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Contro l’accademia neoliberale: appunti dalla Normale nell’era del merito
Riprendiamo l’articolo del Collettivo della Scuola Normale Superiore apparso qui. Buona lettura. -------------------------------------------------------------------------------- È arrivato novembre. Un altro anno accademico si è aperto e ancora una volta la cerimonia d’inaugurazione della Scuola Normale si è svolta senza alcuno spazio di parola studentesco – una singolarità, se si considera che in pressoché ogni università questo momento coinvolge anche chi l’università la vive quotidianamente. Le lezioni ricominciano e sentiamo la necessità di dotarci di strumenti per leggere la realtà che stiamo vivendo. Negli ultimi mesi, nelle assemblee del Collettivo, nelle mobilitazioni contro la riforma Bernini e nelle discussioni quotidiane nelle classi della Scuola, è emersa una consapevolezza sempre più nitida: le trasformazioni che attraversano l’università non arrivano mai come fratture improvvise, ma si sedimentano nel quotidiano, si insinuano attraverso piccole modifiche ai regolamenti, irrigidimenti formali che cambiano gradualmente il nostro modo di studiare, di organizzarci, di esistere come comunità accademica. Con questo articolo proviamo a condividere alcune riflessioni con l’intento di restituire un’immagine più chiara del contesto in cui viviamo e prendiamo parola: perché è proprio nelle pieghe della normalità amministrativa che si rende visibile il progetto di un’università neoliberale e piegata alle logiche del profitto — e dunque è in questi dettagli che dobbiamo imparare a guardare per riconoscere il presente e immaginare come trasformarlo. -------------------------------------------------------------------------------- Negli ultimi decenni l’università italiana è stata progressivamente riscritta secondo il lessico e le logiche del neoliberismo, un progetto politico ed economico che ha riorganizzato le società occidentali attorno al presunto modello “naturale” e “inevitabile” dell’economia di mercato, assorbendo nelle sue dinamiche istituzioni e diritti un tempo sottratti alla competizione: dalla sanità alla famiglia, dalla scuola alla casa. Per accademia neoliberale intendiamo, dunque, l’insieme di riforme e di discorsi che hanno via via piegato l’università a questa ambizione. In questo quadro abbiamo assistito all’espansione di criteri di efficienza, di valutazione continua, di competizione e misurabilità, che hanno trasformato la formazione e la ricerca in prestazioni quantificabili e la comunità studentesca e docente in una somma di individui chiamati a ottimizzare il proprio percorso in vista della competitività complessiva dell’istituzione. Non si tratta soltanto di un processo di riforma amministrativa o di trasformazione gestionale, ma di una mutazione profonda del modo stesso in cui il sapere viene prodotto, legittimato e distribuito. L’università, anziché pensarsi come spazio di elaborazione culturale e di emancipazione sociale, assume gli strumenti dell’impresa: indicatori di performance, “attrattività” per investitori, culto per il ranking. Il sottofinanziamento strutturale, invece che denunciato come scelta politica che smantella l’autonomia del sapere, viene rovesciato in narrazione meritocratica: chi “sa fare di più con meno” sarebbe moderno, virtuoso, efficiente. E così la dipendenza da finanziamenti privati viene normalizzata come orizzonte inevitabile. Questi processi colpiscono non solo student3 ma anche docenti e ricercator3 attraverso precarietà strutturale, carriere frammentate, valutazioni quantitative, adattamento forzato delle linee di ricerca agli interessi economici dominanti. Questo quadro produce effetti concreti sulla vita accademica. L’accesso allo studio si trasforma in competizione e la retorica del merito funziona come dispositivo di legittimazione dell’esclusione. Si naturalizza la figura dello studente-imprenditore di sé, che deve sacrificarsi, performare, distinguersi per guadagnarsi un posto, mentre il diritto allo studio diventa un privilegio da meritare e non un fondamento della cittadinanza democratica. L’immaginario aziendalista entra nei corridoi universitari e li popola di parole come “eccellenza”, “attrattività”, “competitività”, che spesso oscurano la domanda fondamentale: a chi e per chi serve il sapere che produciamo? 