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Miniere, schiavi e rame nel Congo in guerra e senza più strade
Guerra delle milizie armate nell’Est e assoluta fragilità delle infrastrutture al Sud; insicurezza, schiavitù e morte in miniera, con il crollo frequente e tragico dei giacimenti di oro e rame nell’ex Katanga e nell’Est. La Repubblica Democratica del Congo appare un colabrodo, ricchissima di tutto e in estrema sofferenza. Sabato scorso è collassata la miniera di rame di Kalando, nella provincia sud-occidentale di Lualaba: un cedimento strutturale provocato dal crollo del ponte attraversato dai minatori illegali, che erano stati presi di mira dai fucili dei militari. Un insieme di concause fatali che hanno portato alla morte di 32 persone. Naturalmente questo non è il solo incidente ma quasi la norma. «Alla radice di tutti i mali in Repubblica Democratica del Congo c’è la corruzione ad ogni livello, che chiamerei cleptocrazia», ci spiega don Davide Marcheselli da Kitutu, nel Sud Kivu. «Le guerre sono funzionali alla predazione del territorio». Il ricco sottosuolo a sua volta è alla mercè di chiunque abbia una licenza per scavare. Ma anche di chi non ce l’ha. I minatori lavorano nei siti per pochi dollari al giorno e gli “illegali” scavano per cercare oro o rame che rivendono poi ai contrabbandieri fuori dal paese. «Così si alimentano le condizioni affinché le ruberie vadano avanti all’infinito», dice. E la responsabilità non è solo di Paesi terzi ma dei governanti stessi. Le città dell’Ovest, Lubumbashi e Kolwezi in particolare, nell’ex Katanga, proprio dove è implosa la miniera di rame (e dove vivono gli schiavi del cobalto), sono diventate la “cassaforte” della famiglia presidenziale. L’ex Zaire, antica colonia belga, cassaforte di re Leopoldo del Belgio, era suo possedimento personale. E gli attuali re si rifanno a questo modello coloniale. Alcune recenti inchieste giornalistiche, come quella di Africa Intelligence, parlano di corruzione e sottrazione di denaro pubblico per sfruttamento minerario tramite il gruppo kazako Eurasian Resources Group. Kolwezi è sede di un quarto di tutte le riserve mondiali di cobalto ed è la più sfruttata: un’intera popolazione di poveri è “impiegata” nei siti minerari. Nel frattempo il Paese non si regge in piedi: strade e infrastrutture mal costruite e prive di manutenzione crollano, anche sotto il peso dei trasporti fuori controllo delle compagnie minerarie. «E nessuno le ricostruisce», dice il missionario. Come accade per un’arteria stradale importantissima nel Sud Kivu, completamente fuori gioco da due anni: la Route Nationale numero 2 che collega Bukavu ad una serie di centri abitati del Sud Kivu. «Si stanziano soldi per ricostruire o aggiustare ma questi finiscono nelle mani di capi locali – denuncia Marcheselli – e le strade non ci sono più». Il territorio di Mwenga, dove passa la strada nazionale interrotta, è uno «dei più ricchi della regione ma è anche uno dei più sfruttati illegalmente», si legge in un documento che la società civile Force Vive ha consegnato al capo di Stato e che don Marcheselli condivide con noi. «Le società minerarie, per lo più a capitale cinese, operano senza alcun rispetto della legge, senza reali vantaggi per la popolazione, e distruggono la RN2 (la route nationale numero 2)». Sono oltre 30 le società minerarie che dilapidano le ricchezze di Mwenga. L’arteria stradale sarebbe fondamentale per il trasporto dei camion che fanno arrivare nei villaggi beni di prima necessità, ma i tempi si allungano in modo esasperante. «Per arrivare da Kitutu a Bukavu impiegavo due ore prima, adesso ci vogliono due giorni – spiega il missionario – va da sé che anche i prezzi dei beni aumentano». Un litro di carburante è passato da 5000 franchi belga a 10mila, ossia da un euro e 80 a quasi 4 euro. E un chilo di farina arriva a costare quasi un euro: una cifra enorme per chi ne guadagna a malapena 50 al mese. Il caos del Congo è dunque anche il frutto del malgoverno, di una gestione autoritaria e orientata al profitto, che contribuisce ad impoverire comunità sempre più desolate.   Redazione Italia
In occasione della Congo Week, intervista con il dottor Joseph Kakisingi di Bukavu (Kivu, Rdc)
 Ogni anno dal 2009 a ottobre si tiene la «Breaking the Silence Congo Week», una settimana internazionale di azione e riflessione che ha diversi obiettivi: rompere il silenzio sulla guerra che colpisce la regione del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), denunciare la complicità internazionale, commemorare le vittime ma anche celebrare «l’enorme potenziale umano e naturale che esiste nel paese». In questa occasione abbiamo intervistato il dottor DeJoseph Kakisingi, ginecologo, direttore del Centro Ospedaliero San Vincenzo di Bukavu. Il dottore è stato invitato in Italia in occasione della marcia per la pace Perugia-Assisi, ottobre 2025. Ha tenuto diversi incontri organizzati anche dall’associazione Colibrì di Mantova che sostiene vari progetti nel settore sanitario proprio nelle zone del Congo colpite dalla guerra.   La sua attività si svolge da tempo in una situazione di guerra e occupazione… Il centro ospedaliero Saint-Vincent, nel comune di Kadutu a Bukavu porta cure di qualità alle comunità economicamente meno abbienti. Sono anche direttore e co-fondatore dell’organizzazione non governativa (Ong) Santé et Développement, nata per l’aiuto alle donne sfollate vittime e sopravvissute di violenza sessuale. La struttura si occupa delle cure mediche, dell’accompagnamento psicosociale e del reinserimento nella comuunità. Via via, l’organizzazione si è diversificata aggiungendo altre attività, tra cui la gestione della malnutrizione in ambienti chiusi, i programmi di sicurezza alimentare e i programmi di risposta gestiti dalle comunità. Ho inoltre riunito le organizzazioni umanitarie congoles nel Consiglio nazionale dei forum delle Ong umanitarie e di sviluppo il cui obiettivo è quello di sensibilizzare sulla situazione umanitaria nella Rdc e sulla  risposta umanitaria a livello locale, affinché i finanziamenti arrivino direttamente nelle comunità, in modo più efficace, adeguato, diretto.   Qual è la situazione umanitaria a Bukavu e Goma e in generale nelle zone sotto il controllo della milizia detta M23/Afc appoggiata dal Ruanda? Le due città sono isolate da tutto. I mezzi di sostentamento sono bloccati. Gli operatori umanitari allertano il mondo sulla grande crisi con le sue conseguenze sulla salute e sulla sicurezza alimentare. Alcuni operatori umanitari sono presi di mira perché accusati di far conoscere alla comunità internazionale ciò che le autorità de facto non vorrebbero far vedere. Molti di loro sono costretti a fuggire. Sono stato costretto a lasciare Bukavu per rifugiarmi altrove. Eppure, siamo fra coloro che lottano affinché i civili non diventino vittime collaterali della guerra.   