Tag - Poesia

Perché la poesia manda in tilt ChatGPT
Richieste improprie e che subito bloccate se poste in linguaggio naturale, vengono invece accettate dai large language model se messe in forma di versi e rime: com’è possibile? Avere la certezza che ChatGPT, Gemini, Claude e tutti gli altri si rifiuteranno sempre di produrre contenuti vietati dalle loro policy non è possibile. Per quale ragione? “I provider hanno la responsabilità di proteggere gli utenti da contenuti dannosi e per farlo usano principalmente due strategie. La prima è l’allineamento in fase di addestramento, con cui il modello viene istruito a rifiutare determinate richieste oppure a seguire specifiche regole. La seconda strategia riguarda invece dei filtri esterni o classificatori che analizzano input e output del modello, bloccando tutto ciò che corrisponde a pattern riconosciuti come pericolosi”, spiega, parlando con Wired, Matteo Prandi, ricercatore ed esperto di AI Safety. “Il problema è che entrambi gli approcci si basano su esempi di richieste formulate in modo diretto, prosastico o estremamente preciso”, prosegue Prandi. Jailbreak in versi Ed è proprio per questa ragione che, nel corso degli anni, sono emersi molteplici metodi che permettono di aggirare le barriere: formulando comandi indiretti e creativi... Continua a leggere
Anne Carson / Classico e moderno, scrittura ibrida
Uno degli elementi rilevanti di questo volume di Anne Carson (pubblicato da Crocetti nella traduzione e cura di Patrizio Ceccagnoli) edito nel 1995 con il titolo Plainwater, sta nella involontaria distopia letteraria che esso rappresenta, per i lettori italiani, comparendo trent’anni dopo. Carson ha già rivelato questa sua capacità di una contemporaneità aumentata già in Eros the Bittersweet (1986) e Glass Irony, God (1995) che conferma con questo quarto libro, spingendo verso l’urgenza di cambiare metodo, prospettiva e tanto sprofondare nella storia poetica, tanto liberarsene, attraverso l’exit strategy della persona singolare. Si dirà: ma allora è “lirico-assertiva”? O “autofiction”? A mio avviso no. La sua contemporaneità è nel modo singolare e unico con cui mescola materia letteraria, classici senza tempo, registrazioni di vissuto, descrizioni del mondo attorno a sé, sottraendosi a tutto, lasciando frantumare ogni categoria, recinto e classificazione di lirica, antilirica e archeologia polemica varia. Si affida alla scrittura. Un’analisi stilistica, formale, più completa di un testo straniero, dovrebbe essere fatta sull’originale. Anche in traduzione però si possono apprezzare le molte qualità letterarie e in particolare per Carson la struttura logica del discorso, le sue capacità di sorprendere, come anche la qualità di analisi psicologica e il lessico. Una materia composita, che va dal calco di una frammentazione interrogativa, tra lirica e filosofia, riscrivendo i fragmenta del poeta greco Mimnermo alle micro-didascalie dell’inafferrabile che sono i magnifici “Discorsi brevi”, in cui si tirano in ballo da dettagli laterali, autori come Ovidio, Kafka (e la sorella Ottla), Silvia Plath, le sorelle Brontë, per dei brevi pronunciamenti tanto affermativi nella struttura, quanto spiazzanti nel dire qualcosa che non si ferma al concetto, in un procedere metaforico e ragionativo assieme, con accostamenti impervi di deriva dal surrealismo poetico-filosofico (alla Char) e insieme l’applicazione di quella forza ragionativa non consequenziale e non ordinaria con la quale molti filosofi nutrono la loro prosa di poesia. Sono proprio i “Discorsi brevi”, insieme all’“Antropologia dell’acqua” (già pubblicato con altre traduzioni da Donzelli anni fa) il risultato più alto di questo libro, che contiene anche l’ampia sezione di “La vita nelle città” in cui il meccanismo formale sembra incedere, usando qui un “tic formale” (l’uso del punto alla fine di ogni verso) che forza e distorce, interrompendo di fatto l’enjambement e anche la connessione sintattica, creando una spezzatura innaturale. Non diversa da altri “scarti dalla norma” novecentesca, certo, ma Carson migliora sé stessa, in questo libro composito, proprio là dove esce dalla necessità di mostrare che la gabbia è rotta, perché sempre nella gabbia si resta. Invece Carson pratica in poesia al meglio