1 -------------------------------------------------------------------------------- Come normalist3 ci chiediamo oggi in che modo le logiche neoliberali si manifestano nella nostra istituzione. Qui il sottofinanziamento non si percepisce con la stessa intensità di altre università italiane; e tuttavia questo apparente scarto non ci sottrae al modello, anzi lo rende talvolta più silenzioso e pervasivo. Il privilegio materiale può funzionare come schermo che oscura le trasformazioni in corso, o peggio come giustificazione implicita: se “qui funziona”, allora il paradigma competitivo, selettivo e aziendalizzato sarebbe legittimo. Ma a quale prezzo? E per chi? Quest’autunno la direzione della Scuola ha avviato un processo di revisione dei regolamenti, intervenendo in modo significativo soprattutto sulla classe di Lettere. Ciò che percepiamo è l’ennesimo passo dentro un percorso già tracciato negli anni passati: la progressiva standardizzazione delle carriere e della didattica per aderire ai parametri ANVUR e ai dispositivi europei di accreditamento. Là dove la formazione si voleva costruita attraverso una relazione diretta tra student3 e docenti, e dove il percorso accademico conservava un margine di autodeterminazione, oggi prende forma un’architettura rigida e modulare. La distinzione tra seminari “afferenti” e “non afferenti” è diventata il primo passo verso un modello in cui la scelta dell3 student3 viene sacrificata in nome della misurabilità. Per ottenere fondi, per essere riconosciut3 come “eccellenza”, dobbiamo diventare incasellabili, leggibili da organismi che non vivono la nostra realtà ma la definiscono. Un segnale evidente di questa trasformazione è la programmazione didattica. I corsi annuali, che costituivano l’ossatura tradizionale della formazione in Normale, lasciano spazio a moduli brevi da 20 ore (3 cfu), presentati come soluzioni temporanee per “tappare i buchi” (espressione pronunciata in consiglio di classe dal corpo docente) dopo il pensionamento di tre professori ordinari. Eppure, più che una contingenza, ci sembra emergere un cambio di paradigma: una didattica frammentata, affidata a figure chiamate per pochi mesi, senza continuità progettuale né responsabilità educativa di lungo periodo e che non dispongono nemmeno delle condizioni contrattuali per poter assumere un ruolo pieno nella nostra formazione — per esempio accompagnandoci come relatori interni nei colloqui. La nostra comunità era costruita – almeno in teoria – sulla presenza di docenti interni, responsabili della nostra crescita intellettuale e disponibili ad accompagnarci nei momenti cruciali del percorso accademico. Oggi assistiamo alla chiusura rapida dei contratti dei docenti esterni, alla lentezza nell’assunzione di nuovi ordinari e, parallelamente, alla facilità con cui si attivano incarichi brevi e discontinui. Il risultato è un’istituzione che si presenta rinnovata, “fresca”, pronta a offrire molti corsi nuovi, ma priva di una struttura solida che renda possibile una formazione effettiva. In questa stessa direzione si è mosso anche l’indurimento delle pratiche valutative: in più sedi è stata rivendicata dai professori l’esigenza di rendere la dinamica del voto più differenziata. È un dettaglio che dice molto: valutare e distinguere è sempre più urgente in un’accademia sottofinanziata che potrà accogliere sempre meno di noi. Troviamo molto ironico che il nostro direttore – che si rifiuta di confrontarsi con la comunità studentesca su ogni tema – abbia appena dichiarato che “alla Normale cerchiamo di dare il meno possibile voti”. Questo dinamismo apparente si ammanta di parole seducenti: interdisciplinarità, apertura, internazionalizzazione. Nascono così corsi come “studi di