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Una Resistenza non banale per decine di migliaia di giovani
In occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione e per cominciare ad affrontare i temi del dialogo dal titolo "Ottant’anni dopo", che si terrà venerdì 25 luglio al SIMposio (programma e iscrizioni qui), abbiamo chiesto ad Andrea Tappi - uno dei dialoganti insieme a Luca Baldissara, Mirco Carrattieri, Chiara Colombini e  Santo Peli - cosa pensa in particolare della trattazione della Resistenza a scuola oggi. L'articolo Una Resistenza non banale per decine di migliaia di giovani sembra essere il primo su StorieInMovimento.org.
A Ustica, per rompere il silenzio sul passato coloniale italiano
Nel cuore del Mediterraneo, sull’isola di Ustica, là dove le onde hanno da sempre portato storie di confino e resistenza, prenderà vita un’iniziativa civile e simbolica di grande valore: una delegazione di attivisti, ricercatori, studenti e rappresentanti di associazioni nazionali si recherà presso il cosiddetto “Cimitero degli arabi” per rendere omaggio a un passato cancellato. Questo luogo, nascosto tra le memorie dell’isola, ospita le tracce fisiche della deportazione di oltre 10.000 oppositori libici che, tra il 1912 e il 1934, furono reclusi sulle isole italiane, tra cui Favignana, le Tremiti, Ponza e Ustica stessa, in condizioni disumane. Una repressione coloniale feroce, che rimane largamente assente dal discorso pubblico, dalla memoria collettiva e dai programmi scolastici. A promuovere l’iniziativa, in collaborazione con il Centro Studi Ustica, è una rete ampia e articolata della società civile: tra i promotori figurano Un Ponte Per, Arci, Anpi, Cgil, la Rete Yekatit 12/19 Febbraio, il Movimento Italiani senza cittadinanza, l’Unione degli Universitari e altre realtà impegnate sul fronte dei diritti e della memoria. L’evento si inserisce in un percorso più ampio che punta all’istituzione di una Giornata nazionale della memoria per le vittime del colonialismo italiano, con l’obiettivo di aprire un confronto pubblico e politico sulla necessità, ormai non più rinviabile, di fare i conti con una parte rimossa della storia nazionale. Il momento centrale di questo evento sarà il 17 maggio, quando un corteo partirà da piazza Municipio, con la partecipazione degli studenti del liceo locale, e si dirigerà al cimitero degli arabi, dove verrà piantumato un ulivo e apposta una targa commemorativa, con versi tratti dalle poesie dei deportati libici e dei confinati antifascisti italiani. Una vergogna nazionale, rimossa. Così possiamo definire la vicenda della deportazione degli oppositori libici nelle isole minori italiane durante l’età coloniale. Si tratta di una pagina che ha inciso profondamente sulla storia del nostro Paese, anche se in modo sotterraneo, nascosto, negato. A raccontare perché questa memoria sia rimasta ai margini della narrazione pubblica è Fabio Alberti, fondatore e presidente onorario di Un Ponte Per, tra i promotori dell’iniziativa a Ustica. «L’Italia non ha mai davvero fatto i conti con la propria storia coloniale. Altri Paesi europei, pur senza un’elaborazione piena, hanno almeno riconosciuto quel passato – anche perché, forse, più ingombrante del nostro. La consapevolezza della propria eredità coloniale, altrove, alimenta dibattiti che incidono sulle politiche e sull’identità nazionale. In Italia, invece, tutto questo è mancato. > Le ragioni sono almeno due: da un lato, l’assenza di una vera fase di > decolonizzazione, poiché le colonie italiane furono perse con la guerra e > occupate dalle potenze vincitrici; dall’altro, la volontà di tenere unito il > fronte repubblicano ha impedito uno sguardo critico sull’Italia prefascista, > liberale e monarchica, che fu anche coloniale. È come se la nuova Repubblica avesse fatto i conti con il fascismo, ma non con ciò che lo ha preceduto: il Regno, la monarchia. Invece di affrontare criticamente l’eredità dell’Italia prefascista – che si è cercata di riabilitare evocando una presunta continuità virtuosa con l’epopea risorgimentale – si è preferito costruire il mito consolatorio degli “italiani brava gente”, un modo edulcorato per distinguere il colonialismo italiano da quello delle altre potenze europee. Eppure, oggi sappiamo con chiarezza che l’impresa coloniale italiana, per brutalità e violenza, non fu affatto un’eccezione». L’iniziativa a Ustica non rappresenta soltanto un atto dovuto di riconoscimento verso le vittime del colonialismo italiano. È, al