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Mario Moroni / Corinto oggi: New York City
Mario Moroni, classe 1955, ha attraversato gran parte della scena poetica italiana mai uniformandosi al mainstream che creava diversità presuntuose e tribù a dir poco esigenti e enfatiche nel pieno delle loro prove. Mario ha viaggiato razionalmente da Tarquinia al Maine e New York, l’Oceano di mezzo ha sostenuto mutamenti dall’esordio nel 1979 dalle parti del Mulino di Bazzano dove le semine poetiche avevano i nomi di Adriano Spatola e Giulia Niccolai e quelli erano davvero “altri luoghi” e “assolutamente attuali” per quel tempo e – possiamo dire – oggi, se vogliamo far leggere e intendere ai più vogliosi una storia della poesia italiana esente d’intelligenze aliene. L’esperimento poetico di Moroni ha attraversato i decenni con libri sempre più antropici, nati in luoghi adatti a lavorare in pace, che non significa stare lontani dagli eventi, anche i più terribili. Uno scrittore serio ma non severo ha saputo raccogliere le ceneri del mondo con ferma levità. Ha ricomposto resti, manufatti e carne umana: nomi precisi, una decina di raccolte poetiche, collaborazioni a riviste, insegnamenti alla Yale University, al Colby College, alla Binghamton University. Esperimenti e leggibilità, scritture che non sempre hanno avuto bisogno della cosiddetta realtà, e infine in questo ventennio impazzito Moroni fa ri-nascere il proprio linguaggio dove come poeta non deve niente al buio attuale. Ma, improvvisamente, supera il lutto trasfigurando la classicità greca e latina. Poemi e tragedie non vengono imitati ma riverberano immagini di sforzo senza distrazione: l’esistenza di uno sguardo è testimoniata da Tracce tragiche, ripresa delle grandi tragedie classiche di Antigone, Elettra e Medea. Sfida e interazione con l’originale riportano nuovamente all’anti­co gesto del narrare la ferita di queste voci e corpi lontani. Gesti eroici di donne, efficacia di tradimenti, gesti di pietà che annunciano la civilizzazione, è quanto interessa a Moroni mentre costruisce tre lunghi poemi sulle tracce di Sofocle e Euripide. Ambienti e personaggi femminili vengono strappati dal tempo del potere originale la cui struttura viene ribaltata nella metropoli contemporanea, nella per niente simbolica figura della “T-Tower”, erede negativissima delle distrutte Twin Towers”. Corinto regno del dissesto si ribalta nella New York attuale, dove i destini attraversano l’ombra, creatori essi d’ombre che atterrano chi credeva e sperava, e chi non credeva: Moroni accompagna le Medee pasoliniane e i Giasoni con sospensioni, interazioni e Cori di scena finale. Al centro del libro il “Monologo elettrico di Elettra” apre la storia vocativa, in attesa dell’Epilogo, e sembra riprendere la vocazione analitica di Moroni che consente alle strofe di recitare sia se stesse sia Elettra con la sorella Ifigenia. Queste ci sfiorano ancora, poiché i versi multiformi del poema invogliano a non essere più astemi di miti incarnati d’eroine più che di dèi migrati altrove per sempre. Con Tracce tragiche è giunto il momento in cui le acque del mito, agitate tanto da consegnarle alla torbidità da coloro che vantano modesta conoscenza, trovano nitidezza d’antica poesia a cui pochi oggi sono accordati. Laggiù, dove vive Moroni, qualcosa si muove, c’è una domanda che pretende atto di risposta. Il presente e il passato non si assimilano, oggi un poeta come Moroni prende il canone classico non come funerario assemblement e felicemente scrive: «Su scena rovesciata, / coro che tace, incapace, / tragedia da riscrivere, / da rivedere altrove». L'articolo Mario Moroni / Corinto oggi: New York City proviene da Pulp Magazine.
