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Alain Schnapp / Difendersi dal diventare marmo
Recentemente, in una conferenza sulla lavorazione preindustriale del gesso tenuta da Marco Visconti al Quadila Festival, mi ha colpita la testimonianza di un ex capo cava di Castelnuovo don Bosco, nel Basso Monferrato astigiano. Lorenzo Bertiglia, così si chiamava, intervistato ultraottantenne da Visconti, concludeva i suoi racconti dicendo: “Il nostro passato non ci appartiene, ma non lo dobbiamo dimenticare”. Una frase composta da due enunciazioni in apparenza in contrapposizione (se non ci appartiene, perché affannarci a ricordarlo?) di cui la prima è già spiazzante di per sé, tanto più se l’autore di quella affermazione si sta riferendo a un passato recente e che lo ha riguardato in prima persona. Eppure, questo dovremmo pensare quando ci rivolgiamo al passato, per scongiurare strumentalizzazioni nazionaliste e ideologiche. Non ci appartiene. Non siamo noi. Non è una questione privata e neppure di quel privato collettivo che si nasconde dietro il fantoccio dell’identità. Al passato bisognerebbe avvicinarsi come a un estraneo. È una conquista, che tantissimi hanno tentato e tentano; che può non riuscire e che è stata vorticosa negli ultimi duecento e poco più anni della storia occidentale. Alain Schnapp, in questo libro fondamentale uscito in Francia nel 1993 (prima edizione italiana 1994, Mondadori) e finalmente ripubblicato da Johan & Levi, racconta proprio questo: la conquista di un passato non nostro. Oggi ci sembra normale vedere, nelle vetrine di un museo archeologico, i reperti suddivisi per periodi storici, con le didascalie che riportano datazioni più o meno precise. Ma a tutto questo – gli orizzonti cronologici e storici entro i quali inserire i resti e i manufatti del passato – si è arrivati con un lungo e non lineare percorso di ricerche, intuizioni, errori, interrogativi, false piste. Schnapp racconta una storia non dell’archeologia ma di quello su cui l’archeologia si fonda: l’urgenza di riattivare in qualche modo ciò che è andato perduto e che non sappiamo più interpretare. Come ha scritto lo storico Emmanuel Le Roy Ladurie nella prefazione, Schnapp si confronta con “il mistero della continuità dell’uomo nella sua ricerca del passato”. Un mistero innaturale tanto che l’autore stesso, nella prima riga del libro, si domanda: “che cosa autorizza o giustifica l’esistenza dell’archeologia?”. L’archeologia è un costrutto moderno occidentale ma ben prima del XIX secolo in tanti sono, a loro modo, penetrati nel passato. Gli antiquari europei, pur non interessati a una ricostruzione storica globale, pongono le basi per la classificazione degli oggetti, per la storia della tecnica, iniziano a rilevare in modo accurato i monumenti e non disdegnano attività di scavo o di ricognizione sul campo. Le competenze degli antiquari – la capacità di saper riconoscere un oggetto tra mille – spesso erano legate al collezionismo ma ad essi si deve l’aver attribuito a un oggetto il valore di prova storica e di fonte di sapere alternativa alla tradizione letteraria (anche se questo valeva principalmente per certe categorie di manufatti, come le monete e le epigrafi). Schnapp ricostruisce la loro storia con dovizia di particolari e con narrazioni di singoli sorprendenti come il provenzale Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, l’inglese William Camden o il danese Ole Worm o ancora, in età già illuminista, William Stukeley. L’antiquaria ha il suo apogeo nel Seicento ma era stata già praticata da alcune civiltà antiche come quella egizia, mesopotamica, cinese e nell’Europa rinascimentale: in molti casi per affermare la legittimità dei poteri al comando, la loro continuità con il passato (dunque l’appartenenza di quel passato a sé). In età remota non era misconosciuta l’idea che il suolo conserva impronte del passato così come la consapevolezza che gli oggetti e i monumenti ci sopravvivono (mentre da umani si può passare con disinvoltura da un’epoca all’altra solo si viene inventati come l’Orlando di Virginia Woolf). Si tratta di una “coscienza archeologica” che innegabilmente porta con sé un confronto con il futuro e con le