associazioni è una lunga serie
di sconfitte degli operai, interrotta da qualche vittoria isolata. E’ naturale
che tutti questi sforzi non possono mutare la legge economica secondo la quale
sul mercato del lavoro il salario viene determinato dal rapporto tra domanda e
offerta” (F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra – I
movimenti operai).
Ma anche quando gli scioperi possono sembrare inconcludenti, è chiaro che gli
operari devono lottare contro la diminuzione del salario, poiché in mancanza di
tali azioni i capitalisti non metterebbero dei limiti alla loro avidità: “Ma
queste associazioni e scioperi che ne derivano assumono un’ importanza
specifica in quanto rappresentano il primo tentativo degli operai di abolire la
concorrenza tra loro. Essa presuppone la consapevolezza che il potere della
borghesia poggia unicamente sulla concorrenza degli operai tra di loro, cioè sul
frazionamento del proletariato, sul reciproco contrapporsi dei singoli operai”
(Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra – I movimenti
operai).
Ai socialisti utopisti che condannavano gli scioperi Engels ne ricorda il valore
educativo: “In generale questi scioperi sono soltanto scaramucce di avamposti,
talvolta però ci sono gli scontri di una certa importanza; non decidono
nulla, ma sono la prova migliore che la battaglia decisiva tra proletariato e
borghesia si sta avvicinando. Sono la scuola di guerra in cui gli operai si
preparano alla grande lotta inevitabile; sono i pronnuciamentos di singoli
categorie di operai sulla adesione al grande movimento operaio (…) E come scuole
di guerra, queste lotte sono di un efficacia insuperabile “ (Engels, La
situazione della classe operaia in Inghilterra).
Le Trades’Union – osserva Marx al Congresso dell’Internazionale a Ginevra del
1866 – “devono interessare con molta attenzione dei settori industriali dove le
retribuzioni sono più misere, come nel caso dei lavoratori agricoli, i quali
sono stati ridotti di importanza eccezionalmente sfavorevoli. Devono far nascere
la convinzione in tutto il mondo che i loro fini, invece d’essere circoscritti
in limiti stretti ed egoisti, mirano all’emancipazione dei milioni oppressi”.
In Miseria della filosofia Marx descrive il processo di trasformazione della
classe operaia in classe per sé: “Le condizioni economiche avevano dapprima
trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La
dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune,
interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale,
ma non lo è ancora per sé stessa. Nella lotta, della quale abbiamo
segnalato solo alcune fasi, questa massa di riunisce, si costituisce in classe
per sé stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi classe. Ma la
lotta di classe contro classe è una lotta politica”.
L’organizzazione di scioperi, l’istituzione di sindacati, la loro estensione sul
piano nazionale andarono di pari passo con la loro politica , assumendo una
certa rilevanza politica negli anni 1836-1837. Questa fu l’epoca
dell’organizzazione del primo partito operaio: il partito Cartista.
“Nelle associazioni e negli scioperi l’opposizione rimaneva isolata, erano
singoli operai e gruppi di operai a combattere contro i borghesi quando la lotta
diventava generale, raramente ciò avveniva per volontà degli operai, e in quei
pochi casi alla base di quella volontà vi era il cartismo. Nel cartismo, invece,
è l’intera classe che insorge contro la borghesia e che attacca prima di tutto
il suo potere politico, il muro di leggi con il quale essa si è circondata” (F.
Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra).
Fino ad allora il movimento della classe operaia veniva usato dalla borghesia
contro i suoi nemici: “Da una parte anche la grande industria stava appena
uscendo dall’infanzia, com’è provato già dal fatto che esso apre il ciclo
periodico della sua vita moderna soltanto con la crisi del 1825. Dall’altra
parte, la lotta delle classi era respinta nello sfondo, politicamente per la
discordia tra i governi e l’aristocrazia feudale schierati intono alla Santa
Alleanza, e la massa popolare guidata della borghesia, economicamente per la
contesa tra capitale industriale e proprietà fondiariaaristocratica” (Marx, Il
Capitale, Libro 1).
Solo dopo il 1830 in Inghilterra, quando la borghesia radicale si piegò così
facilmente ad un compromesso che diede il potere politico alla borghesia
industriale, ci fu una profonda scissione tra l’avanguardia della classe operaia
e la borghesia. Solo i cambiamenti prodotti dalla rivoluzione di luglio e
l’insurrezione degli operai francesi di Lione (1831-1834) diedero impulso
all’idea dell’autonomia politica della classe operaia, che fino ad allora aveva
giocato il ruolo di ala radicale del partito della borghesia.
“La rivoluzione di febbraio – scrive Marx in Le lotte di classe in Francia del
1848 al 1850- era stata conquistata dagli operai con l’aiuto passivo della
borghesia. I proletari si consideravano a ragione come i vincitori di febbraio e
avanzavano le pretese orgogliose del vincitore. Si doveva batterli nella strada,
ma contro la borghesia. Come per la repubblica di febbraio con le sue
concessioni socialiste, per fare ufficialmente della repubblica
borghese l’elemento dominante. La borghesia doveva respingere le rivendicazioni
del proletariato con le armi in mano. E la vera culla della repubblica borghese
non è la rivoluzione di febbraio, ma la disfatta di giugno… Agli operai non
rimase altra alternativa: o morire di fame o scendere in campo. Essi risposero
il 22 giugno con la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima
grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna. Fu una
lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordine borghese. Il velo
che avvolgeva la repubblica fu lacerato. È noto con che valore e genialità senza
esempio gli operai, senza capi, senza un piano comune, senza mezzi, per la
maggior parte senz’armi, tennero in scacco per cinque giorni l’esercito, la
Guardia mobile, la Guardia nazionale di Parigi e la Guardia nazionale accorsa
dalle province. È noto come la borghesia si rifacesse con brutalità inaudita del
pericolo coso, massacrando più di tremila prigionieri”.
“Dopo la loro eroica impresa di giugno – dall’Indirizzo del Consiglio Generale
della Associazione Internazionale dei Lavoratori, sulla guerra civile in Francia
nel 1871 – i repubblicani borghesi dovettero però retrocedere dalla prima fila
alla retroguardia del “partito dell’ordine”, combinazione formata da tutte le
frazioni e fazioni rivali delle classi possidenti nel loro antagonismo ormai
aperto contro le classi produttrici. La forma più adatta del loro governo comune
fu la repubblica parlamentare con Luigi Bonaparte presidente. Esso fu un regime
di terrorismo di classe aperto e di deliberato insulto della “vile moltitudine”.
Se, come diceva Thiers la repubblica parlamentare era il regime che” meno
divideva le differenti frazioni della classe dirigente”, esso apriva un abisso
fra questa classe e il corpo intiero della società escluso dalle sue file
ristrette…Il frutto naturale della repubblica del “partito dell’ordine” fu il
Secondo Impero. Esso fu salutato in tutto il mondo come il salvatore della
società. Sotto il suo dominio la società borghese, libera di preoccupazioni
politiche, raggiunse uno sviluppo che essa stessa non aveva mai sperato. La sua
industria e il suo commercio assunsero proporzioni colossali: la speculazione
finanziaria celebrò delle orge cosmopolite: la miseria delle masse fu messa in
rilievo da una ostentazione sfacciata di un lusso esagerato, immorale,
delittuoso”.
Dal crollo del cartismo in poi (dal 1848 fino alla fine del XIX secolo) il
capitale dominò la forza lavoro, riuscendo a snaturare la spinta propulsiva dei
lavoratori indirizzandola verso forze politiche corporative – professionali. La
limitatezza economicista non solo portò le Trade Unions o i sindacati nei vari
paesi verso una politica interna al sistema di contrattazione della forza lavoro
o a costituire casse mutuali, ma ad essa si contrappose il risveglio della lotta
operaia e alla creazione dei propri partiti politici ( il Labour Party in
Inghilterra). In Inghilterra, comunque, l’adesione operaia al partito era
condizionata da una pratica ed una teoria tradunionista.
Politica questa che Marx aveva già combattuto all’interno della 1
Internazionale, perché per esso non sono importanti in sé e per sé le
rivendicazioni economiche, ma in quanto battaglie rivolte ad un fine
rivoluzionario.
La successiva delusione dei lavoratori verso il Labour Party, perché riformista
borghese, li portò ad un atteggiamento benevolo verso il sindacalismo
rivoluzionario francese e verso il sindacato industriale americano.
Per un certo periodo si determinò nel movimento della classe operaia una
divisione tra i fautori di una lotta economica “rivoluzionaria” e i sostenitori
della lotta politica. Nascerà in questa fase il “socialismo delle Gilde” in cui
si pretendeva che lo Stato, proprietario dei mezzi produttivi del lavoro,
lasciasse amministrare ai lavoratori le cooperative di produzione e le
cooperative di lavoro. Per eliminare le differenze di reddito a livello
nazionale, lo Stato doveva incassare da ogni Gilda una tassa. Il socialismo
delle Gilde non poneva quindi, la distruzione e la rivoluzione dello Stato come
punto di approdo al socialismo, ma come fine l’autogoverno, dopo un periodo di
amministrazione degli operai dell’economia. In certe situazioni le Gilde
propugnavano delle istituzioni paritetiche tra il sindacato ed il padronato
anticipando, così, il corporativismo fascista.
Il primo strumento di autonomia, il
partito
Alla fine dell’800 e gli inizi del 1900 la degenerazione dei sindacati come
organi di controllo della classe operaia a favore delle borghesie è completato
in tutti i paesi ed il grado di integrazione con lo Stato è talmente avanzato
che faranno parte dell’apparato di guerra della borghesia. La stessa sorte
avvenne, a parte poche eccezioni, in tutti i paesi europei.
Il Partito Socialdemocratico Tedesco nasce come partito a dimensione nazionale
nel maggio 1875, dalla fusione tra l’Associazione Generale dei Lavoratori
Tedeschi (ADAV) di Lassale e il Partito Operaio Socialdemocratico (SDAP) di
Bebel e Liebknecht. Le impostazioni di questi due partiti erano diverse. L’ADAV
seguendo l’impostazione di Lassale sulla “Legge bronzea del salario”, secondo la
quale i capitalisti pagano gli operai un salario minimo appena sufficiente alla
soddisfazione dei bisogni primari necessaria per il mantenimento della
manodopera, riteneva superflua l’organizzazione sindacale in quanto riteneva
primario la formazione di associazioni produttive a credito statale. Per questi
motivi uno dei primi obiettivi dell’ADAV (e successivamente della
socialdemocrazia tedesca fino al 1919) era il suffragio universale, come
premessa per ottenere la democratizzazione dello Stato. Lo SDAP invece lavorava
per la creazione di un forte movimento sindacale. L’ADAV, dopo la morte di
Lassale e sotto l’influsso delle lotte operaie che cominciarono a svilupparsi
dalla metà del XIX secolo, cambiò posizione rispetto alla costruzione di
organizzazioni sindacali, si arrivò così alla fondazione di due unioni sindacali
nazionali, da cui scaturì negli anni a seguire importanti impulsi al superamento
della divisione del Movimento Operaio tedesco.
Il Programma di Gotha approvato dal congresso di riunificazione fu criticato da
Marx ( Critica del programma di Gotha, del 1875), ed era in sostanza
una critica alle posizioni lassalliane espresse all’interno del programma del
partito unificato.
In sintesi gli elementi fondamentali della critica di Marx al programma erano:
1° Nel programma si diceva che il lavoro è fonte di ogni ricchezza e di ogni
civiltà, senza specificare, però, che anche la borghesia sosteneva questa
posizione e, inoltre si contrapponeva il proletariato alla borghesia e al
precapitalistico “dispotismo militare”, come fosse “unica massa reazionaria”.
Per Marx, il programma rinunciava a mettere in discussione la proprietà privata
dei mezzi produttivi e aveva obiettivi limitati all’ambiente sociale esistente.
Per Marx, il valore non proviene solo dal lavoro ma anche dalla natura,
che offre a quest’ultimi tutti i mezzi e di suoi oggetti.
2) Il programma, inoltre, rinunciava alla definizione stessa
dello sfruttamento: una volta acquistata al suo prezzo la forza-lavoro, ossia al
valore necessario al suo mantenimento e riproduzione, il suo impiego produca
( per un tempo di lavoro il cui valore è superiore a quello per cui è stata
acquistata) un plusvalore di cui si appropria l’acquirente della forza-lavoro
stessa, il capitalista.
La posizione tipica della corrente lassaliana, era soprattutto una deviazione
statalista in quanto ricercava l’appoggio dello Stato nello sviluppo delle
organizzazioni operaie e cooperative.
Il partito unificato venne sottoposto a dura prova dalla legislazione
antisocialista di Bismarck,iniziata nel 1878 e finita nel 1890, anno della
caduta di questi.
Il partito in questo periodo sviluppò un robusto apparato per poter distribuire
le proprie pubblicazioni.
Gli iscritti alla SPD che alla fine della legislazione antisocialista erano più
di 50.000, erano diventati 384.327 nel 1905-1906, e 1.085.905 ( il 90% di
questi erano operai) nel 1913-1914. Gli iscritti al sindacato arrivarono a
2.283.661 nel 1914.