Olvido García Valdés / Un’allegria ora visibile
Finalmente! Questo, innanzitutto, si può dire della nuova pubblicazione della collana di poesia della casa editrice Donzelli: Olvido García Valdés, finalmente! L’esclamazione, tuttavia, necessita di una precisazione: l’autrice, nata nel 1950 in un piccolo centro delle Asturie, non era del tutto inedita in italiano: già nel 2012, Matteo Lefèvre – raffinato traduttore e curatore anche del presente volume – aveva tradotto una selezione antologica di Poesie di García Valdés a cura del poeta e musicista Mariano Peyrou per la piccola ma preziosa casa editrice Raffaelli. Tuttavia, Confida nella grazia è il primo libro di García Valdés che trova traduzione integrale – l’originale Confía en la gracia era uscito in originale per Tusquets nel 2020 – rendendo così conto di un percorso letterario che nel frattempo si è definitivamente consolidato, come dimostrano, ad esempio, riconoscimenti importanti come il Premio Iberoamericano de Poesía Pablo Neruda (2021) e il Premio Reina Sofia de Poesía Iberoamericana (2022). Naturalmente, i premi di poesia non sono quasi mai un buon metro di giudizio, specie se adoperato in modo esclusivo rispetto ad altre considerazioni: la loro recentissima acquisizione da parte dell’autrice testimonia piuttosto, e con qualche motivo di interesse in più, di come l’opera di García Valdés abbia «faticato a essere pienamente riconosciuta», come scrive Matteo Lefèvre nella densa postfazione, «e ciò non per ragioni di merito, bensì per i comodi (pre)giudizi di una critica – quella delle istituzioni accademiche, in primis – che ha perpetuato per anni una storia letteraria fondata in modo fin troppo automatico sul metodo generazionale e sull’apprezzamento dei gruppi più rumorosi e “visibili”, ai quali García Valdés non ha desiderato appartenere». Con questo, non si tratta soltanto di smentire considerazioni assai censurabili, anche dal punto di vista critico, come quelle di Chus Visor – patron di una delle case editrici di poesia più importanti di Spagna: Visor, appunto – che, ancora nel 2015, sentenziava come «dalla generazione del ’98 e in tutto il XX secolo non c’è stata nessuna grande poetessa [in Spagna], nessuna». È una dichiarazione abnorme, facilmente attaccabile (basti ricordare, tra i tanti, il nome di un’autrice coetanea di García Valdés come Ana Rossetti), che è stata ricordata da Laura Pugno su “Tuttolibri”, in una delle pochissime recensioni a questa traduzione italiana (a conferma, tra l’altro, di una consuetudine all’invisibilità che trova riverbero anche nel panorama italiano). A questo si aggiunga anche il nome di uno dei «gruppi rumorosi e “visibili”», peraltro esplicitamente menzionato da Lefèvre: si tratta di quella poesía de la experiencia, dai contorni sfumati come solo possono essere quelli di una sedicente “poesia dell’esperienza”, il cui esponente più noto, anche in Italia, è Luís García Montero (di qualche anno più giovane di Olvido García Valdés e, dal 2018, direttore dell’Instituto Cervantes). Come anticipato, la scrittura poetica di García Valdés trae invece vantaggio dalla propria resistenza alle tassonomie (o meglio, dalla propria continua ricerca di nuove tassonomie, come ad esempio quelle che sono state elaborate negli ultimi anni dal marito, il critico letterario Miguel Casado); come recita l’attacco di un suo testo: «tutte le forme sono oggi possibili / anche in una città piccola, pensa / alle donne, ai modi di vivere, o / più in generale, a un io che sa incassare / forti colpi…». Rilevava José-Miguel Ullán (poeta di importanza capitale nel secondo Novecento spagnolo, e assai diverso da García Valdés, se non per l’interesse comune per le arti visive) che di García Valdés si potrebbe dire quello che lei stesso ha scritto di Patti Smith: “la sua voce nasce dalle viscere e brucia in gola”. Nessun maledettismo, tuttavia, e nessun misticismo d’accatto: è vero che il titolo del libro, Confida nella grazia, è