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Bukavu: dalla parte del popolo
Stella Yanda è una donna congolese che vive a Bukavu e ha dedicato tutta la sua vita al lavoro sociale, partecipando alla nascita della Società civile, di cui è ancora oggi un punto di riferimento. Le abbiamo rivolto alcune domande. Quali sono stati i suoi primi passi nel lavoro sociale? Nel febbraio del 1981, sono entrata a far parte di ” Solidarité paysanne” (Solidarietà contadina), la prima organizzazione laica, almeno nel Kivu, come si chiamava la nostra provincia prima di essere divisa in due, Nord-Kivu e Sud-Kivu. La nostra preoccupazione era che la popolazione agricola, che costituiva oltre l’80% della popolazione totale, non venisse presa in considerazione nelle principali decisioni politiche del Paese, soprattutto quelle riguardanti i settori dell’agricoltura e dello sviluppo. “Cosa state facendo?”, chiedevamo. “Niente”, rispondevano i contadini, anche se erano loro che davano da mangiare a tutti con i frutti del loro lavoro e pagavano le tasse e imposte. Abbiamo iniziato a sensibilizzarli affinché prendessero coscienza del loro importante ruolo e della necessità di organizzarsi per essere forti e rivendicare un posto nei principali processi decisionali del Paese. Eravamo nel pieno della dittatura di Mobutu, durante la Guerra Fredda tra il blocco orientale e quello occidentale. Il regime e altre persone malintenzionate ci chiamavano comunisti e ci accusavano di lavorare per l’URSS. Alla fine, hanno capito che il nostro obiettivo era lavorare con la base, ma dovevamo anche sviluppare strategie utilizzando strutture o processi accettabili o tollerati. Così, abbiamo creato con i produttori della Piana della Ruzizi delle cooperative agricole, nelle quali si mescolavano uomini e donne. Quali erano i rapporti tra uomini e donne in queste cooperative? Nei nostri villaggi nella Piana, alle donne non era permesso di partecipare a riunioni con degli uomini o parlare in pubblico. Abbiamo sottolineato la partecipazione anche delle donne. Il primo passo è stato che le donne partecipassero alle riunioni, anche se non parlavano. Abbiamo istituito un “servizio femminile”, con due animatrici il cui ruolo specifico era quello di lavorare con le donne per sensibilizzarle e incoraggiarle a parlare di fronte agli uomini. Questo ci ha fatto capire che, oltre alle sfide generali dello sviluppo, le donne avevano i loro problemi, come il carico di lavoro, la questione delle talee di manioca, alimento base, e la necessità di andare a cercare acqua su lunghe distanze. Non saper leggere o scrivere rendeva loro difficile partecipare ai comitati delle iniziative messe in atto. Così, abbiamo iniziato a considerare progetti che affrontassero specificamente le sfide delle donne. La priorità era la questione dell’acqua potabile e della salute pubblica, e l’onere di prendersi cura dei malati. Dopo la creazione della Cooperativa agricola (Mkulima), della Cooperativa degli allevatori di bestiame (Butuzi) e della Cooperativa dei pescatori del lago Tanganica (Virigwe), abbiamo iniziato a sviluppare progetti per rendere più fruibile le sorgenti e acquedotti per avvicinare i punti di distribuzione dell’acqua alle case e ridurre così la duplicazione del lavoro per le donne. Ciò ha portato a una diminuzione delle malattie legate al consumo di acqua sporca. Con chi avete collaborato? Il governo, con i suoi servizi tecnici, aveva i tecnici di cui avevamo bisogno, ma non godeva quasi della fiducia della popolazione, perché molti rendevano la loro vita più difficile anziché facilitarla. Tuttavia, c’erano alcuni funzionari governativi con cui abbiamo potuto collaborare in ambiti puramente tecnici a livello della subregione