L’elefante nella stanza si chiama integrazione. Intervista con Enrico Gargiulo
La parola “integrazione” è un mantra nel dibattito pubblico sulle migrazioni.
Politicə, giornalistə, amministratorə locali e parte del mondo accademico la
evocano come un obiettivo indiscutibile: un bene comune trasversale, una
promessa di convivenza pacifica, una cornice dentro cui programmare le politiche
e le pratiche rivolte a chi arriva da fuori. Ma cosa nasconde davvero questo
termine? Quali presupposti epistemologici e politici porta con sé? E
soprattutto: a chi giova?
Discutere oggi di integrazione può sembrare una scelta fuori tempo, in un
contesto dominato da altre urgenze: l’affermarsi di un regime globale di guerra,
lo smottamento degli argini democratici, l’ascesa delle destre radicali e – sul
piano delle migrazioni – l’imminente implementazione del Patto europeo, che
segna un’ulteriore torsione autoritaria nella gestione della mobilità. Eppure,
proprio in questa fase, il libro Contro l’integrazione di Enrico Gargiulo,
sociologo dell’Università di Torino e attivista, restituisce centralità a un
paradigma dato per neutro e incontestabile. “Integrazione” non è una parola tra
le altre: è un dispositivo che plasma il modo in cui pensiamo i rapporti
sociali, le gerarchie politiche e la stessa idea di cittadinanza.
La lettura del testo, denso ma accessibile, fornisce chiavi interpretative che
consentono di illuminare ciò che normalmente rimane in ombra: non soltanto le
pratiche quotidiane di esclusione, ma anche i presupposti storici ed epistemici
che legittimano l’ordine esistente. Attraverso un lavoro che intreccia
genealogia dei concetti, analisi critica delle politiche e attenzione per le
forme del linguaggio, Gargiulo mostra come l’integrazione agisca come meccanismo
di normalizzazione, nascondendo le radici materiali delle disuguaglianze e
spostando il conflitto su un terreno culturalizzato.
Per questo, il libro non si limita a smontare una parola, ma invita a ripensare
in profondità le categorie con cui guardiamo alla mobilità, al confine e alla
cittadinanza. In tempi in cui le migrazioni vengono governate da logiche
securitarie o condizionate alla loro funzionalità, Contro l’integrazione è uno
strumento prezioso per chi vuole indagare, criticare e trasformare il presente.
A partire da questi temi abbiamo intervistato l’autore, Enrico Gargiulo.
Quale urgenza politica ti ha spinto, in questa specifica congiuntura, a scrivere
un libro che propone una critica radicale all’integrazione?
Mi ha spinto un fastidio consolidato, crescente, ormai non più riformabile,
verso l’uso della parola “integrazione”, i significati che ha assunto e
l’insieme di concetti e categorie a cui rimanda. “Integrazione” evoca rapporti
intrinsecamente asimmetrici, un mondo fondato sugli Stati e sui rapporti
capitalistici mai messi in discussione, in cui la legalità e l’illegalità della
mobilità sono date per scontate. Si presume che le persone appartengano a gruppi
culturalmente omogenei che coincidono con lo Stato. Oltre a legittimare
l’esistenza stessa degli Stati, si dà per naturale che ogni persona debba essere
inclusa in uno di essi e appartenere alla relativa cultura nazionale. Vengono
così negate forme di appartenenza substatali o sovrastatali – anch’esse
problematiche, certo – ma che incrinerebbero l’immaginario semplificato e
funzionale a chi governa le migrazioni.
L’urgenza, dunque, è colpire al cuore il discorso sulle migrazioni:
delegittimarne le premesse storiche ed epistemologiche, smontare i fondamenti
politici. Qualunque discorso che neghi la libertà di movimento e legittimi i
confini deve essere messo in discussione. “Integrazione” sembra un concetto più
soft, perché riguarda chi è già “dentro” e non chi attraversa la frontiera. In
realtà, è strettamente legato al confinamento.
L’integrazione viene spesso presentata come un “bene comune”, evocato
trasversalmente dalla politica istituzionale. Perché è invece una prospettiva da
disarticolare criticamente e non da riformare?
È percepita come un bene comune perché chi arriva da fuori viene rappresentato
come portatore di culture diverse, potenzialmente in conflitto, e quindi da
“armonizzare”. Questo discorso si declina anche in forme progressiste e
benevole: si sostiene che chi migra possa incontrare difficoltà nel sistema
culturale e istituzionale italiano, e che “fare integrazione” significhi
aiutarlo, più per lui che per noi.