tempo stesso, un gesto politico denso di significato, capace di interpellare il presente. In un contesto in cui cittadinanza, razzismo strutturale e memoria pubblica tornano a occupare il centro del dibattito, il valore simbolico di radicare un ulivo e deporre una targa in quel cimitero dimenticato assume una forza nuova, concreta, urgente. Alberti lo riassume con lucidità, intrecciando memoria, resistenza e visione del futuro in un unico filo narrativo. «Questo progetto intende rendere omaggio e restituire dignità alle vittime del colonialismo italiano, a partire da quelle sepolte sull’isola, che rappresentano simbolicamente tutte le altre. Ma il suo significato va oltre. Si collega, ad esempio, all’azione con cui, come associazione Un ponte per, riportammo alla luce il film Il leone del deserto, rimasto censurato per 44 anni in Italia. Un’opera che, per la prima volta, raccontava il colonialismo dal punto di vista dei colonizzati, non come semplici vittime, ma come resistenti. Ustica rappresenta uno dei luoghi meno noti, ma significativi, della repressione della resistenza libica al colonialismo italiano. Un frammento di storia in cui, simbolicamente, si sono incrociate due forme di opposizione: quella degli anticolonialisti libici e quella degli antifascisti italiani, confinati sulla stessa isola, se non necessariamente in contatto diretto, almeno in una convivenza forzata nel tempo e nello spazio. Non a caso, sulla targa che verrà posta nel cosiddetto “Cimitero degli arabi”, accanto a una poesia scritta durante la prigionia da un deportato libico, compariranno anche i versi di un antifascista italiano, anch’egli confinato a Ustica, dedicati proprio alla lotta anticoloniale. Due resistenze che, seppure distinte, si sono sfiorate e che oggi ci parlano ancora, richiamando l’urgenza di costruire alleanze tra chi si oppone alla guerra del Nord del mondo e chi combatte le nuove forme di colonialismo nel Sud del mondo». > L’iniziativa di Ustica si colloca all’interno di un percorso più ampio che > mira all’istituzione di una Giornata della memoria per le vittime del > colonialismo italiano. Una proposta che sollecita le istituzioni a riconoscere > la propria responsabilità – non solo storica, ma anche politica e culturale – > e che mette a nudo le scelte, mai neutre, con cui una società decide cosa > ricordare e cosa dimenticare della propria storia. «Sulla proposta di una Giornata del ricordo del colonialismo esiste un dibattito aperto. C’è infatti il rischio di perpetuare una narrazione in cui il colonizzato appare solo come vittima. Il nostro approccio, invece, mira a valorizzare la lotta anticoloniale: non solo il dolore subito, ma anche la resistenza. Tuttavia, il riconoscimento di quella resistenza e delle vittime – che furono molte, si parla di circa 700.000 – è il punto di partenza per assumere, da parte italiana, la responsabilità storica del colonialismo e per ripensare il nostro approccio alla questione migratoria. Le vittime ci sono state, sono state rese invisibili agli occhi degli italiani e vanno invece riportate alla luce. Solo così può emergere anche la storia coloniale italiana, smentendo definitivamente il mito degli “italiani brava gente”. È fondamentale, perché la rimozione del passato coloniale ha privato almeno due generazioni della conoscenza di una parte essenziale della propria storia. E questo non riguarda solo le persone colonizzate: riguarda noi. Ci è stato negato il diritto di conoscere la nostra storia, le nostre ragioni, le radici della nostra identità nazionale. A intere generazioni sono mancati gli strumenti per comprendere il presente, perché fenomeni come le migrazioni o le guerre non possono essere letti senza la lente del passato coloniale. Per questo, prima di tutto, rivendichiamo un diritto alla conoscenza. Solo da lì può nascere un percorso di conciliazione, un ragionamento sulla riparazione e, in definitiva, una rilettura delle politiche italiane alla luce del nostro passato». Il corteo che il 17 maggio si dirigerà verso il “Cimitero degli arabi” non vedrà soltanto la partecipazione di attivisti, ricercatori e rappresentanti del mondo associativo. A prenderne parte saranno anche le e gli studenti del liceo di Ustica: una presenza che conferisce all’iniziativa una dimensione educativa tutt’altro che accessoria. Restituire spazio alla memoria rimossa del colonialismo italiano significa anche trasmettere strumenti per leggere criticamente il presente. In un contesto in cui la scuola fatica a