e del territorio d’Uvira come veterinari, agronomi… Abbiamo beneficiato del supporto del governatore dell’epoca, il sig. Mwando Simba, che ci ha aiutato e incoraggiato molto. Quando venivamo a Bukavu, andavamo a parlare con padre Georges Defour dei Missionari d’Africa, direttore dell’ISDR (Istituto Superiore per lo Sviluppo Rurale). Era soddisfatto del nostro lavoro, ci dava consigli e indirizzava a noi degli studenti per tirocini. Quando non avevamo ancora i permessi di lavoro ufficiale, ha persino accettato che Solidarité Paysanne fosse considerata una branca rurale dell’ISDR. La strategia di avere alleati, di collaborare con le istituzioni, con persone che avevano sufficiente influenza, ha permesso di svolgere il nostro lavoro senza problemi. In quali circostanze è nata la società civile? Nella RDC, abbiamo iniziato a parlare di società civile in modo strutturato negli anni ’90, ma questo concetto è di vecchia data: comprende, ad esempio, tutto il lavoro svolto dal movimento sindacale per rivendicare i diritti dei lavoratori. Come Solidarité Paysanne, abbiamo esteso l’esperienza a tutto il Paese, attraverso il Sindacato di Alleanza Contadina, che riuniva i delegati delle cooperative agricole e altre iniziative di base in tutte le province. Pertanto, quando abbiamo avviato la dinamica di costituzione della Società Civile alla vigilia della Conferenza Nazionale Sovrana, c’erano già agganci in tutto il Paese. Nel Sud-Kivu, abbiamo scoperto che c’erano anche altre organizzazioni laiche, perché Solidarité Paysanne non era in grado di rispondere a tutte le esigenze della base. Ci siamo chiesti come lavorare in sinergia ed essere forti nei confronti dell’apparato statale. Così, nella Piana, è nato il CDR (Comitato di Sviluppo Rurale) di Uvira-Fizi, che ha riunito le Cooperative di pescatori del Lago Tanganika, gruppi di donne, cooperative di allevamento, cooperative di produzione agricola e iniziative di trasformazione. Successivamente, all’interno di Solidarité paysanne, vennero create UWAKI (Umoja wa wanawake wa Kivu), che riuniva organizzazioni dedicate alle questioni femminili, e FEDCOOP (Federazione delle Cooperative Contadine), che includeva tutte le altre organizzazioni. A livello generale, venne creata CRONG (Consiglio regionale delle ONG), che riuniva tutte queste organizzazioni a livello provinciale, e successivamente CNONG (Consiglio nazionale delle ONG) a livello nazionale. Durante la Conferenza Nazionale del 1991-92, dei delegati, ci sono stati dei delegati, donne e uomini agricoltori, che hanno partecipato, segnando una nuova dinamica che avrebbe consolidato e promosso questi concetti di Società Civile, come insieme di organizzazioni non governative e associative, prive di connotazioni statali, di polizia, militari o tribali-etniche. È nata così la Società civile, nella sua forma attuale, nella RD Congo. Quali erano i vostri rapporti con gli altri paesi della regione dei Grandi Laghi? Allo stesso tempo, esistevano anche approcci regionali, poiché avevamo gli stessi partner internazionali, come la Cooperazione Belga. Ad esempio, quando si sviluppava una struttura in Ruanda, la proponevano anche alle organizzazioni congolesi e burundesi. Abbiamo svolto un lavoro congiunto, che ha avuto un impatto significativo sul lobbying. I nostri amici del Nord Kivu, Beni e Butembo avevano anche avviato contatti con organizzazioni in Uganda. Abbiamo inviato degli animatori in Tanzania per imparare com’erano strutturate le cooperative e quali erano le loro tecniche di produzione di sementi. Qual era il ruolo e il posto delle chiese? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, avevamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, è una sottocomponente di questa componente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro alla guida del Consiglio Etico. Va notato che le chiese hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale in momenti cruciali della storia del nostro Paese. Ad esempio, possiamo citare l’organizzazione del Simposio Internazionale per la Pace a Butembo, che ha mobilitato numerose persone provenienti dall’ex provincia del Kivu, da paesi limitrofi come Burundi, Uganda e Kenya, nonché dall’Europa (Svezia, Italia, Francia, Belgio, ecc.). C’è anche il dialogo organizzato a Kinshasa, comunemente noto come dialogo della CENCO, che aveva riunito diversi attori politici quando l’ex presidente Joseph Kabila voleva proporsi per un terzo mandato, sebbene la Costituzione della RD Congo limiti i mandati presidenziali a due. Anche oggi, le chiese nella RD Congo si mobilitano da diversi mesi per riunire gli attori politici e porre fine al conflitto armato che continua a affliggere la popolazione della parte orientale del Paese. Il ruolo delle chiese rimane molto significativo. Tuttavia, è legato al dinamismo e all’impegno dei capi delle confessioni religiose. Cosa serve per essere un vero attore sociale? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, abbiamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa Cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, ne è un sottocomponente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro a presiedere il Consiglio Etico. Cosa serve per essere un vero operatore sociale? La cosa fondamentale è amare ciò che si fa, crederci e impegnarsi a farlo, e a farlo con gli altri… Altrimenti, rimaniamo artificiali e non giungiamo a conclusioni. Nel nostro gergo, parliamo di attori-soggetti e attori-oggetti. Un attore-soggetto si impegna, crede in ciò che fa e cerca anche di convincere gli altri a unirsi a lui. Spesso invece, gli attori-oggetti si rivolgono al lavoro sociale perché non hanno lavoro altrove e sono in cerca di uno stipendio. Sono sempre puntuali all’inizio del lavoro, alle 16:05 hanno già la borsa pronta e iniziano a guardare l’orologio per andarsene precisi alle 16. Quando c’è un’emergenza fuori programma, gli attori-soggetti vi si precipitano, gli attori-oggetti sono a disagio. Alcuni, impegnati nella città, si rifiutano di andare nei villaggi della campagna, eppure il nostro lavoro richiede sacrificio, con l’obiettivo di dare il nostro contributo, per quanto piccolo, per le persone che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Pressenza IPA
Non proroga del trattenimento: libero il cittadino del Congo trattenuto tra il CPR di Gjadër in Albania e il CPR di Bari – Palese
Il cittadino del Congo rientrava dal CPR di Gjadër in Albania in quanto la Corte di Appello di Roma non convalidava il decreto di trattenimento del Questore di Roma. La Questura di Roma appena rientrato in Italia, però, disponeva un nuovo trattenimento questa volta ex art. 14 TUIMM e lo inviava per la convalida presso il CPR di Bari – Palese. Il trattenuto manifestava la volontà di chiedere nuovamente protezione dinnanzi al Giudice di Pace di Bari che convalidava il trattenimento ex art. 14 D.Lgs. n. 268 /98. Avendo chiesto protezione internazionale la Questura di Bari chiedeva alla Corte di Appello di Bari di convalidare il decreto di trattenimento adottato, questa volta, ai sensi dell’art. 6 comma 5 D.Lgs. n. 142/2015. La Corte di Appello di Bari convalidava il trattenimento per la durata di 60 giorni valutando la domanda di protezione, strumentale e finalizzata solamente a ritardare o impedire l’esecuzione dell’espulsione, in quanto presentata solo a seguito di trattenimento presso il CPR in attesa dell’esecuzione del provvedimento prefettizio di espulsione. Prima della