una sorta di mantra ripetuto in vari testi del libro, ma – pur essendo certamente accattivante e al tempo stesso insidioso – non è paragonabile alla melassa che potrebbe sortire dal medesimo titolo in un libro di poesia italiana contemporanea. García Valdés, che ha dedicato un saggio a Teresa di Lisieux nel 2001 e mostra, in questo libro, una frequentazione profonda di un “mistico non-mistico” come Edmond Jabés («il silenzio ci rende informi, ci rende / in forma di nube o in forma di lago, dice / Guirao e cita Jabés…»), conosce bene la mistica e i suoi segreti più reconditi e sorprendenti e, proprio per questo, confida spesso in una grazia più laica e diffusa di quella cristiana (lo si nota bene nel titolo di una delle sezioni più intense e, per chi scrive, impressionanti: «che ridere ero (sacramentale laico)». A tratti, tuttavia, si sente “troppa grazia” – si potrebbe forse ironizzare, raccogliendo una suggestione di Laura Pugno: “Ogni testo di questa raccolta inizia e finisce, ma è come se non iniziasse e non finisse, si genera in un flusso continuo che può sempre dar luogo ad altra poesia”. Se è certamente vero che il libro avrebbe potuto essere scorciato e reso, così, più compatto e incisivo, ciò non deve dare adito al sospetto – schivato anche da Pugno – che la scrittura poetica di García Valdés sia in qualche modo automatica (molti passaggi sono certamente legati a matrici surrealiste, ma queste ultime vanno ben oltre l’automatismo), o comunque infinitamente replicabile, perché, ad esempio, cristallizzata in alcuni, determinati stilemi. Il segreto di questa sorgente continua – di questa “grazia”, appunto – sta in uno dei testi conclusivi, in alcuni versi, che conviene riportare pedissequamente: «ci sono colori che riempiono gli occhi, sono l’allegria / […] sono / l’allegria – non è allegria la mistica? – forse un’altra / allegria più assorta – non era / in cucina? – certo che lo era // – e tutto ciò apparteneva al presente? – a un presente / che non finisce e non esiste, non è una cosa  anche se / si costruisce, subito passa e resta lì / invisibile, ma è reale e indica o annuncia / quanto accade nel giorno». Allo stesso modo, la poesia di García Valdés, che è restata a lungo invisibile in Spagna e, di riflesso, anche in Italia: è una poesia reale, concretissima, e indica o annuncia quanto accade nel giorno, sempre più breve, della poesia.   L'articolo Olvido García Valdés / Un’allegria ora visibile proviene da Pulp Magazine.
Franco Manzoni / Guida terrestre per poeti e editori
Di Franco Manzoni, poeta e scrittore, i più avveduti ricordano la direzione di “Schema”, rivista di poesia attiva negli anni ’80 in quella Milano dove Antonio Porta e “Alfabeta” erano elementi non prescindibili. Ma in “Schema” pubblicarono noti e meno noti, e esordienti di non poca qualità. Manzoni guidava seguendo direzioni tutt’altro che banali. E molti lo sapevano. La sua era una presenza che offriva ampie possibilità, riconosceva alterità radicali e dava sostegno a qualità specifiche. Poco sorprende come, alcuni anni dopo, nel 2012, iniziasse ad apparire – sulla “Lettura” (domenicale letterario del “Corriere della Sera”) una rubrica intitolata Soglie: in essa Manzoni, da giornalista esperto, iniziò a segnalare libri di poesia utilizzando un formato minimo, poche righe poste in alto nella pagina che risaltavano astutamente nel contesto tipografico in essere. E bisogna parlare al presente, perché la rubrica da allora non perde un appuntamento settimanale e di certo la sua resistenza trova vasta accoglienza fra autori e editori in quel contesto fantasmagorico e degno di una Babele biblica che è diventata la pubblicistica poetica. Nessun delirante progetto di raccogliere tutto, quindi, ma un preciso e fascinoso intento di rintracciare nel mucchio brevi flash di nobile – dunque popolare – qualità suggerendo uno sguardo disincantato nel vasto mondo terrestre che abitiamo. Dal lato della poesia. Che risulta meno