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Intervista a Irit Hakim e Aisha Khatib: “da Combattenti per la Pace noi continuiamo a sperare”
Intervista a Irit Hakim e Aisha Khatib, attiviste dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace, in Italia dal 21 al 24 settembre 2025 Il prossimo 21 settembre sarà la Giornata Internazionale della Pace e dobbiamo ringraziare la Fondazione Gariwo di Milano per aver concepito un’iniziativa così ricca di contenuti, contributi, momenti di confronto, che dalle 14 e fino alle 20 di sera sarà possibile seguire all’interno del Giardino dei Giusti, in zona Monte Stella a Milano. (Clicca sull’immagine per il programma completo) “Alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente e dell’orrore  che non si placa abbiamo voluto indicare la possibilità di un’alleanza tra le forze intenzionate a ricostruire i ponti dalle macerie” leggiamo nel comunicato che riepiloga un programma giocato sul tema della Tenda del Lutto, come quella che nel marzo del 2024 è stata allestita nel villaggio bi-nazionale di Neve Shalom Wahat al-Salam. Uno spazio in cui sarà possibile sostare “per tutto il tempo che sarà necessario e sintonizzarsi così con il battito del proprio cuore, per un momento di riflessione.” L’iniziativa ha ricevuto l’adesione di numerose associazioni (tra queste anche il nostro Centro Studi Sereno Regis) ed è stata organizzata in collaborazione con IPSIA ACLI, il Centro di Nonviolenza Attiva e l’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam. E le ospiti davvero ‘speciali’ di questa giornata, saranno la palestinese Aisha Khatib e l’israeliana Irit Hakim, attiviste dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace, che nei giorni successivi all’evento milanese sarà possibile incontrare anche a: * 22 settembre, ore 18 a Torino: CAM Culture and Mission, via Cialdini, 4; * 23 settembre, ore 18 ad Aosta: Sala Expo Plus, via Garibaldi, 7; * 24 settembre, ore 21 a Morbegno: Complesso San Giuseppe, via V Alpini, 190. In attesa di incontrarle di persona, le abbiamo raggiunte per telefono nei giorni scorsi ed ecco qui un’anteprima delle loro storie. AISHA KHATIB Vivo a Nablus, lavoro come manager in una scuola elementare, sono sempre stata impegnata nel sociale e ho avuto sei figli di cui tre “in salvo” tra Manchester e Polonia. E ho già qualche nipotino. Sono entrata nel Movimento dei Combatants for Peace sei anni fa, 2018, ma già dal 2004 partecipavo alle attività dei Parents Circles Family Forum per via della morte del mio fratello amatissimo Mahmoud, colpito al cuore quando aveva 17 anni da un soldato dell’IDF. Era il 7 agosto 1989, non potrò mai dimenticare quella data. Stava per strada, diretto alla casa dei nonni. O forse è possibile che anche lui stesse partecipando al lancio di qualche pietra, erano gli anni della prima intifada. Un soldato gli ha sparato proprio al cuore. E’ sopravvissuto per dieci anni e si è persino sposato, ma solo pochi giorni dopo il matrimonio è morto e la diagnosi è stata chiarissima. E’ stata una morte differita nel tempo, ma la causa è stata quel proiettile. Ed è morto lo stesso giorno in cui è stato colpito: 7 agosto 1999. Pochi giorni dopo la sepoltura di Mahmoud anche un altro fratello, solo due anni più giovane di lui, si è buttato dal quinto piano di un palazzo ed è morto sul colpo. I due erano legatissimi, e dunque doppia perdita, una più dolorosa dell’altra. I nostri genitori non si sono mai più riavuti da questa tragedia, ed è toccato a me, figlia maggiore, cercare di rimettere insieme i pezzi, ma non è stato facile. Come poteva essere possibile una situazione di oppressione come quella che ci viene inflitta ogni giorno, da decenni. Com’è possibile che degli  esseri umani possano diventare così crudeli verso altri essere umani? Cosa c’è nella testa degli israeliani… Sapevo di questi incontri promossi dai Parents Circle, e mi feci convincere da un’amica a iscrivermi a un incontro che si teneva a Beit Jala, quattro ore di macchina per arrivarci e altrettante per tornare. Ricordo ancora come fosse adesso la stretta allo stomaco che mi prese quando entrai in quella sala, tutti che si parlavano animatamente come fossero amiconi, alcune donne che persino si abbracciavano, tra palestinesi e israeliane… come poteva essere possibile, con tutto quello che stavamo subendo? Mi prese un moto di rigetto quasi fisico, volevo andarmene immediatamente, ma ahimè non disponevo della mia macchina per cui mi misi alla ricerca di un taxi: ma era quasi notte, avevo pochi soldi, rimasi per forza a sciropparmi quel