Come contrastare il caporalatoRiceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa Interris.it
Offende “la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal
caporalato”, aveva detto papa Francesco in un videomessaggio rivolto alla
Settimana sociale dei cattolici italiani nell’ottobre 2017.
Il fenomeno del caporalato è ormai esteso in tutta Italia e ne cade vittima
anche parte di quelle persone che, una volta scaduto il permesso di lavoro in
Italia, non riescono a stabilizzare la propria posizione e si trovano in
condizione di irregolarità.
L’apporto al settore agroalimentare dei lavoratori di nazionalità straniera è
però determinante, dato che sono circa uno su tre del totale degli occupati
nell’agroindustria, come emerge dallo studio “Made in Immigritaly” realizzato da
Fai Cisl (La Fai Cisl rappresenta oltre 220.000 lavoratori dell’agricoltura e
attività connesse, dell’industria alimentare, delle foreste, della pesca e del
tabacco)
“Non regolarizzare quei lavoratori che, entrati regolarmente, oggi sono in una
gabbia d’illegalità ma vorrebbero lavorare, ci costa”, dice a Interris.it il
segretario generale di Fai Cisl Onofrio Rota nell’intervista che segue,
ribadendo l’urgenza di contrastare lo sfruttamento nel lavoro agricolo e quali
possono essere i modi per farlo.
L’intervista
Segretario, ci dà una definizione di caporalato?
“Come sindacato lo definiamo l’attività illecita di gestione
dell’intermediazione di manodopera, che comporta il reclutamento dei lavoratori
attraverso i cosiddetti ‘caporali’ senza che vengano rispettati il contratto
nazionale, le tutele previste dalle leggi sul lavoro e le norme di sicurezza”.
Qual è l’entità del fenomeno?
“In base ai dati del Rapporto immigrazione realizzato da Caritas italiana e
Fondazione Migrantes, negli ultimi dieci anni sono entrati in Italia attraverso
i flussi circa 250mila lavoratori.
Di questi, quelli che non riuscivano a stabilizzare la propria posizione e non
venivano rimpatriati oggi sono quegli irregolari che cadono vittime dello
sfruttamento.”
Quali sono gli strumenti a disposizione per il contrasto allo sfruttamento e al
caporalato?
“Il più importante è la legge 199/2016 sul contrasto allo sfruttamento del
lavoro agricolo, che prevede un aumento delle sanzioni, delle forme di tutela
nei confronti di chi denuncia e ha fatto diventare il caporalato, da reato di
natura amministrativa, un reato penale.
Sull’efficacia dell’applicazione è tutto da vedere, alla luce della diffusione
del fenomeno nel nostro Paese. Le azioni di polizia sul territorio fanno
emergere situazioni non trasparenti”.
Ce ne sono altri?
“Abbiamo anche visto che la sinergia tra sindacati, l’Inps, le forze di polizia
e le Regioni e l’incrocio delle banche dati degli organismi responsabili dei
controlli permettono di avere delle ‘sentinelle’ sul territorio.
Inoltre, il lavoratore che denuncia la condizione di sfruttamento deve avere un
permesso speciale e tutele come l’assegno di inclusione sociale, misura prevista
dal governo e frutto di una nostra proposta – una cosa che si evidenzia poco”.
Quali sono gli obiettivi del tavolo interministeriale anticaporalato?
“La Rete del lavoro agricolo di qualità, che mette insieme gli interlocutori del
territorio, e il contrasto alle aziende senza terra. Le azioni repressive, la
vigilanza di Inps, Inail e delle asl, e le Regioni che insieme agli enti
bilaterali agricoli prevedono delle premialità per le imprese che si iscrivono
alla Rete per accedere ai finanziamenti pubblici attraverso i piani di sviluppo
rurale, hanno portato a un aumento degli occupati e della regolarità. Un segnale
tiepido, ma se vengono introdotte queste modalità si può diffondere una cultura
della legalità”.
Quanto “pesano” i lavoratori immigrati sul comparto?
“Oggi sono circa un terzo degli occupati, 360-365mila su un milione, e danno un
contributo regolare e attivo a valorizzare i nostri prodotti.
Il nostro rapporto ‘Made in Immigritaly’ mostra il loro apporto determinante al
prodotto interno lordo italiano.
Ci costa non regolarizzare quei lavoratori che, entrati regolarmente, oggi sono
in una gabbia d’illegalità ma vorrebbero lavorare. Anche le imprese lo sanno
bene”.
Come superare i “ghetti” in cui spesso leggiamo sono segregati tanti lavoratori
agricoli?
“Da anni giro tutta l’Italia e conosco gli insediamenti informali.
I ‘ghetti’ sono una violazione dei diritti umani, luoghi di sfruttamento e
oppressione dove avviene anche la tratta delle donne.
C’è bisogno di una commissione di inchiesta.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza mette a disposizione duecento milioni
per gli insediamenti abitativi, ma dobbiamo fare politiche di inclusione,
integrazione e partecipazione alla vita sociale del Paese per i lavoratori
stranieri che si spaccano la schiena sotto il sole e – ed è la cosa peggiore –
chiedono scusa dicendo che non vogliono rubare il lavoro a nessuno ma solo
lavorare e farsi una famiglia.
Non possiamo limitarci a fare dei container nelle campagne, le associazioni
agricole vogliono politiche di fiscalità di vantaggio per le abitazioni agricole
messe a disposizione e questo potrebbe aiutare l’assegnazione per renderle
agibili per i lavoratori.
Ripensiamo alla legge Zanibelli sulle case per i braccianti”.
A proposito di lavorare sotto il sole, date queste temperature ritiene adeguate
le norme anticaldo ?
“Noi le mettiamo in azione attraverso la contrattazione, che prevede che si può
iniziare alle 5 di mattina per finire alle 11:30. Le ordinanze ministeriali però
sono necessarie per far rispettare questi meccanismi. In merito alla sospensione
del lavoro, per i braccianti agricoli ad oggi è prevista la sospensione a
retribuzione zero, si sta pensando a una cassa integrazione in deroga per quelle
ore. In questo modo si integra il reddito del lavoratore e si contribuisce a
fargli raggiungere i requisiti per accedere alla disoccupazione agricola”.
Redazione Italia