Tag - agricoltura

In Perù, alle api vengono riconosciuti diritti propri
> Le api senza pungiglione autoctone del Perù sono i primi insetti al mondo a > godere di una protezione speciale come soggetti giuridici. Gli indigeni Asháninka le chiamano «Shinkenka» o, in spagnolo, «Angelitos» (angioletti). Appartengono al genere Melipona e sono la prima specie di insetti al mondo a non essere considerata un oggetto, ma ad avere un diritto «personale» all’esistenza, alla rigenerazione e alla protezione. Nell’ottobre 2025, la provincia peruviana di Satipo ha dichiarato le api amazzoniche senza pungiglione soggetti giuridici. L’ape senza pungiglione è un importante impollinatore locale e fa parte dell’ecosistema tropicale da milioni di anni. Il suo miele ha proprietà antibatteriche, antivirali e antinfiammatorie ed è utilizzato nella medicina tradizionale. La legge, che si applica nella biosfera UNESCO di Avireri-Vraem, ha lo scopo di proteggere la popolazione di api, che negli ultimi anni ha subito un forte calo. L’aumento delle temperature dovuto alla crisi climatica, la deforestazione, la coltivazione di droghe, i pesticidi e le specie invasive minacciano la loro sopravvivenza. LE API MELLIFERE CHE PUNGONO SONO ARRIVATE SOLO CON LA COLONIZZAZIONE Le Meliponini non possono pungere, ma possono mordere. Ne esistono circa 600 specie in tutto il mondo, di cui almeno 175 vivono in Perù. Le api mellifere pungenti conosciute in Europa sono arrivate in Sudamerica solo con gli europei. Alla fine degli anni ’50 è stato introdotto un incrocio tra specie di api africane ed europee, che da allora si è rapidamente diffuso e rappresenta una minaccia per le api autoctone. La nuova legge è essenzialmente un successo della biochimica Rosa Vásquez Espinoza, che insieme ad altri scienziati e alle comunità indigene degli Asháninka ha promosso la protezione delle api e, di conseguenza, anche la protezione della regione amazzonica. La maggior parte delle piante importanti per l’agricoltura viene impollinata dalle api selvatiche. TUTTE LE PARTI COINVOLTE PIANIFICANO INSIEME MISURE DI PROTEZIONE L’organizzazione Amazon Research International di Espinoza è stata sostenuta, tra gli altri, dall’organizzazione statunitense Earth Law Center e dalla biologa marina Callie Veelenturf, secondo quanto riportato dal media statunitense «Inside Climate News». Veelenturf è diventata famosa quando ha ottenuto diritti specifici per una specie di tartaruga marina a Panama. Rosa Vásquez Espinoza durante un workshop in una comunità Asháninka. Espinoza, premiata dall’UNESCO per il suo impegno, con l’aiuto di abitanti indigeni, ricercatori e funzionari governativi locali ha mappato in una spedizione dove si trovano le api minacciate e cosa si può fare per preservarle. Le popolazioni si sono fortemente ridotte, ha dichiarato a «Inside Climate News». Mentre prima bastava mezz’ora per trovare un alveare, oggi a volte non se ne trova nemmeno uno in un’intera giornata. LE SPECIE DI API AUTOCTONE SPESSO SOCCOMBONO ALLE MISURE DI PROTEZIONE In un workshop, rappresentanti del governo, ricercatori e indigeni hanno discusso misure pratiche per scongiurare le minacce alle api selvatiche, promuovere la biodiversità e preservare le conoscenze indigene. Ad esempio, le colonie di api possono essere insediate in modo mirato in aree disboscate per ripristinare la biodiversità. Espinoza e i suoi colleghi promuovono l’allevamento di api senza pungiglione come fonte di reddito in una zona prevalentemente dipendente dall’agricoltura di sussistenza e come misura di protezione. Donne come l’apicoltrice Asháninka Micaela Huaman Fernandez insegnano ad altri come allevare api senza pungiglione e come estrarre il miele in modo delicato. Huaman vende il miele come ingrediente di prodotti medicinali tradizionali. Il progetto è esemplare di un movimento internazionale in crescita che attribuisce diritti giuridici alla natura. Gli attivisti criticano il fatto che la protezione delle api spesso riguarda solo la loro funzione di impollinazione o esclusivamente l’ape mellifera Apis mellifera. Le api autoctone, il loro diritto all’esistenza e il loro ruolo nella società e nell’ecosistema vengono spesso trascurati. Gli attivisti vorrebbero che la legge sulla protezione delle api senza pungiglione fosse applicata in tutto il Perù. Le possibilità che ciò avvenga non sono male: in questo Paese sudamericano, il fiume Marañón e il famoso lago Titicaca sono già riconosciuti come soggetti giuridici. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. INFOsperber