È vero che l’aiuto internazionale manca? Dopo la presa di Goma e la caduta di Bukavu, all’inizio del 2025, tutti i campi di sfollati che si trovavano nei dintorni e che ricevevano assistenza umanitaria sono stati smantellati. Si tratta di due milioni di persone che oggi sono senza casa e senza alloggio. Con la mancanza di sicurezza, con tante barriere, milizie, l’accesso alle comunità è molto difficile e pericoloso. A volte per raggiungere i beneficiari bisogna attraversare le linee del fronte.I centri di cura della malnutrizione non sono più riforniti, gli ospedali non hanno più accesso ai farmaci, i mercati sono vuoti. Dove ci sono difficoltà nell’inoltro degli aiuti, i casi di malnutrizione si moltiplicano, l’angoscia legata all’insicurezza e alla guerra cresce. Nella città di Bukavu i casi di problemi di salute mentale sono triplicati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Non c’è solo questo blocco sull’accesso umanitario, ma anche la mancanza di finanziamenti. All’inizio di quest’anno, l’Usaid (l’agenzia statunitense per gli aiuti internazionali) ha annunciato il taglio dei finanziamenti per gli aiuti umanitari. Ma i suoi fondi costituivano il 70% dei fondi per la Rdc. Il blackout aggrava una situazione già grave. I mezzi disponibili attualmente  non coprono nemmeno il 10% dei bisogni umanitari espressi. Le organizzazioni umanitarie locali cercano di mobilitare fondi sul posto. Ma a livello internazionale si dimentica di parlare della crisi congolese che è grave e drammatica con oltre nove milioni di morti, trent’anni di crisi, e tutto quello che vediamo oggi di violenza, stupri, uccisioni. Tutto questo richiede più attenzione e più sostegno internazionale verso la popolazione congolese.   Gli accordi “di pace” porranno fine a questa guerra trentennale?  Gli accordi di Washington e Doha hanno dato molta speranza alle comunità che vivono nelle zone occupate. Ma sempre più questa speranza sta svanendo. Non si vede niente, si vede piuttosto l’aggravarsi della situazione della sicurezza, gli scontri che continuano…   Cosa fare dunque? Cosa possono fare i popoli del mondo, le organizzazioni internazionali, gli Stati? Il Congo è un paese-soluzione per il pianeta! Nel senso che ha il secondo polmone del mondo (la foresta pluviale del bacino del Congo),e anche tanti minerali strategici per la stessa transizione ecologica, necessaria alla lotta contro il riscaldamento climatico. Purtroppo, questa ricchezza, invece di essere una forza, diventa una maledizione per il paese: le multinazionali, invece di venire a trattare normalmente con il Congo affinché si mettano in atto scambi vincenti tra noi che abbiamo le materie prime e loro che ne hanno bisogno, passano con mezzi barbari, provocano guerre che uccidono e usano violenza, e il risultato è anche il futuro di minerali. Quanta ingiustizia! Il mondo dovrebbe proteggere il Congo anche perché il Congo aiuta il mondo. Chiediamo alle multinazionali di passare a un commercio etico, basato su rapporti che garantiscano benefici anche per i territori dai quali le materie prime vengono estratte. Quello che chiedo alla comunità internazionale, ai popoli, ai giovani, è di contrastare queste pratiche illecite, in particolare chiedendo la tracciabilità dei minerali utilizzati nella produzione di alcune attrezzature oggi molto necessarie. Bisogna assicurarsi che non siano minerali di sangue, minerali che vengono estratti in zone occupate militarmente e dove i lavoratori vengono  pesantemente sfruttati in questa attività.  Marinella Correggia
In occasione della Congo Week, intervista con il dottor Joseph Kakisingi di Bukavu (Kivu, Rdc)
Ogni anno dal 2009 a ottobre si tiene la «Breaking the Silence Congo Week» (www.congoweek.org), una settimana internazionale di azione e riflessione che ha diversi obiettivi: rompere il silenzio sulla guerra che colpisce la regione del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), denunciare la complicità internazionale, commemorare le vittime ma anche celebrare «l’enorme potenziale umano e naturale che esiste nel paese». In questa occasione abbiamo intervistato il dottor Joseph Kakisingi, ginecologo, direttore del Centro Ospedaliero San Vincenzo di Bukavu. Il dottore è stato invitato in Italia in occasione della marcia per la pace Perugia-Assisi del 19 ottobre scorso. Ha tenuto diversi incontri, organizzati anche dall’associazione Colibrì di Mantova che sostiene vari progetti nel settore sanitario proprio nelle zone del Congo colpite dalla guerra. La sua attività si svolge da tempo in una situazione di guerra e occupazione… Il centro ospedaliero Saint-Vincent, nel comune di Kadutu a Bukavu porta cure di qualità alle comunità economicamente meno abbienti. Sono anche direttore e co-fondatore dell’organizzazione non governativa (Ong) Santé et Développement, nata per l’aiuto alle donne sfollate vittime e sopravvissute alla violenza sessuale. La struttura si occupa delle cure mediche, dell’accompagnamento psicosociale e del reinserimento nella comunità. Via via, l’organizzazione si è diversificata aggiungendo altre attività, tra cui la gestione della malnutrizione in ambienti chiusi, i programmi di sicurezza alimentare e i programmi di risposta gestiti dalle comunità. Ho inoltre riunito le organizzazioni umanitarie congolesi nel Consiglio nazionale dei forum delle Ong umanitarie e di sviluppo, il cui obiettivo è quello di sensibilizzare sulla situazione umanitaria nella Rdc e sulla risposta umanitaria a livello locale, affinché i finanziamenti arrivino direttamente nelle comunità, in modo più efficace, adeguato, diretto. Qual è la situazione umanitaria a Bukavu e Goma e in generale nelle zone sotto il controllo della milizia detta M23/Afc appoggiata dal Ruanda? Le due città sono isolate da tutto. I mezzi di sostentamento sono bloccati. Gli operatori umanitari allertano il mondo sulla grande crisi con le sue conseguenze sulla salute e sulla sicurezza alimentare. Alcuni operatori umanitari sono presi di mira perché accusati di far conoscere alla comunità internazionale ciò che le autorità de facto non vorrebbero far vedere. Molti di loro sono costretti a fuggire. Sono stato costretto a lasciare Bukavu per rifugiarmi altrove. Eppure, siamo fra coloro che lottano affinché i civili non diventino vittime collaterali della guerra. È vero che l’aiuto internazionale manca? Dopo la presa di Goma e la caduta di Bukavu, all’inizio del 2025, tutti i campi di sfollati che si trovavano nei dintorni