genere” e “culture di minoranza”, potenzialmente preziosi, ma organizzati come una parata di docenti che terranno poche lezioni, in inglese, senza alcuna continuità né progettualità. Nel caso di “culture di minoranza” si arriva al paradosso di dieci lezioni da due ore, tutte affidate a docenti divers3 e su argomenti differenti. Qui non conta davvero la coerenza della formazione, sembra invece prevalere l’urgenza di esibire la capacità della Scuola di farsi promotrice di temi “progressisti”, una strategia che appare più legata alla visibilità nel network EELISA che alla costruzione di un sapere critico e stabile. La domanda che ci poniamo non riguarda il valore dei contenuti – che riconosciamo e desideriamo – ma l’uso che se ne fa: stiamo assistendo a un reale tentativo di valorizzare saperi non convenzionali, o piuttosto a una risposta opportunistica a bandi e finanziamenti esterni che impongono agende e priorità? Proprio perché questi temi sono cruciali, il modo in cui vengono trattati conta: ridurli a una sfilata di interventi estemporanei, affidati di anno in anno a programmazioni instabili, rischia di svuotarli. È la logica tipica di un neoliberismo accademico che inserisce saperi “emersi dal basso” come elementi decorativi, sradicati da qualsiasi base sociale e comunitaria, pronti a scomparire non appena cambiano gli indicatori o le aspettative ministeriali. Noi desideriamo invece una costruzione condivisa che radichi questi saperi nella vita della Scuola e nella sua comunità, affinché non siano un ornamento progressista, ma una pratica viva, capace di trasformare modalità di apprendimento e forme del pensiero. L’altra faccia di questa trasformazione è un altro elemento, apparentemente marginale ma rivelatore: l’insistenza, emersa negli ultimi mesi, sulla necessità di privilegiare relatori interni in nome della “continuità didattica”. Questa ci sembra da un lato una forma di pressione verso l’iper-specializzazione precoce, che vede nella linearità curricolare una prova di “serietà” e “produttività”; dall’altro, la riproduzione di dinamiche di fidelizzazione, in cui la costruzione di un rapporto privilegiato con chi detiene capitale accademico diventa garanzia di futuro accesso ai pochi spazi disponibili – dal dottorato ai progetti di ricerca. È una forma aggiornata di baronaggio, meno rumorosa ma non meno efficace, che si presenta come razionalizzazione amministrativa mentre riscrive le pratiche della cooptazione tradizionale. Tanto l’insistenza retorica sulla “continuità”, quanto la proliferazione di corsi da 3 cfu, ci appaiono come manifestazioni di un medesimo impoverimento: una didattica frammentata, che restringe di fatto gli spazi di scelta e di sperimentazione. Infine, la stretta burocratica sui percorsi – la rigida separazione tra triennale e magistrale, la regolamentazione minuziosa dei passaggi tra seminari, il cambio di piattaforma da Serse a Esse3 – sembra testimoniare la volontà di delegare agli strumenti digitali e ai regolamenti il compito di definire ciò che possiamo fare, studiare, diventare. È un rovesciamento quasi distopico: non sono le esigenze formative a plasmare gli strumenti, ma gli strumenti a modellare la formazione. Non si tratta, da parte nostra, di rivendicare un passato idealizzato. La Normale “di un tempo” non rappresenta per noi un modello a cui tornare: anche allora la formazione era segnata da gerarchie implicite, corsi talvolta improntati alla mera trasmissione erudita. Nostalgia e mercificazione sono due lati di una stessa incapacità di immaginare l’università come spazio creativo, rigoglioso, libero. Piuttosto, ciò che vogliamo aprire è una domanda condivisa sulla forma che la nostra istituzione potrebbe assumere: come configurare luoghi in cui la libertà di ricerca non sia retorica, ma pratica quotidiana? Come costruire relazioni pedagogiche che non siano né tutoring paternalistico né mera logica di competenze da acquisire? Questa domanda non ha una risposta preconfezionata; chiede tempo, conflitto, progettualità. Ma rinunciare a formularla significherebbe consegnare l’università alla gestione tecnocratica che oggi la svuota di senso.    