Lo stato di salute della green economy in Italia registra luci e ombre
Nel 2024 le emissioni di gas serra diminuiscono troppo poco; aumentano i consumi finali di energia per edifici e trasporti e si importa troppa energia dall’estero; il consumo di suolo non si arresta; la mobilità sostenibile si scontra con 701 auto ogni 1.000 abitanti, il numero più alto d’Europa. Dall’altro lato, la produzione di energia elettrica da rinnovabili è arrivata al 49% di tutta la generazione nazionale di elettricità, l’Italia mantiene il suo primato europeo in economia circolare, l’agricoltura biologica cresce del 24% nel 2024 e le città italiane mostrano vivacità nella transizione ecologica. È questa la fotografia dell’Italia delle green economy contenuta nella Relazione sullo Stato della Green Economy 2025 presentata in occasione degli Stati Generali della Green Economy, il recente summit verde promosso dal Consiglio Nazionale della Green Economy e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Per quanto riguarda le emissioni e il clima, dal 1990 al 2024 sono state ridotte complessivamente del 28%, ma nel solo 2024 il taglio delle emissioni di gas serra è stato di poco più di 7 milioni di tonnellate, neanche un meno 2% su base annua: un quarto della diminuzione registrata nel 2023. Per raggiungere l’obiettivo assegnato all’Italia nell’ambito del burden sharing europeo del 43% al 2030, occorre tagliarle di un altro 15% nei rimanenti 6 anni. In Italia il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre, con oltre 3.600 eventi climatici estremi, quattro volte quelli del 2018. Quanto all’energia, dal 2005 al 2024, in Italia i consumi di energia per unità di ricchezza prodotta si sono ridotti del 28% (meno della media europea del 35%). L’Italia rimane inoltre fra i Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero. Per i consumi finali di energia, le stime per il 2024 non sono positive: i consumi registrano un aumento di circa l’1,5%, da ricondursi interamente ai settori degli edifici e dei trasporti, che si confermano i veri settori “hard to abate” per l’Italia. Nel 2024 la produzione di elettricità da rinnovabili ha superato i 130 miliardi di kWh, al 49% della generazione di elettricità, in traiettoria col target del PNIEC, del 70% al 2030. Purtroppo, i dati del primo semestre del 2025 mostrano un nuovo possibile rallentamento – del 17% per le nuove installazioni di eolico e fotovoltaico rispetto al primo semestre del 2024 – probabilmente per la fine del superbonus del 110% e per la frenata attivata da alcune Regioni. Più efficienza, maggiore risparmio energetico e un forte sviluppo delle rinnovabili sono essenziali non solo per la decarbonizzazione, ma anche per ridurre in Italia i costi dell’energia e aumentare la competitività. In merito all’economia circolare, invece, l’Italia primeggia in Europa. La transizione verso una maggiore circolarità dell’economia è particolarmente importante per l’Italia, che utilizza grandi quantità di materiali che importa per il 46,6%. L’Italia ha le migliori performance di circolarità fra i grandi Paesi europei per la produttività delle risorse, cresciuta dal 2020 al 2024 del 32%, da 3,6 a 4,7 €/kg; per il tasso di utilizzo circolare dei materiali, che nel 2023 ha raggiunto il 20,8; per-il tasso di riciclo dell’86% del totale dei rifiuti e per il 75,6% di riciclo degli imballaggi. Attenzione però al mercato delle MPS (materiale recuperato da scarti di lavorazione che può essere riutilizzato in una nuova produzione), in particolare quello della plastica riciclata, precipitato in una forte crisi che, se non risolta, potrebbe produrre ricadute negative anche sugli sbocchi delle raccolte differenziate. Più criticità, invece, si riscontrano sulla mobilità. In