Madhumita Murgia/ L’unione fa la forza
Fin dal titolo, deliberatamente agli antipodi dell’argomento di cui parla,
Essere umani si presenta come un libro diverso. Ci risparmia le spiegazioni
riduttive e quelle ipercomplicate. Va dritto al cuore del problema: cosa stanno
facendo, gli esseri umani, con questo potentissimo strumento? Di base, Madhumita
Murgia è ottimista. La sofisticazione, la complessità e le capacità
dell’intelligenza artificiale ci potrebbero davvero aiutare a migliorare la vita
nostra e degli altri.
Giornalista che si occupa da più di dieci anni di tecnologia per testate come
“Wired” e “Financial Times”, Murgia ha cominciato a indagare sugli usi dell’IA
andando a cercare le persone la cui vita, grazie a questo strumento, è cambiata.
Non sempre e non del tutto in meglio, anche se non è facile capire quale è il
meglio e quale è il peggio. I migranti che lavorano da remoto inserendo dati,
gli autisti di Uber, i rider che portano il cibo pronto, sono tra le persone che
beneficiano dell’intelligenza artificiale e nel contempo ne sono le vittime. Gli
algoritmi con cui lavorano le piattaforme che gestiscono questi lavori sono
opache e le persone che ci lavorano non li conoscono; non hanno alcun controllo,
alcuna comprensione. Tutto è anonimo ed estraneo, e quando c’è un problema,
quando qualcosa non torna, non esiste un interlocutore, non esiste un referente.
Gli algoritmi sembrano neutri ma sono in realtà pensati e scritti da esseri
umani, con pregiudizi e convinzioni da cui sono guidati nel loro lavoro, anche
senza esserne consapevoli.
I siti di pornografia (uno degli ambiti più lucrativi) rubano immagini di volti
“qualunque”, volti di persone normali a cui aggiungono un corpo che segue
l’immaginario maschile (quello deformato della pornografia ovviamente) e che
esegue gli atti e i comportamenti che quell’immaginario richiede. Sono violenti,
totalmente irrispettosi delle donne. Vedere la propria immagine trattata così è
un’esperienza devastante da cui è difficile uscire. Il riconoscimento facciale è
praticato da moltissime amministrazioni pubbliche attraverso telecamere poste
nei luoghi di passaggio, piazze, metropolitane, angoli di strade, senza che i
cittadini lo sappiano e senza alcuna considerazione per la tanto decantata
privacy. Con la scusa della sicurezza, può essere utilizzato contro chiunque.
Anche le applicazioni di IA a problemi sanitari o di assistenza sociale o di
prevenzione dei crimini si sono rivelati fallaci e spesso dannosi. I casi
dell’Olanda e dell’Argentina, in cui l’IA è stata applicata per predire la
delinquenza giovanile o le gravidanze adolescenziali, hanno mostrato come i dati
su cui i sistemi di IA si basano sono parziali e soprattutto di parte, e possono
generare delle soluzioni che danneggiano le persone che si immaginavano di
aiutare. Ma chi altro se ne accorge oltre le vittime? Di certo non le
amministrazioni pubbliche o i servizi sociali, che anzi tendono a pensare di
aver finalmente trovato nei sistemi di IA la soluzione poco costosa e funzionale
dei loro problemi. La statistica non è una fotografia neutra della realtà.
Altri esempi ci vengono dall’uso di ChatGPT. Si tratta dell’IA generativa, un
sistema che impara man mano che interagisce con l’utente. Di base quello che ha
imparato viene da tutto quello che nell’arco degli ultimi vent’anni abbiamo
messo dentro internet: libri, articoli, blog, commenti, pubblicità, video,
musica, immagini. ChatGPT lo usano in tanti e spesso in modo innocuo e pigro,
per risparmiare tempo, per scrivere senza fare la fatica di pensare cosa e come
scrivere. E già così ci si può immaginare che l’IA possa sostituire alcune
professioni, copywriter e disegnatori in primis, e lo fa dopo avere imparato
senza pagare una lira e senza riconoscere alcun merito alle fonti. Non stupisce
che la questione del diritto d’autore sia delle più delicate e urgenti.
Ma c’è un aspetto che Murgia mette in evidenza e che disturba assai: ChatGPT (e
chissà i suoi successori) sono programmati per dare delle risposte. Se non le
sanno se le inventano. Frugano tra i miliardi di dati che hanno e tirano fuori
qualcosa. È successo a un avvocato, di farsi assistere da una chatbot per
preparare un’udienza, e trovarsi in aula con dei riferimenti a sentenze
inesistenti: si è vergognato oltremodo. Sono anche programmati (diciamo che “li
disegnano così”) per dare delle risposte gradite, accondiscendenti: fungono da
psicoterapeuti per persone che cercano conferme e mai confronti. Addirittura,
secondo un recente articolo di “The Atlantic”, guidano passo passo una persona
che dice di volersi tagliare le vene. Inquietante.
Ma non è un saggio politico, questo libro. Nell’aprirci gli occhi sugli effetti
indesiderati dell’IA, nel ricordarci che si tratta di un potentissimo strumento
statistico e non di un’intelligenza come quella umana, con le sue sfumature e le
sue qualità emotive e sentimentali, Murgia ci ricorda anche che viviamo in una
società, che apparteniamo a una comunità, che non siamo individui isolati. Anche
se spesso sembra che ognuno stia chiuso nella sua bolla e abbia pochissimi
contatti con gli altri, è nel momento in cui le persone si parlano, si
raccontano le proprie esperienze, si mettono insieme per agire, che lo strumento
IA diventa meno potente.
L’unico modo per far fronte allo strapotere dell’intelligenza artificiale (e dei
gruppi che se ne avvantaggiano economicamente) è quello di unire le forze, di
confrontare i vissuti, di agire insieme. Una ricetta vecchia come il mondo, e
non facile da applicare, ma che tuttora è l’unica che funziona. Come dice la
stessa Murgia: «Se l’IA sta già modificando, nel piccolo e nel grande, ciò che
significa essere umani, cosa accadrebbe se, tutti insieme, rivendicassimo la
nostra umanità?»
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