scomodo di quanto sembri, al netto di uno sguardo ecologico inesausto e tralasciando l’aspetto “educativo” che sempre incombe da queste parti. Manzoni sa come stare lontano dalle trappole degli schematismi, quindi si può immaginare un viaggetto fascinoso nel percorso che ora il volume Soglie offre a mo’ di catalogo che gli happy few hanno agio di sfogliare. Non si tema il naufragio in questa collezione che pone sul piatto non poche riscoperte – nel caso che memoria claudicante e svagatezza abbiano spiaggiato l’attenzione lungo i decenni. O consumato i taccuini di appunti, i journal che taluni si propongono di stilare in ambito poetico. L’ordine annuale e alfabetico danno segni di democratica eleganza (qui non si fanno nomi, sfogliare le pagine implica gelosie fuori luogo), l’aspetto stesso del volume induce a considerarlo al pari di sussidiario d’antica civiltà che i meno moderni di noi ancora ricordano. Il grande formato conforta quest’idea. L’uscita settimanale su “La lettura” continua, e visto che la poesia non può essere “organizzata” ogni inquadramento sta ben lontano da questi lidi, e a chi interessa tale argomento l’orizzonte di Manzoni si avvicina al filo e ne fotografa i mutevoli punti cardinali, non fa che tracciarne la cartografia individuando alcune proiezioni – là dove il linguaggio s’intensifica grazie a certi poeti, a certi editori. Non tutti (impossibile, come si è detto), ma dove qualcosa accade di reattivo nella lingua. Qualcosa che impedisce lo scadimento, in un’epoca di assalti quotidiani vili e ignominiosi. Se la poesia non invecchia è grazie anche a chi ne cura la conservazione e dirada il pulviscolo in cui siamo immersi. Da buoni sarti, e non capuffici. L'articolo Franco Manzoni / Guida terrestre per poeti e editori proviene da Pulp Magazine.
Franco Marcoaldi / Un semplice senso delle cose
Il canzoniere di Franco Marcoaldi torna a noi con altri cuori di libertà, a difesa del poco che resta dell’umanità e del suo millenario pensiero che sta disgregandosi in intervalli strettissimi – come se qualcosa fosse repentinamente cambiato nello spaziotempo – settimana dopo settimana invece che nei consueti periodi “geologici”. Ma cosa rimane, oggi, di consueto, nelle stanze stracariche di stravolti personaggi che nemmeno nei fraseggi da spogliatoio si ascoltano? Nessuno illeso, con tutto il rispetto per lo storico avanspettacolo, vediamo atterrare miliardari “figli di tenebrosa” (copyright Arbasino) in odore di guerra civile. E la poesia? Se al mondo ci fosse soltanto questa ragione di scrittura – parafrasando la prima poesia di questo nuovo libro – saremmo tutti senza fiato, e l’essere umano “per un poco / almeno non farebbe / danni, sdraiato sopra un prato”. Ma questo non è, e dunque suvvia, proviamo a cercare nello sguardo di un poeta, e un poco nella sua vita, quelle onde che possono fare stupefacenti i giorni, quelle parole ancora che sono proposte in un andirivieni di gioia dove c’è soltanto scontento. Marcoaldi è uomo di terra, di terra vive sentendosi provvisorio ma ben presente ancora in un orizzonte d’esistenza che si fa anche nostro quando, non cedendo lui, non permette a noi d’aderire al disastro saturi di pensieri e cellule disfatte nel cedimento generale. E se intorno la luce incede, il poeta ne coglie la “fiamma benigna”, accogliendo quella grande parabola delle Aurore d’autunno dell’amato Wallace Stevens – ultima raccolta di poesie scritte dal poeta nordamericano dopo la Seconda guerra mondiale. E qualcosa vorrà dire se il rimando alla lucida pietra d’ardesia ligure, di stampo caproniano, giunge forte e chiaro dalla laguna di Orbetello. L’ambito di lunghe fedeltà è ferreo, e l’idea è attività forte di una mente che pensa. Caproni non è deriva, nemmeno “occasione”, è un accettare la realtà secondo l’esperienza personale. E dunque i paradossi prodotti dalla specie umana, le discontinuità, sono ancora lì. La necessità del tono satirico è un atto di giustizia verso gli