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Appello delle donne ezide al governo italiano: «Riconoscere il genocidio di Shengal»
Il 3 agosto prossimo la comunità ezida ricorderà il genocidio del 2014, quando nel distretto di Shengal (Iraq), proprio in quella data, i miliziani dello Stato Islamico (Deash) fecero irruzione nelle abitazioni e nelle vite delle e degli ezidi seminando violenza e terrore. Le avvisaglie di quanto stava per accadere c’erano e il genocidio si sarebbe potuto impedire, ma qualcosa si mosse alle spalle di questo popolo, condannandolo a un massacro. Uomini, ragazzi e donne anziane furono uccisi dai jihadisti dello Stato Islamico mentre le donne più giovani insieme ai bambini e alle bambine furono rapite. Ancora oggi, le fosse comuni continuano a restituire i resti delle uccisioni di massa. Le donne e i bambini scappati dalla prigionia invece hanno raccontato storie raccapriccianti: donne, ragazze e bambine violentate in continuazione e vendute come schiave; bambini obbligati a convertirsi all’islam e a imbracciare le armi per uccidere tutti gli infedeli, a cominciare delle e dagli ezidi, ossia dai membri della loro stessa comunità. Un genocidio in piena regola che le e gli ezidi definiscono anche come “genocidio culturale”. Lo Stato Islamico, infatti, con la sua brutalità ha mirato a cancellare il culto ezida, che venera Melek Ta’us, ossia l’Angelo Pavone, che nell’islam rappresenta Iblis, cioé il Diavolo. Ma questo popolo è tutt’altro che adoratore del Diavolo, al punto da non riconoscere l’esistenza di Satana, nella convinzione che la fonte del male si trovi solo nei cuori umani. > Lo Stato Islamico però non si è diretto verso questo popolo con l’intento di > sterminarlo per ragioni esclusivamente religiose, poiché l’attacco che ha > sferrato era dettato anche da necessità più strategiche. Nel 2014 aveva già occupato parti della Siria e dell’Iraq e il distretto di Shengal, all’epoca sotto il controllo militare dei peshmerga del KDP (Partito Democratico del Kurdistan), partito alla guida del governo del Kurdistan iracheno, era il tassello mancante per comporre il puzzle della costruzione del Califfato. L’integrazione del distretto ai territori già conquistati significava creare una continuità territoriale che permetteva di raggiungere in tempi brevi le due più grandi città del Califfato, la capitale Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq, cancellando in questo modo anche i confini disegnati dalle potenze coloniali.  Tra Daesh e il KDP era stato raggiunto un accordo con il quale il primo aveva garantito di non ostacolare l’avanzata del secondo nella ricca regione petrolifera di Kirkuk, in quel momento nelle mani del governo centrale di Baghdad, in cambio del lasciapassare su Shengal. Come la storia ci racconta, l’accordo siglato è stato rispettato da entrambe le parti e la forza devastatrice dello Stato Islamico ha travolto la comunità ezida. La paura però che la storia non venga trascritta fedelmente e che la memoria possa perdersi con il trascorrere del tempo ha spinto le sopravvissute e i sopravvissuti ezidi a impegnarsi perché questo non avvenga. Ma sono soprattutto le sopravvissute a essersi caricate sulle spalle questo lavoro e lo fanno anche attraverso le proprie organizzazioni delle donne. Le donne della comunità ezida che si riconoscono nell’Amministrazione Autonoma di Shengal, forma di autogoverno basata sui principi del confederalismo democratico espressi dal leader curdo del PKK, Abdhulla Öcalan, hanno costituito due organizzazioni femminili, il TAJE nel 2016 e l’Êzîdî Woman Support League nel 2019 (tre delle sette fondatrici di quest’ultima erano state rapite da Daesh), che operano nella società civile per supportare le ezide liberate dalla schiavitù imposta dallo Stato Islamico e per rintracciare quelle ancora nelle sue mani e liberarle, per tramandare le tradizioni ezide alle nuove generazioni e garantire loro un’istruzione adeguata ma anche per parlare del genocidio e comprenderne le cause e i suoi effetti. Le donne sono certe che la loro comunità dovrà affrontare nuove sfide insidiose e vogliono farla trovare preparata affinché sia scongiurata la sua estinzione.  > Il lavoro sociale e politico che portano avanti disegna il nuovo ruolo che > hanno nella contemporanea società ezida, che continua a fare i conti con il > lascito del genocidio. In questa società la donna ezida è una figura indispensabile e copre tutti gli spazi politici rivestiti anche dagli uomini, con la messa in pratica della doppia carica (co-presidente, co-sindaco/a, ecc.) all’interno delle amministrazioni e delle organizzazioni della società civile. L’istruzione delle bambine e delle ragazze, sacrificata per molto tempo, oggi è al centro dello sforzo collettivo della comunità che guarda a loro con occhi diversi, investendo sulla loro formazione perché possano partecipare con gli strumenti della cultura alla elaborazione e realizzazione del confederalismo democratico. Sulla scia di questo paradigma politico, le donne ezide dovranno lottare duramente contro ogni forma di patriarcato per costruire una società democratica, libera e in armonia con l’ambiente. Ma non solo. Le donne ezide non si devono limitare alla partecipazione politica e sociale ma sono chiamate a difendere la propria comunità, la propria terra e la propria cultura attraverso la resistenza armata. Infatti, mentre lo Stato Islamico faceva razzia nei villaggi e nelle città ezide conquistate, circa 350mila ezidi cercavano di mettersi in salvo scappando sulla Montagna di Shengal per evitare la condanna jihadista. Questo lungo fiume di persone affaticate e disperate era stato protetto dal HPG, l’ala armata del PKK, che era prontamente intervenuto in soccorso, nell’attesa che le cancellerie del mondo decidessero se e come aiutare quella popolazione in pericolo.  Al HPG ben presto si erano aggiunte le YPG, le unità di resistenza curde del Rojava, ma la stessa comunità ezida non era restata inerte. Tra coloro che si erano uniti alla battaglia per riconquistare la propria terra c’erano anche le donne, le quali nella primavera del 2015 avevano dato vita alle YJŞ, ossia le unità di resistenza delle donne ezide. > Le YJŞ insieme alle YBŞ, le unità di resistenza degli uomini ezidi, hanno il > compito di difendere il territorio di Shengal e l’Amministrazione Autonoma. Daesh non poteva immaginare che con il suo progetto genocida avrebbe contribuito a liberare intelligenze, energie e forze che appartengono alle donne ezide. Proprio loro che, nel disegno che aveva in mente lo Stato Islamico, avrebbero dovuto rappresentare il simbolo, insieme ai bambini ezidi trasformati in soldati, del disfacimento della cultura e della società ezida attraverso l’umiliazione della conversione forzata all’islam e degli stupri, hanno saputo interrogarsi davanti alla tragedia e a dare risposte concrete. No, Daesh non poteva immaginare che la risposta al suo progetto genocida sarebbe stato l’inizio di un cammino che porta alla liberazione della donna dalle grinfie del patriarcato. Nonostante ci sia una legge irachena, la Yazidi (Female) Survivors’ Law entrata in vigore nel 2021, che riconosce il genocidio degli ezidi e di altre minoranze da parte di Daesh e il 3 agosto venga indicata come data di commemorazione nazionale, a 11 anni dal genocidio la comunità ezida non si sente ancora fuori pericolo perché vive sotto la pressione degli interessi che il governo centrale di Baghdad e il KDP hanno sull’area, ma è soprattutto la Turchia che la preoccupa, con i ripetuti attacchi effettuati con i droni che prendono di mira i membri dell’Amministrazione Autonoma uccidendoli in quanto reputati affiliati del PKK.  Questa situazione pericolosa genera instabilità, aggravata anche dalla carenza di molti servizi e infrastrutture, diretta conseguenza della distruzione provocata da Daesh, e scoraggia il rientro delle tante famiglie ezide che ancora vivono nei campi profughi del Kurdistan iracheno. Con l’avvicinarsi del 3 agosto, il TAJE ha scritto al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e a 14 Paesi, tra cui l’Italia, per chiedere che il genocidio venga riconosciuto. In Italia la richiesta per il riconoscimento pende davanti al Governo già da cinque mesi, ossia da quando la deputata Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo, su domanda dell’Associazione Verso il Kurdistan odv, l’ha formalizzata nella seduta parlamentare del 21 febbraio.  > Il Governo italiano non si è ancora espresso è il TAJE lo esorta a farlo. Il > testo che segue è la lettera inviata dal TAJE: «Sono trascorsi undici anni dal 74° genocidio, ma le ferite non sono ancora guarite e la tragedia non è ancora stata superata. Circa 2.900 ezidi, per lo più donne e bambini, sono ancora tenuti prigionieri dai mercenari dell’IS. Il destino di centinaia di loro rimane sconosciuto. Decine di fosse comuni sono ancora in attesa di riesumazione e continuano a essere scoperte nuove fosse comuni. In 11 anni, 14 paesi hanno riconosciuto l’attentato del 3 agosto come genocidio. Come Movimento per la Libertà delle Donne Ezide, abbiamo preparato un dossier completo sul genocidio del 3 agosto 2014. Vi presentiamo un dossier contenente documenti e informazioni che dimostrano che ciò che il popolo ezida di Shengal ha subito è stato un genocidio. Vi esortiamo ad adempiere al vostro dovere e alla vostra responsabilità umanitaria e a riconoscere ufficialmente il massacro come genocidio. Come donne ezide, ci siamo organizzate nel 2015 con il nome di Consiglio delle Donne Ezide per impedire il massacro delle donne e della nostra comunità in seguito al genocidio del 2014. Abbiamo fondato la nostra organizzazione in risposta al genocidio che ha colpito le donne ezide e la comunità ezida. Abbiamo ampliato i nostri sforzi per dare potere alle donne e consentire loro di proteggersi da attacchi e genocidi. Nel 2016, abbiamo fondato il Movimento per la Libertà delle Donne Ezide” (TAJÊ) attraverso un congresso da noi organizzato. Come donne ezide di Shengal, continuiamo il nostro lavoro». L’immagine di copertina è di Carla Gagliardini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Appello delle donne ezide al governo italiano: «Riconoscere il genocidio di Shengal» proviene da DINAMOpress.
Cittadini di 54 Paesi alla “Global March to Gaza”: primo via libera tra imbarazzi diplomatici
Iniziativa popolare senza precedenti, ma Farnesina “non garantisce assistenza”. 5Stelle, “Vergognoso” Nelle ore in cui tantissime persone nel mondo occidentale hanno seguito con trepidazione il viaggio di una sola imbarcazione verso Gaza, finita dirottata dagli israeliani, un’iniziativa popolare senza precedenti promette di esercitare ancora più pressione, a livello internazionale, per la fine del massacro di civili in corso a Gaza. Si tratta della Global March to Gaza, totalmente autofinanziata da ciascuno dei partecipanti, organizzata e gestita esclusivamente dal mondo dell’attivismo e del terzo settore, e che vede già l’adesione di 54 Paesi e centinaia di migliaia di followers. Tutti variamente già in partenza. E dopo diversi tentennamenti è arrivato un primo ok ufficiale dal governo egiziano. Tra mille dubbi sulle modalità la marcia pare arriverà al Sinai. C’era infatti un comprensibile timore per un possibile tsunami di partecipanti da gestire (gli iscritti sono almeno in 3mila), ma d’altro canto anche impedire una marcia pacifica e per Gaza morente susciterebbe imbarazzo in un Pase arabo come l’Egitto.  Di sicuro non ne provoca invece all’Italia, con la Farnesina che su un suo sito ufficiale addirittura ne sconsiglia la partecipazione da giorni avvertendo che non sarà “garantita assistenza consolare”. Un comunicato “vergognoso” per il Movimento 5 Stelle, che oggi ha presentato un’interrogazione parlamentare ricordando che la Farnesina ha l’obbligo di assistere i cittadini italiani all’estero. (Vedi video qui sotto) Non è la prima “marcia” per i diritti umani della storia moderna, ma certamente è la prima nata in poche settimane, e con livelli di partecipazione popolare così ampi nonostante ogni partecipante debba in pratica prendere le ferie, pagarsi il biglietto per il Cairo e il vitto, e marciare per 50 chilometri nel deserto egiziano fino al valico di Rafah con 45 gradi. Coscienze scosse In un periodo storico dove non si raggiunge nemmeno il quorum per un referendum nel fine settimana, e dove la partecipazione si esercita con dei ‘like’ sui social, Gaza dimostra ancora una volta di avere scosso le coscienze della gente comune. Una differenza lampante rispetto all’inanità dei governi, che stano