colmare questo vuoto, esperienze come questa si configurano come momenti di apprendimento autentico, in cui la storia si intreccia con l’esercizio della cittadinanza. Su questo punto, la riflessione di Fabio Alberti è particolarmente incisiva. «La generazione che oggi frequenta la scuola è la prima a non avere alcun legame diretto né con l’esperienza della guerra né con quella del colonialismo e spesso lo stesso vale per i loro genitori. Senza un’adeguata trasmissione storica, attraverso la scuola e il dibattito pubblico, rischia di crescere all’oscuro di capitoli fondamentali di questo Paese, e quindi priva di strumenti critici per interpretare il presente. Allo stesso tempo, però, è una generazione in formazione, che sta costruendo ora la propria visione del mondo e che può riconsiderarla, se messa nelle condizioni di conoscere anche ciò che è stato rimosso. In questo senso, approfondire la storia della colonizzazione italiana nei programmi scolastici è essenziale. Non per demonizzare il passato, che non si può riscrivere, ma per comprenderlo. Perché solo conoscendo ciò che è stato si può influenzare la qualità dello sguardo che le nuove generazioni rivolgono all’altro, in particolare a chi proviene da contesti non europei. In fondo, questa esperienza insegna che la scuola va supportata da un’educazione alla conoscenza, che continua anche fuori dai confini dell’aula. È un invito a superare i limiti di ciò che la scuola trasmette: apprendere richiede anche un impegno autonomo, personale e collettivo, per andare oltre ciò che le istituzioni raccontano o tacciono. Finora, la storia insegnata è stata in gran parte quella dell’Occidente. Ma nessun fenomeno politico contemporaneo, dalle grandi migrazioni alle guerre, fino alla povertà globale, può essere davvero compreso senza tener conto anche della dimensione coloniale che i Paesi europei hanno avuto con il resto del mondo per 500 anni. Certo, il colonialismo non spiega tutto, ma senza di esso si comprende ben poco. Riconoscerne le radici è fondamentale per leggere i processi in corso e confrontarsi con il presente in modo critico. Pensiamo, ad esempio, alle politiche migratorie: l’Europa deve assumersi la responsabilità di essere parte delle cause delle migrazioni, non solo per il proprio passato coloniale, ma anche per il prolungamento postcoloniale delle disuguaglianze economiche, militari e commerciali che ancora oggi condizionano i rapporti con il Sud del mondo». Ma la memoria del colonialismo, come sottolineano i promotori dell’iniziativa a Ustica, non riguarda solo il passato. Riguarda il presente, e il modo in cui l’Italia e l’Europa continuano a costruire le proprie relazioni con il Sud globale. Le politiche migratorie, commerciali e militari non possono essere comprese – né trasformate – senza guardare in faccia la genealogia coloniale che le attraversa. Anche in questo senso, piantare un ulivo tra le tombe dimenticate non è solo un gesto simbolico: è un atto politico che interroga il nostro presente. Come conclude Fabio Alberti: «Guardare alle migrazioni con la consapevolezza di esserne in parte causa dovrebbe condurre a due conseguenze: anzitutto, al riconoscimento di un dovere di accoglienza; ma soprattutto, alla necessità di rivedere profondamente le politiche estere – commerciali, economiche e militari – specialmente nei confronti dell’Africa, dove persiste una politica di spoliazione che alimenta la pressione migratoria, costringendo milioni di persone a cercare altrove una possibilità di vita». L’immagine di copertina è “Libia-1912-piazzando-i-reticolati“ SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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Purtroppo ancora presenti…
Come ogni anno anche questo 29 aprile neofascisti di Milano e del resto d'Italia si ritroveranno per commemorare Sergio Ramelli. Un appuntamento particolarmente significativo della politica della memoria della destra nostalgica italiana di cui aveva già scritto per noi Elia Rosati, su Zap 42 L'articolo Purtroppo ancora presenti… sembra essere il primo su StorieInMovimento.org.
“Ecco, questa è una cosa con cui non sono placato”
Torniamo ad occuparci delle nuove indicazioni ministeriali per l’insegnamento della storia a scuola con una intervista ad Andrea Tappi, co-autore - insieme a Javier Tébar Hurtado - de "La Resistenza e la Transizione spagnola a scuola" (Carocci, 2025) L'articolo “Ecco, questa è una cosa con cui non sono placato” sembra essere il primo su StorieInMovimento.org.