Il partito nel 1890 ebbe 1.427.298 voti con 35 deputati eletti, nel 1912 (che
furono le ultime elezioni in Germania prima dello scoppio della guerra) passò a
4.250.000 voti con 110 deputati eletti. Questa progressione dei risultati
elettorali creava la convinzione della possibilità di un’ascesa irresistibile e
lineare del partito verso il raggiungimento della maggioranza assoluta nel paese
e di conseguenza verso il potere.
Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale imperialista si assisté a
questa dinamica: la burocrazia sindacale cerca di ostacolare il passaggio dei
sindacati da organi influenzati dalla borghesia a organi della rivoluzione,
mantenendo i sindacati “come organizzazione dell’aristocrazia operaia
che rendono impossibile alle masse operaie mal pagate l’entrata in esse” (Dalle
tesi del 2°Congresso dell’Internazionale Comunista, 1920).
Si tratta di capire perché lo sforzo promosso dall’Internazionale Comunista non
è andato in porto. Il fatto è che nel periodo cominciato dalla rivoluzione di
ottobre si scontrarono tutte le debolezze maturate negli anni precedenti, che
hanno impedito alla sinistra marxista della Seconda Internazionale di porre
prima dello scontro decisivo, in termini utili, la questione della preparazione
rivoluzionaria. Il lungo ciclo pacifico di sviluppo capitalistico precedente
alla scoppio della prima guerra mondiale imperialista, non solo aveva creato le
basi materiali dello sviluppo del revisionismo all’interno del movimento
operaio, ma il limite vero stava nel fatto che la lotta antirevisionista
era soprattutto confinata in discussioni teoriche, poco influenti sulla pratica
del movimento reale. Il nodo fondamentale stava nell’assenza (tranne che in
Russia) di Partiti in grado di prevenire non solo teoricamente, ma
programmaticamente e organizzativamente il momento dello scontro, di tradurre in
azione politica i principi rivoluzionari . La devastatrice teoria antipartitosi
manifesterà in mille forme anche nel cuore dell’Internazionale Comunista:
autorganizzazione delle masse, priorità dei consigli, spontaneità ecc.
Tra le correnti costitutive dell’Internazionale Comunista c’erano tendenze
fortemente influenzate da posizioni che furono definite da Lenin
come“estremiste”. Il gruppo dei Tribunisti olandesi, che formavano il nucleo del
Partito Comunista Olandese sorto nel novembre del 1918, era stato parte
costitutiva della sinistra di Zimmerwald e dei suoi esponenti di primo piano
come A. Pannekoek e H. Roland-Holst ne avevano diretto la rivista teorica e
politica, il Vorbote. I rivoluzionari olandesi che già nel 1909 si erano
separati dai riformisti del loro paese (Il collettivo redazonale di “Die
Tribune,” a cui apparteneva Gorter e Pannekoek, venne espulso dal partito
operaio socialdemocratico SDAP ad opera di Troelstra), erano stati durante la
prima guerra mondiale imperialista i più vicini a Lenin (Gli “olandesi” erano
stati tra i primi durante la prima guera mondiale a denunciare i iformisti
rompendo anche gli indugi della stessa sinistra tedesca rispetto ai
Kautskisti) . Tuttavia esistevano delle divergenze politiche (sulla questione
nazionale: posizione diversa da Lenin era anche quella di Rosa Luxemburg degli
internazionalisti di Brema i quali sostenevano che era finita l’epoca delle
guerre nazionali, sui sindacati, la concezione del partito, sulla questione
dell’esercizio della dittatura proletaria, sulla l’insurrezione che solo
un’avanguardia ben organizzata può dirigere le masse e sulla prospettiva
strategica ) che in seguito sarebbero diventate posizioni tra Lenin ed i
Tribunisti incompatibili (gli olandesi rimarcacano il fatto che c’era una
grandissima differenza tra l’Europa Orientale e quella Occidentale dal punto di
vista dello sviluppo capitalistico e contestavano a Lenin la possibilità di
usare la stessa tattica usata in Russia; mettevano in discussione l’utilizzo
dell’azione parlamentare in senso rivoluzionario e la possibilità di lavorare
nei sindacati e di prenderne la direzione, per essi erano potenze
controrivoluzionarie che bisognava distruggere favorendo l’Unione operaia fatta
dal coordinamento degli operai di fabbrica che dovevano sviluppare a “raggera”
lo spirito rivoluzionario delle masse: “Come i partiti comunisti si erigono
davanti ai partiti socialpatrioti, così anche la nuova formazione , l’Unione
operaia, deve schierarsi di fronte al sindacato”…”Nella misura in cui
l’importanza della classe aumenta-come in Germania- si riduce in proporzione
l’importanza dei capi. Ciò non vuol dire che non dobbiamo avere i migliori capi
possibili: i migliori tra i migliori non sono ancora abbastanza buoni e noi li
stiamo ancora cercando. Ciò significa soltanto che rispetto all’importanza delle
masse, quella dei capi diminuisce”….”Non avete osservato, compagno Lenin, che
non esistono dei “grandi” capi in Germania? Si tratta sempre di uomini ordinari.
Ciò dimostra che questa rivoluzione deve essere inanzitutto opera delle masse e
non dei capi”…..”Sarà la rivoluzione delle masse, non perchè è bene o bello, o
ben ideato da qualcuno, ma perchè la cosa è condizionata dai rapporti economici
e di classe” -risposta di Gorter a Lenin, 1920) In un certo senso, quelli che
Lenin definiva “estremisti” erano per un partito di quadri, qualitativamente
preparati, in grado di dirigere la “nave,”ma su un piano ideologico e
principista che avevano il compito di orientare le masse con l’unico metodo “del
rovesciamento incondizionato della borghesia per quindi istituire la dittatura
proletaria di classe, per la realizzazione del socialismo”(Da un opuscolo edito
dal gruppo locale di Francoforte che apparteneva alla tendenzadei Comunisti di
sinistra tedeschi): esaltavano, nei paesi a maggior sviluppo capitalistico, il
ruolo delle masse (come se queste, anche se organizzate nelle Unioni, fossero
preservate dal tarlo opportunista) e la relativa importanza dei capi,
svalutando, nei fatti, il ruolo e la formazione, in prospettiva,
del partito organo di direzione politica di massa o addirittura sciogliere i
partiti proclamando “l’inutilità e il loro carattere borghese”. Trotskij nel
discorso pronunciato nella seduta del Comitato esecutivo dell’Internazionale
comunista del 24 novembre del 1920, in risposta a Gorter sostenne: “L’educazione
delle masse e la selezione dei capi, lo sviluppo della spontaneità delle masse,
l’istituzione d’un controllo sui capi, sono tutti fatti interdipendenti che si
condizionano reciprocamente. Non conosco ricette che permettono di riportare
artificialmente il centro dell’azione dai capi alle masse. Gorter indica la
propaganda di un gruppo selezionato. Ammettiamolo, per un istante. Ma fino a
quando questa propaganda non avrà conquistato le masse, il centro dell’azione,
evidentemente, sarà tra coloro che la faranno, capi e iniziatori. La lotta
contro i capi, il più delle volte, non fa che esprimere nel modo più demagogico
la lotta contro le idee e i metodi rappresentati da certi capi. Se queste idee e
questi metodi sono buoni, l’influenza dei capi in questione corrisponde a quella
di un buon metodo e di buone idee, e parlano a nome delle masse soltanto coloro
i quali sanno conquistare le masse. In linea generale, i rapporti tra le masse e
i capi dipendono dal livello politico e intellettuale della classe operaia, dal
fatto che essa ha o non ha tradizioni rivoluzionarie e l’abitudine ad agire
collettivamente, e, infine, dallo spessore dello strato proletario che è passato
nella scuola della lotta di classe e dell’educazione marxista. Non esiste un
problema dei capi e delle masse preso a sé. Il partito comunista, allargando
continuamente la sua sfera d’influenza, penetrando in tutti i campi della vita e
dell’azione della classe operaia, trascinando nella lotta per la trasformazione
sociale masse operaie sempre più larghe, approfondisce e allarga, di
conseguenza, la spontaneità delle masse operaie senza per questo ridurre il
ruolo dei capi, al quale dà invece un’ampiezza storica senza precedenti
legandolo più strettamente all’azione spontanea delle masse e sottomettendolo al
loro controllo cosciente e organizzato”.
Coloro che apparteneva a queste correnti “estremiste”, negli anni venti,
portarono all’estremo questo concetto arrivando a mitizzare il ruolo
indifferenziato della massa stessa e la sua spontaneità).
Nel KPD (Partito Comunista Tedesco) il più importante partito comunista
esistente (dopo quello bolscevico) l’egemonia dello Spartakusbund era tutt’altro
che indiscussa, come si vide nel 1918 al congresso costitutivo del
partito. Sotto l’etichetta organizzativa dei Comunisti Internazionalisti (IKD)
si raggruppavano numerose tendenze di estrema sinistra: il gruppo che si era
raccolto intorno alla rivista Arbeitepolitik, in cui aveva svolto un ruolo
importante A. Pannekoek, ciò che restava del circolo di intellettuali che
faceva capo alla rivista Lichtsrahlen, la corrente “unionista” di Amburgo che,
sotto l’influenza di un ex militante del sindacato americano IWW, Fritz
Wolfheim, rivendicava la separazione tradizionale del lavoro fra partito e
sindacato. Tutte queste tendenze erano accumunate da una caratteristica
ben precisa: “ Criticando la propria versione del marxismo rivoluzionario, (…)
riscoprono semplicemente dietro una prassi e delle parole d’ordine che essi
credono “nuove”, tendenze assai prossime alle correnti anarchiche e sindacaliste
che il marxismo a suo tempo era riuscito a sconfiggere in seno al movimento
operaio, ma che riemergono ora sotto il peso della sconfitta e dell’impotenza di
fronte alle burocrazie” (P. Broué – Rivoluzione in Germania 1917-1923 –
Einaudi). Nell’ottobre del 1919 dalla spaccatura del KPD nasce il KAPD e nei
mesi sucessivi tutta una serie di gruppi internazionali, gli iWW americani, gli
Shop Stewards inglesi, la frazione di Bordiga in Italia respingevano
l’impostazione tattiva di Lenin ed il Partito Bolscevico (è del 1920 l’opusclo
di Lenin su “L’estremismo, malattia infantile del comunismo)
L’anello di congiunzione delle varie tendenze costitutive dell’Internazionale
Comunista (bolscevica, la sinistra marxista della Seconda Internazionale, le
varie tendenze anarchiche e sindacaliste) era costituito
dall’identificazione del potere inteso come democrazia proletaria, fondato su
istituti nuovi quali i soviet (i consigli degli operai), dei contadini e dei
soldati in contrapposizione alla democrazia parlamentare difesa dai
partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale. In sostanza la tematica
consigliare non fu un patrimonio esclusivo di alcuni gruppi (come i Tribunisti
olandesi e gli operaisti tedeschi), ma fu uno degli aspetti programmatici
fondamentali presenti all’atto di nascita del movimento comunista
internazionale.
Le deformazioni delle tendenze di estrema sinistra riflettevano,però, la fiducia
del “movimento-tutto” contrapposto alla teoria e alla prassi di Partito , il
legame tra lotta immediata e lotta prospettica veniva meno, gli “estremisti”
sottovalutavano l’importanza del ruolo del partito, sopravvalutando la spinta e
la spontaneità delle masse come fattore sul quale si sarebbe determinato la
direzione politica: la sconfitta della rivoluzione tedesca del novembre del 1918
e di quella ungherese non fu recepita e capitalizzata dai “sinistri” per
comprendere che non erano sufficienti le condizioni di crisi e la combattività
delle masse per far trionfare le rivoluzioni.
Lenin e l’estremismo
Solo quando esiste un nucleo solido di Partito è data la possibilità di
tentare di stringere questo legame, acuendo, partendo dalle lotte per il
pane e il lavoro, la frattura tra borghesia e proletariato.
L’esperienza del movimento operaio italiano dagli inizi del 1900 al 1923
In Italia e successivamente in Germania, la forma fascista e nazista di
dominazione capitalista nasce come risposta della borghesia alla necessità (che
diventa una necessità oggettiva per la borghesia da quando il capitalismo è
entrato nell’epoca imperialista) di centralizzare al massimo le proprie forze
con il conseguente intervento dello Stato nella direzione dell’economia. Questo
fenomeno, che fino al 1914 era sporadico o solo abbozzato, si diffuse
universalmente nel ventennio fra le due guerre mondiali. Da allora tale
intervento è divenuto permanente e sempre più massiccio. Questa tendenza al
capitalismo di Stato non modifica i rapporti di produzione, non rappresenta una
novità rispetto al capitalismo classico, anzi ne è l’estrema conseguenza. È
questo un chiaro segno della decadenza del capitalismo. Le nazionalizzazioni, i
monopoli statali ecc. non sorgono, in sistema capitalistico, come conseguenza
della prosperità economica, ma come risposta alla crisi, come mezzi per salvare
dal fallimento e perpetuare i monopoli di questo o quel ramo dell’industria; il
controllo dello Stato sull’economia nazionale serve a impedire, attraverso la
centralizzazione delle decisioni, il tracollo del sistema sotto il peso delle
sue contraddizioni. Il primo grande impulso all’estensione del controllo statale
è stato dato dalle esigenze dell’economia di guerra durante la prima guerra
mondiale imperialista; in numerosi paesi le conseguenze della guerra –
difficoltà economiche, instabilità sociale dovuta anche alla radicalizzazione
della lotta di classe in molti paesi – fecero mantenere e allargare tale
controllo anche dopo la guerra.