quello che già da quegli anni stava succedendo nella letteratura, un processo di liberazione dagli steccati di genere di fatto in un’unica grande categoria ovvia: scrittura. Unica, polimorfa. Si tratta di una liberazione e forse la rottura dell’enjambement dice anche questo: da un lato, fare a meno di tutta la tradizione anche formale, ma compresi i post-formalismi “installativi” che praticano le rotture specchiandosi nel “senhal” meta-poetico della rottura, essa stessa “gabbia” tanto quanto un sonetto, perché esibito, ostentato, programmatico, poet-ideologico. Invece Carson pratica, in questa capacità libera di affidarsi nient’altro che all’ esattezza della scrittura e al caso della composizione o montaggio, un cinema di poesia restituito alla poesia, che produce meraviglia, pensiero. Carson attinge a materiali vari, esperienze che legge di volta in volta in forma di breve narrazione, di notazione saggistica, di icastica fraseologia in “a capo” o no, ma sempre immettendo una lente personale ma sempre inafferrabile, lasciando spazi di immaginazione all’io-minimo che non vuole definire nessun “Io” maiuscolo, e irrompe con riflessioni su sé, sui propri amori sulle proprie relazioni dentro questo spazio di ricerca e composizione che fa la scrittura. Ceccagnoli cita una definizione per Carson emblematica: “poetry is aversion of conformity in the pursuit of New forms”. Nella lettura scritta il gioco di parole evidenzia come “l’avversione” del poeta che si ponga volutamente contro, sia di fatto anche “una versione” di conformismo, che sta già dentro la ricerca di nuove forme. Carson invece utilizza quello che sempre Ceccagnoli definisce la “idiosincrasia” a nessun a-version, sottraendosi e praticando una mescolanza irriducibile di tutti i generi. Un flusso costante, qui fluidità Come l’acqua, per l’appunto, parola chiave per questa poesia ben prima che diventasse parola-baule, ed etichetta dei nostri anni iper-identitari. La fluidità di Carson è antropologica, cerca vita minuta dentro la classicità dai greci, nella grande pittura, nella letteratura del ’900, con una continua libera combinazione in cui il testo diventa lo spazio che si apre nel pensiero, approfitta di angoli e spigoli logici, di cortocircuiti concettuali e percettivi di una persona-mente che vive e vede il mondo intorno a sé e lo reinterpreta. La scrittura è o, meglio, diventa scrivendo, come un continuo appunto saggistico-frammentario-diaristico, la continua sperimentazione di quella realtà, da cui emerge questa compartecipazione attiva di una soggettività. Certo è un soggetto che fa, che ha fatto letture plurali ma è come se si nutrisse, e assorbisse in sé, un “noi”, attraverso quello che ha lasciato depositato dentro il “noi” anche se in una intervista Carson ha detto che “il linguaggio è molto molto personale e privato”. Facendola finita con enjambement e altri punti fermi di ciò che è poesia (l’“acapo”, ineliminabile anche se si pratica una confluenza di parole intercettate o un “dripping” alla Pollock in parole. L’idiosincrasia radicale della soggettività di Carson alla fine porta a una letteratura che torna a misurarsi con il dato interiore ed emotivo, senza nella registrazione narcisistica di palpitazioni di dolori affanni proiettate dall’ego al mondo. Carson è autrice vivente che a costo di una produzione anche abbondante, se non strabordante, ricca e stratificata di scritture, mostra la continua vitalità e trasformazione dell’atto disperato di voler significare qualcosa di fronte all’enigma continuo che ti pone la vita e il visibile. Una continua energia che rischia l’errore, che si fa erranza, ma anche libertà di cammino fuori da ogni ossessione normativa così come da ogni forma canonica, ma nella ricchezza dei materiali. Non è la liberazione del poeta delle semplificazioni, spacciate per sacra semplicità a lettori poco esigenti.  Si scende nelle pieghe di una coscienza, ma non si erige nessuna statua della stessa. Eccolo il processo di decreazione al centro di un libro che scriverà tredici anni dopo questo. Mentre parlo, compongo, e mi sfaldo. Divento ciò che dissipo, disseto il mare, dopo aver portato ad essere foce la sorgente. L'articolo Anne Carson / Classico e moderno, scrittura ibrida proviene da Pulp Magazine.