e che ricevevano assistenza umanitaria sono stati smantellati. Si tratta di due milioni di persone che oggi sono senza casa e senza alloggio. Con la mancanza di sicurezza, con tante barriere, milizie, l’accesso alle comunità è molto difficile e pericoloso. A volte per raggiungere i beneficiari bisogna attraversare le linee del fronte. I centri di cura della malnutrizione non sono più riforniti, gli ospedali non hanno più accesso ai farmaci, i mercati sono vuoti. Dove ci sono difficoltà nell’inoltro degli aiuti, i casi di malnutrizione si moltiplicano, l’angoscia legata all’insicurezza e alla guerra cresce. Nella città di Bukavu i casi di problemi di salute mentale sono triplicati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Non c’è solo questo blocco sull’accesso umanitario, ma anche la mancanza di finanziamenti. All’inizio di quest’anno, l’Usaid (l’agenzia statunitense per gli aiuti internazionali) ha annunciato il taglio dei finanziamenti per gli aiuti umanitari. Ma i suoi fondi costituivano il 70% dei fondi per la Rdc. Il blackout aggrava una situazione già grave. I mezzi disponibili attualmente non coprono nemmeno il 10% dei bisogni umanitari espressi. Le organizzazioni umanitarie locali cercano di mobilitare fondi sul posto. Ma a livello internazionale si dimentica di parlare della crisi congolese che è grave e drammatica, con oltre nove milioni di morti, trent’anni di crisi, e tutto quello che vediamo oggi di violenza, stupri, uccisioni. Tutto questo richiede più attenzione e più sostegno internazionale verso la popolazione congolese. Gli accordi “di pace” porranno fine a questa guerra trentennale? Gli accordi di Washington e Doha hanno dato molta speranza alle comunità che vivono nelle zone occupate. Ma sempre più questa speranza sta svanendo. Non si vede niente, si vede piuttosto l’aggravarsi della situazione della sicurezza, gli scontri che continuano… Cosa fare dunque? Cosa possono fare i popoli del mondo, le organizzazioni internazionali, gli Stati? Il Congo è un paese-soluzione per il pianeta! Nel senso che ha il secondo polmone del mondo (la foresta pluviale del bacino del Congo) e anche tanti minerali strategici per la stessa transizione ecologica, necessaria alla lotta contro il riscaldamento climatico. Purtroppo, questa ricchezza, invece di essere una forza, diventa una maledizione per il paese: le multinazionali, invece di venire a trattare normalmente con il Congo affinché si mettano in atto scambi vincenti tra noi che abbiamo le materie prime e loro che ne hanno bisogno, passano con mezzi barbari, provocano guerre che uccidono e usano violenza, e il risultato è anche il furto di minerali. Quanta ingiustizia! Il mondo dovrebbe proteggere il Congo anche perché il Congo aiuta il mondo. Chiediamo alle multinazionali di passare a un commercio etico, basato su rapporti che garantiscano benefici anche per i territori dai quali le materie prime vengono estratte. Quello che chiedo alla comunità internazionale, ai popoli, ai giovani, è di contrastare queste pratiche illecite, in particolare esigendo la tracciabilità dei minerali utilizzati nella produzione di alcune attrezzature oggi molto necessarie. Bisogna assicurarsi che non siano minerali di sangue, minerali che vengono estratti in zone occupate militarmente e dove i lavoratori vengono pesantemente sfruttati in questa attività. Redazione Italia
Epidemia di colera in RDC: Diffusione sempre più allarmante
58mila casi sospetti, oltre 1.700 decessi: è una delle epidemie più gravi degli ultimi 10 anni Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) i casi di colera si stanno intensificando in modo allarmante, avverte Medici Senza Frontiere (MSF). Secondo il ministero della salute congolese, in soli 9 mesi sono stati registrati oltre 58.000 casi sospetti. Si tratta di una delle epidemie più gravi degli ultimi 10 anni: un dato che rivela chiaramente la portata della crisi sanitaria che sta affliggendo il paese. Di fronte a questa rapida diffusione dell’epidemia, è indispensabile una mobilitazione immediata e su vasta scala delle autorità nazionali, degli attori umanitari e dei partner internazionali. 20 delle 26 province del paese sono ormai colpite dall’epidemia. Da gennaio a metà ottobre sono stati registrati oltre 1.700 decessi, con un tasso di letalità superiore al 3%. La situazione continua a peggiorare, l’epidemia si estende a nuove aree sanitarie, comprese province finora non endemiche. Inondazioni, conflitti, sfollamenti e sistemi di approvvigionamento idrico e fognario inadeguati contribuiscono a diffondere su vasta scala epidemie come il colera. Inoltre, con l’avvicinarsi della stagione delle piogge, la situazione rischia di deteriorarsi ulteriormente, poiché aumentano i rischi di trasmissione della malattia e di contaminazione. “La rapida diffusione dell’epidemia in tutto il paese quest’anno ci preoccupa particolarmente, soprattutto durante la stagione delle piogge. Temiamo nuovi focolai, se non verranno prese misure urgenti” avverte il dr. Jean-Gilbert Ndong, coordinatore medico di MSF in RDC. Da gennaio 2025, MSF ha intensificato la sua risposta alla malattia in diverse province del paese, tra cui Nord e Sud Kivu, Maniema, Sankuru, Tshopo, Equatore, Kinshasa, Mai-Ndombe, Alto Katanga e Tanganyika. Attualmente, i team MSF si sono mobilitati maggiormente verso le zone più colpite, come Fizi (Sud Kivu) e Kongakonga (Tshopo). Da gennaio hanno già condotto 16 interventi di emergenza a supporto delle autorità sanitarie locali, assistito oltre 35.800 pazienti e vaccinato più di 22.000 persone. “In questa fase critica, solo una mobilitazione generale consentirà di contenere la malattia sul campo e di frenare l’allarmante espansione dei focolai epidemici” aggiunge il dr. Ndong di MSF in RDC. In RDC gli sforzi di assistenza faticano a stare al passo con l’avanzare dell’epidemia La risposta all’epidemia si scontra con ostacoli importanti: finanziamenti insufficienti da parte del governo congolese, presenza limitata di attori umanitari e mancanza di coordinamento nel meccanismo di intervento di emergenza. Inoltre, la debolezza dei sistemi di sorveglianza e identificazione dei casi sospetti, la carenza di personale medico e forniture, insieme alla distribuzione limitata di vaccini, compromettono ulteriormente l’attuazione di una risposta rapida, efficace e sostenibile. “Ovunque intervengano nel paese, i nostri team trovano una situazione allarmante: le strutture esistenti non sono adeguate per affrontare una malattia come il colera, mancano le forniture mediche e i vaccini. In collaborazione con il personale locale del ministero della salute, MSF sta cercando di contenere la malattia. Ma