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Un messaggio da Gaza: un po’ di respiro nella finta tregua
Abbiamo finalmente ricevuto un messaggio da Nancy Hamad, laureanda in economia a Gaza. Dopo un lungo silenzio, probabilmente legato agli spostamenti e all’organizzazione del proprio rifugio domestico costituito da tende, sempre pronte a essere levate al primo segnale di insicurezza grave, come i bombardamenti aerei o all’ennesimo ordine di sgombero da parte dell’esercito israeliano, vediamo ora com’è la situazione. Va tenuto presente che, in teoria, la qualità della vita dovrebbe essere migliorata anche se solo di qualche millesimo di percentuale, con l’ingresso di aiuti che cominciano a farsi vedere, benché col contagocce e in concomitanza con gli interminabili scontri armati ed esecuzioni sommarie di civili inermi. I massacri indiscriminati e distruzioni in linea con la shock economy che già da due anni si organizza per la ricostruzione, sono certamente calati, ma la vita è sempre più difficile, sia sul piano materiale che su quello psicologico. Questi problemi non se li pongono certo i dirigenti della famigerata Caterpillar, produttrice dei bulldozer militari che ancora spianano palazzi e ospedali e i cadaveri sottostanti, tanto che sono già in lista tra le aziende coinvolte nella ricostruzione, in questo caso per rimuovere le macerie che loro stessi hanno prodotto. Di seguito il messaggio ricevuto da Nancy. Mi trovo a Gaza e parlo con assoluta sincerità a voi e al mondo intero. Cibo e bevande sono disponibili, ma i prezzi sono estremamente elevati, rendendo impossibile acquistarli con regolarità, soprattutto perché la maggior parte della popolazione ha perso la propria fonte di reddito dopo la distruzione negli ultimi due anni, sia che si trattasse di lavori dipendenti che di lavori freelance. La catastrofe che ha colpito Gaza è incredibilmente difficile e indescrivibile. Parlando per me e la mia famiglia, non abbiamo alcuna fonte di reddito reale. Gli stipendi della Fondazione Martiri e Feriti sono stati tagliati, lasciandoci senza alcun sostegno. Dipendiamo interamente dalle organizzazioni di beneficenza. Dopo aver terminato gli studi universitari alcuni mesi fa, ho fatto domanda per diversi lavori, ma senza successo. Questa è la situazione della maggior parte dei giovani di Gaza e delle loro famiglie: non hanno alcuna fonte di reddito per soddisfare i propri bisogni a causa dei prezzi esorbitanti.   Stefano Bertoldi
Armi chimiche, segreti militari e degrado ambientale: la lunga storia del centro NBC di Civitavecchia
Nato per mettere in sicurezza le armi chimiche del Novecento, il Centro Tecnico Logistico Interforze NBC oggi è al centro di un’inchiesta per disastro ambientale. Documenti parlamentari, relazioni ufficiali e testimonianze raccontano una storia di silenzi, proroghe e allarmi rimasti inascoltati. Il laboratorio segreto d’Italia Il Centro Tecnico Logistico Interforze NBC di Civitavecchia nasce dalla fusione di due enti preesistenti nel comprensorio militare di Santa Lucia: il Centro Tecnico Militare Chimico Fisico e Biologico, dedicato alla sperimentazione nel settore NBC (nucleare, biologico e chimico), e lo Stabilimento Militare Materiali per la Difesa NBC, responsabile di sviluppo, produzione e collaudo di materiali per la difesa. Per anni, questa struttura ha rappresentato l’eccellenza della ricerca militare italiana nel campo della protezione da agenti tossici. Oggi, però, torna sotto i riflettori per ragioni ben diverse: il deterioramento dei contenitori di stoccaggio e i rischi ambientali legati alla presenza di migliaia di ordigni chimici risalenti alle guerre mondiali. L’eredità delle guerre Nel silenzio di decenni, a Santa Lucia sono state raccolte e messe in sicurezza migliaia di