Valutare e obbedire. Il Governo vuole il controllo totale di ANVUR
La proposta di riforma dell’ANVUR rende finalmente evidente ciò che da anni era solo implicito: l’Agenzia è lo strumento con cui il governo attua il controllo centralizzato e indirizza le attività di università e ricerca. Con la riforma, nomine e attività di valutazione passano sotto l’iniziativa esclusiva del Ministro, riducendo drasticamente l’indipendenza tecnica di ANVUR. La proposta è già stata duramente bocciata dal Consiglio di Stato, che segnala contraddizioni con la legge istitutiva e mette in dubbio la legittimità di molte novità. Tutto ciò avviene in chiara contraddizione con i principi di libertà di ricerca e insegnamento ancora sanciti dalla Costituzione. Il governo intende varare la riforma del regolamento dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) tramite un decreto del Presidente della Repubblica, attualmente in discussione presso le commissioni parlamentari (qui la documentazione). PREAMBOLO. Malgrado i proclami sulla sua presunta autonomia, ANVUR è già, di fatto, controllata dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Il consiglio direttivo composto da 7 membri è definito dal Ministro dell’Università e della Ricerca che li sceglie da una rosa di 15 nominativi che gli viene sottoposta da una commissione di selezione. La commissione di selezione è composta da quattro membri nominati da enti esterni più un quinto membro nominato direttamente dal ministro. Tutti i membri del consiglio direttivo ANVUR restano in carica 4 anni e il presidente viene eletto tra di loro. Apparentemente distante, ma in realtà è il Ministro a assumere un peso determinante nella composizione dell’Agenzia. Tanto è vero che, attualmente, il Consiglio è incompleto: solo quattro membri, compreso il Presidente che siede in ANVUR dal lontano 2019. La ministra Bernini non ha infatti mai ricostituito l’organo, malgrado abbia in mano la rosa dei nominativi scelti dalla commissione di selezione da un anno (la commissione, dei cui lavori sui siti ministeriali non c’è traccia, era stata nominata nel 2023 e aveva pubblicato l’avviso di selezione per i candidati nel febbraio 2024). Voci dal MUR raccontano la rosa fosse sgradita alla ministra. In particolare sembra che la commissione abbia bocciato il prof. Marco Mancini (il presidente ANVUR che la ministra avrebbe desiderato). Il prof. Mancini che la ministra ha da poco nominato Segretario Generale del MUR, e che scrive irritualmente ai rettori chiedendo loro di tenere sotto controllo le proteste degli studenti. Lo stesso Mancini che qualche anno fa il Giornale annoverava tra i baroni rossi, il Mancini, sempre lo stesso, che anima da oltre un quindicennio le riunioni del Partito Democratico su università e ricerca, che è entrato e uscito dal MUR in vari ruoli con ministri di qualsiasi colore. In sintesi: anche l’attuale “leggera autonomia” dell’ANVUR appare troppo pericolosa alla ministra ed al gruppo di lavoro voluto dalla ministra e che ha suggerito la proposta di riforma. LA PROPOSTA DI RIFORMA  Il cuore della riforma è la modifica sostanziale della struttura dell’agenzia e delle modalità di nomina dei membri del direttivo. Oltreché la subordinazione dell’attività dell’agenzia alle direttive del Ministro del MUR. Nell’articolo 7 viene modificato il processo di nomina del Presidente dell’ANVUR destinato a restare in carica 5 anni, che passa a essere di diretta nomina ministeriale, indipendente dal Consiglio direttivo.  