25 aprile 2025. Storia di una Liberazione lontana
Quest’anno sarà celebrato l’ottantesimo 25 aprile dopo quello del 1945, la ricorrenza di una data fondamentale sia per l’esito della Seconda guerra mondiale che per la democrazia italiana nata dalla Resistenza. In tal senso, non è eccessivo affermare che il 25 aprile possa rappresentare non solo uno degli eventi più importanti del nostro Novecento, ma anche la pietra angolare della Repubblica italiana. L’evento fondativo della democrazia parlamentare, il cui ordinamento arriva fino a oggi, costruita sulle macerie della Guerra mondiale nazifascista. Con precisione, la Seconda, quella del 1938-45. PERCHÉ PARLARNE ANCORA? Ma cos’è quindi, il 25 aprile del 1945? E cosa è stato davvero il 25 aprile per la Resistenza italiana? Il giorno conclusivo dell’insurrezione generale? La Liberazione definitiva da un ex-alleato che ci aveva invaso? Oppure l’inizio di un’altra guerra? Quella che si doveva continuare a fare, perlomeno fino ad arrivare alla rivoluzione di classe? Tutte domande, giuste. Alle quali però, si dànno solitamente risposte molto diverse e che variano a seconda di come si guarda al 25 aprile; magari da che punto di vista storico, politico e personale – anche frutto del proprio ricordo individuale e famigliare – si può osservare la Resistenza. Questo è chiaro. Come dev’essere altrettanto chiaro, affermare un’altra cosa. In realtà, una semplice constatazione: solo il fatto che si stia effettivamente parlando del 25 aprile e della Resistenza nei loro minimi termini ha già fatto ruotare gli occhi al cielo almeno alla metà di voi. Insomma, ma come? Il 25 aprile del 1945, cos’è? Sacrilegio. Tuttavia, non corriamo il rischio di perderci subito nel cosiddetto bicchiere d’acqua. Aldilà delle differenti interpretazioni che si possono fornire (e senza dubbio, ce ne sono tante), bisogna pur partire da un punto comune: il 25 aprile del 1945 è innanzitutto la vittoria della Resistenza degli antifascisti e delle antifasciste italiane. Ovvero, il primo passo del processo politico che porterà, attraverso il Referendum vinto contro la monarchia, alla nascita della Repubblica il 2 giugno del ‘46; e quindi, in contemporanea, anche alla stesura della Costituzione che entrerà in vigore il 1° gennaio del ‘48, tre anni dopo la fine della guerra. Tra l’altro – specifica importante e non affatto scontata – a seguito della prima tornata elettorale nella storia d’Italia dove partecipano e votano anche le donne. Se non altro, proprio per motivi tanto politici quanto “pratici”, visto il loro ruolo fondamentale nella Resistenza italiana. > E su questi fatti appena descritti – a dire il vero molto velocemente, forse > un po’ troppo – non ci piove. Se non altro perché sono queste le cose che > “t’insegnano a scuola”, se ci sei arrivato. O comunque per forza, “le bisogna > sapere”. Che motivo c’è dunque, di parlarne ancora? Della Liberazione, dell’ordine generale d’insurrezione armata da parte del CLN (nome in codice: Aldo dice 26×1), delle bande partigiane che scendono dalle montagne (Brigate Garibaldi, Giustizia e Libertà, Fiamme verdi, ecc…). E di conseguenza: dei fascisti che scappano e dei tedeschi che si ritirano con loro, lasciandosi dietro lunghe e terrificanti strisce di sangue per tutto il centro-nord Italia. Attraverso fucilazioni, eccidi, massacri di ogni forma e dimensione, soprattutto contro la popolazione civile. E poi, subito dopo, anche delle «belle città date al nemico» che tornano a essere libere. Quelle delle piazze e delle strade italiane nuovamente riempite dalla gente in festa per essersi ribellata ai suoi brutali oppressori. Primo tra tutti, s’intende, dal duce: Benito Mussolini. Con piena soddisfazione generale, arrestato dai partigiani a Dongo, paesino affacciato sul lago di Como, alcuni giorni dopo al 25 aprile. Precisamente il 27, mentre tentava di fuggire dall’Italia verso la Svizzera, ironicamente travestito da soldato tedesco. Peraltro – ben lontano dalle glorie romane ai tempi dei discorsi alle folle oceaniche di palazzo Venezia – fingendosi ubriaco e occultandosi in fondo al pianale di un camion della Wehrmacht vicino alla cabina di guida e celato sotto una coperta militare. Se l’hai fatto a scuola insomma, te lo devi ricordare cosa è stato il 25 aprile del 1945 (e dintorni). La rovinosa caduta del regime mussoliniano, l’ultima fine del Ventennio; il più prolungato periodo d’oscurità autoritaria, sessista e razzista, della storia del nostro Paese. Anche perché sono questi, i fatti che dovrebbero essere dati per scontati, in quanto letti e studiati fin dalle elementari. Sia chiaro, più che per farci vergognare del nostro passato già in tenera età (cosa abbastanza inutile), in verità proprio per vedere più da vicino