Dario Villa / Poesia, “la cosa che si dice mi somigli”
Antonio Ria, fotografo on the road negli anni Ottanta, parlava di tribù dei poeti, quella “cosa” per niente astratta che inseriva scrittori e scrittrici nel gioco serissimo della vita e dell’arte, gente che pellegrinava (e lui con essa) per raduni e festival esprimendo in pubblico poesie con performance di svariati generi, musica e parola e pittura e fotografia e teatro – tutte azioni che ancora oggi, in epoca del tutto diversa (e pericolosamente storta), ci sorprendono e spesso commuovono. Gli anni passano, e in vecchiaia questo accade più di quanto si vorrebbe. Le istantanee in b/n di Ria riportano una serie di gesti e volti in presa diretta che magicamente interagiscono col ricordo e le pratiche messe in gioco con spirito comune. E allora i nomi sono questi: Franco Beltrametti, Adriano Spatola, Tom Raworth, Corrado Costa, Allen Ginsberg, James Koller, Valeria Magli, Steve Lacy, Patrizia Vicinelli, Amelia Rosselli e quanti altri ancora. Nomi che non tutti, ahimé, oggi conoscono. E poi Dario Villa. Appare lì in mezzo, fra tutti i sodali e pur defilato come stella bellissima e girovaga, come ci spiega felicemente e preciso Alessandro Giammei nell’introduzione al volume che raccoglie l’opera in versi di questo poeta milanese giunto al mondo nel 1953. E andato via nel 1996. Come se la sua grande poesia avesse dato tutto in una manciata di anni e poi avesse smesso di nominarlo. Una vertigine che a Dario piacerebbe ancora, si trovasse qui per qualche perversa ragione cosmica. A Giammei bastano quattro pagine, all’incrocio fra memoir e gesto critico, per definire l’enunciazione poetica di Villa nei decenni che videro apparire Satura di Montale, Composita solvantur di Fortini (a cui aggiungerei La composizione del testo di Spatola e Galateo in bosco di Zanzotto), l’avvento di Berlusconi, le morti di Jim Morrison e Kurt Cobain, e poi… Una bravura del curatore di gran conto, in epoca di sproloqui e assenza di materiale critico in favore di bugie vessatorie. Villa in un libretto di prose del 1985 (Proemi in posa) scriveva: “E chi ci crede ancora, alle parole?” Figurarsi. Definito il migliore da Patrizia Valduga – lei di non sommesso sentimento verso la parola, e di certo indagante motti e sentenze anguste –, Villa non si lasciava circuire da definizioni poliziesche, né dava conto “nei panni del madama” di indizi né chiavi di lettura sul senso del suo linguaggio. Se Raboni indicava la sua poesia come essere sempre “un passo avanti” e altrove rispetto a quanto si aveva sotto gli occhi al momento, una ragione può trovarsi nell’esistenza flâneur di Dario, per molti versi simile a quella di Beltrametti. Ma in lui il Rimbaud trasferito a Milano sormontava il “transiberiano” sogno giapponese del poeta svizzero. Poeta essenzialmente biografico, diceva di sé Villa, dando spago a un’austerità linguistica quasi cerimoniale, cogliendo vendette verso indugi spettacolari della lingua. Dario in fondo era un angelo vendicatore sugli abissi insondabili della poesia novecentesca, un Laforgue sopravvissuto al presente della modernità. Molti sono andati esilarando sui versi che Villa intendeva non certo come organizzazione dell’universo. Tutt’al più una cornice in cui fingersi, insieme al paesaggio. Seduttivo il poeta che crea poesia come antidoto alla condizione umana. Lui avrebbe voluto una poesia che rovesciasse la “fodera del mondo” invece di nominarlo continuamente. Nella sua opera è dimostrata la riuscita, seguendo il corso di questo volume dedicato a chi desidera ancora capire qualcosa del Novecento traumatico, nostro tempo da cui oggi ci allontaniamo con traumi ancora più devastanti e, si teme, d’impossibile riabilitazione. Nelle poesie di Villa si viaggia di sistema in sistema stracciando manchevolezze e inceppando gli ingranaggi degli inganni umani. Tutto con il suo italiano indiscreto ed eroicamente dandistico, vasto quanto il “tratto migliore di spazio disponibile”.                             L'articolo Dario Villa / Poesia, “la cosa che si dice mi somigli” proviene da Pulp Magazine.