Dopo la prima guerra mondiale imperialista, in presenza di una grave crisi
economica, politica e sociale e di un’effettiva effervescenza delle masse
proletarie che arriva sino a tentativi di mettere in causa il potere statale
borghese. Per questi motivi, per quest’ultimo, in questo periodo, diventa una
necessità passare sopra il cadavere delle organizzazioni classiste
smantellandole (soprattutto in paesi come l’Italia e in Germania). Il
sindacalismo anche quello riformista, è considerato un pericolo, non in sé, o
per presunte velleità rivoluzionarie di esso, ma per il ponte che si sarebbe
potuto creare nel corso di un processo rivoluzionario tra l’organizzazione di
massa di difesa economica immediata e il partito rivoluzionario, nonostante
la volontà collaborazionista dei dirigenti riformisti.
Resta anche per il fascismo la necessità di avere una qualche forma di politica
sindacale con compiti di mediazione e di tramite nei confronti della classe
operaia affidati ai sindacati di Stato dentro il quadro dell’ideologia
corporativa.
Il corporativismo è la dottrina politica elaborata dai teorici dello Stato
fascista. Esso costituisce il fondamento ideologico di quel diritto pubblico che
prevede una disciplina organica delle forze produttive. L’ideologia corporativa
assume le forze produttive come entità omogenee, sotto il profilo sociale ed
economico e in ordine al supremo interesse della potenza nazionale. Il diritto
corporativo disciplina le forze produttive in quanto corpora le organizzazioni
delle parti sociali, trasformandole, appunto, in corporazioni cui si
attribuiscono funzioni costituzionali di carattere normativo, consultivo,
conciliativo. La corporazione associa, attraverso la coazione giuridico –
militare, lavoratori e proprietari all’interno di ciascun settore della
produzione, realizzando contemporaneamente il controllo/repressione e la
rimozione della lotta tra le classi. I sindacati corporativi (che organizzano
padroni e lavoratori, in linea verticale di continuità) definiscono i contratti
collettivi di lavoro. La Magistratura corporativa del lavoro previene o risolve
i conflitti di lavoro, in un contesto, dove il divieto di sciopero, sanzione
giuridica necessaria contro l’attività sociale dei lavoratori, è ideologicamente
pareggiato dal divieto di serrata, sanzione giuridica superflua data la diretta
repressione statale dello sciopero. Il fine politico del corporativismo è la
potenza imperialistica della nazione, cioè la potenza dei capitalisti.
Il sindacalismo fascista attrasse in Italia, ex dirigenti sindacali (come gli ex
segretari della CGL Rigola e D’Aragona). Infatti, lo scioglimento della CGL fu
effettuato non solo con la violenza squadrista (borghese) diretta, ma anche con
l’adesione al regime dei vecchi bonzi riformisti.
Formalmente, è diversa la via che lo Stato prese nei confronti del Sindacato nei
paesi a regime politico democratico borghese. Qui, a differenza che nel
fascismo, non si tratta di coazione aperta, ma la “libera” azione sindacale
divenne sempre più nella sostanza, dipendente dalle esigenze del capitalismo
nazionale. Alla classe operaia si chiede ciò che il fascismo chiede ai proletari
sottomessi al suo gioco: di farsi responsabili esecutori degli interessi
nazionali, di “tutto il popolo”, di legarsi al processo di centralizzazione e
concentrazione del capitalismo imperialista. I due metodi (dittatoriale fascista
e democratico) non si oppongo quanto al fondo, e danno anzi luogo a curiose
osmosi, di cui l’esempio tedesco è ricco d’insegnamenti. Quando nel 1878,
Bismarck cominciò ad avviare la legislazione antisocialista, adottò nello stesso
tempo, una politica di riforme sociali (creazione di un sistema di assicurazioni
contro infortuni e malattie, pensioni di vecchiaia ecc.). Nel 1890 (con la
defenestrazione di Bismarck) la borghesia trovò più proficua la linea
dell’inserimento legale del movimento operaio nei gangli dello Stato: ne sarà
premiata nel 1914 con il passaggio del riformismo politico e sindacale al più
spietato social – sciovinismo.
La forma d’integrazione “democratica” del sindacato tiene finché è possibile
tacitare la classe con consistenti briciole (economiche e politico-sociali). Al
di là di questo resta il ricorso della borghesia al fascismo o, sulla sinistra,
a forme come il governo delle sinistre, in cui si demanda il compito di condurre
la “lotta dura” per strappare alla borghesia il “controllo” sulla vita economica
nazionale, ovvero (dove il gioco funziona) per sostituirsi ad un certo personale
dello Stato borghese come classe dirigente nazionale, capace di rilevare la
macchina inceppatasi dell’economia e della società borghesi. Quest’ultimo caso
rappresenta il limite estremo della mistificazione borghese, in quanto è il
trionfo del Capitale impersonale, retto sulle spalle dei proletari e all’insegna
delle bandiere rosse; esso è il trionfo della democrazia imperialista quale
massimo esempio di concentrazione totalitaria delle forze borghesi.
Sindacalismo rivoluzionario, anarcosindacalismo e consigliarismo come risposta
al riformismo
Il sindacalismo rivoluzionario.
La crescente integrazione delle organizzazioni politiche e sindacali del
movimento operaio, in questa fase, non si estendeva ad una gran parte del mondo
del lavoro. Erano esclusi, in misura diversa da paese a paese, quote più o meno
consistenti (per quanto eterogenee) di lavoratori: un esteso comparto
dell’artigianato francese minacciato dal procedere dell’industrializzazione,
fette consistenti di lavoro dequalificato e marginale, britannico e
nordamericano, stuoli di contadini senza terra. Un insieme, come si vede, di
frazioni di classe accomunanti dalla loro posizione periferica, ma ancora
consistente della forza-lavoro. Il mentore del sindacalismo rivoluzionario fu,
senza dubbio, G. Sorel, che aggiunse profondità e spessore al progetto
sindacalista (pur intrattenendo che dei rapporti sporadici col movimento
sindacalista e non avendo mai un coinvolgimento diretto con esso, anche perché
la sua avversione assoluta per la società borghese lo rendeva insofferente e
ostile verso le conquiste e i miglioramenti parziali perseguiti invece dalle
organizzazioni operaie). Il sindacalismo rivoluzionario faceva leva sulla
profonda, radicale insoddisfazione nei confronti della società borghese nei suoi
tratti fondamentali, in primo luogo verso la sua forma democratica di governo
politico delle masse. Ad essa era imputata il suo
inconfessabile conservatorismo, lo pseudo egualitarismo e la narcotizzazione
delle masse dovuto all’emergere di una casta professionalizzata di
professionisti della politica, cresciuta con il sistema parlamentare e
le sue compagini partitiche. Ciò che i sindacalisti rivoluzionari mettevano
soprattutto in discussione era la capacità di queste istituzioni a rappresentare
i reali bisogni dei lavoratori, alla quale era contrapposta l’azione diretta,
cioè il rifiuto di qualsiasi forma di delega e l’impegno individuale nella
trasformazione della società. All’artificialità dei rapporti politici,
opponevano la naturalità dei rapporti economici, al cittadino il produttore, al
partito la classe operaia organizzata nel sindacato. Lungi però dall’adagiarsi o
rianimare i sindacati esistenti, i sindacalisti rivoluzionari si dedicarono
all’edificazione di organizzazioni operaie alternative a quelle
esistenti. L’esautorazione della politica a vantaggio dei
rapporti economici produttivi rendeva, ai loro occhi, superflua l’elaborazione
di una linea strategica. A essa, era contrapposta la capacità di individuare il
momento più propizio all’attuazione dello sciopero generale, che avrebbe, così,
bloccato l’intera attività produttiva fino al collasso definitivo del
capitalismo. Poiché il lavoro era considerato l’unico elemento vitale
dell’ordinamento sociale e lo Stato borghese non sarebbe stato in grado di
fronteggiare una paralisi totale del sistema produttivo, lo sciopero
generale s’identificava con la rivoluzione. L’obiettivo primario del movimento
era quindi l’abbattimento della società capitalista, la sua sostituzione con la
società dei produttori ed erano, perciò, avversari acerrimi del socialismo della
Seconda Internazionale e delle organizzazioni sindacali legalitarie.
Il sindacalismo rivoluzionario non vedeva nella centralità operaia, come classe
che lotta politicamente per sè contro tutte le frazioni borghesi l’elemento di
fondo: le lotte locali, di azienda o di categoria, in quanto lotte
economiche, andavano bene, purché se ne togliesse il veleno della collaborazione
di classe per arrivare al rovesciamento del potere borghese e all’espropriazione
dei padroni. Questa visione dello sciopero generale
espropriatore, riduceva, alla fine, la conquista della società alla lotta dei
lavoratori per la gestione ed il controllo delle fabbriche.
Le divergenze teoriche tra quello che era definito “marxismo ortodosso” e
sindacalismo rivoluzionario erano profonde. I teorici
del sindacalismo rivoluzionario respingevano l’impianto teorico della Seconda
Internazionale, che veniva identificato nelle posizioni di Kautskj. Essi (e
sotto certi aspetti non avevano torto) lo consideravano un determinismo storico,
che teoricamente portava al fatalismo e nella pratica al riformismo.
Quello che i sindacalisti rivoluzionari respingevano , non era tanto il marxismo
in sé, quanto l’evoluzionismo automatico della socialdemocrazia : quella strana
miscela tra Marx , Darwin e Spencer e altri pensatori positivisti, che
era allora spacciato per marxismo. A dire il vero nell’Occidente, la prima
generazione di intellettuali che dichiarò di utilizzare l’analisi marxista, era
nata attorno al 1890 e fondeva in maniera naturale Marx con le influenze
culturali radicali borghesi prevalenti all’epoca. Per molti di loro il marxismo,
per quanto teoria nuova e originale, apparteneva alla sfera generale del
pensiero progressista, sebbene politicamente più radicale e connesso
specificamente al proletariato.
Vediamo di fornire sinteticamente qualche ragguaglio sulle esperienze nazionali
più significative del sindacalismo rivoluzionario.
La Cgt in Francia prima del 1914
Centro d’irradiazione del movimento rivoluzionario in Europa fu la Francia, sia
per precocità che per originalità e complessità di quel movimento, che fornì il
modello alle esperienze successive.Esso dovette la sua vitalità a un insieme di
fattori economici, politici e ideologici. Il ritmo relativamente lento
dell’industrializzazione in Francia aveva perpetuato molti piccoli laboratori,
soprattutto nel settore dei beni lusso come la seta, i pizzi, la porcellana e i
gioielli. In parte a causa di ciò, il movimento sindacale francese si sviluppò
su base geografica piuttosto che lungo direttrici industriali o di mestiere.
Un’istituzione chiave fu la Bourse de Travail locale, che combinava in sé i
ruoli di una Borsa di Lavoro (nel senso letterale del termine), di un circolo
sociale e culturale operaio e in seguito, di un organismo sindacale. La
dimensione municipale, prefigurava il modello federativo della società
preconizzata da P. J. Proudhon e conferì loro una flessibilità ignorata dalla
rigida e gerarchica tradizione corporativa. Ideatore delle Borse di Lavoro fu F.
Pelloutier. Alla fine del XIX secolo una folta pattuglia di anarchici, messi in
crisi dall’isolamento in cui li aveva gettati
l’ultima ondata terrorista, confluì nelle Borse. La nuova appartenenza finì per
avere la meglio su quella originaria, al punto che costoro furono sconfessati
dal movimento anarchico. In questo periodo i sindacati francesi guadagnarono un
assetto stabile con la fondazione della Cgt nel 1895, alla quale aderirono tanto
le Borse che le federazioni di mestiere, costituite in sezioni autonome.
A livello politico, il sindacalismo francese era condizionato dalla molteplicità
dei partiti socialisti presenti nel paese. Mentre negli altri paesi europei si
svilupparono partiti socialdemocratici unitari di massa, fu quindi “naturale”,
per il movimento sindacale di tali paesi, essere affiliato a quei
partiti. In Francia, però, negli anni ’90 del XIX secolo, c’era una mezza
dozzina di partiti socialisti che si batteva l’uno contro l’altro e che davano
luogo a scissioni in continuazione.
Perciò quando fu fondata la Cgt, non c’erano solo anarchici ben noti come
Pouget, ma anche socialisti riformisti dichiarati (i “possibilisti”) e i
giacobini di vecchio stampo. L’indipendenza dei sindacati dai partiti politici
rappresentò, inizialmente, un adattamento empirico alla peculiarità della
situazione francese, e soltanto in seguito fu sancita dalla dottrina sindacale.
Pelloutier, uno dei suoi teorici, mirava a liberare il movimento operaio
francese sia dai “maestri parlamentari”, i quali affermavano che “qualsiasi
trasformazione sociale è subordinata alla conquista del potere
politico”, sia, dai “maestri rivoluzionari” i quali sostenevano che “nessuna
iniziativa socialista sarebbe stata possibile prima del cataclisma
purificatore”. Il sarcasmo, verso i “maestri rivoluzionari”, era diretto
principalmente verso i blanquisti, fautori dell’insurrezionalismo.
All’azione parlamentare e all’insurrezione i sindacalisti contrapponevano, come
si diceva prima, lo sciopero generale. La Carta di Amiens della Cgt, del 1906,
dichiarava che l’organizzazione “prepara l’emancipazione integrale, che non può
realizzarsi se non attraverso l’espropriazione dei capitalisti e preconizza come
mezzo di azione lo sciopero generale”.