Italia, benché nel 2024 abbiamo raggiunto il record europeo di 701 auto ogni 1.000 abitanti (571 la media UE di 571), la produzione è scesa ai minimi storici, a 310 mila unità, con una quota, ormai marginale, del 2,1%, della produzione di auto in Europa. Dopo aver perso il treno dell’industria automobilistica tradizionale, si stanno accumulando ritardi anche nell’industria automobilistica del futuro, quella delle auto elettriche, calate del 13% nel 2024, con una quota di mercato in diminuzione dall’8,6% al 7,6%, un terzo della media UE che è al 22,7%. Benzina e diesel alimentano ancora l’82,5% del parco e il parco auto invecchia ogni anno di più, è arrivato a una media di 12,8 anni. Al contrario, il nostro Paese si muove bene in agricoltura, con il biologico che cresce. Tra il 1980 e il 2023 in Italia i danni causati all’agricoltura da eventi atmosferici estremi sono stati pari a 135 miliardi di euro, il più elevato in Europa. È essenziale che l’agricoltura italiana sia più coinvolta nella transizione climatica, con misure di adattamento e mitigazione. L’Italia è il Paese europeo con il più elevato numero di prodotti DOP, IGP, STG: nel 2023 sono stati 856. Cresce ormai ogni anno l’agricoltura biologica. Nel 2024 la somma delle aree certificate e in conversione è stata di 2.514.596 con un incremento del 2,4% rispetto all’anno precedente e dell’81,2% in confronto al 2014. La Sicilia continua a essere la regione con la maggiore estensione in valore assoluto (402.779), seguita da Puglia e Toscana. Queste tre regioni concentrano il 38% di tutta la superficie biologica nazionale. Purtroppo, non si ferma nel nostro Paese il consumo di suolo: tra il 2022 e il 2023 in Italia è stato di 64,4 km2 circa 17,6 ettari al giorno, il terzo valore più alto dal 2012. L’impermeabilizzazione del suolo aumenta il deflusso superficiale e riduce la capacità di assorbimento delle piogge, contribuendo ad aumentare gli impatti degli eventi atmosferici estremi. In termini di impermeabilizzazione, tra i capoluoghi delle Città Metropolitane, segnaliamo che Napoli con il 34,7% e Milano con il 31,8%, hanno i valori più elevati, mentre Messina (6%), Reggio Calabria (5,8%) e Palermo (5,7%) registrano le minori percentuali. Il Rapporto evidenzia come le città italiane siano molto esposte ai rischi della crisi climatica. Nei mesi estivi del 2024, il 90,6% della popolazione residente nelle città italiane è stata esposta a temperature medie superiori a 40°C. Grazie alla partecipazione ad iniziative europee e ai fondi del PNRR, molte città hanno realizzato interventi di mitigazione e di adattamento alla crisi climatica e iniziative dedicate alla transizione ecologica: impianti innovativi per la gestione dei rifiuti urbani, aumento di piste ciclabili e potenziamento del trasporto pubblico, rinnovo delle flotte di bus, tutela e valorizzazione del verde urbano, ecc. Nel 2026, terminati i fondi del PNRR, occorrerà attivare nuove forme di finanziamento per continuare a sostenere la grande vivacità e qualità delle iniziative per la transizione ecologica avviate nelle città. Qui la Relazione 2025: https://www.statigenerali.org/wp-content/uploads/2025/11/Relazione-sullo-stato-della-green-economy-in-Italia-2025.pdf Giovanni Caprio
FAO: “a Gaza non c’è più terreno coltivabile”
La Food and Agricolture Organization (FAO), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di questioni alimentari, ha tratteggiato, nel suo rapporto annuale, una situazione di criticità senza precedenti per Gaza: meno del 5% dei terreni rimane coltivabile, con il sistema locale di produzione sostanzialmente collassato. La responsabilità ricade nelle operazioni […] L'articolo FAO: “a Gaza non c’è più terreno coltivabile” su Contropiano.
«Questo è morto, dove lo butto?»
Quarta udienza alla Corte d’Assise di Latina per il processo ad Antonello Lovato, accusato di omicidio colposo con dolo eventuale e omissione di soccorso per la morte il 19 giugno 2024 del bracciante indiano Satnam Singh, abbandonato davanti casa con un braccio amputato. Ecco due testimonianze ascoltate in tribunale: un […] L'articolo «Questo è morto, dove lo butto?» su Contropiano.