ancora facendo convegni per decidere con quale termine lessicale citare uno sterminio senza precedenti. Una presa di coscienza diffusa nonostante una strutturata disinformazione che non è riuscita ad avere la meglio e a coprire l’orrore commesso quasi in diretta, spesso con tracotanza politica. Ecco quindi che di fronte all’ipotesi di alcune migliaia di persone al valico egiziano/israeliano, dove centinaia di camion di aiuti sono bloccati, sussulta più di una diplomazia. Sarà anche sconsigliata ma intanto ai confini libici si avvicina lo spezzone algerino, tunisino e marocchino, di oltre mille persone. La Global March to Gaza ha risposto che “in merito a quanto pubblicato dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, insieme all’ambasciata d’Italia al Cairo, la Global March su Gaza sarà pacifica, non intende entrare nella Striscia e raggiungere Gaza, come non intende trasportare aiuti.  Il programma prevede invece di raggiungere Ismailia, luogo turistico e di libero accesso, e da lì marciare a piedi per circa 50 chilometri fino a raggiungere il valico di Rafah senza forzare alcuna barriera. Il tratto da Al-Aris in poi è infatti una zona militarizzata, impossibile da attraversare se non con permessi speciali. Al momento non esiste una comunicazione ufficiale da parte delle autorità egiziane né sulle misure di sicurezza né sull’autorizzazione alla marcia”.  L’Egitto, secondo quanto appreso informalmente, vede di buon occhio l’iniziativa – e come non potrebbe – ma mantiene una posizione molto prudente, facendo trapelare che dovrebbe essere la diplomazia italiana a fare richiesta per permettere la partecipazione dei suoi cittadini. Ovvio però che questo sia oggettivamente complesso nel momento in cui dovrebbe essere ripetuto per 54 Paesi. Lentezza dei governi Mentre quindi si attende cosa decideranno i governi, ancora una volta più lenti delle persone comuni, l’organizzazione della Global March to Gaza procede e si prevedono le prime partenze dall’Italia tra il 12 e il 13 giugno, con rientro tra il 18 e il 20. “Noi di Global March To Gaza – spiega Antonietta Chiodo, uno dei referenti della marcia – chiediamo che venga rispettato il diritto internazionale e che tutti si prendano la responsabilità di tutelare quei liberi cittadini che si recheranno al Cairo per una marcia pacifica che vedrà riunirsi 54 delegazioni da tutto il mondo. La tensione è molto alta ma dall’altra parte del valico si sta compiendo un genocidio e il mondo non può restare a guardare”. Africa ExPress
Considerazioni inattuali sul referendum
Il referendum precedente si è tenuto nel giugno 2022. Si trattava di 5 quesiti, presentati dalla Lega e dai Radicali, sul tema della giustizia. In particolare si trattava di: abolizione della legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, limitazione delle misure cautelari, separazione delle funzioni dei magistrati, valutazione dell’operato dei magistrati, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. In quella occasione votò soltanto il 20,4% degli aventi diritto. Tra i votanti prevalsero i sì, appena sopra il 50% per i primi due quesiti e oltre il 70% sulle altre tre proposte di abrogazione. Nel referendum del giugno 2025 i votanti sono stati il 30,6%, con un’inversione di tendenza e un aumento di partecipazione del 50% rispetto al referendum di tre anni prima. Quindi la partecipazione al referendum del 2025 dovrebbe essere considerata da tutti un fatto positivo, seppure ancora insufficiente. In particolare, colpisce la contraddizione di chi oggi sostiene che i quesiti del 2025 non interessavano agli elettori e contemporaneamente sta proponendo la riforma della giustizia, che nel 2022 aveva interessato un numero nettamente inferiore di elettori. Tra il 1974 (divorzio) e il 1995 (privatizzazione RAI) si sono tenuti nove referendum abrogativi. Soltanto nel caso del 1990 (caccia) non si è raggiunto il quorum del 50% dei votanti rispetto agli aventi diritto. Dal 1997 ad oggi si sono svolti dieci referendum abrogativi e soltanto nel 2011 (acqua pubblica e produzione energia nucleare) si è superato il quorum. L’affluenza alle urne referendarie è diminuita di pari passo con quella registrata nelle elezioni