Valerio Magrelli / L’energia della rima
Valerio Magrelli traduce Le Misanthrope di Molière seguendo un sentimento dominante e rivelatore verso la lingua francese tanto che il risultato si evidenzia come una solenne prefazione alle pagine seguenti l’opera, intitolate Apologia della rima: dodici pagine che valgono quanto una lectio magistralis diretta a coloro che si devono augurare grandi eredità dalle lingue madri e da quelle ereditate. Uno stile seducente – qualcosa di ben conosciuto da chi ha letto il Magrelli prosatore – oltre che cosparso di finezze filologiche. Nel viaggio dentro la poesia, certo, la cui pratica non prescinde dall’uso della metrica, verso libero permettendo. Magrelli vola sui secoli europei associati alla metrica per posizionarsi nel periodo precedente la fine dell’Ottocento, quando al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico spuntò in vita il verso libero. E cita Pessoa quando nel 1930 in poche frasi appellò come “drogata” la prosa quand’era “ingozzata letteralmente di musica” dalla metrica rimata per trasformarla in poesia. Alcuni nel XIX secolo sistemavano le cose traducendo in prosa i versi in modo che le gabbie metriche si attenuassero non poco: Magrelli dice la sua, precisa che ancora oggi tale metodo è ancora in auge nonostante certi usi “giocosi” allestiti (soprattutto nel Novecento), per esempio, dall’Oulipo, con l’obiettivo di crearsi dei vincoli. Dentro questo punto di vista Magrelli sosta alla svelta nello spazio dove i traduttori Franco Parenti, Vittorio Sermonti e Renato Benvenuto offrirono del Misantropo di Molière versioni in metro e rima italiani. Lavori d’esiti diversi, a cui l’attuale edizione si accosta. In ogni caso l’avvertimento che viene fuori da queste dodici pagine è chiaro: “tradurre è passare fra Scilla e Cariddi”. Una vera sfida strutturale. Da qui la ben nota domanda: perché tradurre? I giovani, di fronte a certe esibizioni filmiche (più raramente, teatrali) si chiedono “come parlavano questi?” anche se poco dopo, complice la moda del rap, Magrelli confessa che nel 2005 il figlio sedicenne gli chiese in prestito un rimario. Ah la forza della rima! Fra esempi critici e esempi di traduzioni preoccupate dell’equivalenza dinamica o del senso, si arriva – fra scomodità varie e duelli all’ultimo sangue – a quei testi in cui l’azzeramento della rima equivarrebbe a un omicidio (il caso di filastrocche e limericks). Magrelli appena può mette in campo esempi luminosi di vivacità citando Camillo Sbarbaro che vede la vitalità della rima sottendere un evidente stimolo erotico. Un miracolo acustico che “ha fatto versare fiumi di inchiostro”. E dunque, ecco che la tenzone giunge al termine venendo a capo di questa traduzione del Misantropo, dove la rima accetta la sfida della brutalità, per così dire, perché non si può togliere (Magrelli ne è convinto) l’energia della rima a una pièce di Molière senza renderla inservibile (altro che versione servile!). Con la più severa e lucida delle intenzioni: accettare le soluzioni altrui quando sono migliori della nostra. Come “in alpinismo è consentito usare chiodi piantati da coloro che hanno affrontato la stessa via prima di noi”, vanno accolti i pregi dei migliori precursori. Alceste, il protagonista, ringrazia.   L'articolo Valerio Magrelli / L’energia della rima proviene da Pulp Magazine.
Alberto Pellegatta / La realtà comanda in questa poesia
Pensiamo al surrealismo? Sarebbe un errore, nella poesia di Alberto Pellegatta la realtà invade le parole abbattendo il realismo e tanti altri -ismi (più o meno surmoltiplicati) inventati dagli umani – poeti e scrittori di vario genere. Una realtà talmente robusta da rendere le cose protagoniste nei versi, assumendosi ruoli importanti, aperte al dialogo che più o meno faticosamente noi che leggiamo e il poeta che scrive tentiamo di tenere sveglio. È questo connubio tra policromia del senso e ingegnose dinamiche del fantastico che l’analogia ha i suoi alti e bassi, e deliri controllati abilmente da Pellegatta. Con quella arguta ragione che già ci aveva sorpreso (e non poco) nel suo precedente libro, Ipotesi di felicità. Una leggera perversione che faceva venire in mente più il nostro Ottiero Ottieri che il praghese Kafka. Perché le anomalie in questa poesia (e nelle oscillanti prose inserite a intervalli precisi) sono concrete più che un tavolo da cucina, più che un letto sfatto la mattina. Se Lynch (il regista) si prende la libertà di mettere conigli bipedi e parlanti in un suo film, essendone lui il generatore, Pellegatta (il poeta) si prende la libertà di consentire “problemi di cuore” agli aceri e “vanità” alle acque molto intraprendenti. E, con amabile vezzo, s’inventa un Raboni che spiega alla madre cosa il figlio ha sbagliato nel suo libro. Persone che non ci sono più varcano la condizione di fantasmi e permettono al poeta di ricevere sorrisi da una ragazza sconosciuta tornando a casa sul tram. Quale realtà può essere più protagonista di questa? Libro concreto dunque, Piccola estate ricorda il tempo in cui non è più estate e non è ancora autunno secondo il significato di una parola spagnola. Un tempo che verosimilmente risulta abitato da leggende speranzose, fors’anche disperazioni familiari e ritorni andati male. Le cose, protagoniste come dicevamo, hanno pensieri più lucidi degli umani, perfino i rubinetti sognano il mare dentro città capaci di sognare la pioggia. La mente di Pellegatta vede tutto questo grazie al suo modo di comporre la poesia-documento piena di contrasti e modalità prosodiche variatissime, metriche sul punto di esplodere ma pur sempre tenute al guinzaglio. Non esiste tatto in questo libro, ma la concretezza necessaria a vivere per lungo tempo le impressioni – al netto di un controllo che necessita di ricognizione critica e sensibilità. Così è possibile convincersi che Piccola estate sia libro di poesia assai maggiore di quanto il mercato nazionale offre in questo mezzo termine del secondo decennio. Alla radice del tempo nostro manca qualcosa che riguarda il diritto e l’estetica, si vedono frivolezze esistenziali e contenuti latitanti in poesia. Pellegatta trasforma in necessaria la rivolta delle cose nel pieno della realtà che – pare ormai chiaro – prende il sopravvento sull’umano. E lo lascia lì, stravolto. Sempre più lontano dalla “parola che sei nei cieli pericolante”.   L'articolo Alberto Pellegatta / La realtà comanda in questa poesia proviene da Pulp Magazine.