Il cibo come strumento di soprusi e di morte in Palestina
Dallo zaatar vietato ai datteri espropriati: come il colonialismo di insediamento ha colpito l’agricoltura e la cultura gastronomica palestinese. “Perché hai questo sacchetto? Perché se un giorno non potrò comprarmi da mangiare a Londra, avrò il mio cibo: zaatar. E gli ho chiesto: Do you know zaatar? ”. Si sono allontanati e mi hanno lasciato da sola nel mio silenzio e nelle mie perplessità: come hanno occupato il nostro paese per trent’anni e non sanno distinguere il timo macinato (lo zaatar) dalla polvere da sparo? O hanno paura dello zaatar perché fa bene alla memoria e vuole eliminarla totalmente?” ( Viaggio dopo viaggio , Salman Natur). Il cibo è il nostro carburante, ci diciamo spesso. Però, forse, non è una cosa di cui ci occupiamo abbastanza: magari prestiamo più attenzione alla benzina che mettiamo nell’auto. Nelle nostre concitate vite trangugiamo pasti di fretta, troppo spesso e senza riflettere su ciò che abbiamo nel piatto. Eppure produzione e consumo di cibo sono le funzioni principali che gli esseri umani svolgono sulla terra per la propria sopravvivenza. Danno forma alle nostre città, visto che le stesse sono nate, quasi ovunque nel mondo, intorno ai mercati; creare le reti e le connessioni, poiché il trasporto delle risorse alimentari disegna e trasforma le vie di comunicazione; determinano anche conflitti, sin dai tempi dell’antichità. Oggi in Palestina, in quello che ormai è definito, anche in sede giuridica, come genocidio (il 16 settembre 2025 una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite, dopo una lunga indagine, lo afferma come tale in quanto sono stati commessi quattro dei cinque atti che, secondo il diritto internazionale, identificano questo tipo di crimine contro l’umanità), il cibo ha assunto un ruolo terribile: è stato usato per affamare la gente della Striscia di Gaza, per costringerla a evacuare e, purtroppo, per ucciderla in massa, come intento di pulizia etnica. In pratica, come ha più volte ricordato Rula Jebreal, il cibo è diventato un’arma di guerra. La connessione tra l’occupazione della Palestina e il cibo è, però, molto più profonda e antica: già dalla fase iniziale del colonialismo di insediamento, tutto è ruotato intorno alla terra e ai suoi frutti. Una bellissima, quanto tragica, ricostruzione degli avvenimenti la si può trovare nel famoso testo di Ilan Pappe Dieci miti su Israele , pubblicato nel 2022 e tradotto in Italia da Edizioni Tamu, in cui l’autore, attraversando le varie fasi del progetto sionista a partire dalle prime colonie del diciannovesimo secolo fino a oggi, ci rende noto come tutto sia nato ben oltre un secolo fa. D’altra parte, come potrebbe non essere così, se la questione nodale del progetto colonialista israeliano riguarda l’appropriazione di terra? Non tutte le colonizzazioni hanno avuto questo obiettivo: ad esempio, gli stati europei che si sono macchiati di crimini efferati nella cosiddetta tratta atlantica attingevano all’Africa per il commercio degli schiavi da usare come manodopera nelle piantagioni americane e, infatti, per questo motivo, nel 1680 fu istituita la Royal African Company , promuovendo l’arrivo massiccio di schiavi nelle colonie inglesi. Nel colonialismo di insediamento israeliano, invece, la terra è al centro dell’interesse: in quell’area geografica e in nessun’altra si sarebbe mai potuto riprodurre allo stesso modo. Infatti, come noto, il progetto sionista, traendo origine da un’interpretazione, a detta di molti, tra cui Moni Ovadia, assolutamente restrittiva del libro del Levitico , fa coincidere il diritto all’acquisizione della terra promessa con la creazione dello stato-nazione israeliana. Le conseguenze del progetto di insediamento sono state, quindi, da subito di grande impatto, in senso negativo, per l’agricoltura palestinese, ma anche per la cultura culinaria plurimillenaria della Palestina. Il sionismo si è occupato con una certa dedizione della persecuzione delle sue radici culturali. Parliamo del famoso zaatar, considerato un simbolo nazionale palestinese che lega le persone alla propria terra e cultura. Si tratta di una miscela di erbe e spezie composta tradizionalmente da timo, sesamo e sommacco e usata come merenda energetica dagli studenti, dai lavoratori, dai bambini, per lo più nella