Sebbene la sconfitta della Comune di Parigi fosse ancora ben viva, i
sindacalisti della Cgt supposero, implicitamente, che la borghesia francese
fosse “troppo civile” da ricorrere al terrore di massa contro la classe operaia
in difesa della sua proprietà. Nonostante le sue denunce contro il
parlamentarismo, la dottrina sindacalista, si basava, a su modo, su una serie di
illusioni nella democrazia borghese.
Una delle precondizioni, per uno sciopero generale rivoluzionario, risiedeva
nell’organizzazione della stragrande maggioranza degli operai nel
movimento diretto dai sindacalisti. La strategia sindacalista implicava che la
rivoluzione socialista fosse una prospettiva relativamente a lungo termine. Ma
nel 1901, soltanto il 10% degli operai francesi erano membri di un qualche tipo
di organizzazione sindacale. Un decennio dopo soltanto, un operaio industriale
su sei era sindacalizzato, e uno su dieci era iscritto alla Cgt. Persino
all’apice della loro forza e della loro influenza, i sindacalisti francesi non
ebbero la capacità organizzativa di mettere in pratica il loro programma
di sciopero generale per “espropriare la classe capitalista”.
Quando nel 1905, le diverse fazioni socialiste si unificarono per formare la
Sfio (Section Françaisede L’Internationale Ouvrière) i sindacalisti dovettero
definire i propri rapporti rispetto ai partiti che rivendicavano di
rappresentare la classe operaia. La risposta fu la Carta di Amiens, che era una
dichiarazione di indipendenza da tutti i partiti politici. Al parlamentarismo
della Sfio i sindacalisti della Cgt contrapposero l’azione diretta. Che cosa
tale termine significasse concretamente fuspiegato nel 1905 da E. Pouget
nel testo “Le Syndicat”: “Se il miglioramento che chiedono è un problema di
azione di governo, i sindacati perseguono tale obiettivo attraverso la pressione
di massa sulle pubbliche autorità, non cercando di portare in parlamento dei
deputati ad esso favorevoli. Se il miglioramento ricercato deve essere strappato
direttamente ai capitalisti (…) i loro mezzi sono svariati, sebbene seguano
sempre il principio dell’azione diretta. A seconda della situazione, essi fanno
uso dello sciopero, del sabotaggio, del boicottaggio, dell’autorità del
sindacato”.
Bisogna rilevare che, fondamentalmente, l’azione diretta era considerata e
motivata come un mezzo più efficace della pressione parlamentare per strappare
delle concessioni ai capitalisti e al governo.
In effetti, per oltre un quinquennio, la Cgt mise in atto una sorta di
mobilitazione permanente che gettò la borghesia francese in un clima di profonda
inquietudine. L’ondata di scioperi che caratterizzò il 1906, che
sembrava preludere ad uno sbocco insurrezionale, fu ben presto troncatadalla
repressione governativa. Anche lo sciopero ferroviario del 1910, fu
schiacciato rapidamente quando il governo incorporò i lavoratori nell’esercito e
militarizzò le ferrovie. Comunque, tutti gli scioperi che la Cgt proclamò in
questo periodo, avevano come scopo immediato e diretto l’ottenimento, da
parte dei lavoratori contro i capitalisti (e il loro governo), di salari più
alti, di giornate lavorative più brevi e di migliori condizioni lavorative. I
sindacalisti rivoluzionari francesinon s’impegnarono mai in scioperi – neppure
in scioperi di protesta – per obiettivi politici.
Queste sconfitte ebbero delle conseguenze sulla Cgt e nel movimento operaio
francese. La Cgt vide dimezzare i propri iscritti (i 700.000 aderenti nel
1911 si ridussero a 300.000 tre anni dopo), mentre al contrario la Sfio
riusciva a far crescere il suo credito negli ambienti operai, soprattutto grazie
a due grandi campagne: la prima, è quella contro il carovita, in favore della
creazione di cooperative di consumo e di servizi pubblici municipali, la
seconda, si svolse contro la “legge dei tre anni”, che allungava di un anno la
durata del servizio. Senza tenere conto di queste due grandi campagne nazionali
e del riscontro che ebbero, non si spiegherebbero né l’aumento delle adesioni al
partito, né il successo elettorale della primavera del 1914. La Sfio, che al
momento della sua nascita nel 1905 aveva 34.000 aderenti, nel 1914 ne aveva
quasi 90.000 e raccoglierà nelle elezioni del 1914 più di 1.400.000 voti (quasi
il 17% degli elettori), che le varranno l’elezione di 102 deputati.
Il predominio del sindacalismo rivoluzionario in seno al movimento operaio
francese coincise con la minaccia di una guerra imperialista su scala europea.
L’antimilitarismo fu quindi un elemento chiave della dottrina sindacalista
francese, e il congresso della Cgt del 1908 a Marsiglia adottò la seguente
risoluzione: “Il Congresso ripete la formula della (Prima) Internazionale: ‘Gli
operai non hanno patria’; e aggiunge: Visto che, di conseguenza, ogni guerra non
è che un oltraggio contro i lavoratori, e si tratta di un mezzo sanguinoso e
terribile per distoglierli dalle loro rivendicazioni, il Congresso dichiara
necessario, dal punto di vista internazionale, istruire i lavoratori affinché in
caso di guerra rispondano alla dichiarazione di guerra con la dichiarazione di
uno sciopero generale rivoluzionario”.
Queste dichiarazioni rimasero in realtà solo delle belle parole. Quando giunse
il momento della verifica, nell’agosto del 1914, la Cgt non fece nulla. Nessun
appello allo sciopero generale e neppure una manifestazione contro la guerra. Un
certo numero di dirigenti della Cgt, in particolare il suo segretario generale
Léon Jouhaux, annunciarono immediatamente il loro appoggio alla guerra e, in
seguito collaborarono strettamente con il governo nel mobilitare la classe
operaia al macello imperialista. Quei militanti sindacalisti che, come Pierre
Monatte e Alfred Rosmer, rimasero fedeli ai principi dell’internazionalismo
proletario, si ritrovarono a far parte di una minoranza isolata all’interno di
un’organizzazione in cui, soltanto qualche giorno prima, erano ancora delle
figure dirigenti e rispettate.
Le scelte della Cgt, erano state prefigurate in precedenza da tutta una serie di
scelte che aveva preso e dalla prassi che tenne in determinati momenti della
storia politica francese ed europea. Durante la crisi marocchina del 1905 – una
diatriba interimperialista che aveva come posta in gioco l’influenza e il
controllo sul Marocco – tutti in Francia pensavano che la guerra con la Germania
potesse scoppiare da un momento all’altro. I dirigenti della Cgt non fecero
nulla di più che convocare manifestazioni e pubblicare manifesti. Non vi fu
alcun tentativo di organizzare scioperi di protesta contro le mire imperialiste
del proprio paese. Quando nel 1913 il governo francese estese la durata del
servizio militare obbligatorio, dai due ai tre anni, i dirigenti della Cgt
respinsero l’eventualità di proclamare uno sciopero generale contro
questo provvedimento che era largamente impopolare.
L’antimilitarismo della Cgt, in definitiva, era quasi esclusivamente e
uniderezionale di opposizione alla guerra contro la Germania. Quando nel 1911 le
truppe francesi repressero in Marocco una ribellione e nell’anno seguente il
Marocco fu formalmente trasformato in protettorato francese, la Cgt non mosse un
dito. La direzione della Cgt fu effettivamente indifferente alle conquiste
coloniali dello stato imperialista francese.
I sindacalisti rivoluzionari francesi, in sintesi, limitarono l’azione diretta
solamente nella sfera delle relazioni economiche, tra gli operai
e i capitalisti. Probabilmente uno dei motivi di tutto ciò, fu l’adagiarsi ai
pregiudizi nazionalisti presenti in molti operai della Cgt( Se i dirigenti della
Cgt avessero dichiarato uno sciopero contro l’intervento militare francese in
Marocco, rischiavano di incontrare una significativa opposizione all’interno
delle loro file che poteva portare, perfino, a una scissione).
I sindacalisti rivoluzionari francesi organizzarono e diressero
un’organizzazione operaia sulla base di un tradeunionismo combattivo. Essi non
preparano mai realmente i lavoratori che dirigevano e influenzavano ad uno
scontro decisivo con lo Stato borghese, ma piuttosto si adattarono sempre più
alla coscienza politica della loro base.
Il sindacalismo rivoluzionario italiano.
Il movimento sindacalista francese fu, a un tempo, il terreno di coltura del
sindacalismo europeo e la sua espressione più moderata. Esportate in Italia e in
Spagna, le dottrine del sindacalismo rivoluzionario assunsero espressioni più
radicali.
Anche a causa dello scarso sviluppo industriale, la diffusione del movimento
socialista e sindacale era prevalentemente concentrata nelle aree
centro-settentrionali, inoltre, la presenza socialista mostrava una forte
caratteristica provinciale; il PSI si mostrava radicato in molte realtà più
periferiche rispetto alle linee dello sviluppo industriale e tra i contadini in
primo luogo della Pianura Padana. Una delle forme peculiari dell’insediamento
socialista in quest’area fu rappresentata proprio dal nesso strettissimo che –
in seguito alla progressiva conquista da parte dei socialisti di molti
comuni, nel ventennio che precedette l’avvento del fascismo – si venne a
stabilire tra Leghe agrarie, le amministrazioni comunali, che si fecero
promotrici della municipalizzazione di alcuni servizi e il movimento
cooperativistico.
In ogni caso, la complessiva debolezza del movimento operaio italiano si
rifletteva nel rapporto tra il PSI e le organizzazioni sindacali, che nel
corso di tutta la fase che precedette il fascismo si rivelò complesso. Il
movimento sindacale si era strutturato secondo le due modalità organizzative
prevalenti: le federazioni di mestiere e le Camere del Lavoro. Le federazioni di
mestiere erano sorte nella maggior parte dei casi ai primi anni del Novecento e
avevano conosciuto una rapida diffusione nazionale arrivando a contare nel 1902
altre 200.000 iscritti. Si trattava di strutture che organizzavano verticalmente
le diverse categorie operaie. La maggioranza delle federazioni di
categoria, salvo alcune eccezioni (come la Federazione dei ferrovieri),
costituirono dei punti di forza dei settori riformisti del PSI. Sorte sul
modello francese, con il carattere di ufficio di collocamento e di arbitrato
nelle vertenze sindacali, le Camere del Lavoro avevano avuto una grande
diffusione negli anni Novanta dell’Ottocento. Queste strutture riunivano
orizzontalmente e in conformità a un criterio territoriale tutte le categorie di
lavoratori. Col passare degli anni avevano allargato le loro funzioni fino a
configurarsi in molte realtà come centri propulsivi delle organizzazioni operaie
e di resistenza. Questo tipo d’istituzioni, conobbero all’inizio del Novecento
una notevole generalizzazione (da 14 che erano nel 1900, diventarono 76 nel
1902). Malgrado che nei loro statuti facessero professione di apoliticità, le
Camere del Lavoro in molte città, giacchéorganizzavano anche i lavoratori non
qualificati e i disoccupati, vedevano al loro interno una forte presenza
anarchica ed esprimevano un atteggiamento politico più radicale rispetto alle
Federazioni di mestiere.
In Italia, il movimento sindacalista nacque all’interno del PSI e fu
originariamente diretto da uomini che ci consideravano marxisti ortodossi. Il
primo organo del sindacalismo rivoluzionario italiano fu il
giornale L’Avanguardia socialista, fondato nel 1902 da Arturo
Labriola (questi conciliatosi con il nemico sarà il ministro del Lavoro che
verrà mandato dal governo Giolitti a cercare di concilare la Fiom con gli
industriali nell’occupazione delle fabbriche negli anni ’20, in modo che il
movimento non travalicasse la lotta per le rivendicazioni economiche e si
allargasse l’agitazione sul terreno politico e della lotta di piazza) . Gramsci
definì il primo sindacalismo italiano come: “l’espressione istintiva,
elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco con la
borghesia e per un blocco con i contadini”.
L’ala sindacalista del PSI fu per cinque anni percepita come una sorte di
parafrasi dell’esperienza d’oltralpe in chiave socialista, ben rappresentata
dagli scritti di Arturo Labriola.
In occasione del Congresso regionale lombardo del PSI svoltasi a Brescia nel
1904, la corrente sindacalista fece approvare una mozione che dichiarava:
“Riaffermando il carattere permanente ed intrasigentemente rivoluzionario e
contrario allo Stato borghese dell’azione proletaria, il Congresso dichiara
degenerazione dello spirito socialista la trasformazione dell’organizzazione
politica della classe operaia in partito prevalentemente parlamentare,
costituzionale e possibilista monarchico; respinge quindi come incoerente con il
principio della lotta di classe e con la vera essenza della conquista proletaria
dei pubblici poteri ogni collaborazione del proletariato colla borghesia, sia
mediante la partecipazione a qualunque Governo monarchico o repubblicano di
iscritti al partito, sia mediante l’appoggio a qualunque indirizzo di Governo
della classe borghese”.
Al Congresso nazionale del PSI che si svolse Bologna (1904) le correnti di
sinistra del PSI (gli intransigenti di Ferri in alleanza con i sindacalisti
rivoluzionari), che nel mese precedente avevano assunto il controllo di alcune
delle più importanti federazioni socialiste, conquistano la maggioranza e
assunsero la direzione del partito.