Il problema è che in tutti questi ragionamenti c’è un “noi” e un “loro”
presupposti e continuamente ribaditi. La mia non è una critica all’integrazione
da destra, ma agli usi stessi del termine: apparentemente opposti, in realtà
convergono. L’elefante nella stanza è la visione del mondo basata su entità
culturalmente distinte e in conflitto, che cancella la prospettiva del
capitalismo, delle disuguaglianze prodotte nei rapporti sociali, della proprietà
privata come fondamento legale e legittimo delle esclusioni. Difenderla
significa creare diseguaglianze e impedire a una parte della popolazione di
costruirsi un futuro migliore. Con la lente dell’integrazione tutto questo
svanisce. Per questo va radicalmente disarticolata e sostituita, non riformata.
Nel libro l’integrazione è una lente attraverso cui leggere il governo della
mobilità, le gerarchie giuridiche e sociali. Possiamo dire che è una leva per
interrogare in profondità la società?
Sì, perché usare la chiave dell’integrazione e leggere differenze e conflitti
culturali come se fossero naturali è un modo – purtroppo molto efficace – per
rimuovere le questioni di fondo. Criticare l’integrazione significa riportare lo
sguardo là dove serve: alla nascita del capitale, alle recinzioni delle terre,
alla privatizzazione dei mezzi di produzione, all’espropriazione del cosiddetto
“Nuovo Mondo”, al colonialismo, alla costruzione di concetti di appartenenza
presentati come ovvi e normalizzati.
Nel primo capitolo mostro come il concetto di integrazione nasca nella teoria
sociologica come risposta al conflitto di classe, interno alla società, dunque
legato a rapporti materiali. In seguito viene trasposto negli studi migratori in
chiave culturalista. Questo slittamento serve a normalizzare la società:
renderla conforme a determinate norme. L’integrazione funziona così: definisco
differenze culturali, le trasformo in fratture radicali e legittimo così il mio
intervento. Anche la costruzione dei confini trova giustificazione: se le
persone sono “pericolose” per la loro cultura, allora i confini diventano
necessari. Non sono discorsi descrittivi, ma performativi: producono e impongono
una certa normalità.
Moltə attivistə e operatorə si chiedono quali termini alternativi utilizzare.
Quale vocabolario politico può aiutarci a sottrarci a questa gabbia concettuale?
È una domanda giusta. Io stesso faccio fatica a dare una risposta definitiva,
anche se ci provo. Ci sono proposte non mie con cui dialogo, come
“riarticolazione” o “ricomposizione”. A differenza di inclusione o integrazione,
non evocano un inglobamento. Non rimandano a mancanze da colmare, ma a processi
continui di messa in discussione, di rinegoziazione delle regole del gioco –
materiali e non solo culturali.
Questa prospettiva è possibile solo se si mette in discussione la radicale
asimmetria del mondo, con il regime di restrizione della mobilità dettato dalle
esigenze economiche. In questo contesto è difficile pensare che un semplice
cambio di parole basti. Però, in un’ottica di riduzione del danno, se chi opera
sul campo iniziasse a riflettere sull’uso delle parole, qualcosa potrebbe
cambiare nel lungo periodo. È comunque un passaggio necessario.
A chi ti rivolgi con questo libro?
Vorrei raggiungere un pubblico il più ampio possibile. La rete “Sociologia di
posizione” ha avviato con Meltemi due collane: una di saggi più accademici e una
di testi posizionati e diretti. Il mio libro appartiene a questa seconda
collana: fornisce strumenti per indagare criticamente la realtà. Penso in primo
luogo a chi lavora nelle politiche migratorie: operatrici e operatori
dell’accoglienza, avvocate e avvocati, educatrici ed educatori, personale
scolastico. Nelle presentazioni già fatte ho visto una particolare attenzione
proprio da parte della scuola. Ma spero anche di raggiungere lettrici e lettori
che non appartengono a questo ambito: può essere un’occasione di riflessione più
ampia. In generale, ho immaginato il libro come uno strumento di comprensione e
di azione, utile nella vita quotidiana, nel lavoro e nella militanza politica.
L’immagine di copertina è di Elena Torre da Flickr
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