eventi mentali di chi legge, e che ancora può farlo nonostante gli ingredienti velenosi messi in circolo. L’istinto messo al bando ha fatto danni come l’irrorare di pesticidi i campi coltivati. Diamogli aria con la “conoscenza” leopardiana che Una parola ancora spinge a disporre nelle nostre giornate: qualunque situazione al di fuori della poesia sarà benvenuta, l’istinto saprà dove rivolgersi. In questa raccolta non vivono soltanto versi, la parola giusta è dedica: un libro destinato alla poesia contiene un pensiero dominante, rivelatore, infine avventurosamente percettivo. Il mondo come varietà è, come si dice, una immensa varietà. L’assidua esplorazione di Marcoaldi è necessaria al poeta così come a chi si trova sui sentieri percorsi dalla comunità degli animi. Non dimenticare può essere una fortuna, finché il chiarore del giorno continua a tornare.   L'articolo Franco Marcoaldi / Un semplice senso delle cose proviene da Pulp Magazine.
Paolo Lagazzi / La prosa ibrida che capisce il poeta
Lavoro sui generis, interessantissimo, quello di Paolo Lagazzi, una delle grandi firme della critica letteraria italiana, che qui ricostruisce la sua “lunga fedeltà” alla poesia e alla persona di Attilio Bertolucci, figura centrale della poesia del Novecento. Il libro si presenta quasi come un diario delle ventiquattro estati che il critico trascorse in parte a Casarola, il paese dell’Appennino parmense, tradizionale buen retiro del poeta, così definito: «Fra tutti i luoghi d’aria di cui si alimenta il soffio della poesia contemporanea, fra tutti i nomi che costellano l’ideale mappa del tesoro poetico novecentesco, la Casarola di Attilio Bertolucci è uno dei più arcani e splendenti». La prima parte del saggio racconta vividamente lo svilupparsi graduale del rapporto umano fra i due, dai primi impacciati incontri fino alla solida amicizia che si sviluppò sulle linee della passione per la poesia; quasi diario di una vita, quindi, di una amicizia e di una formazione critica che ha sempre tenuto come faro la poesia di Bertolucci. “L’arte della conversazione”: così Lagazzi definisce la capacità del poeta di trascendere una certa vena narcisistica per aprirsi in maniera illuminante nei confronti del più giovane lettore e amico, anche in occasione delle tante camminate insieme. L’interesse del libro, va da sé, è soprattutto incentrato proprio sulla figura umana del poeta e sulla sua poesia, così profondamente radicata in quel paesaggio montano, nell’isolamento creativo e nelle infinite suggestioni che sapeva suscita in lui. Lagazzi sa cogliere perfettamente e con totale consonanza spirituale questo aspetto, e ci parla dell’uomo Bertolucci, del suo carattere schivo ma anche del suo temperamento, tanto profondamente ispirato dalla semplicità e dai ritmi lenti che quel relativo isolamento permetteva da trasfigurare Casarola nel centro della sua ispirazione poetica. Come infatti dimostra la sezione Terre alte, cieli profondi, tantissimi dei testi più pregnanti del poeta nascono proprio dalle infinite occasioni che il paesaggio offriva: Lagazzi analizza magistralmente diversi testi, proprio portando a galla riferimenti e suggestioni, contribuendo a una comprensione sempre migliore dell’opera dell’autore della Camera da letto e della Capanna indiana. «Pochi autori come Bertolucci sanno cogliere gli istanti di sconnessione del tempo interiore, le piccole “frane” d’anima, gli impercettibili mancamenti d’aria in cui è messo in gioco il senso stesso del nostro essere»: così il critico illumina il nucleo dell’ispirazione del poeta parmense, empaticamente seguendo un percorso critico che allaccia vita e opere. Saltando a piè pari le insidie della fallacia biografica e della “fallacia intenzionale”, Lagazzi giunge a fulminee intuizioni e definizioni critiche, favorite dalle letture e dalle lunghe conversazioni con il poeta.               L'articolo Paolo Lagazzi / La prosa ibrida che capisce il poeta proviene da Pulp Magazine.