scadenza dei 60 giorni la Questura di Bari chiedeva la proroga per ulteriori giorni 90 pur essendo decorsi i termini di cui all’art. 26, comma 2 bis del D.lgs. n. 25/2008 in quanto il cittadino straniero non aveva nemmeno compilato il modello C3. La Corte di Appello di Bari, in accoglimento delle deduzioni difensive, non prorogava il trattenimento con la seguente motivazione: “(…) rilevato che il cittadino straniero … , nato in Repubblica Del Congo …, è stato inizialmente attinto da un provvedimento di trattenimento emesso ex art. 6 co. 3 d.lgs. 142/15 dalla Questura di Bari l’8.7.2025, convalidato il 9.7.25 dalla Corte d’Appello di Bari, per un periodo di 60 gg. prorogabile; -letta l’istanza, avanzata il 2.9.25, con cui la Questura di Bari ha tempestivamente chiesto una proroga di detto trattenimento per ulteriori 60 gg.; rilevato che, all’odierna udienza camerale, la Questura ha insistito per la proroga, mentre la difesa dello straniero si è opposta, invocando la violazione del termine di 6 gg. lavorativi fissato dall’art. 26 co.2 bis D.Lgs.25/08 per la formalizzazione della manifestazione di volontà di chiedere la protezione internazionale, non essendo stato ancora compilato il modello C3; rilevato che, mentre lo straniero ha manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale già in data 2.7.25 (in sede di convalida del suo primo trattenimento ex art.14 TUI davanti al Giudice di Pace), la redazione del modello C3, costituente adempimento necessario alla formalizzazione di tale domanda, non è stata ad oggi ancora effettuata, come confermato dalla stessa Questura, in violazione del termine di 6 giorni lavorativi richiesti dall’art.26 co.2 bis D.Lgs.25/08; ritenuto che la violazione del predetto termine (che per ormai consolidata giurisprudenza della S.C. – cfr. Cass.15984/25 – è termine di natura perentoria, la cui violazione è rilevabile d’ufficio né è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione e dall’intervenuta convalida del trattenimento, spettando al giudicante il rilievo officioso di eventuali vizi a monte della procedura di trattenimento) sia di per sé decisiva al fine di precludere la proroga del trattenimento dello straniero; P.Q.M. Non autorizza la proroga del trattenimento”. Questo caso è assai particolare perché ha dimostrato come il trattenimento prima in Albania e poi in Bari non hanno prodotto alcun risultato utile e positivo, ma anzi hanno comportato solo la privazione della libertà personale e il dispendio di denaro pubblico per un cittadino che è inespellibile e che se avesse avuto l’opportunità di essere ascoltato dalla Commissione territoriale avrebbe ottenuto, proprio perché originario del Congo, lo status e/o la protezione come accade di sovente. Corte di Appello di Bari, decisione del 3 settembre 2025 Si ringrazia l’Avv. Uljana Gazidede per la segnalazione e il commento.
Testimonianza da Bukavu sotto occupazione
Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, particolarmente da parte dell’M23 Nel Kivu sotto la morsa dell’M23: oppressione e resilienza Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, Verso la fine dell’occupazione dell’M23? A Katana, un villaggio nel Sud Kivu, una donna m’ha chiesto di recente: «Quando se ne andranno queste persone?». Le ho risposto che sono in corso iniziative per mettere fine alla guerra. Stiamo ancora aspettando di vedere segnali di pace. All’inizio di luglio, abbiamo visto camion carichi di giovani congolesi addestrati nelle fila dell’M23 arrivare in città. L’indottrinamento li avrà trasformati in ribelli? È difficile credere che un giovane che conosce la storia dal 1998 possa essere convinto che siano venuti per liberarci: alcuni giovani si uniscono al movimento per