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Afghanistan: rimpatri forzati di rifugiati afghani dal Tagikistan
Il governo tagiko ha ufficialmente confermato di aver rimpatriato forzatamente dei rifugiati in Afghanistan, secondo il Times of Central Asia. Questa comunicazione fa seguito alle notizie secondo cui 150 rifugiati afghani, molti dei quali con lo status di rifugiato confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati arrestati e rimpatriati con la forza dalle autorità. All’inizio di questo mese, tutti i rifugiati afghani in Tagikistan avevano ricevuto un ultimatum di 15 giorni che intimava loro di lasciare immediatamente il Paese. Si teme che molti si trovino ad affrontare situazioni di estremo pericolo al loro ritorno. Si pensa che tra coloro che rischiano il rimpatrio forzato ci siano diversi cristiani, che in Afghanistan andrebbero incontro al carcere o alla pena di morte. I talebani hanno infatti affermato che uccideranno tutti i cristiani che vivono nel Paese. Nel recente passato hanno organizzato vere e proprie cacce all’uomo, casa per casa, nei confronti di cristiani. In particolare, hanno preso di mira i responsabili di chiesa afghani: molti di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati picchiati, torturati e uccisi. Dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, l’Afghanistan è arrivato a occupare per un anno il primo posto nella World Watch List di Porte Aperte/Open Doors, che classifica i paesi in cui i cristiani affrontano le persecuzioni e le discriminazioni più estreme. Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato di Stato per la Sicurezza Nazionale della Repubblica del Tagikistan: “Un certo numero di cittadini stranieri ha violato gravemente i requisiti stabiliti per il loro soggiorno. Inoltre, durante l’ispezione, sono emerse le seguenti prove di violazioni (…) della legislazione della Repubblica del Tagikistan: traffico illegale di droga, incitamento e propaganda di movimenti estremisti, presentazione di informazioni e documenti falsi per ottenere lo status di rifugiato. In particolare, a questo si deve anche l’espulsione di un certo numero di cittadini afghani dal Paese. A questo proposito, sono attualmente in esame delle misure per espellerli dal territorio del Tagikistan, in conformità con la legislazione della Repubblica“. Secondo l’agenzia di stampa Khamaa Press, questi rimpatri forzati hanno separato le famiglie. Ci sarebbero anche casi di bambini rimpatriati mentre i genitori si trovano ancora in Tagikistan. Alcuni dei rifugiati che si trovavano nel paese avevano domande di asilo attive e alcuni dovevano essere reinsediati in Canada. Il Tagikistan è solo una delle nazioni che ha rimpatriato i rifugiati afghani. Secondo l’UNHCR, più di un milione di afgani sono stati rimpatriati dal Pakistan a seguito del suo “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali”. Allo stesso modo, nel 2024 circa un milione di persone sono state forzatamente rimpatriate dall’Iran. Jan de Vries, ricercatore di Porte Aperte/Open Doors per l’Asia Centrale, ha commentato: “Sono molto preoccupato per le donne che sono state deportate: che futuro avranno? E penso anche ai cristiani deportati che dovranno nascondersi ancora più di prima. Il rimpatrio potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cristiani, poiché i talebani si oppongono violentemente all’esistenza di cristiani in Afghanistan“. L’Afghanistan si trova alla posizione numero 10 della World Watch List. In questo Paese, abbandonare l’islam è considerato un’onta dalla famiglia e dalla comunità, e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica, la Sharia, applicata in modo sempre più rigoroso da quando i talebani hanno preso il controllo del paese nel 2021. Fonte CS di Fondazione Porte Aperte ETS Redazione Italia
Riceviamo e pubblichiamo da ‘La città futura’ questo articolo di Giulio Chinappi Il 25 giugno 2025 entrerà negli annali del sistema giuridico vietnamita come una data spartiacque. In quella giornata, infatti, l’Assemblea Nazionale ha approvato, con un esito schiacciante di 429 voti favorevoli su 439 deputati partecipanti, la legge che abolisce la pena di morte per otto reati non violenti, tra i quali spiccano peculato e corruzione. Quella seduta parlamentare ha rappresentato l’esito di un lungo dibattito interno, caratterizzato dalla volontà di preservare di deterrenza e da un assoluto impegno verso la gradualità delle riforme, ma ha soprattutto segnato il via a una modernizzazione complessiva del diritto penale, attesa da oltre otto anni. Il percorso che ha condotto a questa svolta è stato costellato di analisi approfondite, pareri di esperti, confronti con le migliori prassi internazionali e riflessioni sulle mutate condizioni economiche e sociali del Paese. La pena di morte, in vigore in Vietnam per reati gravi secondo il Codice Penale del 1985, aveva già subito una riduzione negli anni passati, con un numero progressivo di reati depenalizzati: la scelta di escludere dal luglio di quest’anno tutte le fattispecie penali non violente ha tuttavia un valore emblematico, poiché riconosce la natura “politica” o economica di quei reati e l’opportunità di sostituire la pena massima con sanzioni severe – come la detenzione a vita – ma non estreme, allineando il Paese a tendenze globali. Nel dibattito parlamentare che ha preceduto il voto, sono emerse due linee argomentative complementari. Da un lato, chi ha sottolineato la necessità di mantenere un effetto deterrente forte, che punisca in maniera esemplare chi viola gravemente la fiducia pubblica o tradisce la responsabilità di chi ricopre incarichi pubblici. Dall’altro, molti deputati hanno sostenuto che la pena di morte per