Dario Capello / Nella notte torinese
Torino e le ombre. Nel teatro della città natale di Dario Capello gli incontri si adeguano al grande fiume, ai palazzi lividi e taciturni, e gli enigmi trovano risposte che vanno bene alle strade, alle visioni incontrate dietro ogni angolo: sono le parole con tutto il loro potenziale placido ed esplorativo a consegnarci una poesia che si estende lungo i decenni con la rarefatta presenza – ma quanto resistente e necessaria – di quattro raccolte consegnate alle stampa dal 2000 a oggi. Ora infine è la volta di La straniera, che si unisce alla bella collana diretta da Giancarlo Pontiggia. Capello aveva esordito nel primo numero di “Niebo” (1977), rivista diretta da Milo De Angelis. Dopo vi fu un silenzio di ventidue anni, interrotto con la pubblicazione di Il corpo apparente, primo libro che raccoglieva poesie degli anni Novanta. L’opera spinse il redattore di questo minimo scritto ad alzare il telefono, a cercare una voce che indicasse la via di accesso a una scrittura capace di seguire l’asfalto cittadino e le anime vaganti e ben visibili nella trama minerale della notte torinese. Le ombre seguite dal poeta continuano a cercare i propri inseguitori, a scompigliare la voce di viaggiatori, a dare tracce sparse qua e là nella gola della notte. A dare sbocchi agli assetati nel loro varcare la soglia dei bar, mentre cercano nomi da amare e una donna che si è amata una volta per sempre. Capello sa interpretare le risposte, anche se il fiato si fa più corto – colpa degli anni, colpa dei tempi in odore di guerra. Lui entra nel mondo “già fatto”, continua a entrarvi pur non essendone mai uscito poiché i confini sono circolari e non esiste nessuna fine. E nessun inizio. Sono gli anni, questi, riuniti nell’isola pedonale rappresentata da La straniera – corpo fluttuante, fatto di note basse, e decisivo. Decisivo perché si tratta di quella increspatura da cui nasce la notte abitata. In cui le ombre non sono mai oscure, ma circondate dagli azzurrini e il rosa antico delle albe. La Straniera è “femminile”, non può esserci dubbio, l’incantamento da cui Capello – è lui stesso a suggerirlo – trae il suo mito personale. Ecco perché i nomi scivolano volentieri per le strade del mondo che ancora si ripete in queste poesie, cariche del “tu” novecentesco che tanto amiamo noi invecchiati ai costituenti Montale e Caproni. Se prima il “camminatore” si atterriva di fronte alle maschere ferme al semaforo (come in molte poesie presenti in Il corpo apparente), oggi nel cuore della notte si accennano mezzi sorrisi, lievi ricongiungimenti che tutt’al più bruciano senza ustionare. Il fiume porta le voci in “esercizi di strana quiete” – l’immensa madre, la città d’inverno ha le sue insegne, chi vi passa lancia i suoi segnali, e se si trova a esser poeta come Capello ha tutti i mezzi per aprire la prima grande finestra della casa abitata nei decenni. Nella media notte lui e pochi altri sapevano tutto, sapevano che i dolori hanno sempre lo stesso volto. Un lascito che questo nuovo libro appoggia nel teatro della memoria, e nessuno dovrà pagarne lo scotto. L'articolo Dario Capello / Nella notte torinese proviene da Pulp Magazine.