teatrino. Improvviamente mi è venuta incontro Sharon, non potrò mai dimenticarla, e mi ha chiesto se poteva raccontarmi la sua storia. Le ho risposto di no. Ma lei non si è persa d’animo: “Abbiamo la stessa storia … anch’io ho perso un fratello”. E’ stato un momento intensissimo, ho cominciato a piangere mentre lei mi parlava di suo fratello e di quanto erano vicini, quando andavano a scuola oppure giocavano insieme, pensando a cosa sarebbero diventati da grandi. E più mi raccontava di suo fratello e più mi ritrovavo nelle sue parole. Ed è stato in quel momento che è diventato naturale chiederle di abbracciarmi mentre piangevamo insieme. Questo mio viaggio è cominciato in quel preciso momento, ed è poi proseguito con un’infinità di incontri all’interno dei Parents Circles finché non ho deciso di entrare nei Combatants for Peace. Era il 2018 e già da qualche anno c’era stata una bella evoluzione: non erano più solo ex combattenti da entrambi i fronti del conflitto, sempre più donne e giovani partecipavano alle attività del movimento. E di lì a poco la direzione sarebbe passata infatti nelle mani della attuali co-direttrici, Rana Salman ed Eszter Koranyi. In cosa consiste il mio attivismo? Nel promuove sempre di più e sempre meglio l’incontro fra donne, israeliane e palestinesi. Sto parlando di persone comuni, normali, non particolarmente intellettuali o speciali. Persone che vivono in modi diversi l’oppressione di questo continuo stato di guerra e si sentono responsabili del cambiamento, ne sentono il bisogno. E si aprono all’ascolto, invocano un cambiamento, vogliono conoscere il punto di vista dell’altra parte, in termini di rispetto reciproco, mettendosi nei panni dell’altro, questa è la cosa più importante, se vogliamo davvero la fine di questa orrenda guerra. Ed è possibile se ci riconosciamo nella nostra umanità. (…) Ciò che è successo il 7 ottobre è stato terribile. Ricordo il momento in cui ci è arrivata la notizia, mentre ero impegnata insieme ad altri CfP nella raccolta delle olive, in una località lontana da Nablus e sempre più assediata dai coloni. Sulle prima non capimmo, continuammo nel nostro lavoro. Fu solo quando stavamo sulla via del ritorno, che prendemmo coscienza della gravità di quanto era successo, e che stava per scatanarsi. Non so quanti checkpoints ci trovammo a subire quel giorno, per non dire del rischio di rimetterci la pelle pochi giorni dopo, mentre stavo guidando: a qualcuno venne la bella idea di sparare alla mia auto, conservo ancora la foto dei fori nella carrozzeria. Ma anche dopo quell’episodio non ho perso la speranza, mai e poi mai perderò la speranza. Perché credo anzi sono certa che tra gli israeliani sono tanti quelli che la pensano come noi e credono che possa esserci una ben diversa soluzione. Intanto però a Gaza succede quel che succede, che nessuno sembra in grado di impedire. Ho amici, e anche dei parenti che vivono lì e non sanno più dove andare. Alcuni preferiscono semplicemente morire dove sono, considerando che anche spostandosi avrebbero poche chances. Sto pregando, prego in continuazione, non faccio altro che pregare. IRIT HAKIM Sono nata a Rosh Pina, una piccola città nel nord d’Israele molto vicina al confine con la Siria, per cui durante la mia infanzia e adolescenza non mi sono mancate le frequentazioni con le popolazioni arabe. Ora vive vicino a Tel Aviv e sono anagraficamente in pensione, ma continuo a fare quel che ho sempre fatto, la ceramista. E mi considero, da sempre, un’attivista: di sinistra e pacifista. Il momento cruciale in questo percorso di consapevolezza è successo quando mi sono trovata ad insegnare in una località del nord d’Israele: una notte, in una scuola non lontana dalla nostra, ci fu l’attacco dei fedayin, dalla Siria. Un buon numero di studenti rimase ucciso, fu per tutti uno shock, un trauma. Avrei potuto reagire in tanti modi diversi e invece la mia unica reazione fu la realizzazione che non si poteva continuare in quel modo e quando verso la fine degli anni ’70 venne fondata l’organizzazione Peace Now, tutt’ora molto attiva ed importante, trovai naturale associarmi a quel progetto. Avevo una trentina d’anni, ero già sposata, mio marito aveva già combattuto in alcune guerre, anch’io come tutt* avevo fatto il servizio militare, ma senz’altro volevo la pace. Proprio in quegli anni c’era stato l’episodio di Uri Avnery, pacifista famoso, che era stato in visita ad Arafat, una visita considerata illegale ma così significativa circa load necessità di parlarli, essere ponti. Eravamo giovani e facevamo tutto il possibile