munizioni chimiche provenienti da tutta Italia: residuati della Prima e della Seconda Guerra Mondiale caricati con iprite, arsenico, fosgene e adamsite. Materiali estremamente tossici ma non più utilizzabili, da custodire fino alla distruzione definitiva prevista dagli accordi internazionali della Convenzione sulle armi chimiche. Il Centro divenne così l’unico impianto nazionale autorizzato al recupero e alla distruzione delle armi chimiche, assumendo nel tempo un ruolo cruciale, ma l’accumulo di materiali, la complessità tecnica e la lentezza delle procedure hanno trasformato un deposito temporaneo in una struttura sovraccarica e fragile. Dal deposito protetto al sequestro giudiziario Nel 2025, il centro è tornato al centro delle cronache. Indagini giornalistiche e inchieste della magistratura hanno rivelato criticità strutturali gravi: tonnellate di rifiuti militari ad alto rischio conservati in monoliti di cemento deteriorati, con ferri d’armatura esposti e infiltrazioni. La Procura di Civitavecchia, guidata da Alberto Liguori, ha disposto il sequestro dell’area ipotizzando i reati di disastro ambientale colposo e omessa bonifica. L’accusa: i sistemi di contenimento non sarebbero più sicuri e le acque meteoriche potrebbero trascinare sostanze tossiche nel terreno. Venti alti ufficiali dell’esercito sono finiti sotto indagine per omessa vigilanza. Le autorità locali, dal Comune di Civitavecchia all’Osservatorio Ambientale, hanno chiesto chiarezza. Le analisi di Acea sull’acqua potabile non rilevano contaminazioni, ma gli esperti invocano monitoraggi costanti e un piano di messa in sicurezza di lungo periodo. Un allarme già scritto nei documenti ufficiali Molto prima del sequestro, la Relazione annuale 2018 del Senato della Repubblica sull’attuazione della Convenzione per la proibizione delle armi chimiche descriveva Santa Lucia come “l’unico impianto nazionale abilitato al recupero, immagazzinaggio e distruzione delle armi chimiche”. A fine 2017, il centro custodiva 13.600 ordigni chimici prodotti prima del 1946, classificati come Old Chemical Weapons. Quelle armi, secondo gli impegni internazionali, avrebbero dovuto essere distrutte entro il 2012. L’OPAC, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, aveva concesso una proroga, chiedendo all’Italia di completare l’operazione “il prima possibile”. Il Senato segnalava anche la necessità di un “adeguamento urgente degli impianti”, un intervento mai realizzato. Letto oggi, quel monito assume il valore di una profezia. Ogni anno, l’Italia invia all’OPAC una dichiarazione volontaria sulla situazione del sito: un segno di trasparenza, ma anche la conferma che Santa Lucia resta un luogo sotto osservazione internazionale. La risoluzione Artini e le proteste del territorio Già nel 2016, la Risoluzione Artini denunciava le condizioni precarie dei monoliti di cemento e il malcontento della popolazione. Il Ministero della Difesa aveva avviato uno studio con la società Dynasafe per introdurre un nuovo impianto basato su ossidazione termica, ma il progetto suscitò forti opposizioni. I cittadini temevano che il nuovo impianto potesse funzionare come un inceneritore. Le associazioni — tra cui ISDE, i medici per l’ambiente — chiesero la sospensione del piano e l’avvio di una bonifica dell’area, partendo dalla rimozione dei monoliti. Il 9 giugno 2016 il Sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, durante un incontro ufficiale si impegnò a valutare soluzioni alternative e garantire maggiore trasparenza. La risoluzione chiedeva inoltre che Santa Lucia fosse riconosciuta come sito di interesse nazionale, con interventi di bonifica, monitoraggio e informazione pubblica costante. Un impianto ad alto rischio controllato Nel Piano di Emergenza Comunale di Civitavecchia del 15 