Con la nuova procedura, il Ministro istituisce un comitato di selezione che propone una terna di candidati, dalla quale il Ministro effettua la scelta finale, previa consultazione (non vincolante) delle Commissioni parlamentari. La nomina formale avviene poi con Decreto del Presidente della Repubblica. Il Presidente nominato può successivamente designare un vicepresidente all’interno del Consiglio. Questa riforma viene (orwellianamente) presentata come rafforzamento dell’indipendenza di ANVUR. Nell’articolo 8, la procedura di costituzione del Consiglio direttivo, la cui durata è confermata in 4 anni, viene anch’essa sottoposta al controllo diretto del Ministro. Il Consiglio passa da 7 a 5 membri, compreso il Presidente, e la nomina dei componenti è ora gestita dal Ministro. Dopo la raccolta delle candidature tramite bandi pubblici, un comitato di selezione propone terne di candidati, che includono tre rappresentanti di altrettante macroaree CUN (una invenzione estemporanea, che non rispecchia neanche la idiosincratica e unica al mondo divisione del mondo tra settori bibliometrici e non bibliometrici inventata da ANVUR anni fa) e un membro AFAM. Cambia anche la composizione del comitato di selezione: anziché definito da enti esterni anch’esso è scelto direttamente dal Ministro del MUR. E anche questa modifica viene orwellianamente giustificata come una misura a tutela dell’indipendenza dell’Agenzia. Per le attività di valutazione che, da norma primaria, sono di iniziativa dell’agenzia, la riforma prevede che siano assoggettate al volere del Ministro. Come si legge nella relazione illustrativa, ANVUR deve assicurare il: > rispetto dell’indirizzo politico dato dal Ministero dell’università e della > ricerca, quale Ministero vigilante. Questo si riflette, nella proposta legislativa, nella previsione che gran parte delle attività di valutazione avvenga solo “su richiesta del Ministro”. Queste attività sono ampliate, includendo in modo sistematico tutto il mondo AFAM. E sono ampliate anche in profondità prevedendo adesso che ANVUR valuti: > le competenze trasversali e disciplinari acquisite dagli studenti edalle > studentesse e gli sbocchi occupazionali dei laureati. La proposta di riforma toglie dai compiti di ANVUR la definizione – su richiesta del ministro – dei parametri di riferimento per l’allocazione dei finanziamenti statali, che torna nelle salde mani del MUR. La riforma elimina il riferimento alla cadenza quinquennale della VQR: termine considerato troppo rigido e troppo ampio per tenere conto della evoluzione del sistema della ricerca. E, infine, stabilisce (qualsiasi cosa questo significhi) che la valutazione della qualità dei prodotti della ricerca deve essere condotta > utilizzando criteri omogenei rispetto a quelli previsti per l’ammissione ai > concorsi universitari, valutati, ove possibile, tramite procedimenti di > valutazione tra pari. IL CONSIGLIO DI STATO FA A PEZZI LA PROPOSTA DI RIFORMA Cosa potrebbe mai andare storto se un gruppo di lavoro di iper-competenti professori universitari è chiamato dalla Ministra a scrivere un progetto di riforma? Potrebbe accadere che il Consiglio di Stato faccia a pezzi la proposta di riforma, proprio nei suoi punti chiave. Come è puntualmente avvenuto nel parere formulato nell’adunanza del 23 settembre 2025. Il Consiglio di Stato mette in evidenza una contraddizione: la proposta di riforma attribuisce al Ministro, tramite regolamento, il potere esclusivo di avviare alcune delle attività più importanti dell’ANVUR. Tuttavia, la legge (art. 2, comma 138, del decreto-legge 262/2006) assegna queste competenze direttamente all’ANVUR. In altre parole, la riforma toglierebbe all’Agenzia, attribuendoli al ministro, poteri che la norma primaria le riconosce espressamente. Il Consiglio di Stato, seppur con una fraseologia più educata, fa capire che non è disposto a bersi la storiella che questo serve a “riallineare” “il funzionamento [dell’ANVUR] agli standard europei (ESG)” e “a rafforzare il ruolo tecnico-istituzionale dell’Agenzia nell’ordinamento”. La riforma mira a subordinare l’attività dell’ANVUR alla volontà del Ministro, attribuendogli un potere esclusivo di iniziativa sulle funzioni più rilevanti dell’Agenzia. Una scelta che va in aperto contrasto con la legge istitutiva dell’ANVUR, la quale garantisce all’Agenzia autonomia organizzativa, amministrativa e contabile. La riforma, secondo il Consiglio di Stato, va in contrasto con  i principi costituzionali di libertà di ricerca e autonomia