politiche. Infatti fino a metà anni ‘90 si è registrata una forte partecipazione elettorale (circa 90% alle politiche, 80% alle amministrative, 70% alle europee), con un calo progressivo negli ultimi 30 anni. Nel 2022 alle politiche ha votato il 64% degli aventi diritto, nel 2023 alle regionali della Lombardia soltanto il 42% ha espresso un voto, alle elezioni europee del 2024 l’affluenza è stata del 48%. Di fronte a questi dati il 30,6% di partecipazione nel referendum 2025 potrebbe essere riconsiderato. Ad esempio, se il quorum venisse riformulato in modo relativo anziché assoluto, cioè utilizzando come riferimento non più gli elettori aventi diritto, ma il 50% dei votanti alle ultime elezioni, la prospettiva sarebbe assai diversa. I partiti dovrebbero smetterla di promuovere o di appropriarsi dei referendum. In Assemblea Costituente Costantino Mortati spiegò che “il referendum si basa sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento”. I partiti che non fanno parte della maggioranza di governo, non riuscendo a far approvare alcune proposte, ricorrono talvolta al referendum, cercando di ottenere per via referendaria ciò che non sono riusciti a raggiungere per via parlamentare. La Costituzione prevede di norma che siano 500 mila elettori o cinque consigli regionali a proporre i quesiti referendari (art. 75). È una facoltà dei cittadini o degli enti locali. Non delle forze parlamentari. Di solito durante le campagne referendarie siamo sommersi dalle indicazioni dei partiti, mentre sarebbe più utile ascoltare le formazioni sociali, in particolare quelle coinvolte direttamente dal quesito referendario. Pensando al referendum del 2022 non aveva senso che i promotori fossero la Lega e i Radicali. Come si può ritenere inopportuno che il referendum sulla tempistica per chiedere la cittadinanza italiana sia stato promosso dal partito + Europa. Nella campagna referendaria del 2025 si è molto discusso se il voto referendario sia un dovere o se ci si possa legittimamente astenere in varie forme. La Costituzione afferma che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1), cioè sul contributo attivo di ognuno: nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nelle formazioni sociali. In particolare “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4). Inoltre, “la Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) e l’esercizio del voto (anche referendario) è “dovere civico” (art. 48). In questa prospettiva, quando si vota, non si dovrebbe scegliere sulla base del proprio interesse egoistico, ma secondo una logica di solidarietà, equità e giustizia.  Perché “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). Perché “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (art. 54). È anche opportuno ricordare che l’Italia è una Repubblica a seguito di un referendum! In un Paese con un tasso di astensionismo crescente, le istituzioni dovrebbero impegnarsi per promuovere il voto. La volontà della maggioranza dovrebbe formarsi nel procedimento deliberativo e non al di fuori di esso. Il fatto che ci siano partiti e soprattutto cariche istituzionali che invitano a boicottare un referendum è un fatto grave. Bisognerebbe almeno distinguere tra la scelta soggettiva di non votare e quella di indurre all’astensione dal voto. L’incitamento a non far funzionare correttamente un istituto di democrazia diretta (qual è il referendum) non dovrebbe appartenere a chi ricopre un ruolo pubblico, a maggior ragione se questo ruolo è stato assunto attraverso un voto. L’art 54 della Costituzione stabilisce anche che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento”. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio per la ricorrenza del 2 giugno ha scritto: “Il compito di attuare in concreto gli ideali costituzionali, di renderli vivi nella società quale costante criterio ispiratore delle scelte, è una missione mai esaurita, affidata ogni giorno anzitutto alla premura di quanti, con dedizione e competenza, prestano la loro opera nelle istituzioni e nella società civile. La Costituzione affida, infatti, a ciascun cittadino la responsabilità di concorrere alla coesione sociale del Paese”. Pertanto, invitare alla non partecipazione, al non adempimento di un dovere civico inderogabile, è un atteggiamento censurabile, incivile e tendenzialmente contrario alla Costituzione, che si è giurato di osservare lealmente.         Rocco Artifoni