Poesia: eredità di una visione
Nello spazio di una recensione non è facile ripresentare la visione della poesia estesa al pubblico mondiale da chi il Nobel della letteratura, in quell’ambito l’ha conseguito nell’ultimo mezzo secolo. La loro visione – Montale, Aleixandre, Elytīs, Miłosz, Seifert, Soyinka, Brodskij, Paz, Walcott, Heaney, Szymborska, Xingjian, Glück – l’hanno enunciata nel proprio discorso all’Accademia di Svezia in occasione del conferimento del Premio, ognuno tentando di cogliere non solo una poetica tenuta stretta nel corso del tempo ma, e soprattutto, tenendosi appresso ai rovelli e agli argomenti cui nessuno di loro ha voluto rinunciare di fronte alla platea mondiale. A partire da Montale (Nobel 1975), reduce dall’aver consegnato alle stampe quel Satura e quel Diario del ’71 e ’72 non certo immuni da sferzate “politiche” verso quella che lui definiva “svolta storica di proporzioni colossali” dovuta alla mercificazione cui la poesia doveva tener testa. Questo volume, introdotto esemplarmente da Roberto Galaverni, riunisce i testi delle Letture che tredici poeti e poetesse dal 1975 a oggi hanno proposto non esimendosi, nessuno e nessuna esclusi, dal garantire agli ascoltatori i loro dubbi etici partendo dalla madre assoluta che regge la realtà: l’estetica. Le categorie del “bene” e del “male” non vi sono estranee, e la loro analisi sta del tutto dentro l’intensità di fondo di questi scritti. Bene rimarcarne toni e propositi, sempre all’interno della varietà non esente da sorprese, come sottolineato da Galaverni. Ogni poeta ha il suo tono e le sue impostazioni di voce, mani più o meno leggere si avvertono dentro qualcosa che assomiglia molto ai modi che ognuno ha nell’affrontare la vita – e tutte le sue coordinate. Togliere il punto interrogativo dal titolo che lo stesso Montale pose al suo discorso è cruciale: domanda e risposta in un’unica frase sono la base della sopravvivenza della poesia, che da Adorno (“esiste ancora la poesia dopo i campi di concentramento?”) ai giorni nostri, proprio in questi giorni attuali, deve avere risposta affermativa. Deve: sopravvivere in pieno lo ha fatto per millenni, nessuno di questi poeti ha dubbi in proposito, nonostante difficoltà e rotture, tensioni e approssimazioni. La poesia ha in sé, scrive Shelley, ciò che è “centripeto e centrifugo nella mente e nel corpo umani”. I pronomi sono importanti in queste pagine, passare dalla prima persona al “noi” ha chiara importanza, i poeti – più che altrove – non hanno intenzioni predicatorie, si guardano bene dallo sfiorare schemi ideologici sempre al varco quando si deve rispondere agli attacchi di una realtà disforme. Mezzo secolo di scritture poetiche non è poco, si veda come le generazioni successive abbiano avuto molta fortuna nel potersi relazionare (ma non sempre, per inciso, l’hanno fatto) a personalità come quelle presenti in questo volume: loro sono una grossa parte della storia della poesia, un’eredità che prescinde certamente dal conferimento del Nobel. Le opportunità sono sempre le stesse, e si trovano ancorate dentro le loro opere. L'articolo Poesia: eredità di una visione proviene da Pulp Magazine.
Davide Bregola / Storie disperse che tornano
Il narratore Davide Bregola si rivolge alla scrittura, le chiede notizia di amici scomparsi, come se volesse conquistarsi altre pianure su cui viaggiare, senza smettere, ricordando e rivivendo per sé e per quel lettore che detesta la nostalgia perché li vorrebbe ancora tutti vivi questi scrittori e poeti, questi viaggiatori che hanno mangiato il loro destino. Davide varca spesso confini, e al di là di ambiguità e disordini questa volta guarda bene in faccia scrittori e poeti che a loro volta hanno guardato bene in faccia lui: Vitaliano Trevisan, Umberto Bellintani, Ivano Ferrari, Marosia Castaldi. Le “rovine” del titolo sono le attuali, a cui pochi sanno resistere, ma sono anche il ritratto di conoscenze antiche mai del tutto scomparse nonostante le biografie dicano tutt’altro. Gli incontri avvengono in momenti cruciali, in anni sparpagliati lungo difficoltà e difficili discorsi su come si debba (e si possa) vivere scrivendo e scrivere facendo ogni giorno altre cose. Nell’aureo libretto, scomodamente aureo perché la sua grana è grossa e rustica e talvolta urticante, questi scrittori e poeti diventano stranamente accessibili, poiché in vita altro sono stati, due poeti e due narratori la cui angustia diventa sacra e popolare, folta di immagini e giornate rivolte alla ricerca continua di una strada, di una magione, di un sentimento fatto per contrastare giornate maledette. Davide racconta di sé per raccontare queste quattro esistenze, sempre sul filo dell’esserci e il non-esserci – sono valori e consuetudini inedite, dove il naufragio sembra sciogliersi in qualcosa a cui non ci si può sottrarre. In fondo scrivere è azione innocente e enigmatica, per l’autore di Bondeno (e mantovano al presente) e per i protagonisti del memoir. Per chi poco o nulla sappia di chi ha vissuto separato per scelta e necessità, inizi da queste Lezioni dalle rovine per restare a contatto con una cultura dispersa (da questo folle secolo) che talvolta ha del magico per come ha saputo andare a spasso in terre di pianura e di provincia, di ribalte smangiucchiate e discese in profondità ben poco amene. Ma tant’è, i nostri scrittori disordinati ci hanno lasciato opere di certo difficili da trovare ma ben salde nel mantenere le loro lingue in una forma aliena allo sgretolamento. Sempre e difficile: «Quando penso a loro, a Trevisan, Ferrari, Bellintani, Castaldi, penso a qualcosa che durerà nel tempo, materiale durevole. Arte».   L'articolo Davide Bregola / Storie disperse che tornano proviene da Pulp Magazine.