peculato e corruzione non fosse più sostenibile né dal punto di vista etico né dal punto di vista pratico. La corruzione e l’appropriazione indebita di fondi pubblici, infatti, si combattono con strumenti che favoriscano la restituzione del denaro e il coinvolgimento attivo dei colpevoli nella ricostruzione del danno causato allo Stato: la nuova normativa stabilisce così che chi collabora e restituisce almeno tre quarti del maltolto possa accedere a benefici di condono o a misure alternative all’ergastolo. La riforma, inserita in un disegno più ampio di allineamento alle convenzioni di diritto internazionale, arriva in un momento in cui il Vietnam intensifica la sua partecipazione in organismi multilaterali e rafforza accordi di cooperazione giudiziaria. Gli argomenti a difesa della pena di morte, quali il timore di un impatto negativo sulla sicurezza e sulla stabilità sociale, sono stati smentiti sia da statistiche interne – che non mostrano correlazioni dirette fra abolizione della pena capitale e aumento della criminalità – sia dalle esperienze di altre nazioni asiatiche, come Cambogia e Mongolia, che già in passato hanno effettuato riforme simili senza conseguenze per l’ordine pubblico. Durante le fasi di discussione, sono intervenuti anche rappresentanti del mondo accademico e della società civile, i quali hanno ricordato i pronunciamenti di organismi come l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e l’ONU, che da anni sollecitano l’abolizione di ogni forma di pena di morte, definita irreversibile e contraria al principio del diritto alla vita. In particolare, si è richiamato il valore simbolico di depenalizzare sanzioni estreme per reati non violenti, distinguendo in maniera netta fra crimini efferati, che potranno continuare a prevedere la pena capitale, e condotte economiche o di abuso di potere, dove la priorità è ristabilire la legalità e la fiducia nello Stato. Con l’entrata in vigore il primo luglio, la nuova legge stabilisce inoltre un regime transitorio di particolare delicatezza. Tutti i detenuti attualmente condannati a morte per peculato, corruzione o per gli altri reati depenalizzati – come nel noto caso della miliardaria Trương Mỹ Lan – non saranno giustiziati, bensì vedranno le loro condanne convertite in ergastolo. Tale conversione verrà disposta direttamente dal Presidente della Corte Suprema Popolare, che eserciterà così il potere di clemenza in modo strutturale e non più occasionale. Gli effetti di questa decisione sul sistema carcerario e sulla politica penitenziaria appaiono già concreti. Da un lato, ci si attende un forte incremento dei detenuti condannati all’ergastolo, con la necessità di predisporre programmi di selezione, incentivazione al lavoro e sostegno psicologico per evitare sovraffollamenti critici. Dall’altro, la maggiore chiarezza normativa favorirà processi più rapidi, la possibilità di misure alternative come i domiciliari negli ultimi anni di pena e un approccio teso a ristabilire la dignità dei condannati che manifestino ravvedimento e cooperazione. Sul versante internazionale, l’abolizione della pena di morte per i reati non violenti rafforza l’immagine del Vietnam come Paese in transito verso piena conformità agli standard di diritti fondamentali. Tale immagine risulterà strategica nell’ambito dei negoziati per nuovi accordi di libero scambio e di cooperazione giudiziaria, nonché nella corsa per attrarre investimenti diretti esteri, che nei settori più avanzati – finanza, tecnologia, ricerca – richiedono un rischio paese mitigato da un sistema giuridico prevedibile e garantista. Il voto del 25 giugno, salutato dai media di Stato come «passaggio a una nuova era di giustizia» e accolto da analisti internazionali con giudizi positivi, segna dunque una pietra miliare: nella storia politica del Vietnam, nonostante il ruolo egemone del Partito Comunista, non sempre riforme di tale portata etica e legislativa vengano approvate con un consenso quasi unanime. È significativa la percentuale del 89,75% ottenuta dal testo, che testimonia un clima di convergenza e di responsabilità condivisa fra i principali schieramenti parlamentari. Resta da vedere come il cambiamento impatterà, sul lungo periodo, sulla percezione della giustizia fra i cittadini e sul grado di fiducia nelle istituzioni. I primi riscontri statistici e sociologici, che emergeranno nei prossimi mesi, saranno cruciali per calibrare eventuali ulteriori aggiustamenti, in particolare per quanto riguarda le misure di risocializzazione e reinserimento dei condannati. Ciononostante, l’abolizione della pena di morte per otto reati non violenti si pone già come un modello di riferimento per i Paesi vicini e per i legislatori di tutta l’area ASEAN. Nel contesto di una regione dove persiste un ampio spettro di approcci, dal mantenimento intatto della pena capitale alla sua limitazione solo ai reati più efferati, il Vietnam ha tracciato una linea di equilibrio tra fermezza e umanità, tra deterrenza e rieducazione. Concludendo, la data del 25 giugno 2025 rappresenta un momento di svolta che proietta il Vietnam verso un sistema penale più moderno e rispettoso della vita umana, in cui la punizione massima cede il passo a sanzioni severe ma non estreme per quei reati che, seppur gravi, non coinvolgono violenza diretta sulla persona. Sarà ora compito del legislatore continuare, nei prossimi anni, a monitorare l’applicazione di queste norme e a integrare la riforma con misure tese alla prevenzione della corruzione e alla promozione di una cultura della legalità, affinché il cammino intrapreso confermi i risultati attesi e consolidi la fiducia dei cittadini in un sistema di giustizia socialista realmente riformato. Redazione Italia