necessità, altri per interesse personale, sperando in denaro e lavoro. Si dice tuttavia che molte di queste reclute addestrate, arrivate a Bukavu, siano fuggite. Una sfida dell’Accordo di Washington è la previsione della partenza delle truppe ruandesi. Nell’esercito ruandese, e quindi nell’M23, ci sono anche Congolesi, tutsi e hutu, provenienti dai territori di Rutshuru e Masisi, che non sono poi così diversi da coloro che provengono direttamente dal Ruanda. Questo complicherà il rimpatrio. Il testo dell’Accordo menziona più volte i ribelli ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), e l’M23 solo quando si parla dei colloqui di Doha: il Ruanda ha così visto convalidata la sua tesi di essere in Congo per difendersi dalle FDLR. C’è anche una debolezza del governo congolese, che ha inviato ai colloqui esperti che non hanno familiarità con la situazione che stiamo vivendo. La scorsa settimana, 7.000 soldati congolesi sono arrivati a Uvira da Kalemie. Secondo quanto riferito, sarebbero dispiegati nella pianura di Ruzizi. Le Forze Armate della RD Congo (FARDC) si stanno preparando a riconquistare le città occupate? La situazione è confusa. Vivere sotto il dominio dell’M23 L’insicurezza rimane elevata. Pochi giorni fa, sono stati trovati due cadaveri in città, entrambi con un proiettile in testa, tipico modus operandi dell’M23. L’altro ieri sera, l’ufficio della Società Civile di Walungu è stato vandalizzato. Ieri è stato ucciso il vicepresidente del Quadro di concertazione della Società civile di Kabare. Le perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi avrebbero dovuto essere effettuate alla presenza del capo della strada, ma ora una dozzina di soldati dell’M23 entrano all’improvviso e perquisiscono ovunque. I nostri figli sono traumatizzati. Furti con scasso, rapine a mano armata e altri episodi di insicurezza sono comuni, con autori ignoti. Malattie imperversano a Bukavu e nelle zone circostanti, come il colera a Luhihi, il morbillo a Shabunda e così via. L’economia in generale non funziona: le banche rimangono chiuse, il che ha colpito in particolare imprenditori, funzionari pubblici e operatori di organizzazioni non governative (ONG), molte delle quali hanno chiuso. Il governo congolese paga i dipendenti pubblici tramite moneta elettronica, ma devono versare una percentuale elevata, che va dal 4 al 10%. Alcuni utilizzano piccoli servizi bancari, ma pagano commissioni bancarie aggiuntive. Il tasso di cambio non è stabile. Il cittadino comune, invece, è normalmente meno colpito dalla chiusura delle banche: con il piccolo capitale di poche decine di dollari che aveva all’arrivo dell’M23, continua ad andare in Ruanda per acquistare beni (verdure, frutta, carne, tuberi, ecc.) da rivendere. Non c’è più alcun accesso alla pianura di Ruzizi, da cui provenivano riso, manioca, pesce essiccato, ecc. Molti camion entrano nella città di Bukavu attraverso il Ruanda, provenienti dalla Tanzania. Chi trae maggiore vantaggio da questa situazione sono i grandi commercianti che collaborano con l’M23, mentre i cittadini comuni, oberati di tasse, ne subiscono le conseguenze più gravi. Viaggiare all’estero è molto difficile: il Burundi rifiuta i documenti di immigrazione rilasciati dai ribelli; si è costretti a passare attraverso il Ruanda, recarsi a Kasindi, vicino a Butembo, acquistare un documento rilasciato dalle autorità congolesi e, con questo, entrare in RD Congo. A Bukavu, la REGIDESO (ente che garantisce la fornitura d’acqua pubblica) non è più in grado di acquistare autonomamente i prodotti per la depurazione dell’acqua: secondo un comunicato stampa del Sindacato degli agenti dell’azienda, l’M23 incassa il 50% dei ricavi. Nonostante il disaccordo degli agenti, l’M23 