3 ottobre: dodici anni fa, la tragedia di Lampedusa
Dodici anni fa, la tragedia di Lampedusa: 368 giovani vite spezzate a poche
centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore
sembravano ormai a un passo.
Il dodicesimo anniversario di questa tragedia arriva proprio nel clima e nelle
prassi che erigono l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri
rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3
ottobre 2013.
Non sappiamo se esponenti di questo governo e di questa maggioranza o, più in
generale, altri protagonisti della politica degli ultimi anni intendano
promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria di quanto è
accaduto. Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore di onorare i morti è
salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso
condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione che la data del 3
ottobre richiama con chi da anni costruisce muri e distrugge ponti, ignorando il
grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo.
Se anche loro vogliono “ricordare Lampedusa”, che lo facciano da soli. Che
restino soli. Perché in questi 10 anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato
quel grande afflato di solidarietà e umana pietà suscitato dalla strage nelle
coscienze di milioni di persone in tutto il mondo.
Che cosa resta, infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è
regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente
quel terribile 3 ottobre.
E, addirittura, nonostante le indagini fatte da parte della magistratura, non si
è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano
trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da
un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul
posto in pochi minuti.
La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 368
vite perdute, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni
di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma
dell’Eritrea, perché tutti quei morti erano eritrei.
Al primo “punto” si rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di
pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche,
per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare
altre stragi come quella di Lampedusa.
Quell’operazione è stata un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite
salvate. A cinque anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi
che buona parte della politica la consideri uno spreco o addirittura un aiuto
dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente dopo dodici mesi, nel novembre
2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”, moltiplicando – proprio come aveva
previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 18
aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato
nel Mediterraneo in un naufragio.
E, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e
restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino ad
arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le
frontiere della Fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati
internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai
riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud
del Mediterraneo.
Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo di Khartoum
(fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta, il trattato
con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto
all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80mila profughi), il memorandum
firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo
Governo.
Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve circa il 40
per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a
sospendere la loro attività. Oggi assistiamo a navi soccorritrici costrette a
navigare lunghe miglia in cerca di porti assegnati lontani dai luoghi di
intervento. Il porto più vicino e sicuro previsto dal diritto internazionale
marittimo è ormai lettera morta.
Le stragi si susseguono negli ultimi 12 anni come nulla fosse, il cinismo ha
soppiantato l’Umanitario.
Con i rifugiati eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla
derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di
autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri”
o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di
Asmara.
È un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando alla
cerimonia funebre per le vittime ad Agrigento il Governo ha invitato
l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce
proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese.
Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un
percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il
dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento
internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi,
inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di
fatto, gendarme anti-immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.
Fino al recente documentario La grande bugia – Eritrea andata e ritorno, mandato
in onda dalla RAI.
Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a 12
anni di distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di
un tradimento.
* Traditi la memoria e il rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro
familiari e amici. Il caso del generale libico Al-Masri è lampante: un atto
che ha calpestato la memoria e la dignità di tutti migranti e profughi.
* Traditi le migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la
feroce, terribile realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche
dopo la firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine
iniziata nel 1998. Il recente documentario mandato in onda da RAI3 La grande
bugia – Eritrea andata e ritorno è un tentativo di denigrare e sminuire il
dramma dei profughi eritrei, riabilitare il regime al potere ed è utile anche
alle politiche anti-accoglienza e di chiusura in atto in Italia e in Europa.
Ci addolora che RAI3 si sia prestata a questo pessimo atto che veicola un
messaggio profondamente distorto e fuorviante sulla realtà eritrea e sulla
fuga dei giovani dal paese.
* Tradito il grido di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso
l’Italia e l’Europa, da parte di un intero popolo di migranti e profughi
costretti ad abbandonare la propria terra: una fuga per la vita che nasce
spesso da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e
geostrategici proprio di quegli Stati del Nord del mondo che ora alzano
barriere. Tradito, questo grido di dolore, nel momento stesso in cui si finge
di non vedere una realtà evidente: “…lasci la casa solo / quando la casa non
ti lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci
/ fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai
pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…” (da
Home, monologo di Giuseppe Cederna).
Ecco: ovunque si voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa,
sull’isola stessa o da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non
si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per
cambiare radicalmente la politica condotta in questi 12 anni nei confronti di
migranti e rifugiati. Gli “ultimi della terra”.
Ricordatevi sempre che il diritto dei più deboli non è un diritto debole!