i risvolti politici, sociali e culturali, di quel tempo. E di conseguenza, trarne conclusioni e insegnamenti che in teoria, dovresti portarti dietro per tutta la vita. di Emanuele Giacopetti MA COME STANNO REALMENTE LE COSE? Purtroppo, come spesso accade, lontano da questa visione fin troppo ottimistica, la realtà dei fatti rimane tutt’altra. E racconta una verità, a dire il vero, piuttosto amara: al giorno d’oggi, nelle scuole italiane, la storia del 25 aprile è studiata molto poco se non pochissimo. Basti pensare che la Fondazione Feltrinelli, sul suo sito, la definisce senza mezzi termini «una sfida educativa estremamente complessa», quella di riuscire a raccontare le vicende legate alla Liberazione dal nazifascismo tra i banchi di scuola. In questo senso, e secondo un recente studio (condotto all’interno di un istituto superiore in Molise all’inizio del 2025) poco più della metà degli studenti intervistati, non sapeva dire con precisione cosa fosse il 25 aprile. Tra l’altro, dando come risposta nella maggior parte dei casi, «la liberazione degli ebrei dai campi di concentramento» oppure «la Festa del lavoro», facendo quindi confusione con il Primo maggio, la Festa dei lavoratori e delle lavoratrici. > In un altro reportage invece, precisamente quello mandato in onda durante la > trasmissione Ballarò nell’aprile del 2015, un altro esempio ancora più > evidente: sarebbero addirittura più del 60%, i ragazzi e le ragazze (dai 14 ai > 18 anni) che non saprebbero dire cos’è il 25 aprile e inoltre, perché si > festeggi ancora la Liberazione in Italia. Perlomeno, non riuscendo a spiegare bene e con chiarezza le motivazioni e le circostanze storiche di quei fatti. Ma come è successo? La risposta banale potrebbe essere: perché la Seconda guerra mondiale non viene più insegnata, oppure perché viene insegnata di fretta. Magari dovendo seguire ritmi d’insegnamento e programmi ministeriali che di certo, non facilitano il lavoro delle/degli insegnanti. Tra l’altro, con il vecchio dubbio (fondato) che sotto sotto, sarebbe proprio quello il motivo, il senso di come sono pensati e costruiti quei programmi: non permettere di farla insegnare bene, quella parte di storia. Quindi, che fare? Se ripartire dalla scuola e dall’educazione, potrebbe risultare banale e scontato, questo non può che essere, per definizione, un dato di fatto se non addirittura una condizione necessaria. Ma siamo sicuri che sia tutto lì, il nostro problema? Nell’educazione civica che non si fa a scuola o che non si farebbe abbastanza? In realtà, la questione è molto più complessa di così. Innanzitutto perché come potrebbe essere diversamente? Viene logico domandarsi: come si può mantenere viva e attuale, qualcosa che sfugge per definizione, la memoria di un evento passato? di Emanuele Giacopetti IL TEMPO E LA MEMORIA In tal senso, la prima considerazione da fare, senz’altro banale ma altrettanto vera, è che il tempo s’allontana sempre più, facendo invecchiare quei fatti. Di conseguenza, portando il 25 aprile a diventare progressivamente più distante da noi ogni giorno che passa. Specialmente s’intende, per le e i più giovani. In sintesi, proprio per chi avrebbe più necessità, anche per evidenti ragioni anagrafiche, d’impararlo e conoscerlo dai e dalle proprie insegnanti o dai genitori. Per cui, sempre a questo proposito: da chi si potrebbe imparare la storia della Liberazione, oltre che a casa propria, oppure a scuola? Beh, altra osservazione abbastanza banale: da chi l’ha fatto, il 25 aprile. Che però, altro problema, adesso non c’è quasi più. A tal proposito infatti, secondo dati forniti dall’ANPI dopo l’epidemia di Covid, i partigiani e le partigiane italiane ancora in vita, sarebbero rimasti/e poco meno di 4mila. Con numeri, ovviamente e per forza di cose, che andranno a ridursi sempre di più, fino a estinguersi completamente nei prossimi anni. Dunque, in modo ancora inesorabile, di quel 25 aprile del 1945 e ben ottant’anni dopo, non possiamo che perderne i/le protagonist*. E con loro ovviamente, le testimonianze dirette. Tuttavia – c’è da dichiararlo senza paura di ripetersi – una delle possibili soluzioni al problema, è ricordarci che quelle testimonianze non sono affatto andate perse per sempre. Soprattutto perché molte di queste, sono state lasciate in eredità attraverso le parole, le voci registrate, le interviste, raccolte dai ricercatori e dalle ricercatrici per i loro istituti di ricerca, che ne hanno già fatto un prezioso quanto inestimabile lavoro d’archiviazione. ARCHIVI E ALTRI STRUMENTI Tra questi – singolo esempio tra molti – si può citare l’ILSREC di Genova e la sua ultima ricerca sulla Resistenza: la Banca dati del partigianato ligure. Un lavoro di metodica digitalizzazione di informazioni