fase che precede il pranzo, a metà mattinata. Lo zaatar, usato su pane, verdure, carne, pesce e persino nelle insalate, viene consumato da secoli sia in Palestina che in tutto il Medio Oriente, elemento di resistenza culturale, un modo per mantenere viva la connessione con la terra di origine, specialmente per la diaspora palestinese. Nel 1977, con una legge, lo stato di Israele ne ha vietato la raccolta, applicando sanzioni penali ai palestinesi, ma non agli israeliani. Questa politica è vista come un tentativo di tagliare il legame dei palestinesi con la loro terra e la loro cultura. I dati sugli arresti confermano questa supposizione: tra il 2004 e il 2016, tutti i 61 imputati accusati per la raccolta di questa pianta erano palestinesi, secondo un articolo di NenaNews: “Solo un anno dopo la Giornata della terra Israele emanò una legge che vietava la raccolta dello zaatar perché ‘pianta protetta’. Facendo così però, osserva il giornalista Hammud, Tel Aviv non solo ha giustificato il suo furto delle terre dei palestinesi, ma si è anche appropriata dei loro elementi culturali”. akkoub Una sorte analoga è toccata all’akkoub, “una pianta selvatica difficile da raccogliere a causa della sua posizione montanara e delle foglie spinose. Ha un sapore simile al carciofo. Nella cultura araba e palestinese in particolare, viene utilizzata per la preparazione di cibi e per scopi curativi, e queste culture rispettano e si identificano con questa pianta” (dal sito della Fondazione Slow Food per la biodiversità che lo ha inserito nelle piante da preservare). Sempre sullo stesso tema, va citato il bellissimo docufilm Foragers , girato sulle alture del Golan, in Galilea ea Gerusalemme, che, attraverso l’utilizzo della finzione, del documentario e di filmati d’archivio, mostra scene di inseguimenti tra i raccoglitori e le pattuglie israeliane, momenti di difesa nelle aule del tribunale e momenti in cucina. Un caso a parte e molto controverso è rappresentato dai datteri, quelli che noi mangiamo a Natale: accade che i datteri coltivati dai contadini di Jenin, di antica produzione autoctona, a causa della sottrazione delle terre, rischiando di sparire dal patrimonio della biodiversità del pianeta, tant’è che è nata un’impresa sociale, Al Reef, che dal 1993 supporta i piccoli produttori della Cisgiordania costretti ad affrontare le limitazioni delle autorità israeliane e le violenze dei coloni. In Italia, sulle nostre tavole, essi vengono sostituiti dai più famosi datteri della Valle del Giordano; quest’ultima è una varietà introdotta successivamente nel deserto del Negev e nei kibbutz israeliani, cooperative agricole sostenute dal governo israeliano e operanti prevalentemente in territori occupati, cioè aree dove il colonialismo di insediamento israeliano e il controllo militare causano l’espropriazione di terra palestinese, la demolizione delle case e, sempre più spesso, uccisioni indiscriminate. I datteri israeliani sono venduti in Italia attraverso la rete Naturasì che, proprio a causa di critiche provenienti da alcuni consumatori che chiedevano di boicottare tali produzioni, ha ritenuto doveroso pubblicare un chiarimento che riportiamo in calce. Infine, va fatto un breve accenno alla notizia che sta girando molto sul web circa l’intreccio esistente tra il nostro pomodoro “pachino” e l’agroindustria israeliana: tale ortaggio, che la stragrande maggioranza delle persone pensa sia un prodotto tipico di Pachino, Portopalo di Capo Passero, Noto e Ispica, in provincia di Siracusa, viene invece prodotto grazie a semi di proprietà della multinazionale Hazera Genetics, che ha sede centrale nei Paesi Bassi e in Israele, con filiali in 11 paesi, oltre a una rete di distribuzione che serve oltre 130 mercati. Tutto è iniziato nel 1989, quando l’azienda sementiera ha selezionato questa varietà e ha iniziato a fare affari con i contadini siciliani e il consorzio IGP. Sì, si tratta proprio di affari, poiché i frutti ottenuti non sono in grado di riprodurre il seme che, quindi, deve essere sempre riacquistato. Non possiamo affermare, in questo caso, che vi sia un diretto coinvolgimento della multinazionale nelle azioni criminali agite dal governo israeliano. Certo è che il rischio che vi siano complicità in atto andrebbe considerato e verificato per tutte le aziende che hanno sede o investimenti in Israele. In definitiva, se siamo ciò che mangiamo, l’attenzione al cibo deve essere centrale nella lotta alle violazioni documentate che il popolo palestinese subisce costantemente dalla fine dell’Ottocento. La vera origine del pachino – L’Indipendente NenaNews alreeffairtrade.ps RaiNews YouTube Fondazione Slow Food NaturaSì Hazera Genetics Nives Monda
