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Zuzu / Anatomia di una sparizione
La prima cosa che colpisce leggendo un fumetto di Zuzu sono i nasi. Grandi, sporgenti, sbilenchi: non caricaturali, non grotteschi, ma dichiarazioni di esistenza. Sono lì a dire che ogni volto ha diritto alla sua forma, anche se non corrisponde ad alcun canone. Nel mondo di Zuzu i corpi sono imperfetti, diversi, autentici come si conferma in Ragazzo. Ambientato a Salerno nel 2013 – quando i social non erano ancora pervasivi come oggi – Ragazzo ruota attorno a una scomparsa: Andrea, adolescente “strano”, esce di casa senza cellulare né documenti e non torna. Ma questo non è un giallo. È un racconto di risonanze emotive: cosa provoca la sua assenza in chi resta? Cosa significa scomparire o restare quando si è ragazzi, amici, figli o genitori? Attorno ad Andrea si muovono Alice, che forse è l’ultima ad averlo visto, e Francesco, adolescente spaesato e fragile, attraversato da un dolore sordo, da un’identità incerta, da un desiderio che sa dove andare – verso Alice che ama tantissimo – ma non sa come andare. È lui a tentare il gesto più radicale: non solo sparire, ma provare a morire. I due ragazzi del titolo sono uno che manca per quasi tutta la storia e uno che vorrebbe mancare per sempre. Del primo sappiamo poco: che era generoso, gentile, che aveva un rapporto speciale con sua madre. Del secondo sappiamo tutto: il corpo che non risponde, l’ansia, la fatica di stare al mondo, l’amore per Alice che si trasforma in impotenza. In questa ambivalenza si gioca il titolo Ragazzo: è singolare, ma evoca una pluralità. Due assenze, due dolori, due modi di dire “non ce la faccio”. Ma anche due modi di rimanere. Zuzu, che in Giorni felici aveva saputo raccontare con profondità la protagonista durante le sue crisi di coppia e di senso, qui sposta lo sguardo sui maschi. Racconta la vulnerabilità dei ragazzi, l’incertezza, la paura di non essere all’altezza che però non diventa misoginia. La sessualità, presente e forte in tutte le sue opere, non è mai pruriginosa né pornografica: è parte della vita, qualcosa che si impara, che si sperimenta, che può fare paura o male, ma che è sempre legata al desiderio di essere visti, toccati, amati. Questo vale anche per i personaggi adulti. Alle due figure di ragazzo corrispondono infatti due madri, anche loro complesse e tridimensionali. Rita, la madre di Andrea, lo ha cresciuto da sola. È una donna che ama, che ha amato: ha avuto una relazione con il padre di Francesco, e questo dettaglio – che potrebbe sembrare accessorio – diventa invece una chiave narrativa sottile e potente. Anche la madre di Francesco ha una sua storia affettiva: vive una relazione omosessuale che la sorprende. Nessuna delle due è soltanto “madre”. Sono donne con desideri, corpi, relazioni. E, nei momenti più bui, sono proprio i genitori – anche quelli feriti, contraddittori – a sapere stare accanto ai ragazzi. Zuzu racconta con grande empatia questa forma imperfetta ma vitale di prossimità adulta. Ragazzo è dunque un romanzo del “noi”. Se i primi libri erano centrati sull’io, qui Zuzu allarga lo sguardo: racconta le generazioni, la trasmissione del dolore, la possibilità dell’ascolto. Ogni personaggio, anche il più marginale, come l’uomo sulla panchina ha diritto a esserci. Ogni voce è un pezzo di quel noi fragile e intermittente che chiamiamo comunità. Dal punto di vista grafico, Zuzu continua a reinventarsi. Dopo il bianco e nero di Cheese e i pastelli e matite di Giorni felici, in Ragazzo usa pennarelli volutamente scoloriti, infantili, imperfetti. Il colore incompleto diventa metafora della vita che non si sa dire tutta. Anche l’uso dello spazio è libero: tavole fitte alternate a vuoti, silenzi, dettagli che restano sospesi. Il ritmo è quello delle emozioni, dei respiri, degli inciampi. Zuzu ha dichiarato in un’intervista che ci ha messo due anni per terminare questo fumetto, e noi lo leggiamo in mezz’ora. Ma Ragazzo ci prende, ci aggancia, ci invita a tornare indietro. La prima lettura è spesso in continuità con i libri precedenti: mettiamo le opere in relazione, seguiamo l’evoluzione grafica, riconosciamo la voce. Poi rileggiamo Ragazzo per la storia. E quel bisogno di ritornarci dice molto: vuol dire che il lavoro grafico e narrativo sono profondamente intrecciati, che ciò che può sembrare una sospensione o una mancanza di trama si compensa nel modo in cui Zuzu colora, struttura, riempie le sue storie. E ci fa restare. Ma ciò che rende unica l’opera di Zuzu è la sua etica dello sguardo. Non c’è mai giudizio, mai una semplificazione, mai la tentazione di trovare colpe. C’è dolore che si trasmette, desiderio che cambia forma, e una profonda compassione. Non nel senso pietistico, ma in quello più autentico: la capacità di sentire con, di restare accanto, anche nel disordine, anche nella vergogna, anche quando non ci sono risposte.   L'articolo Zuzu / Anatomia di una sparizione proviene da Pulp Magazine.