Esperienze che parlano alla città
PROMUOVERE LO SVILUPPO LOCALE INTEGRALE SIGNIFICA SOSTENERE ECONOMIE DI PROSSIMITÀ, PROTAGONISMO DEGLI ABITANTI, MA ANCHE AFFRONTARE LE DISUGUAGLIANZE COME NODO STRUTTURALE. E SOPRATTUTTO, INNOVARE I PROCESSI A PARTIRE DAL COINVOLGIMENTO DEI TERRITORI. UNA RECENSIONE DI FUTURI URBANI POSSIBILI. SVILUPPO LOCALE INTEGRALE E NUOVE FORME DELLA POLITICA, A CURA DI CARLO CELLAMARE (MANIFESTOLIBRI) Laboratorio di quartiere Spazio Cantiere di Tor Bella Monaca (Roma) -------------------------------------------------------------------------------- In un tempo in cui la “rigenerazione urbana” è diventata un tema di moda nel dibattito pubblico – usata come slogan ambiguo per interventi guidati da soggetti privati, focalizzati sugli aspetti fisici e spesso incapaci di coinvolgere gli abitanti – il libro Futuri urbani possibili. Sviluppo locale integrale e nuove forme della politica (Manifestolibri), curato da Carlo Cellamare ci invita a cambiare sguardo. Partendo da una critica al modello tradizionale di “rigenerazione”, il volume ci accompagna tra esperienze territoriali capaci di mostrare altri modi di intendere la trasformazione urbana. Si tratta di attivare modelli di sviluppo alternativi, soprattutto nei quartieri segnati da disuguaglianze e marginalizzazione. La proposta che attraversa il volume è quella dello sviluppo locale integrale: un’alternativa forte a un termine, “rigenerazione urbana”, ormai spesso abusato. Questo approccio non si limita alla componente materiale, ma avvia percorsi che combinano un’azione pubblica coordinata dalle amministrazioni, il coinvolgimento dal basso e il contributo degli operatori privati. Come scrive Cellamare: “Preferisco utilizzare l’espressione ‘sviluppo locale integrale’, che esprime, in primo luogo, la necessità di ripensare il modello di sviluppo di riferimento. Senza questa prospettiva gli interventi di riqualificazione urbana […] mitigano soltanto gli effetti negativi dei processi esistenti”. Serve un approccio integrato e multidimensionale, capace di intervenire non solo sulla componente fisica, ma anche sul tessuto sociale, culturale, economico, occupazionale e simbolico del quartiere. Promuovere lo sviluppo locale integrale significa sostenere economie di prossimità, protagonismo degli abitanti, e affrontare le disuguaglianze come nodo strutturale. E soprattutto, innovare i processi a partire dal coinvolgimento attivo dei territori. Il libro è il frutto del lavoro condotto dal gruppo di ricerca interdisciplinare, da anni impegnato nelle periferie romane, del LabSU – Laboratorio di Studi Urbani “Territori dell’abitare” della Sapienza Università di Roma e dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Architettura dell’Università di Roma Tre. Non solo un volume teorico, ma anche un atlante di esperienze concrete, maturate sul campo in diversi quartieri popolari di Roma. A Quarticciolo si lavora su mappature di competenze e spazi inutilizzati per costruire filiere produttive locali e un’economia di prossimità. Nel quadrante orientale di Roma – in particolare a Centocelle-Mistica – si è sviluppato un masterplan partecipato per mappare l’infrastruttura ecologica urbana, attraverso tecnologie civiche, mettendo in rete iniziative dal basso e progettando forme innovative di gestione del territorio. I progetti educativi con le scuole di Tor Bella Monaca mostrano come l’educazione possa diventare leva di trasformazione urbana, costruendo alleanze tra scuole, associazioni e abitanti. Il Laboratorio di Città Corviale lavora sulla dimensione relazionale, utilizzando l’ascolto, la partecipazione e il portierato sociale come strumenti per un’azione di mediazione tra istituzioni e territorio, supportandone la trasformazione fisica. Infine, l’esperienza del Porto Fluviale racconta un lungo processo di autorganizzazione abitativa e rivendicazione del diritto alla casa, capace di connettere istanze sociali e azione politica, che – attraverso un percorso innovativo – si è costituito come modello per trasformare un’occupazione abitativa in un contesto di certezza e qualità dell’abitare. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Il territorio dell’educazione -------------------------------------------------------------------------------- Queste esperienze mostrano come sia possibile costruire percorsi di trasformazione urbana radicati nei territori, capaci di generare relazioni, valore, autonomia. Sono esempi concreti di azione locale che adottano un approccio critico e generativo. Il volume mette in luce il ruolo delle nuove soggettività territoriali: forme collaborative, orizzontali, radicate nei contesti locali, che esprimono capacità progettuale e politica. La collaborazione tra queste realtà e le istituzioni pubbliche è necessaria per costruire politiche orientate all’interesse collettivo. Futuri urbani possibili è un libro da usare. Uno strumento critico e operativo, pensato per chi lavora nei territori e per chi vuole cambiare la città partendo dalle relazioni, dai conflitti, dal protagonismo sociale. Le esperienze raccontate dimostrano che trasformare è possibile: aprono prospettive concrete e praticabili per costruire politiche pubbliche fondate sulla cooperazione, sull’ascolto e sull’intelligenza collettiva dei territori. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Esperienze che parlano alla città proviene da Comune-info.
Referendum: scegliere è libertà
In un tempo in cui tutto corre veloce e l’attenzione dura pochi secondi, può sembrare fuori moda parlare di democrazia, partecipazione, urne. Eppure ci sono momenti in cui fermarsi è doveroso. Giugno sarà uno di questi. Gli italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, ma come spesso accade, la reale posta in gioco rischia di passare inosservata. Tante persone, di fronte a una chiamata alle urne, scelgono il silenzio. “Non mi riguarda”, “non serve a nulla”, “tanto decidono tutto loro”. Ma rinunciare al diritto di voto non è solo un’occasione persa. È anche un cedimento. A volte inconsapevole, ma profondo. Perché ogni volta che rinunciamo a dire la nostra, qualcun altro parlerà anche per noi. In molte parti del mondo le persone lottano ancora oggi per ottenere ciò che a noi sembra scontato: il diritto di scegliere. In Iran, in Afghanistan, nella Palestina sotto occupazione, in Sudan o in Russia, votare può costare la vita. E anche in paesi formalmente democratici, le elezioni sono spesso svuotate di significato, manipolate o ridotte a formalità. Ecco perché, in Italia, ogni volta che siamo chiamati alle urne, dovremmo sentire il peso e la bellezza di un gesto che, altrove, è ancora un sogno. Per chi desidera arrivare preparato, ecco in sintesi le cinque domande su cui saremo chiamati a votare: * Volete ripristinare il diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo? * Volete eliminare il tetto massimo dell’indennizzo (sei mensilità) per i lavoratori delle piccole imprese licenziati senza giusta causa? * Volete limitare l’uso dei contratti a termine, impedendone il prolungamento oltre 12 mesi senza giustificazione? * Volete rendere il committente responsabile degli infortuni sul lavoro nei casi di appalti e subappalti? * Volete ridurre da 10 a 5 anni il tempo necessario per gli stranieri extracomunitari per ottenere la cittadinanza italiana? È importante sapere che si tratta di referendum abrogativi: votare SÌ significa voler cambiare la norma attuale, mentre votare NO significa volerla lasciare com’è. Per questo è fondamentale comprendere il contenuto di ogni quesito e votare con consapevolezza, indipendentemente dalla propria posizione. Non è necessario schierarsi. Ma è necessario sapere, conoscere, scegliere. Perché chi vota non ha solo il diritto di esprimersi, ha anche il potere di cambiare. Non sempre tutto, certo. Ma qualcosa, sì. E quando le cose non vanno come vorremmo, se abbiamo taciuto, non possiamo dire di non essere parte del problema. Esercitare il nostro voto, come il nostro pensiero, è l’unica vera forma di libertà che ci resta. Il resto è delega, abitudine, rinuncia. E a forza di rinunciare, ci si accorge troppo tardi che la libertà si può anche perdere.   Lucia Montanaro