personali, all’interno del quale si possono consultare liberamente le vite e le esperienze di migliaia di partigiani e partigiane operanti in questo caso in Liguria. Per intenderci, attraverso un contributo tanto mastodontico quanto “pezzo unico” nel panorama italiano degli studi sulla Resistenza. Sempre a tal proposito, tra i tanti esempi nel campo però più artistico e culturale – peraltro molto presenti sui social network a vantaggio (si spera) delle nuove generazioni – non si può che citare la pagina di “Cronache Ribelli”, oppure anche di “Noipartigiani”. Solo per elencarne due tra le più attive delle tante realtà occupate nel tenere viva e consultabile la documentazione (anche d’inestimabile storia orale) relativa alla Resistenza e al 25 aprile. Infine – ne viene citata soltanto una ma unicamente per obblighi di spazio – tra le proposte più “attive” che riguardano il 25 aprile, molto interessante risulta essere l’iniziativa di “Sentieri partigiani”, che si propone «di tornare sui luoghi della Resistenza» attraverso una serie di accessibili risalite a piedi in montagna. In particolare, «fino alle terre alte» in Cadore e in tutto il bellunese, dove appunto operavano i partigiani e le partigiane in questo caso veneti/e, prima di calare sulle città euganee, appena dopo il 25 aprile 1945. Just to know: nell’aprile del 1945, la città di Venezia verrà liberata soltanto in seguito a pesanti scontri a fuoco tra truppe partigiane e nazifascisti, avvenuti principalmente in piazzale Roma e in Marittima, non prima delle 4 di mattina del 29 aprile. Notte durante la quale, presso l’Hotel Regina e alla presenza del capo missione inglese (in veste di vero e proprio notaio dell’atto), verrà firmata la resa totale delle forze fasciste e tedesche ai capi della Resistenza; e con essa quindi, il definitivo cessate il fuoco e la fine delle ostilità. Per intenderci, in una delle vicende più sanguinose, avvincenti e rocambolesche dell’intera Liberazione. Tutto ciò, con buona pace di chi sottostima e snobba il 25 aprile solo come atto “dovuto” di tipo istituzionale, celebrativo e formale. “Noioso e monotono”, in fin dei conti. di Emanuele Giacopetti LETTERATURA E MEDIA Altro fatto importante, sempre per parlare di Resistenza sotto una nuova luce magari più cinematografica e moderna, è la proposta culturale rappresentata bene dal successo della serie M, il figlio del secolo. Solo l’ultimo, in questo senso, di una serie di tentativi che hanno confermato, se non altro, la fattibilità di opere culturali che hanno l’ambizione di raccontare le vicende storiche di quel periodo. Anche – e perché no – in chiave di una loro dichiarata rivisitazione di tipo artistico e culturale. Su questo punto, è necessario capirsi. L’alternativa altrimenti, è quella di “abbracciare il dogma” e non avere l’hardware, gli strumenti agganciati coi tempi, per raccontare quella storia. Perlomeno – e come abbiamo tristemente osservato – a quei due ragazzi e ragazze italiane su tre che non sanno, oppure soltanto ne abbozzano, il software. Il rischio insomma, è quello. E varrebbe davvero la pena di pensarci bene prima di correrlo. In tal senso, le polemiche sull’opportunismo e sulla “resa commerciale” di opere come M, sembrerebbero essere abbastanza inutili se non apertamente fuori contesto. > Piuttosto, il dibattito risulta essere più interessante altrove. Ad esempio, > dove ci si confronta a proposito di come e perché, vengono raccontate quelle > storie sui canali mainstream. Ovvero, a partire proprio dal software dei > messaggi che vengono veicolati attraverso quei tentativi artistici pensati per > il grande pubblico. Come ad esempio, nel caso di “M”, magari parzialmente > riusciti perché buoni nella intenzioni, ma a tratti, piuttosto rivedibili. Ad esempio, nella costruzione del soggetto di Benito Mussolini come persona e individuo per niente mitologico, sì. Ma al tempo stesso, anche come vero e proprio bad boy ricercatamente affascinante. Dopotutto, quasi un antieroe carismatico, una canaglia bonacciona, sessuomane e al contempo molto astuta e calcolatrice, di cui però a dire il vero, non si sentiva affatto il bisogno di sentirne parlare in questi termini. Verso i quali, peraltro – tanto nel lavoro diretto da Joe Wright che nel libro di Scurati – non si potrebbe in qualche modo, aldilà dell’arrogante e camaleontica malvagità, che finirne catturati. Rapiti dalla storia e dalla mentalità brutalmente alla ricerca di successo. Viene da chiedersi: che senso avrebbe altrimenti l’uso costante dello sguardo in camera? Oppure del continuo – e a tratti estenuante – sfondamento della quarta parete proposto nella serie tv? Rispetto a questo stesso personaggio storico tra l’altro, non è affatto la prima volta che qualcuno nel