David e William Genchi / Ludopatie black fantasy
David e William Genchi – lasciatemelo dire – sono due fottuti geni. Mi dispiace solo esserci arrivato con tanto ritardo. Esordire nel settore dei libri-gioco non è facile, perché si è sempre costretti a confrontarsi con i mostri sacri del genere, con una profonda tradizione underground, con una lunga serie di cavilli tecnici e con esigenze di originalità ed efficacia che rischiano di remare contro questa stessa tradizione e questi stessi cavilli. In breve, si deve scegliere tra l’ennesima riproposizione di Lupo Solitario e un salto nel buio; è questo il bivio primordiale, il meta-bivio di tutti i giochi a bivi. I fratelli Genchi, dal canto loro, hanno deciso di lanciare una testata nucleare sul problema e ripartire da un’apocalisse tanto narrativa quanto strutturale.  A cominciare dal titolo, Analwizards proietta il giocatore in un contesto provocatorio e di rottura, a metà strada tra il grottesco, il weird e lo splatter. Questo anche grazie al contesto offerto dalla casa editrice marchigiana Hollow Press, una delle realtà più felici e di successo del nostro panorama editoriale indipendente. Non è un caso che questo stesso editore sia anche dietro a uno di quei libri che non solo si prefigurano come futuri classici ma che, al contempo, hanno contribuito alla nascita di un vero e proprio genere fumettistico-letterario: Vermis (due volumi), il lorebook ideato e realizzato dal misterioso illustratore conosciuto come Plastiboo. Per questo la decisione di produrre un libro-game venduto a un prezzo concorrenziale (che purtroppo ci priva di una copertina rigida), ma dall’alto profilo qualitativo (avete idea di quanto diavolo costi stampare tutte queste pagine a colori?) la dice lunga sulla mentalità dell’editore. Ancor più perché Analwizards si propone al lettore in modo sfacciato, riversandogli addosso ettolitri di assurdità, humour nero e nichilismo incendiario. Un coraggio che deriva da una forte cornice editoriale e da un altrettanto forte fanbase. Un ovvio plauso va al sistema di gioco, così chiaro e semplice da evidenziare ancor di più l’intento estetico dei due autori: chiunque può dare inizio a una run di Analwizards, a patto di riuscire a sopportarne il contenuto. Il formato è lo stesso delle vecchie riviste anni ’80, quelle che negli Stati Uniti (ma anche in Italia) pubblicavano moduli non ufficiali per GDR, dungeoncrawler, racconti e miniserie giocabili; una fucina di intuizioni e sperimentazioni alle quali Analwizards rende tributo solo per congedarsene con più convinzione. Ok, è vero, in Analzwizards ci sono pur sempre i bivi, ma non si tratta della classica soluzione logico-strutturale – ossia di una scelta dettata dalla fruibilità. Anzi. È evidente come i fratelli Genchi si siano calati appieno in una mentalità “dungeon”, più vicina a una sensibilità estetica o musicale, che a semplici questioni di design. Se dovessimo parlare di progettazione, infatti, si potrebbe addirittura dire che l’obiettivo del gioco sia quello di disorientare e scoraggiare il lettore, più che assecondarlo. La stessa struttura narrativa induce a pensare che non si riuscirà mai a percorrere tutti i percorsi contenuti nel libro – a meno di non dedicargli la medesima attenzione che si potrebbe riservare a un cosiddetto “videogioco hardcore”. Il modello, insomma, è quello della proliferazione e della dispersione; qualcosa di estremamente simile a quel che si può trovare in un libro ergodico quale Casa di Foglie, o in un album grindcore o harsh noise. L’esperimento è riuscito in maniera esaltante, complice l’impiego del fumetto anziché del semplice testo narrativo. Decisamente esaltante il disegno, che riesce a fondere e ibridare caratteristiche e palette che riportano alla mente la seconda generazione di serie animate Cartoon Network e Nickelodeon; i classici del fumetto beat, psichedelico e underground; Hieronymus Bosch; lo splatter; il manga e l’eroguro giapponese. Una combinazione all’insegna del bizzarro, che tanto più la si frequenta tanto più convince. Altrettanto straordinaria la caratterizzazione dei personaggi, tenuta sempre in bilico tra l’esilarante e l’estremamente perturbante; impossibile non ridere, non schifarsi, non restare vagamente allibiti – in breve, non farsi coinvolgere nelle dinamiche di questo folle universo. Analwizards è, a mio parere, destinato a diventare un punto di riferimento per chiunque, in Italia, l’estremo in tutte le sue forme e sia fermamente convinto che possa avere anche una funzione ludica e felicemente perversa. Lo stesso vale per il mondo dei libri-game, che con questa pubblicazione vede rompersi diverse barriere e aprirsi un bel po’ di sentieri. A Cesare quel che di Cesare; ai Genchi, si spera, fama internazionale. L'articolo David e William Genchi / Ludopatie black fantasy proviene da Pulp Magazine.