la portata della crisi sanitaria richiede una mobilitazione generale urgente, anche nelle zone remote. Il governo congolese e gli attori umanitari devono rafforzare le risorse finanziarie e mediche, in particolare la distribuzione e il trasporto dei vaccini, nonché il meccanismo di intervento di emergenza per il sostegno alla lotta contro il colera” dichiara Ton Berg, responsabile delle attività di MSF nel Sud Kivu Il colera è un’infezione batterica altamente contagiosa che, se non trattata, può essere rapidamente mortale. Tuttavia, è curabile e prevenibile. La sua diffusione è facilitata principalmente da cattive condizioni igieniche, accesso insufficiente all’acqua potabile e mancanza di servizi igienico-sanitari. Questi fattori rappresentano una sfida nelle zone densamente popolate, in particolare in grandi città come Kinshasa e nelle zone rurali ad alta concentrazione di sfollati interni. I team di MSF hanno dovuto intensificare i loro sforzi per colmare le lacune lasciate dalle autorità sanitarie locali e da altri attori a causa dell’insufficienza di interventi di emergenza. Per rallentare la diffusione dell’epidemia, MSF sostiene il ministero della salute nella gestione medica dei centri di cura specializzati, nella formazione dei promotori della salute comunitari e nell’installazione di punti di clorazione, nonché nel rafforzamento dei sistemi idrici e fognari. “MSF chiede un’azione coordinata e urgente per assicurare una rapida assistenza medica, che includa l’accesso senza ostacoli alle cure, e un investimento sostenibile nell’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari” aggiunge Berg di MSF. L’accesso alle cure resta limitato Mentre i team MSF si mobilitano per rispondere rapidamente all’epidemia, l’accesso alle cure per i pazienti affetti da colera è ostacolato da difficoltà logistiche, rischi per la sicurezza, barriere amministrative e problemi di approvvigionamento. Ad esempio, la chiusura degli aeroporti di Bukavu e Goma ostacola da mesi le principali vie di trasporto delle forniture verso la parte orientale del paese. Nel distretto sanitario di Fizi, nel Sud Kivu, la presenza dei partner umanitari rimane limitata. Inoltre, quasi nessuno di loro è impegnato specificamente nella lotta contro l’epidemia. “La persistente insicurezza, caratterizzata da scontri tra gruppi armati lungo le principali arterie stradali, ostacola gli spostamenti e ritarda la consegna degli aiuti, costringendo i nostri team a lunghe deviazioni per evitare le zone a rischio” conclude Berg di MSF. L’accesso all’assistenza sanitaria rappresenta un’enorme sfida per la comunità congolese Le distanze da percorrere, la mancanza di mezzi di trasporto e le condizioni di insicurezza rendono difficile l’accesso alle strutture mediche. Una volta giunti sul posto, i pazienti sono costretti a fare i conti con centri sanitari spesso sottodimensionati e incapaci di rispondere alle esigenze essenziali. Spesso le persone più vulnerabili rimangono prive di cure indispensabili. Il colera deve essere posto al centro delle priorità in RDC, come grave minaccia per la salute pubblica nazionale. MSF chiede un’azione coordinata per garantire la rapida fornitura di assistenza medica, compresa la disponibilità di vaccini, un accesso facilitato alle cure e investimenti sostenibili nell’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari. Medecins sans Frontieres
Bukavu: dalla parte del popolo
Stella Yanda è una donna congolese che vive a Bukavu e ha dedicato tutta la sua vita al lavoro sociale, partecipando alla nascita della Società civile, di cui è ancora oggi un punto di riferimento. Le abbiamo rivolto alcune domande. Quali sono stati i suoi primi passi nel lavoro sociale? Nel febbraio del 1981, sono entrata a far parte di ” Solidarité paysanne” (Solidarietà contadina), la prima organizzazione laica, almeno nel Kivu, come si chiamava la nostra provincia prima di essere divisa in due, Nord-Kivu e Sud-Kivu. La nostra preoccupazione era che la popolazione agricola, che costituiva oltre l’80% della popolazione totale, non venisse presa in considerazione nelle principali decisioni politiche del Paese, soprattutto quelle riguardanti i settori dell’agricoltura e dello sviluppo. “Cosa state facendo?”, chiedevamo. “Niente”, rispondevano i contadini, anche se erano loro che davano da mangiare a tutti con i frutti del loro lavoro e pagavano le tasse e imposte. Abbiamo iniziato a sensibilizzarli affinché prendessero coscienza del loro importante ruolo e della necessità di organizzarsi per essere forti e rivendicare un posto nei principali processi decisionali del Paese. Eravamo nel pieno della dittatura di Mobutu, durante la Guerra Fredda tra il blocco orientale e quello occidentale. Il regime e altre persone malintenzionate ci chiamavano comunisti e ci accusavano di lavorare per l’URSS. Alla fine, hanno capito che il nostro obiettivo era lavorare con la base, ma dovevamo anche sviluppare strategie utilizzando strutture o processi accettabili o tollerati. Così, abbiamo creato con i produttori della Piana della Ruzizi delle cooperative agricole, nelle quali si mescolavano uomini e donne. Quali erano i rapporti tra uomini e donne in queste cooperative? Nei nostri villaggi nella Piana, alle donne non era permesso di partecipare a riunioni con degli uomini o parlare in pubblico. Abbiamo sottolineato la partecipazione anche delle donne. Il primo passo è stato che le donne partecipassero alle riunioni, anche se non parlavano. Abbiamo istituito un “servizio femminile”, con due animatrici il cui ruolo specifico era quello di lavorare con le donne per sensibilizzarle e incoraggiarle a parlare di fronte agli uomini. Questo ci ha fatto capire che, oltre alle sfide generali dello sviluppo, le donne avevano i loro problemi, come il carico di lavoro, la questione delle talee di manioca, alimento base, e la necessità di andare a cercare acqua su lunghe distanze. Non saper leggere o scrivere rendeva loro difficile partecipare ai comitati delle iniziative messe in atto. Così, abbiamo iniziato a considerare progetti che affrontassero specificamente le sfide delle donne. La priorità era la questione dell’acqua potabile e della salute pubblica, e l’onere di prendersi cura dei malati. Dopo la creazione della Cooperativa agricola (Mkulima), della Cooperativa degli allevatori di bestiame (Butuzi) e della Cooperativa dei pescatori del lago Tanganica (Virigwe), abbiamo iniziato a sviluppare progetti per rendere più fruibile le sorgenti e acquedotti per avvicinare i punti di distribuzione dell’acqua alle case e ridurre così la duplicazione del lavoro per le donne. Ciò ha portato a una diminuzione delle malattie