Maria Luisa Vezzali / Dove il tempo si prende lo spazio
Una nuova opera di Maria Luisa Vezzali dà agio a chi frequenta la scrittura poetica, e la poesia (non sono identica cosa) favorendo prospettive rimaste nell’ombra troppo a lungo e fuori dal campo visivo dei più. Consente nuovi spostamenti nei perimetri di ciò che si dovrebbe conoscere ma che invece resta ignoto. Per mancanza di viaggi, di letture, di conversazioni. E, se andiamo a dare un’occhiata a quanto ci offre il “mercato” della poesia, scopriamo che l’inattualità per Lo spettro di casa è più di una sfumatura storica, o per meglio dire di pratica letteraria. Invece di “durata” bisogna parlare, e persuadersi che la realtà ha bisogno di scrittori che diano un nome ai fatti e alle cose accadute, e che diano tempo nuovo alle epoche attraversate aiutandosi col tatto. Cercare la grana delle immagini, sotto i polpastrelli (la seconda vista diventa prima) – così come accade imbattendosi nelle fotografie cui questo libro riserva il giusto spazio. Siamo lontani dalle leve diaristiche che difficilmente proiettano dignità intorno a sé, tanto che la critica corrente non sa più che fare per approfondire e tentare di risolvere gli squilibri non si sa quanto precari o longevi. La scomparsa di Vittorini, Sereni, Zanzotto, Porta e Rosselli è scritta sui giornali, non sui libri sempre meno partecipanti allo choc storico cui assistiamo: popolato di voci povere di mezzi nella smisurata forzatura del pubblicare. Sono nodi difficili da reggere dandosi il tempo per districarli, senza contare che gli umori personali diluiscono la voglia di imparare. Dunque, togliamoci dalla testa l’idea che la cosa vada esposta così com’è, un poeta dovrebbe star lontano dalla profusione e prendere alla lettera i suoi accostamenti vitali alla realtà. Se non altro per certi periodi della vita. Questo è quanto Vezzali attua decidendo di non ignorare il (cosiddetto) tempo che dal 2023 viaggia fino al 1977 – in definitiva, significa non ignorare sé stessa. Finalmente il fermento del futuro, nella propria ricerca, fermenta il passato. Tensioni profonde del tempo, necessarie quanto inevitabili se si tiene conto di maturazioni e nuove conoscenze, di angoli dove sono finite tutte le carte dei giorni. Ecco come lo spazio irrompe nella fiducia che occorrerà per accordare l’esperienza. Le onde luminose viaggiano, sono la struttura degli accadimenti, noi le percepiamo come “spettri” fedeli ai luoghi che ci hanno visti crescere e agire – scrivere su di esse è una anomalia consolidata, quella che per Vezzali è la casa della vita e che forma e trasforma in poesia. L’intima intonazione delle parole in ogni testo è il segno che si è state ragazze quando la città conteneva cortili gentili e strade infuriate, e c’erano anche artisti sui selciati emiliani degli anni ’70. L’irruzione della storia non prende il sopravvento sul linguaggio perché la storia produce conoscenza di per sé. Gli anni sono “cicli”, lì il tempo si prende lo spazio che serve alle voci per diffondere la scrittura. Ed ecco, durante la lettura di questo libro accade qualcosa: si alzano suoni, onde muovono l’aria e fanno vibrare le immagini in bianco e nero che così non raccontano più i fatti propri dell’autrice ma la storia che comprende tutti. Ma Vezzali evita gli stereotipi, sa che le anomalie del vissuto vanno costrette a dura indagine attraverso il linguaggio. A questo serve la poesia, la sua diversità. Difficile mettere sulla stessa strada la lingua madre e il tempo che legano chi ammette che la poesia resta inconciliabile col resto del mondo. Occorre sopportare l’intemperanza della politica e i mutamenti del proprio passo, l’andatura che varia durante i decenni, l’essere discorde perfino col proprio credo, e in ultimo con la morte. Anche interrompersi durante lo scontro del buonsenso, qualunque cosa significhi, con i virus più antichi del genere umano e le stragi avviate dall’uomo sull’uomo. In tutto questo, e di molto altro ancora a cui bisognerà ragionare, Lo spettro di casa sta come realizzazione del linguaggio che Vezzali dal 1977 ha gradualmente riconosciuto come poesia. Negli anni successivi si è capito che poco c’è da ottenere ma sempre qualcosa da colmare, dalle parole incontrate al dolore necessario perché siano poesia.   L'articolo Maria Luisa Vezzali / Dove il tempo si prende lo spazio proviene da Pulp Magazine.