universitaria. Il Consiglio di Stato critica duramente la proposta di riforma anche per un altro aspetto: la concentrazione nelle mani del Ministro della nomina dei componenti del comitato di selezione e del Presidente dell’ANVUR. Dietro l’apparente “semplificazione” del procedimento, la riforma finisce per eliminare le garanzie di indipendenza che derivavano dal coinvolgimento di enti e istituzioni diversi dal Ministero, come previsto dalla normativa vigente. La legge istitutiva dell’ANVUR aveva voluto un sistema di nomine plurale e bilanciato, proprio per evitare, secondo il Consiglio di Stato, che l’Agenzia diventasse uno strumento politico. La proposta di riforma, invece, accentrando il potere di scelta nel Ministro, riduce la trasparenza e aumenta il rischio di nomine troppo discrezionali, basate su criteri vaghi come la generica “esperienza pluriennale”. Anche la nuova modalità di nomina del Presidente, non più eletto dal Consiglio direttivo ma designato dal Ministro, rappresenta un chiaro passo indietro rispetto all’autonomia organizzativa garantita dalla legge. In sintesi, sotto il pretesto della semplificazione, la riforma svuota l’indipendenza dell’ANVUR, trasformando un organismo tecnico e autonomo in uno direttamente dipendente dalle scelte del potere politico. Il Consiglio di Stato, con una pazienza quasi pedagogica, ricorda agli estensori della riforma un principio elementare del diritto amministrativo: un regolamento non può modificare una legge. Pare però che chi ha scritto la proposta non ne sia pienamente consapevole, visto che ha pensato bene di allungare da quattro a cinque anni la durata del mandato del Presidente dell’ANVUR, ignorando che la legge istitutiva (art. 2, comma 140, del d.l. 262/2006) stabilisce chiaramente una durata quadriennale per tutti i componenti del Consiglio direttivo, Presidente compreso. Come se non bastasse, l’interpretazione fantasiosa secondo cui il Presidente non farebbe parte del Consiglio direttivo (e quindi non sarebbe soggetto alla stessa durata di mandato) sfiora l’assurdo: significherebbe che il principale organo dell’ANVUR avrebbe un Presidente “fuori organigramma”, nominato e disciplinato dal nulla. In sostanza, il Consiglio di Stato deve ricordare ai riformatori che le norme di rango primario non si cambiano con un colpo di penna in un regolamento. Ma, a quanto pare, qualcuno al Ministero ha bisogno di un rapido ripasso in merito all gerarchia delle fonti del diritto. La perla finale riguarda il Direttore di ANVUR che la proposta di riforma trasforma in organo dell’agenzia e battezza Direttore generale. Il Consiglio di Stato segnala con discreta diplomazia un curioso paradosso: la riforma che proclama di “inasprire” le incompatibilità del Direttore generale in realtà le smantella quasi del tutto. La norma vigente vietava ogni rapporto professionale o pubblico potenzialmente conflittuale; la nuova versione lascia in piedi solo un divieto residuale – non lavorare per chi l’ANVUR valuta. Eppure, nella relazione illustrativa, questo alleggerimento viene descritto come una “disciplina più rigorosa”. Un capolavoro di burocratese orwelliano, dove restringere diventa ampliare e allentare diventa irrigidire. FINALMENTE CHIAREZZA Il Consiglio di Stato assume che l’assetto attuale dell’ANVUR garantisca già un sufficiente equilibrio tra autonomia e vigilanza ministeriale. Noi siamo più scettici. L’esperienza concreta mostra che l’ANVUR da tempo opera come un braccio amministrativo del Ministero, traducendo in “valutazioni” le linee politiche definite altrove. La riforma, più che introdurre una novità, rende esplicito ciò che da anni avviene nei fatti: l’Agenzia agisce su impulso politico, non come organo indipendente. Dietro il linguaggio neutro della “razionalizzazione” e della “trasparenza” la riforma consolida un modello di governo centralizzato, in cui la valutazione è il principale strumento di controllo del sistema universitario e della libertà accademica. Non sorprende che nel gruppo di lavoro che ha redatto la proposta siedano molti protagonisti delle politiche universitarie degli ultimi vent’anni, mentre mancano del tutto voci indipendenti o critiche. La riforma, insomma, non cambia la direzione di marcia: si limita a dichiararla apertamente. È il compimento di un processo che attraversa governi di ogni colore e che ha progressivamente trasformato la “valutazione” in governo politico mascherato da tecnica.  