gennaio 2024, il deposito militare di Santa Lucia è classificato come impianto a rischio di incidente rilevante. Il documento descrive un sito blindato, sorvegliato 24 ore su 24, dotato di sistemi antincendio automatici e monitoraggio continuo, progettato per evitare qualsiasi fuga di sostanze tossiche. Nonostante le misure di sicurezza, il rischio resta alto: la normativa europea lo definisce “antropico-tecnologico”, cioè derivante da attività umane. Il Piano individua Santa Lucia come uno dei nodi più sensibili del territorio, richiedendo aggiornamento costante dei protocolli di prevenzione. Il piano di rilancio: SMD 29/2023 L’8 maggio 2024, in Commissione Difesa, il deputato Anastasio Carrà (Lega) ha illustrato il programma SMD 29/2023, destinato alla distruzione delle Old Chemical Weapons. Il piano prevede l’acquisto di un impianto Dynasafe SDC-1200, tecnologia capace di decomporre ordigni chimici a temperature tra i 400 e i 550 gradi, con sistemi di trattamento dei gas per evitare dispersioni. Finanziato con 29 milioni di euro del Ministero della Difesa, il progetto include cinque anni di assistenza tecnica e formazione del personale. L’obiettivo è riportare il Centro alla piena operatività entro quattro anni e completare la distruzione delle armi chimiche ancora presenti in Italia. La voce dei militari Anche il Sindacato Unitario Militari (S.U.M.) ha espresso profonda preoccupazione per le condizioni ambientali del sito. Secondo le segnalazioni ricevute, i monoliti — nati per isolare le sostanze tossiche — risulterebbero oggi fortemente deteriorati. Il S.U.M. ha chiesto interventi immediati all’Ufficio per il Coordinamento dei Servizi di Vigilanza d’Area e ha sollecitato al Ministero della Difesa a individuare soluzioni alternative di stoccaggio, tutelando il personale e le loro famiglie. “Chiediamo che le risultanze dei controlli vengano comunicate al S.U.M. — si legge nella nota — per garantire la massima trasparenza e la tutela dei diritti collettivi”. Una verità ancora sospesa L’inchiesta giudiziaria è solo all’inizio, ma la sua lentezza preoccupa. Conoscendo i tempi della giustizia e la natura militare dell’impianto, il rischio è che la vicenda si trascini per anni, senza arrivare a una verità né a una bonifica. È uno scenario già visto in altre storie italiane, come ricordato nel documentario Terra a Perdere di Chiara Pracchi, dove procedimenti complessi finiscono per dissolversi nel tempo. Serve un intervento deciso del governo, non per interferire con la magistratura, ma per risolvere le criticità strutturali e accelerare le operazioni di messa in sicurezza. Solo così si potrà impedire che un centro nato per proteggere il Paese diventi l’ennesimo simbolo di emergenza ambientale irrisolta. Fonti: https://www.fivedabliu.it/wp-content/uploads/2025/11/Dossier-Senato-n.-6_336222.pdf https://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/317702? https://civitavecchia-api.municipiumapp.it/s3/2166/allegati/allegati/pec-cvt-ii-parte_compressed.pdf https://documenti.camera.it/leg19/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2024/05/08/leg.19.bol0303.data20240508.com04.pdf? https://www.sindacatounicodeimilitari.it/s-u-m-preoccupazione-per-la-situazione-ambientale-del-comprensorio-di-santa-lucia-a-civitavecchia-sede-del-centro-tecnico-logistico-interforze-nbc/ https://www.fivedabliu.it/2021/11/10/processo-per-i-veleni-del-poligono-di-quirra-tutti-assolti/     Fivedabliu
Ecocidio in Palestina: perché custodire i semi è un atto politico