legate al consumo di acqua sporca. Con chi avete collaborato? Il governo, con i suoi servizi tecnici, aveva i tecnici di cui avevamo bisogno, ma non godeva quasi della fiducia della popolazione, perché molti rendevano la loro vita più difficile anziché facilitarla. Tuttavia, c’erano alcuni funzionari governativi con cui abbiamo potuto collaborare in ambiti puramente tecnici a livello della subregione e del territorio d’Uvira come veterinari, agronomi… Abbiamo beneficiato del supporto del governatore dell’epoca, il sig. Mwando Simba, che ci ha aiutato e incoraggiato molto. Quando venivamo a Bukavu, andavamo a parlare con padre Georges Defour dei Missionari d’Africa, direttore dell’ISDR (Istituto Superiore per lo Sviluppo Rurale). Era soddisfatto del nostro lavoro, ci dava consigli e indirizzava a noi degli studenti per tirocini. Quando non avevamo ancora i permessi di lavoro ufficiale, ha persino accettato che Solidarité Paysanne fosse considerata una branca rurale dell’ISDR. La strategia di avere alleati, di collaborare con le istituzioni, con persone che avevano sufficiente influenza, ha permesso di svolgere il nostro lavoro senza problemi. In quali circostanze è nata la società civile? Nella RDC, abbiamo iniziato a parlare di società civile in modo strutturato negli anni ’90, ma questo concetto è di vecchia data: comprende, ad esempio, tutto il lavoro svolto dal movimento sindacale per rivendicare i diritti dei lavoratori. Come Solidarité Paysanne, abbiamo esteso l’esperienza a tutto il Paese, attraverso il Sindacato di Alleanza Contadina, che riuniva i delegati delle cooperative agricole e altre iniziative di base in tutte le province. Pertanto, quando abbiamo avviato la dinamica di costituzione della Società Civile alla vigilia della Conferenza Nazionale Sovrana, c’erano già agganci in tutto il Paese. Nel Sud-Kivu, abbiamo scoperto che c’erano anche altre organizzazioni laiche, perché Solidarité Paysanne non era in grado di rispondere a tutte le esigenze della base. Ci siamo chiesti come lavorare in sinergia ed essere forti nei confronti dell’apparato statale. Così, nella Piana, è nato il CDR (Comitato di Sviluppo Rurale) di Uvira-Fizi, che ha riunito le Cooperative di pescatori del Lago Tanganika, gruppi di donne, cooperative di allevamento, cooperative di produzione agricola e iniziative di trasformazione. Successivamente, all’interno di Solidarité paysanne, vennero create UWAKI (Umoja wa wanawake wa Kivu), che riuniva organizzazioni dedicate alle questioni femminili, e FEDCOOP (Federazione delle Cooperative Contadine), che includeva tutte le altre organizzazioni. A livello generale, venne creata CRONG (Consiglio regionale delle ONG), che riuniva tutte queste organizzazioni a livello provinciale, e successivamente CNONG (Consiglio nazionale delle ONG) a livello nazionale. Durante la Conferenza Nazionale del 1991-92, dei delegati, ci sono stati dei delegati, donne e uomini agricoltori, che hanno partecipato, segnando una nuova dinamica che avrebbe consolidato e promosso questi concetti di Società Civile, come insieme di organizzazioni non governative e associative, prive di connotazioni statali, di polizia, militari o tribali-etniche. È nata così la Società civile, nella sua forma attuale, nella RD Congo. Quali erano i vostri rapporti con gli altri paesi della regione dei Grandi Laghi? Allo stesso tempo, esistevano anche approcci regionali, poiché avevamo gli stessi partner internazionali, come la Cooperazione Belga. Ad esempio, quando si sviluppava una struttura in Ruanda, la proponevano anche alle organizzazioni congolesi e burundesi. Abbiamo svolto un lavoro congiunto, che ha avuto un impatto significativo sul lobbying. I nostri amici del Nord Kivu, Beni e Butembo avevano anche avviato contatti con organizzazioni in Uganda. Abbiamo inviato degli animatori in Tanzania per imparare com’erano strutturate le cooperative e quali erano le loro tecniche di produzione di sementi. Qual era il ruolo e il posto delle chiese? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, avevamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, è una sottocomponente di questa componente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro alla guida del Consiglio Etico. Va notato che le chiese hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale in momenti cruciali della storia del nostro Paese. Ad esempio, possiamo citare l’organizzazione del Simposio Internazionale per la Pace a Butembo, che ha mobilitato numerose persone provenienti dall’ex provincia del Kivu, da paesi limitrofi come Burundi, Uganda e Kenya, nonché dall’Europa (Svezia, Italia, Francia, Belgio, ecc.). C’è anche il dialogo organizzato a Kinshasa, comunemente noto come dialogo della CENCO, che aveva riunito diversi attori politici quando l’ex presidente Joseph Kabila voleva proporsi per un terzo mandato, sebbene la Costituzione della RD Congo limiti i mandati presidenziali a due. Anche oggi, le chiese nella RD Congo si mobilitano da diversi mesi per riunire gli attori politici e porre fine al conflitto armato che continua a affliggere la popolazione della parte orientale del Paese. Il ruolo delle chiese rimane molto significativo. Tuttavia, è legato al dinamismo e all’impegno dei capi delle confessioni religiose. Cosa serve per essere un vero attore sociale? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, abbiamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa Cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, ne è un sottocomponente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro a presiedere il Consiglio Etico. Cosa serve per essere un vero operatore sociale? La cosa fondamentale è amare ciò che si fa, crederci e impegnarsi a farlo, e a farlo con gli altri… Altrimenti, rimaniamo artificiali e non giungiamo a conclusioni. Nel nostro gergo, parliamo di attori-soggetti e attori-oggetti. Un attore-soggetto si impegna, crede in ciò che fa e cerca anche di convincere gli altri a unirsi a lui. Spesso invece, gli attori-oggetti si rivolgono al lavoro sociale perché non hanno lavoro altrove e sono in cerca di uno stipendio. Sono sempre puntuali all’inizio del lavoro, alle 16:05 hanno già la borsa pronta e iniziano a guardare l’orologio per andarsene precisi alle 16. Quando c’è un’emergenza fuori programma, gli attori-soggetti vi si precipitano, gli attori-oggetti sono a disagio. Alcuni, impegnati nella città, si rifiutano di andare nei villaggi della campagna, eppure il nostro lavoro richiede sacrificio, con l’obiettivo di dare il nostro contributo, per quanto piccolo, per le persone che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Pressenza IPA