ha recentemente nominato un vicedirettore presso la SNEL (Società nazionale di energia elettrica), un incarico che non è mai esistito. Il vicegovernatore, scelto dall’M23, ha nominato un comitato direttivo per l’Istituto di Tecniche Mediche (ISTM), il che non rientra nelle sue competenze, e gli studenti hanno protestato. Informazione imbavagliata Le condizioni dell’informazione si stanno facendo più cupe. La Società civile non può esprimersi, i media sono imbavagliati. Alcuni hanno deciso di collaborare con l’M23, altri hanno preso le distanze e abbandonato la lotta. La caccia all’uomo è più mentale: siamo in una paura mentale, abbiamo paura di fare ciò che va fatto, ma almeno, come difensori dei diritti umani, continuiamo a documentare tutto ciò che accade nel Paese e nella zona occupata. Meno di due settimane fa, le autorità dell’M23 hanno riunito i dirigenti dei media tradizionali e i fornitori di servizi internet e hanno dato loro delle linee guida: devono trasmettere un’immagine positiva dell’M23 come liberatore e prestare molta attenzione a ciò che sta accadendo a Minembwe, dove i Banyamulenge (popolazione d’origine ruandese che abita gi altopiani del Sud-Kivu, ndt) vengono uccisi. Ai giornalisti è inoltre vietato parlare di ciò che sta accadendo altrove nella RD Congo. A volte siamo costretti a guardare senza fare nulla, e questo crea un senso di frustrazione e stanchezza. Quando ci vedono, sanno comunque che non siamo d’accordo con loro. Hanno detto ai piccoli commercianti di Katana, mentre chiedevano tasse illegali: «Sappiamo che non ci amate, voi amate i vostri fratelli Wazalendo (partigiani congolesi, ndt), quindi dovete pagare le nostre tasse». Regolamenti di conti e solidarietà Molte persone si sono uccise a vicenda per piccoli conflitti, con le armi lasciate ovunque (dai militari in fuga, ndt)… Il compositore congolese Idengo, ucciso a bruciapelo a Goma, cantava: «Ci stanno invadendo, perché ci sono mancati amore e unità». L’M23 non potrebbe essere forte senza i complici congolesi. Molti hanno approfittato di questa situazione di assenza dello Stato per accusarsi a vicenda e fare soldi. Danno denaro come forma di corruzione all’M23 per fare del male, per vincere una causa senza giustizia. È così che i cantieri si stanno moltiplicando a Bukavu. Il 16 febbraio scorso, giorno del suo arrivo, l’M23 ha sequestrato sei Land Cruiser del progetto PICAGEL: come poteva qualcuno venuto dal Masisi o dal Ruanda sapere di questo deposito? D’altra parte, questa guerra ha mostrato una certa solidarietà tra noi; le persone cercano di unirsi per incoraggiarsi e sostenersi a vicenda. Ad esempio, il proprietario di una casa ha detto al suo inquilino di non preoccuparsi di pagare l’affitto e di andare da lui, insieme alla sua famiglia, ogni volta che fosse rimasto senza cibo. Delle donne vendono il pesce trasportandolo sulla testa. Conoscono le famiglie che sono loro clienti abituali. Dicono: «Prendi il pesce, mi darai i soldi più tardi». Ci sono questi piccoli gesti di solidarietà. Nella nostra comunità di base, contribuiamo ogni settimana ad aiutare i malati. Giovani giornalisti aiutano gli orfanotrofi: ce ne sono molti che attualmente sono in difficoltà perché i benefattori non danno più soldi. Alcune scuole e università hanno accettato che i genitori paghino a rate i contributi scolastici, finché l’M23 non ha imposto tasse. Qualcuno era stato ucciso e il suo corpo giaceva su una scalinata pubblica vicino a Pageco; la vista era insopportabile. Una donna di passaggio ha preso il suo pagne e lo ha coperto. Quando qualcuno è in lutto o è malato in ospedale, le persone vanno a trovarlo e lo aiutano, proprio come prima. Segnali di resilienza La gioia e la festa non sono