In un anno di assedio, l’esercito israeliano ha distrutto tre quarti delle terre coltivabili di Gaza, pompato acqua salata nel suolo (danneggiando le falde acquifere e rendendo sterili i campi), sradicato migliaia di ulivi. La cancellazione dell’identità di un popolo inizia anche da qui: dall’attacco alla sua agricoltura. Sottrarre la terra, distruggere le sementi, colonizzare i campi. Difenderli, al contrario, significa proteggere il diritto a esistere. Tra la marea di immagini strazianti che arrivano da Gaza e dai territori occupati palestinesi, alcune sono passate quasi inosservate. Un video mostra alcuni cecchini dell’esercito israeliano colpire, una dopo l’altra, tre pecore che attraversano una strada a Khan Younis. Un’altra fotografia ritrae il bombardamento di una banca dei semi. E poi le immagini di oltre diecimila ulivi sradicati dai bulldozer israeliani nel villaggio di al-Mughayyir, in Cisgiordania, durante un assedio di tre giorni. Perché colpire delle pecore? Perché distruggere semi, olivi, campi coltivati? Questa sequenza di immagini racconta più di molte parole. È la rappresentazione visiva dell’ecologia della guerra.  Ogni forma di vita — umana o non umana — che appartiene all’indigeno diventa un potenziale nemico. Una risorsa da sottrarre, uno spazio da depredare, una memoria da cancellare. Il non umano, l’ambiente, la terra, diventano strumenti del progetto coloniale in Palestina. La colonizzazione, la guerra e la resistenza in Palestina sono anche — e soprattutto — un conflitto ecologico. Un conflitto che si materializza attraverso l’espropriazione della terra, dell’acqua, delle risorse naturali. Il 31 luglio 2025, l’esercito israeliano ha attaccato l’Unità di Moltiplicazione dei Semi dell’Unione dei Comitati di Lavoro Agricolo, a Hebron. Con bulldozer e macchinari pesanti, ha distrutto magazzini e infrastrutture dove erano custoditi semi autoctoni, strumenti, materiali agricoli. Un attacco apparentemente minore, ma di enorme portata simbolica: colpire la possibilità di riprodurre la vita, di rigenerare. E non è un caso isolato. In un anno di assedio, l’esercito israeliano ha distrutto tre quarti delle terre coltivabili di Gaza. Ha pompato acqua salata nel suolo, danneggiando le falde acquifere e rendendo sterili i campi. E ha sradicato migliaia di ulivi, alberi antichi che per i palestinesi non sono solo fonte di reddito, ma simbolo di identità, radici e resistenza. La distruzione degli ulivi è la distruzione della memoria collettiva, della continuità generazionale. La cancellazione dell’identità di un popolo inizia anche da qui: dall’attacco alla sua agricoltura. Sottrarre la terra, distruggere le sementi, colonizzare i campi. Difenderli, al contrario, significa proteggere il diritto a esistere. Non è la prima volta che succede. Nel 2003, dopo l’invasione americana dell’Iraq, la banca nazionale dei semi di Abu Ghraib — una collezione genetica unica al mondo — fu saccheggiata e devastata. Più di 1400 varietà di semi adattate nei millenni al caldo, alla siccità, andarono perdute. Solo pochi scienziati iracheni riuscirono a salvarne alcune, spedendole anni prima al centro ICARDA di Aleppo. Ma la distruzione materiale non bastò. L’Autorità Provvisoria della Coalizione, guidata da Paul Bremer, emanò l’Ordine 81: una legge che proibiva agli agricoltori di riprodurre i propri semi, aprendo il mercato alle grandi multinazionali. A ricostruire l’agricoltura irachena fu chiamato Dan Amstutz, ex dirigente Cargill — la più grande esportatrice di cereali del mondo — nominato dal governo Bush. Oggi, nel mondo, quattro multinazionali — Bayer-Monsanto, Corteva, ChemChina-Syngenta e BASF — dominano il 60% del mercato delle sementi e il 75% dei pesticidi. E altre quattro, note come il gruppo ABCD — Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus — controllano fino al 90% del commercio mondiale di cereali. Dietro la distruzione dei semi, degli ulivi e delle pecore palestinesi c’è dunque una logica più ampia: quella del dominio economico, dell’estrazione, dell’accumulazione. La stessa