Non proroga del trattenimento: libero il cittadino del Congo trattenuto tra il CPR di Gjadër in Albania e il CPR di Bari – Palese
Il cittadino del Congo rientrava dal CPR di Gjadër in Albania in quanto la Corte di Appello di Roma non convalidava il decreto di trattenimento del Questore di Roma. La Questura di Roma appena rientrato in Italia, però, disponeva un nuovo trattenimento questa volta ex art. 14 TUIMM e lo inviava per la convalida presso il CPR di Bari – Palese. Il trattenuto manifestava la volontà di chiedere nuovamente protezione dinnanzi al Giudice di Pace di Bari che convalidava il trattenimento ex art. 14 D.Lgs. n. 268 /98. Avendo chiesto protezione internazionale la Questura di Bari chiedeva alla Corte di Appello di Bari di convalidare il decreto di trattenimento adottato, questa volta, ai sensi dell’art. 6 comma 5 D.Lgs. n. 142/2015. La Corte di Appello di Bari convalidava il trattenimento per la durata di 60 giorni valutando la domanda di protezione, strumentale e finalizzata solamente a ritardare o impedire l’esecuzione dell’espulsione, in quanto presentata solo a seguito di trattenimento presso il CPR in attesa dell’esecuzione del provvedimento prefettizio di espulsione. Prima della scadenza dei 60 giorni la Questura di Bari chiedeva la proroga per ulteriori giorni 90 pur essendo decorsi i termini di cui all’art. 26, comma 2 bis del D.lgs. n. 25/2008 in quanto il cittadino straniero non aveva nemmeno compilato il modello C3. La Corte di Appello di Bari, in accoglimento delle deduzioni difensive, non prorogava il trattenimento con la seguente motivazione: “(…) rilevato che il cittadino straniero … , nato in Repubblica Del Congo …, è stato inizialmente attinto da un provvedimento di trattenimento emesso ex art. 6 co. 3 d.lgs. 142/15 dalla Questura di Bari l’8.7.2025, convalidato il 9.7.25 dalla Corte d’Appello di Bari, per un periodo di 60 gg. prorogabile; -letta l’istanza, avanzata il 2.9.25, con cui la Questura di Bari ha tempestivamente chiesto una proroga di detto trattenimento per ulteriori 60 gg.; rilevato che, all’odierna udienza camerale, la Questura ha insistito per la proroga, mentre la difesa dello straniero si è opposta, invocando la violazione del termine di 6 gg. lavorativi fissato dall’art. 26 co.2 bis D.Lgs.25/08 per la formalizzazione della manifestazione di volontà di chiedere la protezione internazionale, non essendo stato ancora compilato il modello C3; rilevato che, mentre lo straniero ha manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale già in data 2.7.25 (in sede di convalida del suo primo trattenimento ex art.14 TUI davanti al Giudice di Pace), la redazione del modello C3, costituente adempimento necessario alla formalizzazione di tale domanda, non è stata ad oggi ancora effettuata, come confermato dalla stessa Questura, in violazione del termine di 6 giorni lavorativi richiesti dall’art.26 co.2 bis D.Lgs.25/08; ritenuto che la violazione del predetto termine (che per ormai consolidata giurisprudenza della S.C. – cfr. Cass.15984/25 – è termine di natura perentoria, la cui violazione è rilevabile d’ufficio né è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione e dall’intervenuta convalida del trattenimento, spettando al giudicante il rilievo officioso di eventuali vizi a monte della procedura di trattenimento) sia di per sé decisiva al fine di precludere la proroga del trattenimento dello straniero; P.Q.M. Non autorizza la proroga del trattenimento”. Questo caso è assai particolare perché ha dimostrato come il trattenimento prima in Albania e poi in Bari non hanno prodotto alcun risultato utile e positivo, ma anzi hanno comportato solo la privazione della libertà personale e il dispendio di denaro pubblico per un cittadino che è inespellibile e che se avesse avuto l’opportunità di essere ascoltato dalla Commissione territoriale avrebbe ottenuto, proprio perché originario del Congo, lo status e/o la protezione come accade di sovente. Corte di Appello di Bari, decisione del 3 settembre 2025 Si ringrazia l’Avv. Uljana Gazidede per la segnalazione e il commento.
Testimonianza da Bukavu sotto occupazione
Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, particolarmente da parte dell’M23 Nel Kivu sotto la morsa dell’M23: oppressione e resilienza Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, Verso la fine dell’occupazione dell’M23? A Katana, un villaggio nel Sud Kivu, una donna m’ha chiesto di recente: «Quando se ne andranno queste persone?». Le ho risposto che sono in corso iniziative per mettere fine alla guerra. Stiamo ancora aspettando di vedere segnali di pace. All’inizio di luglio, abbiamo visto camion carichi di giovani congolesi addestrati nelle fila dell’M23 arrivare in città. L’indottrinamento li avrà trasformati in ribelli? È difficile credere che un giovane che conosce la storia dal 1998 possa essere convinto che siano venuti per liberarci: alcuni giovani si uniscono al movimento per necessità, altri per interesse personale, sperando in denaro e lavoro. Si dice tuttavia che molte di queste reclute addestrate, arrivate a Bukavu, siano fuggite. Una sfida dell’Accordo di Washington è la previsione della partenza delle truppe ruandesi. Nell’esercito ruandese, e quindi nell’M23, ci sono anche Congolesi, tutsi e hutu, provenienti dai territori di Rutshuru e Masisi, che non sono poi così diversi da coloro che provengono direttamente dal Ruanda. Questo complicherà il rimpatrio. Il testo dell’Accordo menziona più volte i ribelli ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), e l’M23 solo quando si parla dei colloqui di Doha: il Ruanda ha così visto convalidata la sua tesi di essere in Congo per difendersi dalle FDLR. C’è anche una debolezza del governo congolese, che ha inviato ai colloqui esperti che non hanno familiarità con la situazione che stiamo vivendo. La scorsa settimana, 7.000 soldati congolesi sono arrivati a Uvira da Kalemie. Secondo quanto riferito, sarebbero dispiegati nella pianura di Ruzizi. Le Forze Armate della RD Congo (FARDC) si stanno preparando a riconquistare le città occupate? La situazione è confusa. Vivere sotto il dominio dell’M23 L’insicurezza rimane elevata. Pochi giorni fa, sono stati trovati due cadaveri in città, entrambi con un proiettile in testa, tipico modus operandi dell’M23. L’altro ieri sera, l’ufficio della Società Civile di Walungu è stato vandalizzato. Ieri è stato ucciso il vicepresidente del Quadro di concertazione della Società civile di Kabare. Le perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi avrebbero dovuto essere effettuate alla presenza del capo della strada, ma ora una dozzina di soldati dell’M23 entrano all’improvviso e perquisiscono ovunque. I