scomparse. Chi non capisce pensa che siamo in combutta con i ribelli, ma è una forma di resistenza. Nei mercati pirata sui marciapiedi della città, le donne non se ne sono andate: si possono ancora trovare vestiti, pomodori, carne… Il vicegovernatore ha dato loro 72 ore per andarsene; i soldati sono arrivati persino con le armi, hanno portato via due o tre donne, ma pochi minuti dopo le donne sono tornate e hanno rioccupato gli spazi. Le donne vedono questi luoghi come favorevoli alla vendita, soprattutto in questo periodo di crisi, e inoltre non potrebbero permettersi di pagare un posto al mercato. Così l’M23 è tornato con le fruste e ha picchiato tutti quelli che incontrava. Le donne hanno perso molte delle loro merci, ma un’ora dopo, altre sono tornate a vendere nello stesso posto. L’M23 si è rassegnato o sta preparando un’operazione più energica? Queste donne non hanno altre fonti di sostentamento per le loro famiglie. La stragrande maggioranza delle persone non è d’accordo con questa occupazione e, sebbene ci troviamo in una situazione di impotenza, stanno esprimendo il loro malcontento, persino nei bus, nelle piazze e sui social media: è già un rimedio, una forma di resilienza. È difficile da controllare! Un giorno, vicino a Piazza Indipendenza, un giovane membro dell’M23 ha costretto i passeggeri a scendere da un bus parcheggiato male e voleva arrestare il conducente. Una donna ha reagito: «Sai, tutto questo finirà!». L’uomo ha detto: «Dimmi cosa mi farai dopo. Chiamo il servizio di sicurezza e ti spiegherai davanti a loro». La maggior parte delle persone presenti ha sostenuto la donna. Alcuni si sono scusati per lei; l’uomo è stato costretto ad accettare le scuse e la donna se n’è andata. I giovani sono la speranza C’è speranza, non solo per il Kivu, ma per tutti i paesi della subregione e anche per il Ruanda, soprattutto per i giovani ruandesi. Sono congolese, ma ho molti amici ruandesi, sia hutu che tutsi. Come economista, ho svolto da loro servizi di consulenza. Il futuro della subregione dipende dai suoi giovani, se saremo consapevoli del nostro ruolo nel cambiare il sistema messo in atto dai nostri leader e se sarà possibile lavorare insieme. Dico ai giovani ruandesi: «Voi non avete molto spazio per l’agricoltura, noi sì. Venite da noi, voi avete la tecnologia, noi lo spazio… Lavoriamo per abbandonare le divisioni politiche, affinché i nostri leader capiscano che trent’anni sono sufficienti!». Mobutu ha regnato per 32 anni, Kagame è al suo 30° anno di occupazione della Repubblica Democratica del Congo. Presto questo finirà. Speriamo di entrare in una nuova fase di una subregione riconciliata, non per piacere, ma anche perché giustizia è stata fatta. Dobbiamo fare della giustizia uno dei pilastri della riconciliazione, prima di tutto tra tutti noi Congolesi, perché tra noi ci sono molti traditori; tra ruandofoni e non ruandofoni; che chi ha fatto del male agli altri risponda alla giustizia; riconciliazione tra tutti i popoli della subregione, tra i Tutsi e gli Hutu del Ruanda, i Tutsi e gli Hutu del Burundi. Dovremmo imparare dai nostri errori: siamo tutti vittime perché abbiamo messo al potere persone impreparate e prive di competenze utili alla comunità. Penso che il futuro del Sud Kivu, della Repubblica Democratica del Congo e della subregione sarà migliore, ma abbiamo bisogno di giovani consapevoli, politici consapevoli e della volontà di fare le cose in modo diverso. Possiamo fare del Congo un grande Paese per le generazioni future, una forza trainante per lo sviluppo di tutta l’Africa, ed è possibile. (testimonianza del 7 luglio 2025 rivista il 14 agosto 2025)         La Bottega del Barbieri
Rep. Democratica Congo: “Noi donne siamo morte pur respirando”.