Oggi, con la proposta di riforma, cade ogni ambiguità: l’ANVUR è lo strumento del Ministero per controllare e dirigere il mondo accademico, in aperta tensione con quei principi di autonomia e libertà di ricerca che la Costituzione continua, almeno sulla carta, a garantire. Qua si può leggere l’analisi della proposta di riforma di FLC-CGIL.         
La finta imparzialità della valutazione: le reti che governano la ricerca italiana
Dietro la facciata neutrale delle regole formali, i panel VQR in area economica mostrano legami fitti e opachi, dominati da gruppi accademici vicini all’università Bocconi. L’analisi di rete svela che le nomine operate direttamente dai consigli direttivi di ANVUR nelle prime due VQR dettero luogo a strutture chiuse e autoreferenziali, a differenza della terza VQR quando il panel venne sorteggiato. Con la VQR in corso si è tornati indietro: ANVUR ha ripreso il controllo diretto dei panel, nominando un quarto dei membri, e riaprendo la porta a bias e conformismo. La valutazione della ricerca soffoca il pluralismo e rafforza le gerarchie accademiche consolidate. Da anni una questione agita il mondo accademico senza trovare la dovuta attenzione politica: la composizione dei panel di valutazione della ricerca. C’è una grande attenzione formale al rispetto di regole di composizione dei panel in termine di genere, provenienza geografica o appartenenza a settori scientifico disciplinari. Il rispetto di questi attributi ‘formali’ fa apparire bilanciate, composizioni dei panel che nascondono profonde asimmetrie intellettuali e scientifiche. Attraverso un’analisi empirica basata su tecniche di network analysis, abbiamo documentato e rese visibili alcune di queste asimmetrie. Il paper completo, uscito su Scientometrics è accessibile a questo link. Il caso di studio che consideriamo è quello della composizione dei panel di valutazione (GEV) dell’area di economia, statistica e scienze aziendali nei tre esercizi della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR): 2004–2010, 2011–2014 e 2015–2019. I primi due panel furono nominati direttamente dall’ANVUR, mentre per il terzo si ricorse al sorteggio tra i candidati. Questa discontinuità procedurale ci ha permesso di trattare il terzo panel come termine di confronto, evidenziando quanto forti e pervasive fossero le connessioni nei panel nominati da ANVUR rispetto a quello estratto a sorte. Le tecniche di network analysis adottate ci hanno consentito di osservare la struttura invisibile dei legami tra i commissari. In particolare, abbiamo ricostruito le reti di co-autorialità tra i membri del panel, la comunanza di strategie di pubblicazione sulle stesse riviste, la rete che individua provenienza ed affiliazioni comuni in università e centri di ricerca, e infine la rete di blog e riviste di divulgazione che hanno ospitato contributi dei membri dei panel.  Nei due panel nominati da ANVUR si osservano reti fitte, chiuse e dominate da pochi nodi centrali e gruppi. Nel panel sorteggiato, invece, la frammentazione delle reti è decisamente maggiore, segno di un’effettiva pluralità di percorsi accademici e orientamenti teorici. Il risultato è inequivocabile: le nomine dirette hanno prodotto gruppi omogenei e non rappresentativi della pluralità accademica. In aggiunta, abbiamo osservato che una parte rilevante dei legami emersi riguarda un preciso gruppo di potere accademico, riconducibile all’ambiente dell’Università Bocconi: non solo docenti, ma anche ex allievi che orbitano intorno agli stessi centri di ricerca, agli stessi network professionali, agli stessi giornali e think tank. Il nostro lavoro fornisce una mappa sistematica di queste connessioni: quali sono gli istituti e i centri più fortemente legati a questo network, e chi sono gli esponenti che ne rappresentano il fulcro. Che sia l’università Bocconi il centro del sistema, non dovrebbe certo meravigliare, almeno i lettori di Roars. Già in passato le scelte operate dall’ANVUR erano state duramente criticate, in particolare per quanto riguarda proprio la scelta dei membri del GEV di economia. Nella terza VQR, il ministro Fioramonti introdusse il sorteggio dei membri, probabilmente anche in relazione alle polemiche che avevano accompagnato le prime due VQR.  