Labriola e la corrente sindacalista
rivoluzionaria propagandavano incessantemente lo sciopero generale. Appena
cinque mesi dopo il Congresso di Brescia e poche settimane dopo che il Congresso
di Amsterdam della Seconda Internazionale (agosto 1904) ebbe respinto
l’applicabilità dello sciopero generale, un tale sciopero dilagò in tutta Italia
nel settembre del 1904. Esso fu proclamato, dopo l’ennesimo eccidio di
lavoratori compiuto dalla forza pubblica a Buggeru in Sardegna, per protestare
contro la violenza repressiva scatenata dal governo nei confronti delle
manifestazioni operaie. Esso si svolse senza incidenti di grande rilievo per la
scelta dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti,
che lasciò che lo sciopero si esaurisse da solo e si risolvessee in una
sconfitta, mostrando in tal modo la forza ma anche i limiti del
movimento, mettendo in evidenza l’ineguale diffusione del socialismo nelle
diverse aree geografiche e l’assenza di un solido collegamento
politico, sindacale a livello nazionale.
I sindacalisti rivoluzionari erano consapevoli che una delle cause del
fallimento dello sciopero generale, era stato l’assenza di un progetto politico
e di un reale coordinamento tra le lotte. Ma, soprattutto, erano consapevoli che
la Direzione del PSI non aveva potuto (e neanche voleva) orientare il movimento
in senso rivoluzionario. Per i sostenitori del sindacalismo rivoluzionario,
dunque, lo svolgersi degli eventi dava un’ulteriore prova del divorzio che vi
era tra il partito socialista, riformista e il proletariato “essenzialmente
rivoluzionario”. Traggono, però, da questo sciopero generale, l’aspetto
positivo che si basava sul fatto che il nord industrializzato avesserisposto con
uno sciopero agli scontri che avevano avuto le vittime tra i lavoratori del sud.
Inoltre, per tutta la durata dell’agitazione, il centro operativo del movimento
era stato la Camera del Lavoro e non il partito, il che significava, dal punto
di vista dei sindacalisti rivoluzionari, che le
idee Soreliane iniziavano a essere applicate anche in Italia.
Gli esiti dello sciopero generale del 1904 e, più in generale, gli insuccessi
nelle lotte rivendicative del biennio 1904-1905 portarono a una riorganizzazione
del movimento sindacale, con la nascita nel 1906 della Confederazione generale
del lavoro (Cgl) – che guidata da R. Rigola (fino al 1918) diventò un caposaldo
dei riformisti. La stipulazione di un accordo formale tra la Direzione
socialista e la Cgl (Firenze ottobre 1907), che rispecchiava l’impostazione data
dal Congresso della Seconda Internazionale a Stoccarda (agosto 1907), stabiliva
che al PSI spettava la direzione del movimento politico, mentre alla Cgl
quello economico. Quest’accordo limitava l’attività del partito che, anche nel
caso di scioperi politici o di azioni di solidarietà, avrebbe dovuto procedere
in accordo con la Confederazione. I riformisti riuscirono a riconquistare
progressivamente una posizione preminente nel PSI, aiutati dalla crisi che
investì la coalizione che era uscita vincente nel Congresso di Bologna. Al
Congresso di Firenze del settembre 1908, riassunsero completamente la guida del
PSI. Il Congresso adottava la tesi di Filippo Turati su una specie di
collaborazione fra partito e organizzazione economica e poneva al bando il
sidacalismo rivoluzionario I riformisti – che potevano avvalersi dell’appoggio
della Cgl – sfruttarono a loro favore gli insuccessi che erano derivati
dagli scioperi promossi, negli anni precedenti, dai sindacalisti
rivoluzionari. Nel partito socialista l’opposizione si riduceva a sparuti ed
eterogenei nuclei della sinistra socialista: E. Longobardi criticava il partito
perchè “considerava la Confederazione del Lavoro come tutto il movimento operaio
italiano …. Nella nostra Confederazione del Lavoro si riflette così il tipo che
va prendendo il movimento operaio in altri paesi nei quali rappresenta
un’aristocrazia operaia; non è un movimento di massa, ma quello di
un’aristocrazia; la Confederazione riproduce in sè i caratteri dell’unionismo
inglese; e non ha nemmeno quelli che appaiono nelle sue ultime manifestazioni,
ma quelli distintivi del veccio unionismo”. La Confederazione Generale del
Lavoro, uscita dal Congresso di Modena del settembre 1908 con un assetto
organizzativo alquanto rafforzato, tendeva comunque ad affermare la propria
autonomia rispetto alle istanze politiche (12)
Nel luglio del 1907, in occasione di un’assemblea di sindacalisti
rivoluzionari che si tenne a Ferrara (dove le organizzazioni sindacali,
particolarmente forti , avevano organizzato con successo alcuni scioperi nel
maggio e nel giugno dello stesso anno), essi decisero di uscire dal PSI per
concentrare tutti i loro sforzi verso l’azione sindacale. In quest’ottica va
vista la loro decisione di rafforzare la presenza nella Cgl, dove già al
congresso di fondazione avevano raccolto, insieme agli anarchici, un terzo dei
voti, e potevano contare soprattutto sull’adesione di molte Camere del Lavoro.
Nel novembre del 1907, durante una riunione che ebbe luogo a Parma, i
sindacalisti rivoluzionari decisero di creare un Comitato nazionale
della resistenza, contrapposto all’organismo riformista destinato nelle
intenzioni, a raccogliere il più vasto consenso del proletariato . Una nuova
generazione di attivisti, formatasi con la frequentazione delle Camere del
Lavoro e gli scioperi duri, prende la direzione delle lotte in corso. In
effetti, già all’indomani dello sciopero generale del 1904 alcuni militanti
operai, radicalizzano la propria posizione, cominciano a dare ascolto
all’ideologia sindacalista rivoluzionaria. Il sindacalismo rivoluzionario,
acquista così un reale peso storico, tramutandosi in una forza dotata d’impatto
sociale. I più brillanti dei nuovi agitatori sindacali alla testa dei grandi
scioperi contadini del 1907 e del 1908, diventeranno i dirigenti
del sindacalismo rivoluzionario: Michele Bianchi, Alceste De Ambris, Filippo
Corridoni (uomini che concepiscono il sindacalismo come una lotta radicale, di
classe e antipartitica, convinti che un’élite operaia ben organizzata possa
sempre catalizzare attorno a sé il conflitto contro la borghesia e
(12) Nel Congresso del Partito Socialista di Firenze, apertosi 10 giorni dopo
quello sindacale, Rigola dichiarava: “ Non per recriminare, ma per dirvi che è
tempo di decidersi, metto molto chiara la questione. O il Partito avrà una
Direzione che andrà d’accordo, dove si può andare, con la Confederazione del
Lavoro nelle linee generali, ed allora il rapporto ci sarà…….Oppure. nel caso
contrario, vi diciamo fin da ora che i rapporti sono rotti. Poichè il
socialismo, in fin dei conti, non lo fanno poi tutto nemmeno i circoli
socialisti, ma lo possono fare anche le organizzazioni economiche”.
uscirne vittoriosa). Il sindacalismo rivoluzionario esprimeva le esigenze di
democrazia sindacale, di partecipazione diretta, di autonomia di classe, che
agitavano le masse lavoratrici e che venivano disattese dai riformisti. La loro
limitatezza era rappresentata dalla loro organizzazione etereogenea sul piano
politico e dal fatto che consideravano la presa del potere, come
espropriazione proletaria,della fabbrica che era in mano ai padroni, tramite lo
sciopero generalizzato. La tesi dell’élite sindacalista combattente, sarà messa
alla prova dei fatti nel 1908, con lo sciopero contadino di Parma, che vedeva
opposti gli operai agricoli all’associazione dei proprietari terrieri. Lo
sciopero inizia il primo maggio, come risposta di tutti i lavoratori alla
serrata decisa dai proprietari, giunta ormai al 43° giorno. In breve tempo la
Camera del Lavoro di Parma diventa grazie ai contributi versati dagli aderenti
al sindacato. Alto è il livello della disciplina interna e dell’organizzazione,
il che permette a più di 33.000 lavoratori di cessare ogni attività per oltre
otto settimane. Lo sciopero si chiuse con l’intervento dell’esercito, che dopo
lo scontro tra scioperanti e crumiri (protetti dalleforze dell’ordine), occupa
la Camera del Lavoro, confiscando il fondo di solidarietà e vari documenti. Il
fallimento di questa lotta provocava una drastica riduzione degli iscritti. I
sindacalisti rivoluzionari, nel maggio del 1909, tenevano a Bologna un convegno
nazionale con la partecipazione delle Camere del Lavoro di Parma, Piacenza,
Ferrara, Adria, S.Felice sul Panaro, Sampierdarena, Brescia, Vicenza, Piombino,
Ancona,, Napoli, del Sindacato ferrovieri, della Lega generale dei lavoratori di
Roma, più di 140 mila organizzati. In tale istanza, dal dibattito molto confuso,
estemporaneo e poco prospettico di inquadramento della classe operaia, usciva la
volontà di aderire in massa alla Confederazione in nome dell’”unità proletaria,
base di una seria ed intensa azione sindacale” e ribadendo la valenza dello
sciopero generale rivoluzionario “arma per eccellenza di espropriazione della
borghesia”. Per i sindacalisti, la possibilità di esercitare una qualche
influenza nella Confederazione presupponeva, quanto meno, l’inserimento nel suo
ambito di tutte le loro forze. Ciò che non avvenne. Le buone intenzioni dei
sindacalisti venivano deluse da un atteggiamento pretestuoso della
Confederazione, questa impose che l’adesione dei sindacalisti
rivoluzionari avvenisse singolarmente e non come componente di minoranza,
ridimensionandone, così, la loro rappresentanza. “Il tracollo dei sindacalisti
rivoluzionari di creare un’istituzione contrapposta alla Confederazione del
Lavoro ed il loro rientro nei suoi ranghi segnavano un indiscutibile vittoria
dei riformisti, ne rafforzavano l’egemonia e aumentavano il prestigio del
vertice dell’organismo centrale”(13). Nel congresso di Padova del 1911, il
segretario della Confederazione Rigola giustificava l’operazione di sfoltimento
dei sindacalisti riv. Sostenendo che questo era “un passo verso la serietà del
movimento operaio che bisognava fare tosto o tardi”.L’IDEA, giornale di Parma
dei riformisti, incalzava i sindacalisi perchè, se dissidenti uscissero allo
scoperto: “Chi ha un concetto diverso della rivoluzione sociale proletaria è
tempo ormai che si sbottoni senza tante riserve. Chi non crede a questa lenta e
metodica preparazione come a quella più adatta ad addurre a risultati positivi e
tangibili, chi spera nel mito dello sciopero generale espropriatore e frattanto
si limita alla ginnastica dello sciopero, condita con accenni più o meno
insurrezionali deve dire se considerare la massa operaia già preparata al gran
fato e come
(13) IL SINDACATO IN ITALIA Idomeneo Barbadoro pag.14
intende addurvela”. La confederazione per ammissione dello stesso R.Rigola, non
era stata all’altezza, nel Congresso, di tracciare le grandi direttive
dell’azione sindacale e doveva provvedere a definire le linee portanti
dell’azione sindacale, nel cui ambito dovevano operare le varie categorie, ma ne
rinviava l’attuazione a un indeterminato futuro. A nome della sinistra
socialista E.Mastracchi denunciava le violazioni confederali dei principi della
lotta di classe, i tentativi di “schiacciare qualsiasi movimento, il pericolo è
che il proletariato oggi minaccia di chiudersi in un corporativismo gretto,
privo di idealismo.”La votazione finale dava 116.584 suffragi ai riformisti,
53.118 ai sindacalisti, 10.032 agli intransigenti e 1808 astenuti. Le divisioni
nella maggioranza, però, non definiva un’impostazione necessaria a fronteggiare
la grave congiuntura economica e la contoffensiva del padronato.
Uno degli argomenti costanti della propaganda sindacalista fu quello
antimilitarista. L’impresa tripolina colse di sorpresa il riformismo politico e
sindacale. Con il precipitare degli eventi cresceva l’agitazione nella base
socialista e sindacale e cominciava ad avere tra i punti di riferimento la
Federazione giovanile del Psi e la Federterra. Nel settembre del 1911 vi fu il
tentativo di mettere in pratica lo sciopero generale contro la guerra di
conquista della Libia da parte dell’Italia. Tuttavia anche se appoggiato
(tiepidamente) dal PSI e dalla Cgl, lo sciopero non riuscì a modificare le cose
e, in più, all’interno del movimento la componente intellettuale
capitanata da Arturo Labriola appoggiò l’intervento militare (l’impresadi
Tripoli, per il Labriola, sollecitava gli “accenni della volontà
conquistatrice, contro il pacifismo borghese e il riformismo socialista, che
spingevano verso la quiete operosa e mediocre, verso uno stato di ingloriosa
pigrizia e di ben ripartita miseria.” E ai compagni di corrente, perplessi sulla
sua scelta, diceva: “Sapete perchè il proletariato d’Italia non è buono a fare
una rivoluzione? Perchè appunto esso non è nemmeno buono a fare una guerra.