W.G. Sebald / Le poesie di Sebald, prosatore viandante
La prosa è l’espressione artistica alla cui vocazione W.G. Sebald ha sempre dedicato la sua vita, e bene lo sanno i lettori di Gli anelli di Saturno, Vertigini, e Campo Santo, tutti tradotti da Adelphi con la preziosa e continua cura di Ada Vigliani. Sebald è il viandante “saturnino”, occupato perennemente a muoversi nel tempo con gli occhi bene aperti sugli strati geologici, umani e umanistici presenti sul nostro pianeta, in certe aree più o meno benevole d’Europa. Siamo in Europa, questa è l’Europa, se non ce ne fossimo accorti, e grandiosamente Sebald lo ha più che suggerito in quel gioiello di natura e mito che è la prosa di Le Alpi nel mare, pubblicato in un librino Adelphi del 2011 separatamente e poi inserito nel recente Tessiture del sogno. Ma c’è dell’altro nella produzione di Sebald, qualcosa che è stato celato (ma forse non troppo) e che ora torna alla luce: le poesie a cui lo scrittore ha dedicato parte del suo tempo vitale lungo i decenni, dall’età giovanile agli ultimi scampoli di esistenza del 2001. La poetica ben nota s’estende in escursioni geografiche riportate con versi snelli, leggeri, potremmo dire “benevoli” con la loro aria di appunti di viaggio tracciati velocemente su un journal e affidati a una eredità futura. Sebald lesse Trakl, Benn, Hofmannsthal, depurandoli da certe atmosfere vendicative, lasciando a Hölderlin il merito di contribuire a una certa disponibilità verso il “sereno guardare” la natura. Il poeta Sebald è attento a esperienze personali e a tracce lasciate dalla Storia affinché i viandanti ne utilizzino i semi e ne spargano altri. Bene ne definisce i tratti Sven Meyer nel suo finale “Ritratto involontario”, sorta di postfazione utile al lettore italiano di questa raccolta di poesie scelte. Utile anche a rischiarare gli aloni di mistero sempre presenti nell’opera maggiore di uno scrittore pellegrino dei margini ed eccentrico interprete dei giorni umani – da quelli luminosi alle tenebrose epoche storiche. Sono labirinti carsici i suoi, per vocazione esplorati e riportati all’attenzione spesso labile dell’uomo. Dai versi giovanili alle ultime scritture la ripresa di temi è ricorrente, come una sorta di migrazione che è il grande tema di tutta l’opera di Sebald. La tenacia di camminatore si ritrova oggi rappresentata dai vincoli terreni e acquatici di versi che svernano continuamente sull’orlo tra la raffigurazione realistica del mondo (di un mondo) e l’effetto straniante delle continue allusioni: possiamo oggi pensare che la villeggiatura, sempre accennata da Sebald, sia da ascriversi a una vita preparata dagli adulti per bambini pieni di aspettative – per poi diventare villeggiatura analitica della preparazione silente verso un enigmatico esilio: quanto si delineava già nell’opera prima Secondo natura del 1988, trittico in versi liberi dove passeggiatori, emigrati ed esploratori appaiono con tutta la loro resistenza di esseri in continuo confronto con la potenza del mondo. L'articolo W.G. Sebald / Le poesie di Sebald, prosatore viandante proviene da Pulp Magazine.