nostri figli sono traumatizzati. Furti con scasso, rapine a mano armata e altri episodi di insicurezza sono comuni, con autori ignoti. Malattie imperversano a Bukavu e nelle zone circostanti, come il colera a Luhihi, il morbillo a Shabunda e così via. L’economia in generale non funziona: le banche rimangono chiuse, il che ha colpito in particolare imprenditori, funzionari pubblici e operatori di organizzazioni non governative (ONG), molte delle quali hanno chiuso. Il governo congolese paga i dipendenti pubblici tramite moneta elettronica, ma devono versare una percentuale elevata, che va dal 4 al 10%. Alcuni utilizzano piccoli servizi bancari, ma pagano commissioni bancarie aggiuntive. Il tasso di cambio non è stabile. Il cittadino comune, invece, è normalmente meno colpito dalla chiusura delle banche: con il piccolo capitale di poche decine di dollari che aveva all’arrivo dell’M23, continua ad andare in Ruanda per acquistare beni (verdure, frutta, carne, tuberi, ecc.) da rivendere. Non c’è più alcun accesso alla pianura di Ruzizi, da cui provenivano riso, manioca, pesce essiccato, ecc. Molti camion entrano nella città di Bukavu attraverso il Ruanda, provenienti dalla Tanzania. Chi trae maggiore vantaggio da questa situazione sono i grandi commercianti che collaborano con l’M23, mentre i cittadini comuni, oberati di tasse, ne subiscono le conseguenze più gravi. Viaggiare all’estero è molto difficile: il Burundi rifiuta i documenti di immigrazione rilasciati dai ribelli; si è costretti a passare attraverso il Ruanda, recarsi a Kasindi, vicino a Butembo, acquistare un documento rilasciato dalle autorità congolesi e, con questo, entrare in RD Congo. A Bukavu, la REGIDESO (ente che garantisce la fornitura d’acqua pubblica) non è più in grado di acquistare autonomamente i prodotti per la depurazione dell’acqua: secondo un comunicato stampa del Sindacato degli agenti dell’azienda, l’M23 incassa il 50% dei ricavi. Nonostante il disaccordo degli agenti, l’M23 ha recentemente nominato un vicedirettore presso la SNEL (Società nazionale di energia elettrica), un incarico che non è mai esistito. Il vicegovernatore, scelto dall’M23, ha nominato un comitato direttivo per l’Istituto di Tecniche Mediche (ISTM), il che non rientra nelle sue competenze, e gli studenti hanno protestato. Informazione imbavagliata Le condizioni dell’informazione si stanno facendo più cupe. La Società civile non può esprimersi, i media sono imbavagliati. Alcuni hanno deciso di collaborare con l’M23, altri hanno preso le distanze e abbandonato la lotta. La caccia all’uomo è più mentale: siamo in una paura mentale, abbiamo paura di fare ciò che va fatto, ma almeno, come difensori dei diritti umani, continuiamo a documentare tutto ciò che accade nel Paese e nella zona occupata. Meno di due settimane fa, le autorità dell’M23 hanno riunito i dirigenti dei media tradizionali e i fornitori di servizi internet e hanno dato loro delle linee guida: devono trasmettere un’immagine positiva dell’M23 come liberatore e prestare molta attenzione a ciò che sta accadendo a Minembwe, dove i Banyamulenge (popolazione d’origine ruandese che abita gi altopiani del Sud-Kivu, ndt) vengono uccisi. Ai giornalisti è inoltre vietato parlare di ciò che sta accadendo altrove nella RD Congo. A volte siamo costretti a guardare senza fare nulla, e questo crea un senso di frustrazione e stanchezza. Quando ci vedono, sanno comunque che non siamo d’accordo con loro. Hanno detto ai piccoli commercianti di Katana, mentre chiedevano tasse illegali: «Sappiamo che non ci amate, voi amate i vostri fratelli Wazalendo (partigiani congolesi, ndt), quindi dovete pagare le nostre tasse». Regolamenti di conti e solidarietà Molte persone si sono uccise a vicenda per piccoli conflitti, con le armi lasciate ovunque (dai militari in fuga, ndt)… Il compositore congolese Idengo, ucciso a bruciapelo a Goma, cantava: «Ci stanno invadendo, perché ci sono mancati amore e unità». L’M23 non potrebbe essere forte senza i complici congolesi. Molti hanno approfittato di questa situazione di assenza dello Stato per accusarsi a vicenda e fare soldi. Danno denaro come forma di corruzione all’M23 per fare del male, per vincere una causa senza giustizia. È così che i cantieri si stanno moltiplicando a Bukavu. Il 16 febbraio scorso, giorno del suo arrivo, l’M23 ha sequestrato sei Land Cruiser del progetto PICAGEL: come poteva qualcuno venuto dal Masisi o dal Ruanda sapere di questo deposito? D’altra parte, questa guerra ha mostrato una certa solidarietà tra noi; le persone cercano di unirsi per incoraggiarsi e sostenersi a vicenda. Ad esempio, il proprietario di una casa ha detto al suo inquilino di non preoccuparsi di pagare l’affitto e di andare da lui, insieme alla sua famiglia, ogni volta che fosse rimasto senza cibo. Delle donne vendono il pesce trasportandolo sulla testa. Conoscono le famiglie che sono loro clienti abituali. Dicono: «Prendi il pesce, mi darai i soldi più tardi». Ci sono questi piccoli gesti di solidarietà. Nella nostra comunità di base, contribuiamo ogni settimana ad aiutare i malati. Giovani giornalisti aiutano gli orfanotrofi: ce ne sono molti che attualmente sono in difficoltà perché i benefattori non danno più soldi. Alcune scuole e università hanno accettato che i genitori paghino a rate i contributi scolastici, finché l’M23 non ha imposto tasse. Qualcuno era stato ucciso e il suo corpo giaceva su una scalinata pubblica vicino a Pageco; la vista era insopportabile. Una donna di passaggio ha preso il suo pagne e lo ha coperto. Quando qualcuno è in lutto o è malato in ospedale, le persone vanno a trovarlo e lo aiutano, proprio come prima. Segnali di resilienza La gioia e la festa non sono scomparse. Chi non capisce pensa che siamo in combutta con i ribelli, ma è una forma di resistenza. Nei mercati pirata sui marciapiedi della città, le donne non se ne sono andate: si possono ancora trovare vestiti, pomodori, carne… Il vicegovernatore ha dato loro 72 ore per andarsene; i soldati sono arrivati persino con le armi, hanno portato via due o tre donne, ma pochi minuti dopo le donne sono tornate e hanno rioccupato gli spazi. Le donne vedono questi luoghi come favorevoli alla vendita, soprattutto in questo periodo di crisi, e inoltre non potrebbero permettersi di pagare un posto al mercato. Così l’M23 è tornato con le fruste e ha picchiato tutti quelli che incontrava. Le donne hanno perso molte delle loro merci, ma un’ora dopo, altre sono tornate a vendere nello stesso posto. L’M23 si è rassegnato o sta preparando un’operazione più energica? Queste donne non hanno altre fonti di sostentamento per le loro famiglie. La stragrande maggioranza