Mario Moroni / Corinto oggi: New York City
Mario Moroni, classe 1955, ha attraversato gran parte della scena poetica italiana mai uniformandosi al mainstream che creava diversità presuntuose e tribù a dir poco esigenti e enfatiche nel pieno delle loro prove. Mario ha viaggiato razionalmente da Tarquinia al Maine e New York, l’Oceano di mezzo ha sostenuto mutamenti dall’esordio nel 1979 dalle parti del Mulino di Bazzano dove le semine poetiche avevano i nomi di Adriano Spatola e Giulia Niccolai e quelli erano davvero “altri luoghi” e “assolutamente attuali” per quel tempo e – possiamo dire – oggi, se vogliamo far leggere e intendere ai più vogliosi una storia della poesia italiana esente d’intelligenze aliene. L’esperimento poetico di Moroni ha attraversato i decenni con libri sempre più antropici, nati in luoghi adatti a lavorare in pace, che non significa stare lontani dagli eventi, anche i più terribili. Uno scrittore serio ma non severo ha saputo raccogliere le ceneri del mondo con ferma levità. Ha ricomposto resti, manufatti e carne umana: nomi precisi, una decina di raccolte poetiche, collaborazioni a riviste, insegnamenti alla Yale University, al Colby College, alla Binghamton University. Esperimenti e leggibilità, scritture che non sempre hanno avuto bisogno della cosiddetta realtà, e infine in questo ventennio impazzito Moroni fa ri-nascere il proprio linguaggio dove come poeta non deve niente al buio attuale. Ma, improvvisamente, supera il lutto trasfigurando la classicità greca e latina. Poemi e tragedie non vengono imitati ma riverberano immagini di sforzo senza distrazione: l’esistenza di uno sguardo è testimoniata da Tracce tragiche, ripresa delle grandi tragedie classiche di Antigone, Elettra e Medea. Sfida e interazione con l’originale riportano nuovamente all’anti­co gesto del narrare la ferita di queste voci e corpi lontani. Gesti eroici di donne, efficacia di tradimenti, gesti di pietà che annunciano la civilizzazione, è quanto interessa a Moroni mentre costruisce tre lunghi poemi sulle tracce di Sofocle e Euripide. Ambienti e personaggi femminili vengono strappati dal tempo del potere originale la cui struttura viene ribaltata nella metropoli contemporanea, nella per niente simbolica figura della “T-Tower”, erede negativissima delle distrutte Twin Towers”. Corinto regno del dissesto si ribalta nella New York attuale, dove i destini attraversano l’ombra, creatori essi d’ombre che atterrano chi credeva e sperava, e chi non credeva: Moroni accompagna le Medee pasoliniane e i Giasoni con sospensioni, interazioni e Cori di scena finale. Al centro del libro il “Monologo elettrico di Elettra” apre la storia vocativa, in attesa dell’Epilogo, e sembra riprendere la vocazione analitica di Moroni che consente alle strofe di recitare sia se stesse sia Elettra con la sorella Ifigenia. Queste ci sfiorano ancora, poiché i versi multiformi del poema invogliano a non essere più astemi di miti incarnati d’eroine più che di dèi migrati altrove per sempre. Con Tracce tragiche è giunto il momento in cui le acque del mito, agitate tanto da consegnarle alla torbidità da coloro che vantano modesta conoscenza, trovano nitidezza d’antica poesia a cui pochi oggi sono accordati. Laggiù, dove vive Moroni, qualcosa si muove, c’è una domanda che pretende atto di risposta. Il presente e il passato non si assimilano, oggi un poeta come Moroni prende il canone classico non come funerario assemblement e felicemente scrive: «Su scena rovesciata, / coro che tace, incapace, / tragedia da riscrivere, / da rivedere altrove». L'articolo Mario Moroni / Corinto oggi: New York City proviene da Pulp Magazine.