Con l’ultimo esercizio VQR si è tornati indietro, seppure parzialmente: ANVUR ha infatti scelto direttamente il 25% dei membri dei GEV, garantendosi così un controllo commissariale sui lavori dei panel: non è inverosimile pensare che un membro GEV nominato da ANVUR abbia uno status diverso dai membri estratti. E forse non è un caso che, per restare in Area economica, sia stato nominato nel panel di economia il presidente del GEV della prima VQR, che nei nostri network rappresenta lo snodo centrale dei legami nei primi due panel. Quello che succede nell’area dell’economia è particolarmente delicato. La disciplina è da sempre caratterizzata da profonde differenze teoriche, metodologiche e ideologiche. Anche se le cose sono in realtà più complicate, ci si riferisce a questa situazione dicendo che c’è una economia mainstream e una eterodossa. A nostro parere, il pluralismo di visioni è essenziale alla vitalità della ricerca. I processi valutativi, in Italia e non solo, hanno favorito la marginalizzazione sistematica delle scuole di pensiero non mainstream, contribuendo a rafforzare meccanismi autoreferenziali e a consolidare il predominio di approcci omogenei mainstream. In questo gioca un ruolo fondamentale la composizione dei panel: un panel composto da valutatori mainstream strettamente collegati non solo mina la credibilità del processo valutativo, ma espone l’intero sistema a rischi di bias strutturale. Se la valutazione scientifica finisce per premiare solo ciò che è conforme ai paradigmi dominanti, la qualità stessa della ricerca ne risulta gravemente compromessa, riducendo la capacità di innovazione del sistema e lo spazio per il dissenso costruttivo e i percorsi di ricerca non convenzionali. Non è inutile sottolineare che non è certo sufficiente a garantire una composizione fair dei panel la presenza di un paio di figure “eterodosse”, come avvenuto nei panel delle due prime VQR. Quelle presenze appaiono piuttosto come sforzo superficiale e simbolico per apparire inclusivi nei confronti di gruppi minoritari (tokenism), in modo da ridurne le manifestazioni di dissenso. Tutto ciò richiama la necessità di una riflessione più ampia sul ruolo e sugli obiettivi della valutazione della ricerca in Italia. Fin dalla sua istituzione, l’ANVUR ha imitato un mix di modelli sviluppati altrove e ispirati a logiche di efficienza, competizione e misurazione standardizzata, trascurando la complessità e la specificità dei processi di produzione della conoscenza. L’obiettivo implicito non è stato quello di promuovere il pluralismo, l’innovazione o la capacità critica, ma piuttosto di allineare la ricerca alle esigenze di un sistema economico fondato su metriche di performance e riconoscimenti formali. Gli effetti della valutazione della ricerca sono oggi visibili: una ricerca più omologata, meno incline al rischio teorico e alla sperimentazione radicale, più orientata a soddisfare indicatori quantitativi che a rispondere a interrogativi scientifici profondi, con preoccupanti segnali di corruzione endemica. Una ricerca che, in definitiva, rischia di perdere la propria funzione pubblica, trasformandosi in un’attività funzionale alla “ricchezza della nazione” e al rafforzamento delle gerarchie accademiche consolidate. Crediamo sia necessario riportare al centro del confronto pubblico il senso stesso della ricerca come bene comune, emancipandola dalle logiche burocratiche, competitive e oligarchiche che oggi ne soffocano lo sviluppo.