logica che lega Gaza all’Iraq e l’agricoltura al potere delle multinazionali. “Fare il nostro cibo è una forma di liberazione”. Me lo ha detto Lina, del Forum Agroecologico di Ramallah. Una frase semplice, ma che contiene tutto: la resistenza, la cura, la possibilità di immaginare un futuro di giustizia e di libertà. Perché custodire un seme — oggi in Palestina come altrove — non è solo un atto agricolo. È un atto politico. Un atto di libertà. Sara Manisera è giornalista freelance. Ha realizzato reportage per testate nazionali e internazionali sulle donne, i conflitti e la società civile in Medio Oriente. Segui Sara Manisera sul suo blog. Attraverso la Campagna AcquaPerGaza puoi sostenere non solo la risposta locale e palestinese all’emergenza in atto, ma anche il lavoro straordinario di UAWC con cui continua a preservare i semi indigeni palestinesi. Forum Salviamo il Paesaggio
Le autorità israeliane radono al suolo 40 case palestinesi nel Negev
Negev/Naqab. Mercoledì mattina, le autorità israeliane hanno demolito 40 case palestinesi nel villaggio arabo di al-Sir, nel deserto del Negev, provocando scontri con i residenti in protesta. Video diffusi sui social media hanno mostrato le forze di polizia sparare candelotti di gas lacrimogeno e granate stordenti contro folle di manifestanti arabi e aggredirli. Il membro della Knesset, Samir bin Said, del Movimento Arabo per il Cambiamento, ha dichiarato che la polizia “ha usato violenza contro i residenti e li ha attaccati con bombe assordanti e gas lacrimogeni”, cosa che ha lasciato diverse persone ferite. Ha aggiunto che alcuni dei manifestanti hanno riportato ferite e sono stati trasportati in ospedale. “Non possiamo accettare una politica di sfollamento delle persone dalle loro case e di tentativo di sradicarle dalla loro terra”, ha affermato il parlamentare, sottolineando che le famiglie del Negev hanno un diritto umano fondamentale a vivere con dignità sulla propria terra. La scorsa settimana, le autorità israeliane hanno demolito 30 case nello stesso villaggio e, secondo fonti locali, quasi altre 200 abitazioni restano minacciate di demolizione. Il governo israeliano classifica circa 40 villaggi del deserto del Negev come “non riconosciuti”, sostenendo che i circa 55.000 beduini palestinesi che vi abitano non possono dimostrare la proprietà della terra.
Gaza brucia – di Gennaro Avallone
A Gaza, capitalismo, imperialismo, colonialismo e i gruppi umani che concretamente ne incarnano e realizzano le logiche di funzionamento si mostrano per quello che storicamente sono: modi di produzione e governo che tendono a distruggere tutto ciò che ritengono inutile o di ostacolo al proprio dominio. È questo che il Governo e l'esercito di [...]
La guerra è tornata, la morte ha di nuovo fretta di rientrare nella nostre vite
I governi europei brancolano nel buio pesto della memoria storica. La seconda guerra mondiale rappresenta l’allargamento della guerra di massa in guerra totale. Le sue perdite sono letteralmente incalcolabili e anche stime approssimative sono impossibili, poiché (diversamente dalla prima guerra mondiale) la seconda guerra mondiale uccise i civili non meno dei […] L'articolo La guerra è tornata, la morte ha di nuovo fretta di rientrare nella nostre vite su Contropiano.
Incenerire gli aiuti umanitari, la nuova politica degli Stati Uniti
Mentre a Gaza almeno 69 bambini sono già morti di fame e la popolazione intera è a rischio carestia, a duemila chilometri di distanza, in un magazzino di Dubai, quasi 500 tonnellate di cibo d’emergenza stanno per essere incenerite per ordine dell’amministrazione Trump. È quanto rivela un’inchiesta della giornalista Hana Kiros pubblicata il 14 […] L'articolo Incenerire gli aiuti umanitari, la nuova politica degli Stati Uniti su Contropiano.