tracce che anche noi lasceremo. L’archeologia moderna organizza e dà una unitarietà ai metodi e alle conoscenze specifiche degli antiquari, adottando una prospettiva universale, il cui obiettivo è indagare e ricostruire la storia degli antenati dell’umanità tutta. Sino alle soglie della modernità (e oltre) sarà ancora presente un marcato dualismo tra scienza e tradizione, che ha permesso il perdurare di interpretazioni fantasiose in particolare dei resti e monumenti (come Stonehenge) che non rientravano nella tradizione classica, e di tanti manufatti antichi, come le urne funerarie (a lungo considerate vasi nati spontaneamente dal suolo) o le punte di freccia in pietra (per secoli credute un prodotto dei fulmini). L’archeologia nasce tra il 1830 e il 1860, quando la storia dell’uomo (grazie ovviamente anche a Charles Darwin) entra a fare parte della storia naturale e finalmente si affranca dalla storia sacra e dalle cronologie bibliche. Mentre il mondo erudito impiega tantissimo tempo ad accettare l’idea della continuità geologica e storica e ad acquisire la consapevolezza dell’antichità dell’uomo e della durata dei tempi preistorici, sono soprattutto studiosi dilettanti e non accademici che iniziano ad accettare le conseguenze delle loro scoperte (la presenza di ossa umane insieme ad ossa di animali estinti) e ad ammettere l’esistenza di uomini vissuti prima di Adamo. Lo studio dei resti materiali del passato, attraverso gli strumenti della tipologia (la prima successione crono-tipologica delle tre età, Pietra-Bronzo-Ferro, viene definita dal danese Thomsen nel 1836) e della stratigrafia (l’esplorazione organizzata del sottosuolo) diventa un modo di ricostruire la storia. Ma nello stesso periodo in cui l’archeologia si forma, e Winckelmann definisce le basi di una cronologia stilistica e di una storia dell’arte classica (che egli pone al vertice di una scala dell’ideale estetico), l’archeologia coloniale nei paesi fuori dall’Europa continentale diventa anche appropriazione fisica di quei passati lontani. Il saccheggio che porta in Europa le opere della statuaria (e non solo) antica – il furto dei marmi del Partenone da parte di Lord Elgin è soltanto il più noto degli eventi – risente ancora del mai sopito spirito del collezionista, nonché di una idea di appartenenza e di identità culturale estendibile a piacimento, e costituisce una delle tante contraddizioni (o delle inevitabili ricadute?) di quell’archeologia che si auto-definisce universale. Nell’introduzione alla nuova edizione, scritta da Schnapp nel 2020, dal titolo curioso L’erosione del passato, l’autore scrive che il passato «lo si può ripudiare, glorificare con la poesia o la mitologia, mantenere vivo con capolavori immortali, ristrutturare applicando regole sofisticate di costruzione e ricostruzione, ma non può essere ignorato. Bisogna accettare il passato e per fare ciò le comunità dispongono di infinite capacità di gestione e di negoziazione. Perché, allora, rivolgere lo sguardo al passato dell’archeologia, invece di provare a delinearne i tratti futuri? Per questo motivo: qualsiasi esplorazione del futuro esige un bilancio critico e un approccio retrospettivo, con l’intento di capire come mai tutte le comunità, indipendentemente dalle loro caratteristiche, sentono il bisogno di dialogare con il passato». Dialogo con un passato che non ci appartiene, e dunque (come qualcosa che non è mai stato né potrà mai essere del tutto nostro) non possiamo dimenticare (nell’accezione di: non riusciamo). C’è chi questa catena ha provato a romperla. Nella conclusione dell’introduzione Schnapp ricorre alla letteratura e in particolare a una poesia di Borges dedicata all’antiquario seicentesco Thomas Browne. È una riflessione sull’erosione della memoria, sulla preoccupazione del sé dopo la morte e sulla consapevolezza che taluni (sappiatelo, lettori amanti della storia e dell’archeologia) non vogliono diventare memoria. Il Browne di Borges dice infatti: «Difendimi, signore, dall’ansiosa / brama di diventare marmo o oblio; / dall’essere colui che sono stato, / che irreparabilmente sono stato».   L'articolo Alain Schnapp / Difendersi dal diventare marmo proviene da Pulp Magazine.