Lasciate che la borghesia lo abitui a battersi sul serio e poi vedrete che
imparerà a battere la stessa borghesia! Tollerate che spazziamo la fetida
pigrizia del nostro costume. Oggi forse non c’è impresa più rivoluzionaria di
questa da tentare in Italia”), seguendol’esempio di Sorel che in quello stesso
periodo, in Francia, stava collaborando con il movimento reazionario
nazional-monarchico dell’Action Française. La borghesia italiananel 1911 operava
non solo sul piano internazionale per controllare e dominare la Libia contro gli
interessi prospettici del proletariato, ma apri contemporaneamente all’interno
del paese un’offensiva antioperaia consolidando la struttura gerarchica,
autoritaria di fabbrica, accentuando la piena flessibilità della manodopera.
L’offensiva padronale si dispiegava in una fase di bassa congiuntura e tendeva
ad indebolire oggettivamente la forza operaia ed il sindacato : la
disoccupazione aumentava a ritmi accelerati e nel 1912 la recessione segnava un
ulteriore inasprimento. I vertici del riformismo sindacale avvertivano che la
linea dell’avversario di classe affossava concretamente la loro impostazione
politica fiorita negli anni del boom, che vedeva la conquista graduale da parte
del proletariato delle leve di potere e l’illusione sulla democrazia
industriale. Gli operai più combattivi non mancavano di opporre una tenace
resistenza. “Da parte sua il sindacalismo rivoluzionario coglieva con relativa
prontezza la possibilità di ritagliarsi un notevole spazio, di operare in
proprio persino accarezzando disegni egemonici, aperte dal nuovo indirizzo
del padronato e dalle carenze dei concorrenti: e con maggior perspicacia dei
riformisti, collegava la svolta alla guerra di Libbia e ai più generali
cambiamenti del quadro italiano ed europeo. P. Fontana, constatava che il
capitalismo “progressivo, liberista, pacifico” non era ormai che un
ricordo….Cominciava quindi una fase di conflitti sociali di crescente asprezza,
che rendeva impossibile al riformismo di “incanalare una situazione
rivoluzionaria nell’alveo di una pacifica evoluzione…. In realtà, i sindacalisti
rifiutavano la prassi di arroccarsi nella difensiva seguita da gran parte degli
organismi Confederali; facevano appello alla combattività delle masse per
affrontare la sfida del padronato; e raccoglievano le spinte autonomiste e le
istanze, spesso confuse, emergenti nella classe operaia, offrendo loro mezzi di
espressione e canali d’intervento.”(14). Dopo alterne vicende, che vedevano i
riformisti perdere il controllo su alcune importanti sezioni del proletariato
italiano e al contrario il rafforzamento dei sindacalisti rivoluzionari,
quest’ultimi in un convegno indetto a Parma, a latere della manifestazione
contro la guerra, si dettero appuntamento per un congresso da convocare a Modena
e si assegnarono il compito di raggruppare e coordinare tutte le organizzazioni
dissidenti dall’indirizzo della Confederazione, organizzando per questo un
Comitato di azione diretta: la soluzione cercava di mantenersi ancora
interlocutoria con la Confederazione per evitare una connotazione scissionista:
ma, ammetteva più tardi M.Massotti, “a Parma tutti i convenuti uscirono dalle
riunioni con la matematica convinzione che si stava maturando un nuovo organismo
sindacale italiano”. Il 1912 è anche l’anno del Congresso dei socialisti
(Reggio Emilia –luglio ) dove avveniva la vittoria degli
intransigenti-massimalisti-sinistra socialista contro i riformisti, il punto
femo che era uscito dall’assise politica era l’organizzazione economica doveva
essere subordinata al partito e che il Psi aveva come interlocutore sindacale la
Confederazione del Lavoro, ma apriva un rapporto anche con le dissidenze interne
dei sindacalisti rivoluzionari per rovesciare la dirigenza riformista, nello
stesso tempo riconosceva valide le critiche di quest’ultimi al vertice
confederale, ma sconfessava nettamente la scissione. Per i sindacalisti
rivoluzionari il cambiamento che era avvenuto alla guida del partito non
modificava il loro giudizio sul Psi, restava sempre un partito parlamentarista
ed elezionista staccato dai problemi delle masse proletarie. Per
l’Internazionale, giornale dei sindacalisti, l’attacco antisocialista ne
diventava uno sport giornaliero.Tra i sindacalisti rivoluzionari, in vista del
Congresso di Modena, si apri un dibattito tra chi voleva restare nella
Confederazione (la tesi entrista di I. Bitelli sosteneva: anzichè dividere ciò
che è già unito, in questa fase in cui le condizioni del proletariato sono
depresse, bisognava riproporre l’ingresso della corrente nella Confederazione
per modificarne gli indirizzi, confermando al “Comitato dell’Azione Diretta il
carattere di coordinatore della minoranza sindacalista confederata”) e chi, come
Amilcare De Ambris, propugnava la formazione di un altro sindacato, perchè la
conquista dell’istanza confederale era “resa impossibile dagli artifizi
opposti, con squisita settaria ipocrisia, da coloro che ne detengono la
dirigenza, all’entrata delle nostre più valide organizzazioni……….La
Confedrazione non poteva che restare, malgrado tutti i nostri sforzi, qual’è
ora: un organismo chiuso ed irriducibile, dove i sindacati entrati non potranno
essere che minoranze, messi nell’assoluta impossibilità di scalfire il concetto
informatore della Confederazione stessa, la quale, lungi dal modificarsi di
fronte ai suoi insuccessi, si ostina più che mai a proseguire sulla via
intrappresa” (15)
Il conteggio finale al Congresso di Modena vedrà vincitore la mozione di A. De
Ambris con 42.114 voti, contro 28.836 di I.Bitelli e 2300 astenuti. “Pertanto,
l’Unione sindacale italiana (USI), che
(14) Barbadoro Il sindacato in Italia ( 1908-1914) pag. 174
(15) relazione al Congresso di Modena di A. De Ambris
nasceva con l’assise di Modena, da un lato divideva lo schieramento di classe,
indebolendolo nel momento in cui subiva l’offensiva padronale; e, dall’altro,
irrigidiva, con la sua stessa esistenza, le posizioni contrapposte, ostacolando
la ricerca di una linea più efficiente e di una direzione aliena dei cedimenti e
dalle avventure, consapevole degli obiettivi e dei mezzi per conseguirli.
E,inoltre, la sua genesi era sollecitata a sposare qualsiasi causa, ad assorbire
le spinte di ogni genere, senza filtrarle e incalanarle in una prospettiva
generale, con il risultato di imbarcarsi in iniziative avventate, destinate a
concludersi in disastrose disfatte dei lavoratori”(16). L’atteggiamento in
questa fase della maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari rimase, però, sul
terreno antimilitarista.Dal Congresso di Modena, l’Usi dei sindacalisti
rivoluzionari, insieme gli anarchici, organizzavapiù di 100.000 membri, alla
fine del 1913(17), allorchè la Cgl ne contava 300.000. I membri dell’USI
svolgono un’attività intensa, impegnandosi in numerose vertenze, sia nel settore
agricolo che in quello industriale. Nel 1913, l’USI diresse le maggiori
agitazioni operaie, favorita in questo anche da un certo appoggio da parte del
PSI. Gli epicentri delle lotte operaie furono prima Torino e poi Milano,
dove gli operai metallurgici s’imposero come avanguardia del
proletariato. L’Unione Sindacale Milanese (USM), a meno di due settimane della
sua costituzione, diresse una vertenza tra gli operai delle ditte
automobilistiche milanesi (Isotta Fraschini, E. Bianchi e
Alfa). L’Internazionale del 19 aprile 1913 recava, nella rubrica Cronache
operaie italiane, una breve nota,in cui s’informava che l’80% degli operai delle
tre fabbriche aveva approvato un memoriale e l’eventuale sciopero, qualora il
memoriale fosse respinto, “era opinione comune che il risultato delle trattative
fosse nullo”.(18) Poiché la previsione era esatta, lo stesso 19 aprile, gli
oltre mille operai dei tre stabilimenti si astenevano dal lavoro, iniziando uno
sciopero che si sarebbe poi esteso gradualmente ad altre fabbriche e dal 19
maggio avrebbe coinvolto tutto il comparto metallurgico, fino a raggiungere la
soglia dei 40.000 scioperanti. Nei giorni 27 e 29 maggio, lo
sciopero eraappoggiato con l’astensione di oltre 2000 tramvieri, il cui
sindacato aveva come segretario Alceste De Ambris. L’estensione dello sciopero
al personale tramviario, provocò degli scontri violenti e l’arresto di numerosi
leader sindacali e politici, tra cui Decio Bacchi (segretario del sindacato
metallurgico dell’USM) e di Filippo Corridoni (uscito a marzo dalla CGdL). I
sindacalisti rivoluzionari riuscirono a mantenere un certo grado di compattezza
e unità all’interno dei metallurgici. La Camera del Lavoro e la FIOM erano
tagliate fuori perché emarginate, a causa dalla strategia adottata in
precedenza da questa. Scriveva il Questore: “I socialisti, nella presente
contingenz, non hanno e trovano seguito per opporre serio e risoluto ostacolo
alla tendenza da cui per l’occasione sembrano dominante alcune classi
lavoratrici per l’Unione sindacale”.(19)L’atteggiamento della segreteria
nazionale della Cgl era quello della consueta tattica riformista, di
circoscrivere la lotta e di limitare la solidarietà all’aspetto finanziario,
utilizzando forme di mediazione politica, che difficilmente avrebbe potuto
funzionare data l’intransigenza degli
(16,) Barbadoro IL SINDACATO IN ITALIA 1908-1914 pag.228
(17) Secondo M. Antonioli, nel suo libro AZIONE DIRETTA E ORGANIZZAZIONE
OPERAIA, SINDACALISMO RIVOL. E ANARCHISMO TRA LA FINE DELL’OTTOCENTO E
FASCISMO, gli aderenti all’USI nel 2012 erano 87100
(18) Alla viglia dello sciopero degli automobilisti, l’Internazionale, aprile
1913
(19 ) Asmi, Pref. Mi, Gab., serie I, busta 302, Agitazione e scioperi operai,
1913, questore e prefetto, 24 maggio 1913.