nostro Paese si prodiga a raccontarne anche solo dei frammenti, anzi. Provocando, come molto prevedibile quando s’intende approcciare un uomo così complesso e contraddittorio come Mussolini, anche pesanti polemiche e, perciò, lunghe e aspre reazioni politiche. In tal senso, le opere da prendere ad esempio, sarebbero molte. Tra le quali però, non si può non citare – esattamente sulla figura di Benito da vicinissimo – una pietra miliare del cinema italiano come Mussolini ultimo atto, del regista Carlo Lizzani. Film cult del 1974, con Rod Steiger nei panni del duce, Franco Nero e Lisa Gastoni, con quest’ultima nelle complicate vesti di Claretta Petacci, la donna che seguirà Benito fino alla fine. Tra l’altro, lungometraggio interamente accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone, e anche per questo motivo, davvero imperdibile (se vi state chiedendo dove vederlo, il film si trova in libera visione online). Per provare a concludere: fare i conti con la propria storia in Italia, non è cosa affatto semplice. Se non altro perché implicherebbe un lavoro di costante aggiornamento e ridefinizione degli strumenti che vanno a manipolare quello che ci ricordiamo e quindi, chi siamo e cosa ancora più importante, dove vogliamo andare. In tal senso, riavvolgere la catena degli eventi che hanno portato fino a oggi, ottant’anni dopo il 25 aprile del 1945, significa innanzitutto provare a compiere un atto coraggioso: attualizzare la Liberazione dal nazifascismo. Quando al contrario, per ragioni tanto cronologiche che legate all’orizzonte politico attuale, sembra che tutto vada nella direzione di volerla mettere da parte se non addirittura dimenticare per sempre. Chissà in futuro, con quali ricadute proprio per la democrazia nata da quel straordinario e complicato giorno che è il 25 aprile del 1945. La Liberazione dal nazifascismo. Il nostro 25 aprile che s’allontana sempre di più. Tutte le illustrazioni sono di Emanuele Giacopetti SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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Il fallimento dei luoghi della memoria
È DIFFICILE RICORDARE LE VITTIME DELLA LIBERAZIONE DALL’OCCUPAZIONE NAZISTA E DAL FASCISMO, MENTRE POCO LONTANO DA NOI, SU UN’ALTRA SPONDA DEL MEDITERRANEO, NELLA STRISCIA DI GAZA O IN UCRAINA, PER MESI E MESI, VENGONO COMMESSE ALTRE STRAGI. A CHE SERVE LA MEMORIA, CHE RUOLO E CHE PESO HANNO I “LUOGHI DELLA MEMORIA”, SE IL CORSO DEGLI EVENTI RESTA IMPERMEABILE ALLE LEZIONI CHE PENSIAMO DI AVERE APPRESO DALLA STORIA RECENTE? COME È POSSIBILE RICOSTRUIRE UNA MEMORIA IN MODO DIVERSO? INTERVISTA A LORENZO GUADAGNUCCI, AUTORE DI UN’ALTRA MEMORIA (ALTRECONOMIA), DA POCO NELLE LIBRERIE Roma, Fosse Ardeatine: “I martiri” dello scultore F. Coccia -------------------------------------------------------------------------------- Qual è lo scenario di fondo in cui nasce Un’altra memoria? Il punto di partenza è un disagio profondo: trovarsi in un “luogo della memoria”, Sant’Anna di Stazzema, e sentirsi fuori posto, inadeguati a ricordare le vittime della strage nazifascista di ottant’anni prima. Fuori posto e inadeguati, perché è difficile, impossibile, ricordare i morti di allora mentre poco lontano da noi, su un’altra sponda del Mediterraneo, nella Striscia di Gaza, altre stragi, per mesi e mesi, vengono commesse anche in nostro nome, in quanto cittadini di una democrazia che osserva lo sterminio in atto senza intervenire, e anzi lo rende possibile con il sostegno militare, politico, mediatico. A che serve la memoria, che ruolo e che peso hanno i “luoghi della memoria”, se il corso degli eventi resta impermeabile alle “lezioni” che pensiamo di avere appreso dalla nostra storia recente? C’è un difetto di memoria, evidentemente, o forse un equivoco sulla sua funzione: orientamento e guida per la comprensione e l’azione nel presente, o momento di conferma, schieramento e alla fine consolazione? Ho scritto Un’altra memoria a partire da una crisi di senso, da quello che considero, a tutti gli effetti, un fallimento dei luoghi della memoria, che non sono riusciti a essere un baluardo morale e politico di fronte alle guerre del presente, nemmeno di fronte al genocidio a Gaza, o comunque vogliamo chiamare l’attacco militare di Israele. Non hanno, questi luoghi, un peso politico significativo, e non riescono nemmeno a incidere sulla percezione pubblica della storia presente: sono relegati a un ruolo secondario, di fatto non sono un reale punto di riferimento quando si parla di conflitti, di guerre ai civili, di crimini contro l’umanità. Non sono stati in nessun momento un reale argine alle politiche di guerra e di riarmo. Perciò può accadere che le cerimonie, i discorsi sulla memoria e sull’antifascismo continuino a seguire