delle persone non è d’accordo con questa occupazione e, sebbene ci troviamo in una situazione di impotenza, stanno esprimendo il loro malcontento, persino nei bus, nelle piazze e sui social media: è già un rimedio, una forma di resilienza. È difficile da controllare! Un giorno, vicino a Piazza Indipendenza, un giovane membro dell’M23 ha costretto i passeggeri a scendere da un bus parcheggiato male e voleva arrestare il conducente. Una donna ha reagito: «Sai, tutto questo finirà!». L’uomo ha detto: «Dimmi cosa mi farai dopo. Chiamo il servizio di sicurezza e ti spiegherai davanti a loro». La maggior parte delle persone presenti ha sostenuto la donna. Alcuni si sono scusati per lei; l’uomo è stato costretto ad accettare le scuse e la donna se n’è andata. I giovani sono la speranza C’è speranza, non solo per il Kivu, ma per tutti i paesi della subregione e anche per il Ruanda, soprattutto per i giovani ruandesi. Sono congolese, ma ho molti amici ruandesi, sia hutu che tutsi. Come economista, ho svolto da loro servizi di consulenza. Il futuro della subregione dipende dai suoi giovani, se saremo consapevoli del nostro ruolo nel cambiare il sistema messo in atto dai nostri leader e se sarà possibile lavorare insieme. Dico ai giovani ruandesi: «Voi non avete molto spazio per l’agricoltura, noi sì. Venite da noi, voi avete la tecnologia, noi lo spazio… Lavoriamo per abbandonare le divisioni politiche, affinché i nostri leader capiscano che trent’anni sono sufficienti!». Mobutu ha regnato per 32 anni, Kagame è al suo 30° anno di occupazione della Repubblica Democratica del Congo. Presto questo finirà. Speriamo di entrare in una nuova fase di una subregione riconciliata, non per piacere, ma anche perché giustizia è stata fatta. Dobbiamo fare della giustizia uno dei pilastri della riconciliazione, prima di tutto tra tutti noi Congolesi, perché tra noi ci sono molti traditori; tra ruandofoni e non ruandofoni; che chi ha fatto del male agli altri risponda alla giustizia; riconciliazione tra tutti i popoli della subregione, tra i Tutsi e gli Hutu del Ruanda, i Tutsi e gli Hutu del Burundi. Dovremmo imparare dai nostri errori: siamo tutti vittime perché abbiamo messo al potere persone impreparate e prive di competenze utili alla comunità. Penso che il futuro del Sud Kivu, della Repubblica Democratica del Congo e della subregione sarà migliore, ma abbiamo bisogno di giovani consapevoli, politici consapevoli e della volontà di fare le cose in modo diverso. Possiamo fare del Congo un grande Paese per le generazioni future, una forza trainante per lo sviluppo di tutta l’Africa, ed è possibile. (testimonianza del 7 luglio 2025 rivista il 14 agosto 2025)         La Bottega del Barbieri
Rep. Democratica Congo: “Noi donne siamo morte pur respirando”.
Non dimenticateli! Pressenza pubblica questa testimonianza di una suora missionaria di Bukavu, nella Rep. Democratica del Congo. La regione è ancora in preda a un caos devastante e la gente fa sempre più fatica a sopravvivere. L’ho incontrata il 9 giugno 2025, fuori da una sala riunioni. Aveva riempito una scatola di bottiglie di plastica vuote. Le chiedo cosa ne farà e qual è la situazione delle donne a Bukavu in questo periodo di occupazione. Accetta prontamente di parlare. “Sono madre di quattro figli che mando a scuola. Raccolgo queste bottiglie di plastica vuote; dopo averle lavate, le riempio di acqua o di succo di frutta fatto con la polvere che compro. Le metto nel congelatore e poi le vendo per 200 FC (meno di 10 centesimi di euro). Ma mentre in passato una madre che mandava il figlio al mercato gli dava degli spiccioli per comprare i miei succhi, ora non è più così e per i bambini è difficile comprare. Da quando è iniziata la guerra con l’M23 (Movimento 23 marzo, un gruppo paramilitare ribelle, N.d.T.), a Bukavu la vita è diventata molto difficile. Tante persone hanno perso il lavoro e molti di noi non commerciano più a causa del saccheggio sistematico dei magazzini dove tenevamo le nostre merci. Coloro che sono venuti a portarci la guerra hanno saccheggiato a modo loro; anche alcuni abitanti del luogo, vedendo che i soldati erano fuggiti e la polizia se n’era andata, hanno derubato i loro concittadini. Inoltre alcuni evasi di prigione hanno fatto saccheggi. A causa della guerra, non possiamo più muoverci per raggiungere i mercati circostanti. Chi cerca ancora di rifornirsi al mercato di Mudaka deve pagare delle tasse per strada. Ad esempio, se hai 30.000 franchi (equivalenti a 10 dollari) per acquistare merci, ti viene chiesto di pagare 20.000 franchi di tasse. Ti tengono in ostaggio. Si cominciano a registrare stupri persino nel centro della città, anche se alcuni genitori cercano di nascondere il crimine per non far perdere l’onore alla propria figlia. È difficile pagare la scuola dei miei figli a causa della mancanza di denaro. Cercano di andare a scuola, ma spesso vengono cacciati. Il loro padre era un dipendente pubblico ma, come tanti altri, ora è disoccupato. Noi donne siamo morte, anche se respiriamo ancora. Private del poco che avevamo, siamo state lasciate a soffrire e non siamo più in grado di sostenere le nostre famiglie, anche se eravamo il pilastro della casa. Non sappiamo più cosa fare. Dormiamo e non sappiamo se ci alzeremo. Non mangiamo, non ci vestiamo, non viaggiamo, non viviamo, moriamo! Siamo vittime di accordi che non conosciamo nemmeno. Vorrei dire al nostro governo nazionale di aiutarci innanzitutto a portare la pace qui nella parte orientale del Paese, coinvolgendoci a tutti i livelli, perché ci sono innumerevoli omicidi. Con la pace, tutto diventerebbe più facile; senza pace, nulla è possibile. All’M23 vorrei dire: chi viene a liberare qualcuno non lo uccide! Il liberatore cerca la pace per il popolo. Gesù ha dato la sua vita, ci ha liberati. Voi siete assassini, saccheggiatori, riscattatori. Andate a dire a chi vi ha mandato di lasciarci in pace. Alla comunità internazionale ripeto le parole di Papa Francesco: “Giù le mani dall’Africa”. Siete il nemico numero 1 della Rep. Dem. Congo: non siete qui per il nostro bene, ma per rubare i nostri minerali. Siete voi a sostenere l’M23. Vi presentate come ricchi, ma i ricchi siamo noi congolesi. Ci ingannate dicendo che ci state aiutando, ma siete dei criminali in cravatta. Non vi interessa la vita del popolo congolese, ma il sottosuolo del Paese. Lasciateci in pace: state a casa vostra e lasciateci stare qui. Dio ci ha dato la nostra ricchezza: se la volete, venite a chiederla in modo normale. Io me ne vado con le mie bottiglie, domani le venderò per pochi spiccioli… e la vita continua”. Traduzione dal francese di Thomas Schmid. Rédaction Rep. Dem. Congo