interlocutori e delle autorità cittadine e centrali. Questo sciopero terminò
alla fine di maggio, con un accordo tra le parti piuttosto modesto, se
rapportato alle richieste operaie. Nel resoconto dell’Avantidell’assemblea
tenutasi all’USM per annunciare il contenuto del concordato, Pulvio
Zocchi,segretario della commissione delegata alle trattative, faceva rilevare
che “la vittoria odierna non è tanto nei miglioramenti economici conseguiti,
quanto nel riconoscimento dell’organizzazione stessa e nell’affermazione dei
suoi principi”.(20) Ma le condanne inflitte al Bacchi e agli altri organizzatori
dell’USM (Corridoni invece sarebbe stato processato agli inizi di luglio,
condannato e rimesso in libertà il 14 settembre) provacarono, due settimane
dopo, un nuovo sciopero generale cittadino, cuiaderiva anche la Camera del
Lavoro, che in questo modo tentava di uscire dal suo isolamento, ma quando ormai
lo sciopero defluiva, mentre Mussolini promuoveva attivamente la mobilitazione
e utilizzava la spinta unitaria contro il vertice della Cgl. La critica da parte
dei vertici del PSI era che“l’allargamento dello sciopero generale di Milano, in
quanto movimento economico, non era conforme ai criteri
socialisti”(Lazzari), mentre per l’ala più intransigente della sezione milanese
– Valera, Agostini, Allevi, Galassi, Pirani, Casati- era l’occasione per
dichiarare la sua “incondizionata solidarietà” e soprattutto l’intesa tra la
Camera del Lavoro di Milano e l’USM senza che la Cgl fosse preavvertita,
portarono alle dimissioni di Rigola e del Comitato Direttivo della
Confederazione. Che l’adesione della Camera del Lavoro di Milano non fosse
semplicemente di facciata lo si vide il 16 giugno, quando una folla di 40.000
operai riunita a comizio alla Casa del popolo, tentava di portarsi in corteo nel
centro cittadino, scontandosi con le forze dell’ordine che accerchiavano la
zona. Numerosi furono i feriti e i fermati, tra i quali figuravano anche il
segretario Camerale, Adelino Marchetti. Il giorno seguente, rappresentanti della
Camera del Lavoro e dell’USM concordarono la chiusura dello sciopero, riuscendo
a convincere la massa recalcitrante degli scioperanti solo con l’annuncio
dell’impegno del Prefetto a lasciare in libertà gli
arrestati. Appena terminatosi lo sciopero generale, e nel mezzo della crisi
confederale, scoppiava a Milano un nuovo sciopero, quello del materiale mobile
ferroviario, destinato a prolungarsi per i due mesi successivi. Lo sciopero,
iniziato il 19 giugno, si trasforma il 28 luglio in uno sciopero generale
metallurgico, diventato il 4 agosto uno sciopero generale cittadino e poi uno
sciopero generale nazionale, che si effettuerà l’11 e il 12 agosto, nelle zone
nelle quali i sindacalisti erano più forti e in genere nei centri industriali
del Centro-Nord, con l’eccezione di Torino, dove era in atto un’ondata
repressiva dopo la lotta conclusiva degli automobilisti. L’atteggiamento della
Camera del Lavoro appariva mutato, rispetto a quello tenuto in occasione dello
sciopero generale di maggio. In questa circostanza il vertice camerale non si
mostrava contrario all’agitazione, non tentava di ostacolarla né di
circoscriverla, bensì manteneva una posizione “neutrale” che però diventava
favorevole dopo una riunione tenutosi il 7 agosto nei locali dell’Avanti, alla
presenza di Lazzari, Rigola e Mussolini. La fine dello sciopero generale a
Milano, in conformità a un compromesso definito “un puro e semplice armistizio,
(…) un rinvio della soluzione, apparentemente per ragioni tecniche e di
elaborazione dei dati, in realtà per una precisa valutazione politica circa il
reciproco grado di resistenza delle due forze in campo”(21) era accolta con
sollievo da parte della Camera del
20 Lo sciopero automobilistico è finito. Il lavoro sarà ripreso domani, Avanti,
31 maggio 1913
21 A. Pepe, Lotta di classe e crisi industriale in Italia p.204.
Lavoro. Lo sciopero di agosto aveva mostrato non solo una leadership camerale
che inseguiva i sindacalisti, ma aveva fatto affiorare una crescente
divisione interna destinata a diventare sempre più profonda (22) e in qualche
modo a condizionare la linea della Camera del Lavoro nei mesi
successivi. Durante gli scioperi del 1913 la Cgl ebbe difficoltà enormi a
imporre le sue direttive alla Camera del Lavoro di Milano. Questo periodo di
lotta portò alla ribalta la grande fabbrica, assommando due differenti cicli di
rivendicazione, espressione della collocazione nel ciclo di produzione. Da un
lato gli operai professionalizzati in categorie come tipografi, muratori,
ferrovieri orientati verso rivendicazioni volte alla delimitazione del potere
decisionale del padronato in fabbrica, dall’altra la forza di lavoro generica,
la cui preoccupazione principale era la rivalutazione salariale in senso
egualitario e la trasformazione del cottimo. D’altronde il lento e graduale
passaggio dal sindacato di mestiere al sindacato di industria ebbe una forte
accelerazione. La categoria perse i suoi connotati corporativi, e la struttura
sindacale si adattò alle trasformazioni portando, a partire degli anni
’10, a uno spostamento del baricentro nei rapporti tra i vari livelli sindacali
a favore di quello federale, processo che troverà la sua manifestazione più
chiara negli anni della prima guerra mondiale imperialista. Alla vigilia della
prima guerra mondiale imperialista, uno sciopero generale su scala nazionale
eruppe come reazione all’uccisione di alcuni manifestanti antimilitaristi ad
Ancona. Viene dichiarato lo sciopero generale, che coinvolge tutto il paese.
Sostengono l’astensione del lavoro il PSI, la Cgl e il Sindacato dei ferrovieri
(SFI). A Milano Corridoni e Mussolini prendono la testa di numerosi
manifestanti. In qualche zona lo sciopero prende le sembianze di una e vera e
propria rivolta, come in Romagna, dove si giunge quasi alla ribellione
armata. Durante, quella che fu chiamata la “Settimana rossa” che durò dal 7 al
14 giugno 1914, molti sindacalisti rivoluzionari pensarono che fosse giunto il
momento per la rivolta generale che avevano tanto a lungo predicato, per
abbattere il governo, la monarchia e il dominio della borghesia. Ma mancando il
partito armato di una posizione politica, di un piano d’ azione per la lotta
rivoluzionaria decisiva e di una Direzione temprata, in senzo marxista, che lo
mettesse in pratica, e una coscienza di classe tra le masse ben presto lo
sciopero si esaurì.
Il sindacalismo nazionalistico in Italia
Subito dopo si profila il problema dell’intervento nella guerra mondiale
imperialista. Quasi tutte le componenti del sindacalismo concordavano che in
caso di conflitto generalizzato l’Italia sarebbe dovuto scendere in campo a
fianco della Francia e della Gran Bretagna. L’impero prussiano legato
all’Austria – Ungheria, rappresentava il simbolo stesso della reazione. Allo
scoppio delle ostilità, il sindacalismo rivoluzionario prese la testa
dell’interventismo di sinistra. Il che provocò forti dissidi all’interno
dell’USI, la quale aveva adottato nell’agosto del 1914, una risoluzione che
chiedeva all’Italia di restare neutrale, minacciando, nello stesso tempo, di
dichiarare uno sciopero generale rivoluzionario nel caso in cui il governo
avesse deciso, nonostante tutto, di entrare in guerra e quale che fosse il
campo scelto.
Il 18 agosto 1914, alla tribuna dell’U.S.M., Alceste De Ambris lancia un
violento attacco contro il neutralismo, sostenendo la necessità di aiutare la
Francia e la Gran Bretagna contro la reazione teutonica e mettendo la guerra
sullo stesso piano della rivoluzione francese. Questa dichiarazione
(22) Questa divisione rifletteva quelle che c’erano nel PSI.
a cui aderiscono alcuni sindacalisti rivoluzionari membri dell’USI (tra cui
Corridoni, il capo dell’U.S.M., che in quel momento era in prigione), provoca
una profonda spaccatura nell’organizzazione. La maggioranza guidata
dall’anarchico Armando Borghi, sceglie la neutralità, mentre l’U.S.M., la Camera
del Lavoro di Parma e un certo numero di sindacalisti rivoluzionari escono
dall’USI e fondano all’inizio dell’ottobre 1914, il Fascio Rivoluzionario di
Azione Internazionalista. Al Fascio aderisce prontamente Mussolini decidendo di
abbandonare la posizione neutralistica del PSI e cominciando la pubblicazione
nel novembre 1914 del Popolo d’Italia.
Quando l’Italia entra in guerra, l’evoluzione ideologica del sindacalismo
rivoluzionario ha aggiunto ormai un punto di non ritorno. La sintesi socialista
nazionale che era maturata prima del 1914, alla prova del fuoco della guerra
imperialista accelerò ulteriormente questo processo.
Il 1917 è l’anno della disfatta di Caporetto e della rivoluzione di ottobre. I
sindacalisti interventisti, si schierarono più che mai con la nazione (borghese)
contro una rivoluzione che mette in pericolo l’interesse nazionale e che
rappresenta un modello di una rivoluzione “distruttrice”.
Perciò è del tutto naturale che nel maggio 1918 alcuni sindacalisti
rivoluzionari, assieme alcuni socialisti autonomi (non appartenenti al PSI)
fondano l’Unione Socialista Italiana (USI), un movimento politico che si
presenta come una sintesi delle posizioni interventiste di sinistra con le
ideologie nazionalistiche. Nelle elezioni del 1919, l’USI conquista 12 seggi in
Parlamento: tra gli eletti, Arturo Labriola, che accettò il Ministero del
Lavoro, propostogli da Giolitti.
Nel giugno 1918 è fondata l’Unione Italiana del Lavoro (UIL), da parte dei
sindacalisti interventisti. L’Unione sindacale milanese e i metalmeccanici che
organizzava, la Camera di Lavoro di Parma e i lavoratori agricoli che la
componevano ne erano le roccaforti, ma ebbe influenza anche negli ambienti
sindacali repubblicani romagnoli, fra gli operai di La Spezia, nonché fra gli
impiegati, specialmente di Roma. Il sindacato si distinse per le sue posizioni
patriottiche, anti-colletiviste e anti-socialiste, per il suo progetto di
Parlamento corporativo legiferante (nell’ambito della riforma del Consiglio
superiore del Lavoro). Il giornale della Confederazione L’Italia Nostrache
prenderà in seguito il nome di Battaglie dell’U.I.L. fa suo lo slogan “La patria
non si nega, si conquista!”, e la UIL diventa, negli anni del biennio rosso, tra
il 1919 e il 1920, il centro di raccordo di un movimento che si
vuole sindacalista e nazionale.
Lo sciopero di Dalmine scoppia nel marzo 1919, dove gli operai occuparono lo
stabilimento. Per la prima volta, gruppi di operai sindacalizzati cercano di
dimostrarsi capaci di dirigere la produzione e di gestire la produzione e la
fabbrica. Ma in pochi giorni lo sciopero è represso dall’esercito. I capi
dell’agitazione appartenenti alla UIL, attribuiranno il fallimento agli intrighi
del PSI e della Cgl.
Da questo momento, l’ideologia sindacalista nazionale sosterrà l’idea della
partecipazione diretta alla gestione dell’impresa. Quando nell’agosto-settembre
1920 gli operai occupano le fabbriche, i sindacalisti della UIL ritengono che
gli operai, per evitare un intervento violento da parte dello Stato,
devono entrare in possesso dell’intero settore industriale, facendolo funzionare
appieno.
I leader del sindacalismo nazionale (com’è giusto definirli) presentano la loro
proposta di autogestione, al ministro del Lavoro Arturo Labriola e al Presidente
del Consiglio Giolitti, che riesce alla fine, con un compromesso con la Cgl, a
far cessare l’occupazione delle fabbriche.
I sindacalisti nazionali ritenevano che la vera natura del conflitto in
Italia, durante il periodo del biennio rosso, fosse anche di natura politica ma
soprattutto economica, ritengono che lo sciopero generale, per quanto provocato
da fattori economici, debba portare ad una soluzione di ordine politico, da
applicare a tutto il paese. Questa idea, avrà come sbocco una concezione di tipo
corporativista e produttivistica, in conformità a un modello economico molto
lontano dal socialismo marxista, che pur aveva costituito, quasi vent’anni
prima, il punto di partenza e la teoria di riferimento dei sindacalisti
rivoluzionari.
Quando, nel settembre 1919, scopia l’affare di Fiume, il sindacalismo
nazionale appoggia senza esitazione D’Annunzio: per la UIL, Fiume è parte
integrante dell’Italia. De Ambris, che vi aveva soggiornato alla fine del 1919,
torna nella città istriana nel gennaio dell’anno seguente, con la mansione di
Segretario di Gabinetto del Comando della città. Con questo titolo, il leader
sindacale presenta a D’Annunzio un primo abbozzo del testo che diventerà, alcuni
mesi dopo, la nuova Costituzione della città: la Carta del Carnaro. Questo
documento politico, che da molti èconsiderato una delle principali
prefigurazioni del corporativismo fascista, diventerà nel 1920 il manifesto del
sindacalismo nazionale.
L’insuccesso dell’occupazione delle fabbriche e il fallimento dell’impresa
fiumana, sono alla base della decisione presa da molti ex sindacalisti
rivoluzionari (ora sindacalisti nazionali) di passare sotto la
bandiera nazionalista fascista. Fondato da Mussolini a Milano dopo la
manifestazione di Piazza Santo Stefano, il 23 marzo 1919, il movimento fascista
conta, tra i suoi membri fondatori,eminenti dirigenti del sindacalismo
rivoluzionario, da Agostino Lanzillo a Miche Bianchi. Tra il 1919 e il 1920, i
legami tra il fascismo e il sindacalismo si fanno sempre più stretti fino al
momento in cui, verso la fine del 1920, il fascismo non mostrerà – specialmente
nelle campagne – il suo lato più violento e reazionario.
Negli anni 1920-22 si assiste al rafforzamento del fascismo come movimento
politico. Dal punto del sindacalismo, in questi anni, si tratta di sapere se sia
possibile cambiare il fascismo dall’interno oppure se, al contrario, si debba
cercare di dividerlo per recuperarne l’ala sinistra. Prevale alla fine la prima
soluzione: aderiscono al movimento fascista, allora, numerosi esponenti del
sindacalismo, compresi alcuni teorici e dirigenti di prestigio, Panunzio,
Orazio, Olivetti, Bianchi, Rossi, Dinale. Saranno quasi tutti leali servitori
del movimento e poi del regime, e lo resteranno anche quando, nel fascismo
trionfante, ben poco sarà sopravvissuto degli obiettivi del sindacalismo
rivoluzionario. (23)
L’USI dopo il 1914
L’USI resistette alla bufera interventista del settembre 1914, che testimoniava
la profonda vocazione internazionalista della maggior parte dei quadri e della
base, ma anche e soprattutto su come l’USI avesse ormai radici tanto solide
nelle realtà locali da poter resistere alla “svolta”
(23) Senza dimenticare che altri sindacalisti come Alceste De Ambris, divennero
poi degli antifascisti
interventista della sua leadership quasi al completo. Secondo un
documento, stilato verso la fine del 1917 da Armando Borghi (24), l’USI contava
48.000 aderenti, concentrati soprattutto in Liguria e Toscana (metallurgici e
minatori). Cifra non irrilevante, se si tiene conto che molte delle
organizzazioni locali, soprattutto in campo agricolo e nel settore edilizio
erano state completamente svuotate dalla chiamata alle armi. Naturalmente non è
solo con il numero delle tessere, o solo con queste, che si può valutare il peso
effettivo di un organismo sindacale, ma è certo che la stessa continuità
organizzativa in periodi così difficili – non bisogna dimenticare che l’USI non
faceva parte del Comitato di Mobilitazione Industriale – non deve essere
sottovalutata.
Alla fine del conflitto, l’USI era in grado di riorganizzare le proprie file
proprio partendo dalle posizioni conservate durante il periodo bellico. Stando
alle cifre nel 1919-1920, l’organismo avrebbe avuto 180.000 iscritti a metà del
1919, circa 300.000 gli inizi del ’20 e circa 500.000 nell’autunno dello stesso
anno. Può darsi che questi dati siano inflazionati, ma il punto è che la
sproporzione di forze con la Cgl era sensibile, ma è altrettanto vero che alcune
centinaia di migliaia di aderenti non possono essere completamente dimenticati.