il loro corso, senza che nulla di importante e di concreto avvenga, anche al cospetto di eventi estremi e insopportabili come le stragi compiute a Gaza. La voce dei luoghi della memoria, del resto, è stata debole anche in altri contesti di guerre… Sì, non c’è dubbio pensiamo all’Ucraina, ma anche alla sorte inflitta alle persone migranti, lasciate morire ai confini della Fortezza Europa. E dire che se c’è un insegnamento generale che ci arriva dalla memoria delle stragi nazifasciste, questo è un principio che mai si era affermato prima nella storia: l’idea che tutte le vita contino, nessuna esclusa. Un principio che ha ispirato, dopo il 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani, l’istituzione delle Nazioni Unite, la Convenzione contro il genocidio, le stesse Costituzioni delle democrazie europee. Un principio che ha cessato d’essere tale. Le stragi, i genocidi, ma anche gli abbandoni in mare o i respingimenti alle frontiere di individui stremati avvengono perché quelle persone sono considerate vite di scarto, vite con non contano. E se la memoria servisse davvero a qualcosa, dovrebbe almeno alimentare un’immediata ribellione contro queste pratiche, ovunque avvengano, da chiunque siano compiute; una ribellione contro la deriva avvenuta nelle stesse democrazie che ai valori di uguaglianza e pari dignità di tutte le vite umane dicono di ispirarsi. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ALESSANDRO PORTELLI: > Una memoria che parla di conflitto -------------------------------------------------------------------------------- C’è dunque una memoria da ricostruire. Coma è possibile farlo in modo diverso? Nel mio piccolo ho cercato di esplorare nuove rotte, muovendomi in due direzioni. Una storico-geografica, rivolta al passato, ipotizzando che l’attuale difetto di memoria dipenda almeno in parte dal paradigma vittimistico che ha orientato la percezione pubblica della storia. Ricordiamo le stragi nazifasciste, le deprechiamo, dichiariamo luoghi della memoria Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole, Civitella in Val di Chiana e così via, ma poco consideriamo il fatto che negli stessi anni di guerra altri eccidi avvenivano per mano nostra, ad opera cioè dell’esercito italiano: in Jugoslavia, in Grecia, in Albania… Perciò visitare i campi di concentramento di Gonars e di Arbe, dove morirono di stenti e malattie migliaia di slavi, può aiutare ad allargare lo sguardo, a uscire da una certa attitudine autoreferenziale. E così visitare Trieste e scoprire, accanto alla Foiba di Basovizza e alla Risiera di San Sabba, le quasi invisibili lapidi che ricordano i crimini dal fascismo di confine, la feroce repressione subita dagli sloveni triestini, un razzismo istituzionale che ha purtroppo fatto scuola, e dai gruppi antifascisti, formati per lo più da sloveni e croati, nati in quella zona ben prima che nel resto d’Italia. Forse, come collettività, non vediamo e poco consideriamo le vite di scarto ai confini dell’Europa, o gli eccidi di Gaza, perché troppo abituati a percepirci come vittime e a dimenticare quegli episodi storici di cui siamo stati protagonisti come carnefici. La seconda direzione? L’altra pista che ho seguito per immaginare un’altra memoria è un allargamento dello sguardo a nuovi soggetti: le persone migranti, i solidali, gli attivisti e i movimenti sociali. E anche a nuove fasi storiche, oltre il perimetro della seconda guerra mondiale, entro il quale si concentra, alla fine, il nostro calendario civile. Mentre assistiamo al tradimento delle classi dirigenti, tradimento di alcuni princìpi cardine della convivenza, germogliati dalla resistenza e dall’esperienza della seconda guerra mondiale, forse dovremmo fare tesoro, come un patrimonio storico acquisito, di quei momenti nei quali i movimenti sociali sono stati classe dirigente di fatto, dimostrando, seppure sul momento sconfitti, di saper indicare una strada da seguire per affermare il bene comune, secondo un ideale di giustizia sociale e di pacificazione. Quando è accaduto? Ad esempio intorno al 2001, con il movimento dei movimenti, fra Porto Alegre e Genova, e ancora nel 2003, con i pacifisti scesi nelle piazze di tutto il mondo contro l’annunciata guerra all’Iraq e descritti da osservatori imparziali come “seconda potenza mondiale”. I vincitori di allora, la repressione, il neoliberismo, la logica bellicista e imperialista, hanno condotto al disastro attuale. Un’altra memoria è possibile. -------------------------------------------------------------------------------- Lorenzo Guadagnucci ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Mille papaveri rossi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il fallimento dei luoghi della memoria proviene da Comune-info.