Non dimenticateli! Pressenza pubblica questa testimonianza di una suora missionaria di Bukavu, nella Rep. Democratica del Congo. La regione è ancora in preda a un caos devastante e la gente fa sempre più fatica a sopravvivere. L’ho incontrata il 9 giugno 2025, fuori da una sala riunioni. Aveva riempito una scatola di bottiglie di plastica vuote. Le chiedo cosa ne farà e qual è la situazione delle donne a Bukavu in questo periodo di occupazione. Accetta prontamente di parlare. “Sono madre di quattro figli che mando a scuola. Raccolgo queste bottiglie di plastica vuote; dopo averle lavate, le riempio di acqua o di succo di frutta fatto con la polvere che compro. Le metto nel congelatore e poi le vendo per 200 FC (meno di 10 centesimi di euro). Ma mentre in passato una madre che mandava il figlio al mercato gli dava degli spiccioli per comprare i miei succhi, ora non è più così e per i bambini è difficile comprare. Da quando è iniziata la guerra con l’M23 (Movimento 23 marzo, un gruppo paramilitare ribelle, N.d.T.), a Bukavu la vita è diventata molto difficile. Tante persone hanno perso il lavoro e molti di noi non commerciano più a causa del saccheggio sistematico dei magazzini dove tenevamo le nostre merci. Coloro che sono venuti a portarci la guerra hanno saccheggiato a modo loro; anche alcuni abitanti del luogo, vedendo che i soldati erano fuggiti e la polizia se n’era andata, hanno derubato i loro concittadini. Inoltre alcuni evasi di prigione hanno fatto saccheggi. A causa della guerra, non possiamo più muoverci per raggiungere i mercati circostanti. Chi cerca ancora di rifornirsi al mercato di Mudaka deve pagare delle tasse per strada. Ad esempio, se hai 30.000 franchi (equivalenti a 10 dollari) per acquistare merci, ti viene chiesto di pagare 20.000 franchi di tasse. Ti tengono in ostaggio. Si cominciano a registrare stupri persino nel centro della città, anche se alcuni genitori cercano di nascondere il crimine per non far perdere l’onore alla propria figlia. È difficile pagare la scuola dei miei figli a causa della mancanza di denaro. Cercano di andare a scuola, ma spesso vengono cacciati. Il loro padre era un dipendente pubblico ma, come tanti altri, ora è disoccupato. Noi donne siamo morte, anche se respiriamo ancora. Private del poco che avevamo, siamo state lasciate a soffrire e non siamo più in grado di sostenere le nostre famiglie, anche se eravamo il pilastro della casa. Non sappiamo più cosa fare. Dormiamo e non sappiamo se ci alzeremo. Non mangiamo, non ci vestiamo, non viaggiamo, non viviamo, moriamo! Siamo vittime di accordi che non conosciamo nemmeno. Vorrei dire al nostro governo nazionale di aiutarci innanzitutto a portare la pace qui nella parte orientale del Paese, coinvolgendoci a tutti i livelli, perché ci sono innumerevoli omicidi. Con la pace, tutto diventerebbe più facile; senza pace, nulla è possibile. All’M23 vorrei dire: chi viene a liberare qualcuno non lo uccide! Il liberatore cerca la pace per il popolo. Gesù ha dato la sua vita, ci ha liberati. Voi siete assassini, saccheggiatori, riscattatori. Andate a dire a chi vi ha mandato di lasciarci in pace. Alla comunità internazionale ripeto le parole di Papa Francesco: “Giù le mani dall’Africa”. Siete il nemico numero 1 della Rep. Dem. Congo: non siete qui per il nostro bene, ma per rubare i nostri minerali. Siete voi a sostenere l’M23. Vi presentate come ricchi, ma i ricchi siamo noi congolesi. Ci ingannate dicendo che ci state aiutando, ma siete dei criminali in cravatta. Non vi interessa la vita del popolo congolese, ma il sottosuolo del Paese. Lasciateci in pace: state a casa vostra e lasciateci stare qui. Dio ci ha dato la nostra ricchezza: se la volete, venite a chiederla in modo normale. Io me ne vado con le mie bottiglie, domani le venderò per pochi spiccioli… e la vita continua”. Traduzione dal francese di Thomas Schmid. Rédaction Rep. Dem. Congo