Quale libertà accademica?
In una presa di posizione senza precedenti, più di 600 atenei statunitensi – tra
cui alcuni tra i più prestigiosi della Ivy League – hanno sottoscritto una
dichiarazione congiunta che condanna le politiche dell’amministrazione Trump e
sostiene il principio della libertà accademica. L’occasione sono le ingiunzioni
della Casa Bianca a cancellare, pena la perdita dei finanziamenti pubblici, i
programmi di ricerca legati ai temi “DEI” (“Diversity, Equity and Inclusion”).
Lo stesso acronimo che anche Meloni, nell’incontro con Trump dello scorso 17
aprile, ha indicato come minaccia ad una libertà di pensiero fondamentale per
rendere “l’occidente great again”. Intanto, in USA, a centinaia di studenti e
ricercatori stranieri è stato improvvisamente revocato il visto e molti vengono
espulsi senza appello in quanto “dissenzienti”.
Se la Columbia University, a seguito di un taglio di circa il 6% del suo budget
annuale, ha immediatamente ceduto alla richiesta di riformare radicalmente i
propri programmi e di istituire un corpo di sicurezza interna con 36 agenti
abilitati ad arrestare ed espellere studenti, l’Università di Harvard, a fronte
di minacce di tagli ben più severe (33%), ha invece reagito denunciando il
sopruso di un governo che pretende di regolamentare direttamente “le condizioni
intellettuali” di un’università. Harvard ha “dato l’esempio” – ha affermato
Obama – “respingendo un tentativo illegale e maldestro di soffocare la libertà
accademica” in nome di un’accusa di antisemitismo usata come cavallo di Troia
per “liberare” le università dall’ideologia woke.
“Libertà” è dunque la parola più usata, da un lato e dall’altro, filo conduttore
della difesa di un principio che si vuole sancito almeno dai tempi di Humboldt.
Ma libertà di chi? E libertà per cosa? “Libertà accademica”, come dimostra anche
il dibattito in Europa negli ultimi anni, non è semplice autonomia
istituzionale, ovvero libertà di governance: una forma puramente gestionale di
indipendenza dal governo e dal potere politico propria anzitutto della logica
imprenditoriale. Essa comporta anche un diritto di autodeterminazione
scientifica: riguarda la libertà di “cosa insegnare, chi ammettere e assumere e
quali aree di studio e ricerca perseguire”, come ricorda il rettore di Harvard,
ormai assurto a campione della difesa della libertà accademica nell’attuale
conflitto. In gioco, in definitiva, è l’idea stessa di università – di ciò che
si continua a chiamare università a fronte di uno stravolgimento che la rende
vieppiù irriconoscibile.
Per sostenere il principio della libertà accademica, non è dunque sufficiente un
atto di difesa da “interferenze politiche” esterne, ma è necessario chiedersi
anche che cosa si sta difendendo – o addirittura se, paradossalmente, proprio
ciò che si sta difendendo non sia in realtà parte del problema.
La lettera inviata dal governo federale alla comunità di Harvard a inizio aprile
merita particolare attenzione. Essa lascia esterrefatti per la violenza: più che
indicare obiettivi, sembra voler esibire la forza che li impone e che piega alla
sudditanza, quasi a voler suscitare il clamore dovuto a quello che appare un
manifesto dell’università reazionaria. Abituati da decenni a forme neoliberali
di governamentalità, a forme (post)democratiche di “controllo” e “guida a
distanza”, per le quali il ricorso alla coercizione sembrava, almeno a certi
livelli, una dichiarazione di impotenza, si rimane attoniti dinanzi a un così
inaudito attacco al liberalismo.
In realtà, superato il primo sconcerto, si può notare che nella lettera il
richiamo all’ordine e l’imposizione autoritaria si accompagna senza
contraddizione ai più classici dispositivi neoliberali. Insieme a minacce di
censura e di ritorsione si parla infatti anche di audit, accountability,
transparence, merit-based, whistleblower ecc., con il pacifico chiarimento che
l’intervento richiesto risponde alla necessità di conservare una “financial
relationship” tra università e governo. A questo scopo, è scritto, occorre
ridurre il potere degli studenti e di chi “privilegia l’attivismo rispetto alla
ricerca” e rafforzare quello del personale di ruolo “più devoto alla missione
dell’università”. Anzi, si legge in conclusione, tutte le richieste indicate
sono volte a riportare Harvard “all’originaria missione di ricerca innovativa ed
eccellenza accademica”. Di nuovo, le più violente minacce e intimidazioni si
collocano pacificamente nel più tradizionale vocabolario neoliberale.
È allora necessario interrogarsi sul senso di questa nuova direzione, perché non
si tratta di semplice ritorno all’antico – del tutto antieconomico – potere
sovrano. Per farlo, tuttavia, è necessario considerare anche non meno
attentamente la risposta delle università costrette al violento aut aut. A
meritare attenzione, infatti, è non solo la sconcertante capitolazione della
Columbia, ma anche la lettera di risposta dell’American Association of Colleges
and Universities (AAC&U).
“Non ci opponiamo”, si legge in quest’ultima, “al legittimo controllo del
governo. Tuttavia, dobbiamo opporci a un’indebita intrusione del governo nella
vita di coloro che apprendono, vivono e lavorano nei nostri campus. Cercheremo
sempre pratiche finanziarie efficaci ed eque, ma dobbiamo rifiutare l’uso
coercitivo dei fondi pubblici per la ricerca”. Non viene definito in cosa
esattamente consista “il legittimo controllo del governo”, come pure restano
vaghi il ruolo e le finalità che le università e i college ritengono
appropriati.
