A Gaza ora si muore in silenzio
Era la fine del 2023 e la tragedia che colpì la prigione a cielo aperto più
grande del mondo denominata “striscia” di Gaza, dopo l’azione militare delle
milizie di Hamas, aveva appena avuto inizio. In principio sembrava “solo” una
rappresaglia ben organizzata ma pur sempre, sebbene fin dall’inizio oltremodo
sproporzionata, una risposta militare dell’IDF nel quadro logico di una
vendetta. Fu tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 che tramite una cara amica
palestinese che circa vent’anni prima aiutai nella sua titanica impresa di
ottenere un permesso di soggiorno per rimanere nella nostra “accogliente”
Italia, dopo una laurea, un dottorato e i primi contratti di lavoro, entrai in
contatto con Sharif, palestinese nato a Gaza, mediatore culturale a Siena e
impegnato con l’ONG “Un ponte per”. Insegnavo Scienze Umane in un liceo del
litorale laziale e volevo raccontare ai miei studenti non solo che cosa è stato
il colonialismo di insediamento attuato in Palestina fin dalla fine
dell’Ottocento dal movimento sionista, ma anche portare in aula, tramite la
videoconferenza, una testimonianza diretta di una loro coetanea, una studentessa
a Gaza.
Sharif la trovò, non era una studentessa liceale, ma era più facile entrare in
contatto con lei in quanto sua parente. Il contatto e la comunicazione non fu
senza difficoltà, perché nel frattempo ciò che stava colpendo la sua famiglia,
quella della studentessa e tutto il popolo gazawi, si stava ben presto
trasformando in ciò che quando tutto sarà finito, sarà ufficialmente
classificato come genocidio dalla Corte di Giustizia Internazionale.
Nancy Hamad, così si chiama la studentessa laureanda in economia con una tesi
sul commercio on-line, fu intervistata una prima volta per Radio Onda
d’Urto tramite un fortunoso collegamento via WhatsApp reso possibile da un
gruppo di volontari informatici che organizzava ponti-radio a Gaza. Anche quella
volta Nancy aveva percorso circa tre quarti d’ora di cammino tra le macerie per
potersi collegare ad internet all’ombra di un gazebo, come faceva d’abitudine
per rimanere in contatto con ciò che rimaneva della sua università, ormai rasa
al suolo, anche solo per scaricare qualche PDF utile per la sua tesi.
Sharif tradusse in diretta per la trasmissione “Scuola Resistente” quella prima
intervista dopo avermi aiutato invano a organizzare il difficilissimo
collegamento con i miei studenti. Inseguimmo Nancy per lunghi mesi, infatti, ma
quando, sfumata la possibilità del collegamento in videoconferenza prima della
fine dell’anno scolastico, riuscimmo ad intervistarla una seconda volta, lei e
la sua famiglia avevano cambiato rifugio già cinque volte, su e giù per la
striscia, secondo le ciniche e paradossali indicazioni dell’IDF che presentavano
ogni volta l’area da raggiungere come “zona sicura”.
Il ponte-radio funzionava a singhiozzo e Sharif a ogni interruzione
dell’intervista con Nancy riempiva mano a mano quei vuoti con le frammentarie
informazioni che lui stesso riceveva dalla sua famiglia, anch’essa a Gaza alle
prese con la sopravvivenza. “Il dolore e l’angoscia sono troppo grandi – mi
confessò una volta al telefono – per resistere a quel vuoto di comunicazione che
c’è ogni volta quando tento di mettermi in contatto con loro. Preferisco quindi
che siano loro a chiamarmi, anche se solo una volta ogni 15 giorni, sempre con
la speranza che mi dicano che sono tutti vivi”.
Inizia il nuovo anno scolastico 2024/25, ma l’algoritmo quell’anno decise di non
farmi ritornare in aula per l’ennesima supplenza. L’occasione per fare qualcosa
di simbolico per Nancy, quanto meno per farle sentire la vicinanza di una parte
di mondo “occidentale” me la offrì l’Università RomaTre, tra tutte forse quella
più connessa al governo sionista per legami accademici e di ricerca: la laurea
honoris causa alla costituzionalista Daphne Barak Erez, giudice della Corte
suprema israeliana dal 2012 e artefice, sul piano giuridico, della
trasformazione dell'”unica democrazia in Medio Oriente” in uno stato
confessionale, dove si sanciva giuridicamente lo stato di apartheid, dividendo
il popolo israeliano in “ebrei” e “non ebrei”. In quello stesso giorno, tra
poliziotti della celere, le intimidazioni della DIGOS e l’incursione di
disturbo, breve e violenta, di alcuni studenti che dalla cerimonia organizzata
in sordina dal Dipartimento di Giurisprudenza praticamente a porte chiuse,
uscirono in strada, consegnammo, insieme agli amici di “RomaTre Etica” una
laurea simbolica in economia a Nancy. Lei non riuscì a collegarsi in diretta con
noi, ma ci consentì di leggere un suo messaggio.
Con Sharif ci sentiamo regolarmente. Di ritorno dal Cairo dopo la fallimentare –
soprattutto per noi italiani – Global March to Gaza mi risponde così “(…): “Le
comunicazioni sono state riprese e tagliate tre volte in una settimana. Ho perso
mio padre per mancanza di medicinali e cibo una settimana fa (…)”. Il mio
messaggio a Nancy su WhatsApp, invece, al momento ha una sola spunta.
Stefano Bertoldi