Rafał Wojaczek / In ascolto delle viscere: nel corpo lacerato della poesia e del mondo
Immaginate i versi maledetti e modernissimi dei Fiori del male di Baudelaire e della Stagione all’inferno di Rimbaud – amore morte viaggi tossici e onirici ascesa e sgretolamento della società moderna e passioni estreme e smodate – mescolati forte e risputati fuori in polacco nel bel mezzo della Guerra fredda e avrete un capolavoro di poesia infervorata e dolente. Questa traduzione, per la prima volta in italiano, dei versi del poeta Rafał Wojaczek (1945-1971), per i tipi di Delufa Press, giovane, intraprendente e indipendente casa editrice romana, giungono fino a noi come una scheggia impazzita e sferzante. Wojaczek esordisce a vent’anni, nel 1965, con sette poesie dal tono provocatorio e certamente dissonante con la Polonia dell’epoca: oppressa dalla cappa sovietica e, nel 1969, la sua prima silloge squaderna in forma di metafora quelli che saranno per lui questioni dominanti, quasi delle ossessioni: lo sgretolamento del mondo, la paura, l’amore e il corpo. In quel volume, nei versi di Era primavera era estate, Wojaczek scrive del trascorrere dei giorni e della motivazione del poeta che si affievolisce: il poeta che “non incanta più ma bestemmia” e che al contrario prima “incantava” “Per la patria, questa materia di morte non riuscita”. L’estrema consapevolezza della caducità del corpo detta letteralmente il passo di versi scanditi dall’urgenza di sviscerare – quando non eviscerare – la rabbia l’amore il dolore. I versi di Wojaczek nascono dentro e sul corpo, sono versi che dal corpo promanano come lacerazioni: è un corpo che è vivo in quanto straziato: “Di tanto in tanto / per controllare / se sono vivo ancora / mi pungo con uno spillo / e m’inserisco un piccolo / trapano nel cranio”. La poesia, per il maledetto poeta polacco, è un attraversamento drammatico di fiumi di sangue e sperma che scorrono, inesorabili, verso “La fine della poesia” stessa che […] dovrebbe essere in un corridoio buio di una casa popolare che sa di cavolo come una latrina Dovrebbe essere la benedizione inaspettata di un coltello Sotto una vanga o un piede di porco alla tempia conciso come un amen Dovrebbe essere un carrarmato di un cielo scatenato La fine della poesia dovrebbe essere più veloce anche del pensiero Wojaczek celebra malinconicamente un mondo decadente, militarizzato e recintato, dove la disperazione evoca miseria ed escrementi. Versi quali “Cammino e chiedo: dov’è la mia forca?” raccontano come in molti versi il percorso verso la morte sembra segnato, anche se la pratica stessa del fare poesia è un luogo di r/esistenza in vita: esserci in voce e corpo prima dell’inaggirabile putrefazione. Si tratta di una forma di resistenza che Wojaczek instilla in versi spesso estremamente lirici e travolgenti perché, occorre dirlo, questa è una raccolta poetica incendiaria che ci riconcilia con una poesia di materia pulsante viva o quasi morta che, in questi nostri tempi malandati, votati a forme oscure di disumanità troppo disumana, ci restituiscono una pietas profonda verso tutto ciò che attraversa il nostro passaggio (sempre troppo) breve su questa Terra. Questo volume dovrebbe finire tra le mani di giovani lettori e lettrici, qui e ora, per riconnettere l’Europa nel segno dell’urlo, ritornare a Est seguendo un ago che, se da un lato sfila la trama della Storia fino al 1989, dall’altro ricuce ipotesi di futuro, perché da Est viene il futuro, si ode stridere e sollevarsi dalle strade di Belgrado e di Istanbul – come dalle strade di Praga era arrivato il 1968. Ed è dallo stridore e dai corpi lacerati, ci ricorda il giovane Wojaczek, del resto, che si fa la poesia. L'articolo Rafał Wojaczek / In ascolto delle viscere: nel corpo lacerato della poesia e del mondo proviene da Pulp Magazine.