L’organizzazione sindacalista tra la fine del 1922 e gli inizi del 1923 fu in
pratica distrutta. Ugo Fedeli ha scritto nella sua Breve storia dell’Unione
Sindacale Italiana (25) “In realtà, dopo l’andata al potere fascisti,
nell’ottobre del 1922, le attività sindacali erano difficilissime, e quasi
impossibile il semplice riunirsi. L’USI ebbe quasi subito le sue sedi e le sue
Camere del Lavoro distrutte; imprigionati e costretti a fuggire all’estero i
suoi militanti, essa fu costretta ad interrompere ogni attività in Italia”. Un
esposto dell’USI al Ministero dell’Interno del novembre 1922, firmato Borghi,
Giovannetti, Meschi, Negro, parlava di “quasi tutte le … organizzazioni
Sindacali e Camere del Lavoro distrutte o poste in condizione di non poter
funzionare regolarmente, specie in seguito all’occupazione delle proprie sedi
da parte delle autorità e col tacito assenso di queste”.(26) Alla fine del 1923
l’organo centrale dell’organizzazione Guerra di classe era stato chiuso dalle
autorità.
Nel 1924, anche a seguito del clima politico all’assassinio di Matteotti, il
movimento sindacalista sembrava dare segni di nuova vitalità. Nell’ottobre di
quell’anno vedeva il primo numero di Rassegna Sindacale, rivista mensile
dell’USI, uscita fino al giugno del 1925. Questa ripresa non “dovuta alla
diminuita pressione fascista, ma soprattutto all’accresciuta capacità di
resistenza delle masse alle azioni violente che tuttora si esercitano, ove più o
meno, sugli individui e sulle collettività operaie”. “In Liguria le masse
operaie hanno intensificato la loro attività organizzativa…In Puglia si è in
pieno rigoglio di riorganizzazione provinciale … subacquea…Nell’Emilia, oltre ai
gruppi sindacali, si è ricostituita qualche organizzazione provinciale nostra
per opera dei buoni elementi rimasti…In Toscana si sono accresciute le
(24) v.Antonioli, B.Bezza: Alcune linee interpretative per una storia
dell’Unione Sindacale Italiana, un inedito di Armando Borghi. In Primo Maggio,
giugno-settembre 1973
(25) In Volontà, giugno/luglio/agosto 1957
(26) As Milano, Gabinetto di Prefettura, b.1043, USI 1912-1925
relazioni con i lavoratori con i quali non era prima possibile alcuno scambio di
idee…A Milano sono state tenute parecchie riunioni di categoria, consigli di
sezione, ecc. Inoltre hanno avuto luogo due convegni nazionali e due riunioni
del Consiglio generale dell’USI”.(27))
Dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, il Prefetto di Milano ordina
lo scioglimento dell’USI. Nonstante ciò, rimanevano nei vari centri abitati
(città e paesi) dei gruppi sindacali che continuavano la loro
attività. Nonostante la continua attività repressiva da parte delle autorità
(numerosi militanti erano arrestati e molti quadri cominciavano a emigrare),
nell’aprile 1925 si riuscì a tenere un Convegno dei metallurgici liguri, in cui
si parlava di ricostituzione del Sindacato Metallurgico e di altri
raggruppamenti sindacali facente capo all’USI ligure e Convegno sindacalista
pugliese (dove furono costituiti diversi sindacati regionali d’industria).
Al Convegno di Genova fu votata una risoluzione sul problema dell’unità
sindacale dove si prospettava la “fusione degli organismi sindacali proletari
che sono sul terreno della lotta di classe” e a determinate condizioni, tra le
quali: “Assoluta autonomia e indipendenza sindacale da tutti i partiti e
aggruppamenti politici e dai governi”, “Organizzazione locale e nazionale per
industria; unione locale dei sindacati o Camere del Lavoro. Esclusione assoluta
di aggruppamenti e comitati sindacali di partito. Rappresentanza proporzionale
in tutti i congressi e nelle cariche delle organizzazioni sindacali con forte
prevalenza degli organizzati sugli organizzatori stipendiati dalle
organizzazioni sindacali. Incompatibilità a coprire cariche pubbliche per gli
organizzatori durante il periodo in cui coprono cariche o funzioni stipendiate
in seno alle organizzazioni sindacali”.(28)
Questa proposta non fu presa in seria considerazione dalla Cgl. Al VI° Congresso
della Cgl (10-13 dicembre 1924), in cui gli unitari (29) si riconfermarono
maggioranza e imponevano la propria linea, nonostante l’opposizione dei
massimalisti e dei comunisti, non lasciava nessun dubbio della scarsissima
volontà della corrente egemone nella Cgl di venire a un accordo con i
sindacalisti dell’USI.
Va detto che le polemiche più accese, in questa fase, furono fatte da quelli che
erano definiti gli “anarchici confederali”.(30) Spartaco Stagnetti ed Ettore
Sottovia, e alcuni dei nomi più illustri dell’anarchismo come Malatesta, Luigi
Fabbri e i sindacalisti dell’USI dall’altra. Fin dal 1923,Fabbri aveva posto il
problema dell’unità sindacale. Bisognava cercare i punti convergenza e lavorare
contro la scissione tra le forze sindacaliste da un lato e quelle repubblicane
dall’altro. In
(27) Rassegna Sindacale, 22 ottobre 1924
(28) In Calendimaggio, numero unico di Primo Maggio, edito dall’USI (sez.
dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori), Milano 1924
(29) Ovvero i membri del Partito Socialista Unitario (PSU). Nel 1922 a causa
delle trattative per la formazione di un nuovo governo da parte della
delegazione socialista con a capo Turati, i riformisti furono espulsi dal PSI e
diedero vita al PSU
(30) Erano chiamati così gli anarchici che erano impegnati all’interno della CGL
sostanza “L’opposizione dal di fuori assai meno efficace di quella che si
sarebbe potuta esercitare dal di dentro, non impedì alla Confederazione di
diventare mastodontica. Il colosso aveva, come s’è visto, le basi di argilla; e
le critiche dall’esterno si son viste dar ragioni dai fatti. Ma a che prò se
questi fatti hanno danneggiato praticamente, se non moralmente, tutte le
organizzazioni sindacali, anche le più ostili alla confederazione, ma agenti
sullo stesso terreno di classe?”.(31)
Verso la fine del 1924, le proposte unitarie degli anarchici che erano
impegnati all’interno della Cgl, incominciavano a farsi sentire. Ma fu
soprattutto agli inizi del 1925, cioè dopo lo scioglimento ufficiale dell’USI,
che tali sollecitazioni si precisavano in tutta la loro chiarezza. Fu
soprattutto l’intervento di Malatesta, che indubbiamente era il
più autorevole, rappresentate dell’anarchismo italiano a smuovere le acque. In
un articolo apparso su Pensiero e Volontà, dopo aver espresso il compiacimento
per la fusione della UIL e di qualche organizzazione bianca nel Cremonese e nel
Bergamasco con la Cgl, dichiarava: “Io, anche se dovessi su questo punto
trovarmi in disaccordo con qualche compagno particolarmente affezionato ad una
speciale organizzazione benemerita del proletariato italiano e più affine alle
idee e ai metodi anarchici, mi auguro che il movimento fusionista continui e
progredisca fino ad abbracciare tutti quei lavoratori che in un grado qualunque
ed un qualsiasi modo sentono l’ingiustizia cui sono vittime nell’attuale
società, che vogliono lottare contro i padroni per il miglioramento e per
l’emancipazione e che, comprendono l’impotenza in cui si trova il lavoratore
isolato, cercando nella solidarietà con i loro compagni di classe e magari si
facessero antesignani di questa tendenza, che rappresenta per l’intimo desiderio
di quel gran numero di lavoratori che si sentono fratelli con tutti quelli che
lavorano e soffrono con loro e non comprendono le ragioni di certe divisioni di
sentono sfiduciati e disgustati – non già, s’intende, perché gli anarchici
indulgano ai metodi della Confederazione Generale, ma perché cerchino di far
trionfare colla propaganda e coll’esempio metodi che credono migliori e
soprattutto fraternizzino colle masse organizzate nella Confederazione e
facciano modo, per quel che da loro dipende, che i lavoratori siano uniti e
solidali nella lotta contro i padroni”.(32)
La posizione di Malatesta non costituiva una particolare novità. La sua
convinzione, che il sindacato non potesse essere che riformista, era stata
espressa più volte, a partire dal Congresso anarchico internazionale di
Amsterdam del 1907, lo aveva portato a non favorire in modo particolare un
organismo sindacale rispetto ad un altro.
Nello stesso periodo, sulle colonne di Fede, Carlo Molaschi, una delle figure di
maggior spicco dell’Unione Anarchica Italiana, proponeva apertamente la
liquidazione dell’USI. La sua proposta, analogamente a quanto andavano a
sostenere alcuni “anarchici confederali”, era quello di creare “gruppi libertari
sindacali” all’interno della Cgl. Questa presa di posizione suscitò aspre
critiche da parte degli ambienti sindacalisti dell’USI.
Questo dibattito si trascinò, senza che nessuno modificasse le rispettive
posizioni. Quest’ultimo dibattito dimostrò l’attaccamento dell’USI all’autonomia
dal politico.
(31) L. Fabbri, il problema dell’unità sindacale, in Critica Politica, 25
febbraio 1923
(32)E. Malatesta, L’unità sindacale, in Pensiero e Volontà, 16 febbraio – 6
marzo 1925.
L’anarco-sindacalismo
L’anarco-sindacalismo è una la corrente dell’anarchismo legata al movimento
operaio attraverso il sindacalismo. È un metodo di organizzazione e di lotta dei
lavoratori attuata attraverso i sindacati che si differenzia dagli altri
movimenti anarchici poiché spesso si differenzia, instaura alleanze con altre
organizzazioni ideologicamente affini, anche se non anarchiche. Esso pone la
lotta di classe al centro delle problematiche della trasformazione sociale. In
altri termini, i militanti anarco-sindacalisti definiscono il sindacato come una
forma naturale d’organizzazione dei lavoratori in funzione emancipatrice,
antiautoritaria e rivoluzionaria; rifiutando quindi il principio dei partiti,
delle associazioni o dei raggruppamenti corporativistici. Il sindacato è quindi,
secondo i sindacalisti anarchici, una struttura che permette alle classi
subalterne di organizzare la lotta secondo le scelte individuali raggruppate in
collettivi e non secondo scelte dettate dal potere politico (in altri termini
“dal basso verso l’alto e non dall’alto verso il basso”).
L’anarco-sindacalismo ritiene che lo Stato sia un comitato esecutivo degli
interessi della borghesia, però a differenza dei marxisti ne auspicano la sua
abolizione senza nessuna forma di transitorietà (come la dittatura del
proletariato), rifiutando ogni rappresentanza politica parlamentare e non
riponendo alcuna fiducia nelle leggi e nelle istituzioni. In conformità a queste
premesse i militanti anarco-sindacalisti hanno teorizzato diverse metodologie:
lo sciopero generale a disposizione della classe operaia per riappropriarsi
degli strumenti di produzione; l’azione diretta (come l’occupazione dei luoghi
di lavoro, i picchetti ecc.), il boicottaggio e il sabotaggio (rifiuto della
produzione di determinate merci e il boicottaggio da parte del proletariato dei
prodotti in questione).
L’anarco-sindacalismo concede unicamente fiducia all’individuo singolo, immesso
però nella collettività del sindacato, invogliandolo a portare avanti un’azione
economica contro il padronato, spingendolo a riappropriarsi delle libertà
perdute e professando ideali antiautoritari.
L’anarco-sindacalismo e il sindacalismo rivoluzionario rifiutano entrambi il
dualismo organizzativo (a differenza del comunismo anarchico), in altre
parole quell’idea organizzativa che separa l’organizzazione di massa (come il
sindacato) dall’organizzazione politica. Entrambi propongono l’azione diretta
come principio fondante dell’organizzazione e per entrambi, il sindacato nasce
come rivoluzionario e si deve contrapporre al padronato e allo Stato sino allo
scontro frontale: organizzazione politica e sindacato sono quindi fusi insieme
in entrambi i modelli organizzativi.
Le differenze stanno dal fatto che mentre l’anarco-sindacalismo è per
forza anarchico, il sindacalismo rivoluzionario non è necessariamente anarchico.
Il sindacalismo rivoluzionario fu una rottura non solo nei confronti del
socialismo legalitario e riformista, ma anche nei confronti dell’anarchismo
di com’era alla fine del XIX secolo (azione individuale
terroristica, propagandismo). Esso fu un tentativo di sintesi fra la teoria
marxista dell’analisi di classe e la tradizione anarchica della lotta senza
intermediari politici. Per questo motivo tutti i movimenti rivoluzionari di
azione diretta furono etichettati alternativamente come: industrialismo
rivoluzionario, sindacalismo rivoluzionario o anarco-sindacalismo.
All’interno del movimento anarchico le idee degli anarco-sindacalisti furono
contrastate dei comunisti anarchici, i quali ritengono che
accanto all’organizzazione di massa debba operare un’organizzazione specifica,
ossia un organismo che, operando dall’interno delle masse ne sappi determinare
la coscienza e orientarle verso una direzione
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Sindacato intercategoriale.