Riconoscimento della Palestina solamente con la fine dell’occupazione israeliana
Da quando diversi governi occidentali hanno annunciato la loro intenzione di riconoscere uno Stato palestinese, noi che viviamo sotto l’occupazione israeliana abbiamo seguito le notizie con cauto interesse. Per alcuni osservatori, queste dichiarazioni rappresentano una svolta significativa nella lotta palestinese, in particolare da parte di paesi potenti come Francia, Australia e Canada che per decenni hanno sostenuto e protetto il regime di occupazione israeliano. Il riconoscimento tardivo e tiepido della Gran Bretagna ha un peso simbolico ancora maggiore. In quanto Stato che ha emanato la famigerata Dichiarazione Balfour aprendo la strada alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, ha una responsabilità storica per la Nakba del 1948 e le sue durevoli conseguenze. Tuttavia, questo cambiamento, che è costato innumerevoli vite a Gaza e in Cisgiordania, non significa una ritrovata chiarezza morale. I palestinesi sanno che non sarebbe avvenuto senza le massicce manifestazioni nelle capitali occidentali, dove i cittadini si sono ribellati per la giustizia, la libertà e l’umanità, costringendo i loro governi a rispondere. Allo stesso tempo, molti temono che queste mosse abbiano più a che fare con l’insabbiamento delle responsabilità dei governi complici che con la giustizia. Il riconoscimento, sebbene importante, rimarrà privo di significato se non porterà alla fine definitiva dell’occupazione e del genocidio attraverso una risposta seria, ferma ed efficace ai crimini di Israele. Ostacoli incessanti Come agricoltore, ogni autunno sono costretto ad affrontare la crudeltà delle politiche israeliane, quando raggiungere i miei uliveti diventa un calvario di cancelli e posti di blocco. Quest’anno, il momento del riconoscimento internazionale coincide con la raccolta delle olive, la stagione agricola più importante in Palestina, vitale per il sostentamento di migliaia di famiglie e profondamente simbolica per la nostra identità. Io e la mia famiglia dovremmo essere tra gli ulivi nel nostro villaggio ancestrale di Qira, vicino a Salfit. Invece, dobbiamo affrontare ostacoli incessanti, non solo a causa delle siccità stagionali o dei parassiti, ma anche delle restrizioni sistematiche imposte dall’occupazione. Per i palestinesi, la raccolta delle olive è più di una necessità economica: è un atto di resilienza e appartenenza. In tutta la Cisgiordania, tuttavia, famiglie come la mia si vedono negare l’accesso ai nostri uliveti da ordini militari e sono costrette a guardare i coloni sradicare e bruciare i nostri alberi. Questa realtà solleva domande urgenti: se il riconoscimento internazionale non porta a risultati politici importanti come la libertà, la fine dell’occupazione e la creazione di uno Stato palestinese, almeno fermerà lo spargimento di sangue e la carestia a Gaza? Oltre il riconoscimento Queste domande mettono in luce la vacuità del riconoscimento quando non è accompagnato da azioni concrete. Per decenni i palestinesi hanno sopportato l’occupazione mentre la comunità internazionale non ha adempiuto alle proprie responsabilità politiche e giuridiche, applicando il diritto internazionale con un palese doppio standard. Troppi governi considerano il riconoscimento della Palestina come la strada più facile e meno costosa: un gesto simbolico che placa l’opinione pubblica interna, attenua l’intensità delle manifestazioni e permette loro di rivendicare una posizione morale senza confrontarsi con i crimini di Israele. Ciò di cui i palestinesi hanno più bisogno sono misure decisive: porre fine alla cooperazione con Israele, imporre sanzioni economiche e perseguire i suoi leader per crimini di guerra. Solo tali misure potrebbero costringere Israele a cambiare radicalmente rotta. Per i palestinesi, questi riconoscimenti dovrebbero anche fungere da catalizzatore per l’unità e il rinnovamento. Devono spingerci a stabilire