Chi si aspettava non solo un atto di difesa, ma una riflessione alternativa
sull’idea di università e di libertà da opporre al “manifesto” trumpiano, si
trova invece di fronte ad una qualunque “mission” aziendale. “Il sistema
americano di istruzione superiore è vario come gli obiettivi e i sogni degli
studenti che serve”, si legge nella lettera di AAC&U. Le università
“contribuiscono alla prosperità americana e sono partner produttivi del governo
nella promozione del bene comune, contribuiscono alla vitalità economica e
culturale a livello regionale e nelle nostre comunità locali, promuovono la
creatività e l’innovazione, forniscono risorse umane per soddisfare le esigenze
in rapida evoluzione della nostra forza lavoro dinamica e sono esse stesse
importanti datori di lavoro”. L’unica cosa che le università non “forniscono”, a
quanto pare, è la conoscenza. Ciò riconferma quello che Christophe Granger ha
definito il paradosso della società della conoscenza, ovvero la programmatica
distruzione in essa “delle condizioni per l’esistenza di un mondo dedicato alle
cose della conoscenza”.
E in effetti, il sospetto che la rivendicazione di Harvard sia in realtà
svuotata di contenuti è confermato dal fatto che, poche ore dopo la
pubblicazione della lettera in difesa della libertà accademica, silenziosamente
Harvard stava già riorganizzando (ufficialmente: “adjust”) il dipartimento DEI,
cambiando il nome in “Community and Campus Life”. La diversità deve diventare
– sottolinea Harvard – “coltivazione di una cultura dell’appartenenza” – ma
appartenenza a cosa, esattamente? A quale idea di università e di libertà?
Nel marzo dello scorso anno, in seguito alla contestazione studentesca
dell’allora direttore di Repubblica Molinari, invitato da diversi rettori a
parlare delle guerre in corso (la celebrata uscita dall’autoreferenzialità
dell’università si concretizza oggi in un’impressionante successione di eventi
il più possibile mediaticamente riconoscibili, ossia conformi ai diktat
dell’attuale politica spettacolo), la Ministra Bernini esternò il proprio
disappunto in questi termini: “sono diventati troppi i casi di intolleranza
all’interno dei nostri atenei”. Membro di un governo presieduto da una sincera
ammiratrice della politica trumpiana proprio sul versante della lotta
all’“ideologia DEI”, Bernini – che pure pochi mesi dopo annuncia un’indagine
sulle università impegnate in “Gender Studies” – in questo caso non ha
“minacciato”, invocato espulsioni, richiesto repressione del dissenso.
Semplicemente, di contro ad estremizzazioni “irragionevoli”, ha avanzato una
ragionevole richiesta: “serve un’alleanza tra Governo, Università e Istituzioni
per proteggere questo spazio prezioso della Democrazia”. Quasi una gradita
sorpresa di moderazione in un governo di destra certo non moderata. Così a
nessuno è risultata indebita questa richiesta di partnership, che in altri tempi
sarebbe apparsa enormemente lesiva dell’idea stessa di libertà accademica, che è
tale se l’Università non è chiamata a fare alleanze con chicchesia, men che mai
con il governo.
Oggi, alla luce della lettera dell’AAC&U, non si può non osservare che il
baluardo opposto contro le ingerenze trumpiane dalle liberalissime corporate
universities americane è esattamente questo “tuning”, più precisamente un suo
rafforzamento e estensione. Nulla di inedito, anzi: la difesa di ciò che esse
sono, o sono diventate, a seguito di una drammatica restrizione del concetto di
libertà accademica. Sulla questione palestinese, per esempio, la sintonia di
Harvard con i suoi abituali donatori miliardari è stata del tutto naturale e
spontanea e non ha conosciuto variazioni: anche in questi giorni di grandi
rivendicazioni semplicemente prosegue la repressione disciplinare della protesta
studentesca; in aggiunta, i pochi programmi di insegnamento e ricerca sulla
Palestina sono stati eliminati o sono in via di eliminazione; è stata cancellata
una tavola rotonda con la partecipazione di bambini di Gaza alla Harvard Medical
School, interrotta l’unica partnership con un’università palestinese, eliminato
un programma della Harvard Divinity School che affrontava il caso di studio
Israele/Palestina, licenziati i responsabili del Center for Middle Eastern
Studies…
Si profila così una singolare, anche se a prima vista impossibile, contiguità
tra i principi delle post-democrazie neoliberali e i principi delle cosidette
democrazie illiberali. Una contiguità che tanto più merita riflessione dal
momento che la questione della libertà accademica è da alcuni anni
operativamente al vaglio dell’Unione Europea, intenta ad allestire varie
metriche a sua difesa, sulla strada aperta dallo Academic Freedom Index (AFI)
messo a punto nel 2020 dall’università di Erlangen Nürnberg e dal V-Dem
Institute, e finanziato dalla Fritz Thyssen Foundation e dalla Volkswagen
Stiftung (sic!).
Riferimenti bibliografici
Lettera inviata a Harvard il 4 aprile 2025,
https://www.harvard.edu/research-funding/wp-content/uploads/sites/16/2025/04/Letter-Sent-to-Harvard-2025-04-11.pdf
Lettera di risposta di Harvard del 14 aprile 2025,
https://www.harvard.edu/research-funding/wp-content/uploads/sites/16/2025/04/Harvard-Response-2025-04-14.pdf
American Association of Colleges and Universities (AAC&U), A Call for
Constructive Engagement, 22 aprile 2025,
https://www.aacu.org/newsroom/a-call-for-constructive-engagement
Ch. Granger, La Destruction de l’université française, Paris, La fabrique, 2015.
Pinto & S. Zellini, The ‘Academic Difference’: Reimagining Academic Freedom in
European Liberal Democracies, in “Philosophy and theory of higher education”,
vol. 51.2, 2023, pp. 289-328, https://www.peterlang.com/document/1456772.
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