Gianluca Gabrielli, Davide Montino / È esistita una scuola fascista?
“Non più reperibile da anni”, ci annuncia la quarta di copertina, “si è ritenuto
utile rendere nuovamente disponibile questo lavoro nell’intento di fornire alle
nuove generazioni, a fronte delle rinascenti retoriche sulla storia nazionale,
uno strumento per affrontarne proprio gli aspetti più difficili dal elaborare
per la coscienza pubblica, convinti che la conoscenza del Ventennio – con la sua
scuola – renda sicuramente comprensibile la nascita della Repubblica assai
meglio dello studio dell’inno nazionale o della bandiera come prescritto dai
nuovi curricoli di Educazione civica”. Questa lunga citazione mi sembra
indispensabile per spiegare come mai sia tornato in stampa dopo ben sedici anni
questa sorta di vademecum che ci illustra dettagliatamente le caratteristiche
della scuola italiana ai tempi di Benito figlio di Alessandro. Visto che sono al
governo quelli che non sembrano aver mai preso del tutto le distanze da
quell’epoca (o meglio, dalla mitologia di quell’epoca), vale la pena di
ricordare fino a che punto la scuola italiana dal 1922 al 1943 venne per così
dire “posseduta” dal regime fascista, che la piegò ostinatamente alle sue
esigenze.
Il libro è di agile lettura anche per chi non si occupa professionalmente di
didattica; esso è diviso in una serie di brevi capitoli ognuno dei quali si
concentra su determinati temi, istituzioni, ricorrenze, oggetti. Cito a mo’ di
esempio dall’indice: abbiamo sezioni dedicate a “Befana fascista” (esisteva,
esisteva…), “Bonifica” (ovviamente quella dell’Agro Pontino che ci diede
Littoria oggi Latina), “Cultura militare”, “Duce” (figura onnipresente non solo
in effige sulle pareti delle aule, ma anche nei libri di testo), “Festa degli
alberi”, “Giornata coloniale e celebrazione dell’impero”, “Guerra e
militarismo”, “Leggi razziste”, “Natale di Roma”, “Razzismo”, “Romanità”. Già
dai titoli si coglie la tesi di fondo dei curatori della raccolta e degli autori
dei singoli capitoli: la scuola italiana in era fascista non era affatto la
continuazione della scuola dell’Italia liberale (con la riforma Gentile “che
avrebbe costituito un controcanto sostanzialmente efficace rispetto al tentativo
del regime di innestare su questa struttura una pedagogia muscolare e
futurista”); no, la scuola strutturata dalla riforma Gentile aveva tutta una
serie di aspetti che al regime non dispiacquero affatto: “Stato forte,
gerarchizzazione, eliminazione degli aspetti elettivi nella struttura
amministrativa, classismo, aperture alla chiesa cattolica”. Era già dal 1923,
grazie alla riforma, una scuola autoritaria; in seguito, il fascio non ebbe
difficoltà ad accentuarne “le caratteristiche propagandistiche, belliciste,
razziste”.
Ma in buona sostanza, cosa doveva essere la scuola nel ventennio? Leggendo uno
dopo l’altro i capitoli, ne viene fuori l’immagine di un sistema educativo a
due, se non a tre velocità: i licei classici al vertice, mirati a formare la
classe dirigente, e articolati sulle materie umanistiche con pochissimo spazio
concesso alla scienza e alla tecnica; per il resto della popolazione, una
scolarizzazione limitata che spesso si fermava alla terza elementare, e
raggiungeva in qualche caso le scuole tecniche e professionali. La terza
velocità era incarnata dal liceo scientifico, poco amato dal regime, eppure
riuscito faticosamente a imporsi soddisfacendo le esigenze educative del ceto
medio e dell’apparato industriale di allora. Guarda caso, ancora oggi il
Ministero cerca di potenziare le materie cosiddette STEM, acronimo impensabile
nel ventennio, che sta per “Science, Technology, Engineering, and Mathematics”;
ancora oggi si avverte una debolezza del sistema educativo italiano in questi
ambiti, facendo finta che non sia una tara che ci portiamo dietro proprio dai
tempi del littorio e prima ancora della riforma Gentile.