Casablanca, poesia di Mohamed Amine Bour
CASABLANCA Poesia di ✏ Mohamed Amine Bour, in arte “Asterio” 10 Aprile 2022/di Mohamed Amine Bour CATEGORIE: Libreria  / Poesia Tempo di lettura: 3 minuti * © Illustrazione di Amanta Strata Dopo qualche mese, torno qui su Afrologist per proporre una mia poesia dal titolo Casablanca. CASABLANCA sul terrazzo distese di luce estive vestiti e asciugamani rallentano le ore danze o lamenti, parole o preghiere tu e le vicine, gatti randagi e finestre qui la vita è mossa da un vento che non si vede la stasi è scossa dalla voce d’un venditore ambulante di pesce a mezzogiorno rallentano le ore nel nostro piccolo quartiere qui, dimentico il confine che mi recise il cuore in due Per conoscere più da vicino la mia opera poetica, potete riprendere il pezzo di Halima Rouki di presentazione della mia prima raccolta di poesie autopubblicata, Zahra o la nostalgia (Amazon 2020), e seguire il mio blog personale Cuore diramato. L’illustrazione in cima alla pagina è invece stata realizzata da Amanta Strata: laureata in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera, è Artista del legno, illustratrice, restauratrice, autrice di racconti e poesia. Nel 2009, pubblica la raccolta di racconti L’Inganno (Sagep Editori) da cui trae l’omonimo spettacolo teatrale e nel 2012 pubblica la raccolta di poesie e illustrazioni Siamo Alberi. Protagonista di svariate personali e collettive, nel 2012 merita una menzione d’onore al premio di illustrazione Sergio Fedriani. Uno dei suoi coloratissimi alberi in legno, di importanti dimensioni, è opera permanente presso i locali della Biblioteca Von Suttner del Comune di Busalla (GE). Autrice di opere lignee figlie di un immaginario incantevole e puerile, dedica un filone della sua arte specificatamente all’infanzia, attraverso la creazione di animali a dondolo unici e variopinti. Attiva anche come restauratrice, realizza e insegna restyling del mobile. Appassionata di poesia performativa e autrice di versi dalle forti connotazioni introspettive, da anni lavora e promuove le sue arti attraverso i canali social media (Facebook: Amanta Strata, i ninnoli di Amanta e Instagram: @Amanta.Strata).✎ Tags: Amanta Strata, Asterio, Casablanca, evidenza, Italia, italiano, Marocco, Mohamed Amine Bour, poesie illustrate CORRELATI CASABLANCA, POESIA DI MOHAMED AMINE BOUR 10 Aprile 2022 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/03/Illustrazione-di-Amanta-Strata_slider.jpg 720 1280 Mohamed Amine Bour https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Mohamed Amine Bour2022-04-10 13:28:572022-04-10 17:16:44Casablanca, poesia di Mohamed Amine Bour MADRE, POESIA DI MOHAMED AMINE BOUR 5 Settembre 2021 / 1 Commento Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/03/Madre_progetto-def.jpg 844 1500 Redazione https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Redazione2021-09-05 10:25:572021-09-05 10:25:12Madre, poesia di Mohamed Amine Bour IN BILICO, POESIA INEDITA DI MOHAMED AMINE BOUR 7 Marzo 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/03/Asterio_In-bilico-scaled-1.jpeg 844 1500 Mohamed Amine Bour https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Mohamed Amine Bour2021-03-07 13:28:572021-07-19 10:45:49In bilico, poesia inedita di Mohamed Amine Bour L'articolo Casablanca, poesia di Mohamed Amine Bour proviene da Afrologist.