Norman Douglas / L’inglese nel suo dominio
Norman Douglas andava in giro per trattorie, aveva un metodo raffinato e rigoroso, Arbasino ci ricorda quanta poca simpatia avesse per i critici d’arte e gli sciamani della cultura. Nella luce mediterranea più decisa lascia perdere la folla labirintica dei personaggi che nella sua epoca affollavano Capri. Siamo lontani dal pagano Fersen e dalla villa Malaparte quando Godard girò Le Mépris, (Il disprezzo), tratto dal romanzo di Moravia, dove la Bardot, nuda, impera e tritura gli sguardi hollywoodiani. Lo sguardo antiquario di Douglas, in questo aureo libretto estratto da scritti del primo Novecento in cui la sagacia esplorativa spiega i suoi metodi, scopre e rivela falsità mitologiche in favore dei reperti antichi. Mostra come l’isola possa essere interpellata scovando i frammenti rimasti dai cambiamenti geologici e, soprattutto, le frane causate dal dissodare e sradicare da parte dell’uomo. I profili di tutta l’area sono mutati considerando, altresì, gli spazi vulcanici del golfo di Napoli. L’eredità dell’isola trova nel viaggiatore Douglas la precisione grazie alla quale i vari culti vengono scoperchiati nella loro quasi certa componente storica. L’isola è troppo varia e frammentata per lasciare che filosofi e poeti si abbeverino soltanto agli “imbrogli dei capresi”. E poi c’è Tiberio, nel suo dominio privato fatto di ville e grotte riarredate, a cui l’inquilino Norman dedica gran parte del suo tempo. Soggiorni che hanno il sapore di una vita intera. Le storie favolose, qui, vengono sconvolte da frane, terremoti, uomini che dissotterrano e ricoprono per intenti usuali, sicché creature come le Sirene e pietre sorte da colorifici naturali si frantumano in mille rivoli. Fra questi reperti scorrazza il nostro antiquario, dimostrando come la seduzione sia cattiva parente della storia archeologica. Si perdono le tracce di opere e idee di valore, Douglas ne è certo, sa che in giro per il mondo ci sono marmi brutti e certamente piccoli frammenti di mosaico. Ma la poderosa e elementare bellezza di Capri ha tempi più lunghi delle leggende moderne. In fondo, dalla Grecia alla romanità è tutta questione di passaggio. Giovanni Balducci, “praziano” (copyright Manganelli) meticoloso quale è, oltre al felice lavoro di traduzione, ci guida alla somma delle antichità capresi su cui Douglas argomenta mettendo in risalto le svariate caleidoscopie che l’isola presentava in quei decenni, e che oggi risulta difficoltoso rintracciare. Ma non è detto, potrebbe essere necessario attrezzarsi al viaggio fendendo le masse turistiche. Compito arduo, più che modellare i propri interessi sulle sviolinate coloristiche delle grotte. Praz riconosceva in Douglas “uno scrittore di vaglia” per le finezze stilistiche e umoristiche: la sete di conoscenza l’avrà inviso a qualcuno, fra gli abitanti del territorio, ma la storia è storia, il Grand Tour sarà finito ma Balducci anche qui invita a non sentire peregrina l’idea di avventurarsi nelle labirintiche scoperte riunite in queste “annotazioni antiquarie”. Tali sono, copia conforme di ciò che l’isola offriva allo studioso – un inventario di policrome dimensioni.   L'articolo Norman Douglas / L’inglese nel suo dominio proviene da Pulp Magazine.