Non a caso uno dei capitoli si intitola “Latino”. Il mito della romanità,
dell’Impero per antonomasia, portava a far sì che al cuore della formazione
delle élite ci fosse proprio lo studio della lingua di Cesare e Augusto
(entrambi visti come antesignani del Duce), che nelle intenzioni di Gentile,
affiancata dal greco, doveva consentire lo sviluppo di una coscienza filosofica,
ma che col tempo divenne sempre più il pretesto per la celebrazione del regime
che si spacciava per prosecutore della Roma che governava il mondo colle legioni
e col diritto. Non a caso in quella che fu la più fascista delle università
italiane, la Regia Università di Roma (oggi nota come Sapienza), a lato del
Rettorato stanno la facoltà di Giurisprudenza e quella di Lettere, dove gli
insegnamenti più importanti erano greco classico e latino – l’architettura non
inganna. E qui abbiamo una singolare continuità con i licei d’oggidì, dove
continuano a prevalere nel monte ore settimanale le materie umanistiche anche
nell’indirizzo scientifico.
Ma soprattutto la scuola doveva far sì che per i piccoli italiani il fascismo
diventasse qualcosa di naturale, di scontato, di ovvio, di indiscutibile. Si
cominciava facendo esercizi d’aritmetica in cui la sottrazione serviva a
calcolare la differenza d’età tra i due figli di Mussolini, Vittorio e Romano, e
si finiva con le esercitazioni paramilitari in camicia nera. E qui c’è una certa
continuità di fondo nella storia delle nostre istituzioni educative. A partire
dall’unità d’Italia a scuola si doveva imparare a essere italiani e non
lombardi, veneti, liguri, sardi, ecc., e a rispettare e obbedire a sua maestà il
Re. Dal 1923 la scuola insegna a essere fascisti. Dopo il 1945 la scuola si fa
carico prima di inculcare le istituzioni repubblicane (non senza portarsi
appresso l’autoritarismo e il classismo degli anni precedenti…); in seguito
viene adibita a valvola di sfogo per i tanti laureati dell’università di massa
che non trovano lavoro (e così facendo diventa anche un canale per la raccolta
di voti, e non a caso i ministri della pubblica istruzione erano tutti
democristiani).
Insomma, in Italia la scuola è sempre servita a fare qualcos’altro, e gli
insegnanti che s’ostinavano a fare il loro mestiere dovevano sempre andare, chi
più chi meno, controcorrente. Soprattutto si perpetua questa convinzione delle
classi dirigenti che per correggere le magagne del carattere nazionale basti
aggiungere qualche insegnamento a quelli già esistenti, per cui se c’è un
problema di illegalità diffusa si faranno ore di educazione civica, e se ci sono
violenze sulle donne si faranno ore di “educazione sentimentale” (ancora noi
insegnanti stiamo aspettando di vedere in cosa dovrebbe consistere, ma bisogna
aver pazienza). E se i servizi sociali non funzionano ci penserà la scuola ad
aiutare i ragazzi a rischio di emarginazione per le cause più diverse (dal
disagio mentale alla povertà), e se entrambi i genitori lavorano si
prometteranno le scuole aperte il pomeriggio così i figli avranno dove stare. La
scuola, insomma, come panacea per tutti i mali; mentre intorno la società che ci
ritroviamo rema in tutt’altra direzione.
In ogni caso, La scuola fascista è un’interessante lettura che fa capire come
tante contraddizioni e limiti del nostro sistema educativo abbiano una lunga
storia, e derivino da scelte talvolta in buona fede, talvolta discutibili, e in
certi casi scellerate (l’espulsione degli insegnanti e accademici ebrei tra le
più famigerate, e giustamente), fatte tanti anni fa. Una lettura decisamente
interessante coi tempi che corrono.
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