un sistema democratico e inclusivo basato sulla libertà e la giustizia, piuttosto che uno che esclude le principali fazioni politiche su richiesta dei governi stranieri. Gesto vuoto Il riconoscimento di uno Stato palestinese “indipendente” mentre esso rimane teatro di occupazione, pulizia etnica e genocidio ormai giunto al suo terzo anno non fa che sottolineare l’assurdità e la totale vacuità del gesto. A Gaza, più di 720 giorni di uccisioni di massa, sfollamenti, fame e devastazione hanno lasciato intere comunità in rovina. In Cisgiordania, Israele ha frammentato città e villaggi, ha permesso gli attacchi dei coloni e ha distrutto i campi profughi nel nord, sfollando i loro residenti. Ora ci sono più di 1.000 cancelli e barriere in tutta la Cisgiordania, che copre solo 5.000 km2, il che significa una barriera o un cancello ogni 5 km. Un blocco economico e finanziario impedisce a decine di migliaia di lavoratori di raggiungere il proprio posto di lavoro. Nel frattempo, i dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio completo da due anni a causa delle restrizioni imposte all’Autorità palestinese, che hanno paralizzato servizi essenziali come la sanità e l’istruzione. Di fronte a questa realtà, le dichiarazioni di riconoscimento suonano vuote se non affrontano il meccanismo dell’occupazione e del genocidio. In definitiva, saranno le risposte alle domande poste dai palestinesi a determinare come questi riconoscimenti saranno ricordati: come una pietra miliare storica o semplicemente come inchiostro su carta, un’altra serie di risoluzioni finite negli archivi delle Nazioni Unite e dei governi mondiali. A meno che il riconoscimento non sia sostenuto da sanzioni, responsabilità e pressioni concrete per smantellare l’occupazione, rischia di servire solo come copertura per i governi complici piuttosto che promuovere la giustizia per la Palestina. di Fareed Taamallah L’articolo è apparso in inglese su Middle East Eye, tradotto in italiano per Pressenza da Nazarena Lanza Redazione Piemonte Orientale
La Puglia è nostra. Riprendiamoci il futuro!
La Puglia che conosciamo e amiamo sta cambiando sotto i nostri occhi. Ci raccontano di una terra di successo, meta turistica globale, vetrina di eccellenze. Ma dietro le immagini da cartolina c’è la vita reale: basi militari proiettate verso la guerra; ospedali che chiudono, medici che mancano, liste d’attesa che […] L'articolo La Puglia è nostra. Riprendiamoci il futuro! su Contropiano.
La politica agricola italiana dentro le mire di autonomia energetica europea
Può sembrare strano che la politica agricola possa svolgere un ruolo nell’autonomia energetica, ma è proprio su questa particolare sinergia che il governo Meloni ha puntato da tempo, come elemento qualificante anche del Piano Mattei. O sarebbe meglio dire, alcuni gruppi (a partire da ENI) nella cornice dei tentativi UE […] L'articolo La politica agricola italiana dentro le mire di autonomia energetica europea su Contropiano.
IDRO (BS): CORTEO CONTRO IL PRELIEVO DELL’ACQUA DEL LAGO A FAVORE DELL’AGRICOLTURA INTENSIVA
Indetta una manifestazione domenica 20 luglio, in opposizione allo sfruttamento delle acque del lago d’Idro che vorrebbe Regione Lombardia. Organizzano gli Amici della Terra lago d’Idro e Valle Sabbia, con la partecipazione della Federazione del Chiese e del Comune di Idro (provincia di Brescia). L’appuntamento è ad Idro, alle ore 18, in via Trento, via principale che costeggia il lago. I gruppi ambientalisti, sostenuti anche dagli operatori turistici del territorio, si dicono contrari al progetto regionale che vedrebbe, tramite opere di regolazione, prelevare 3,5 metri verticali di acque ogni estate per cederli agli agricoltori delle basse lombarde. Si tratterebbe di un prelievo che irrigherebbe oltre 45 mila ettari di aree agricole, di cui molte coltivate a mais da trinciare per alimentare le mucche negli allevamenti intensivi. Dal lago d’Idro se ne andrebbero quindi 40 milioni di metri cubi di acqua ogni estate, per essere utilizzati dall’agricoltura tramite la tecnica irrigua a scorrimento, cioè inondando i campi, comportando un consistente spreco di acqua. Ci spiega le ragioni della manifestazione Gianluca Bordiga, presidente dell’associazione Amici della Terra lago d’Idro e Valle Sabbia e della Federazione del Chiese. Ascolta o scarica