per accrescere questa consapevolezza creando occasioni di dialogo con il “nemico”. A quell’epoca era normalissimo recarsi in visita in Cisgiordania e anche a Gaza: parlavamo con i palestinesi, ci accoglievano nelle loro case, a nostra volta li accoglievamo in Israele, per delle riunioni che erano al tempo stesso normali e surreali: eravamo di sinistra ma a nessuno veniva in mente di mettere in dubbio la legittimità dell’occupazione. In generale eravamo convinti che ok: a un certo punto eravamo arrivati, ci eravamo insediati… davamo per scontato troppe cose. Nessuno avrebbe immaginato che saremmo arrivati agli estremismi di oggi, né era in grado di elaborare un’analisi del problema che era già così evidente allora. Tutto questo succedeva parecchio tempo prima che esistessero i Combatants for Peace, che sono nati nel 2006. E fu qualche anno dopo, 2009, che mi capitò per la prima volta di assistere alla Memorial Ceremony, che ogni anno viene organizzata in coincidenza con Yom Hazikarom, la festività più patriottica del calendario ebraico: il giorno in cui Israele ricorda uno per uno tutti i morti nelle tante guerre combattute della sua breve storia. Una commemorazione che fin dal primo anno della loro esistenza i Combatants for Peace hanno riproposto in chiave bi-nazionale, per ricordare anche le tante vittime palestinesi, idea inaccettabile per il mainstream. Per me invece è stata fin da subito la cosa che era mancata nel pacifismo che avevo vissuto prima: il fatto di riconoscerci nel dolore dell’altra parte, trovare un punto di contatto, la possibilità di riumanizzazione nella sofferenza, e da lì ripartire, per contribuire alla creazione di piccoli e grandi ponti di dialogo, che sono il fondamentale pre-requisito di pace. Non c’erano ancora molte donne nelle fila dei Combatants for Peace in quell’anno, ma presto ce ne sarebbero state, man mano che l’attivismo dell’organizzazione si espandeva in tante altre città e anche in Cisgiordania: era il primo movimento bi-nazionale, israelo-palestinese in tutto, dal livello direzionale alle aggregazioni di base, un esperimento davvero interessante, e umanamente molto stimolante. Anche per i Combatants for Peace il 7 ottobre è stato un momento difficile: nessuno capiva cosa stava succedendo, messaggi che arrivavano da tutte le parti, e quelli che arrivavano dai territori occupati davano versioni totalmente diverse da quel che vedevamo noi in Israele. C’è stato un lungo momento di silenzio, parlarsi era diventato difficile, come se fossero crollate le condizioni fondamentali di fiducia… Poi piano piano abbiamo ricominciato a rivederci su zoom, ma ci sono volute parecchie riunioni e tante tante lacrime per riprendere a lavorare insieme. Al tempo stesso la difficoltà ci ha reso più forti, e più che mai desiderosi di continuare. E quante nuove iniziative si sono messe in moto dopo il 7 ottobre, non solo all’interno dei Combatants for Peace: è tutto un fiorire di movimenti di co-resistenza, una mobilitazione continua, ormai siamo una coalizione di movimenti, con tantissimi giovani che sempre più spesso rifiutano il servizio militare, cosa impensabile un tempo; e sempre più riservisti che rifiutano di tornare a combattere perché a soffrire non sono solo loro, ma le loro famiglie; e parecchie organizzazioni sorelle che ci sostengono dagli Stati Uniti, dalla Germani e speriamo anche dall’Italia. E tutto questo mi riempie di speranza. Non so cosa ne uscirà, ma so che ci stiamo impegnando molto. E prima o poi vedremo i frutti di questo impegno. Daniela Bezzi
Dove cercare la speranza nella terra tra il fiume e il mare? Seconda parte
Yuli Novak, direttrice esecutiva di B’Tselem, l’organizzazione non governativa israeliana ultimamente citata da molti giornali per la pubblicazione del rapporto “Our Genocide” ha scritto: “Il genocidio non avviene senza una partecipazione di massa, una popolazione che lo sostiene, lo permette o distoglie lo sguardo. Questa è parte della sua tragedia. Quasi nessuna nazione che ha commesso un genocidio ha compreso, in tempo reale, ciò che stava facendo. La storia è sempre la stessa: autodifesa, inevitabilità, le vittime se la sono cercata.” B’Tselem è stata fondata nel 1989, la sua missione è documentare e denunciare violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati (Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est); pubblica rapporti, testimonianze video, indagini legali e campagne di sensibilizzazione, rivolte sia alla società israeliana che alla comunità internazionale. Nel rapporto di luglio 2025 “Il nostro genocidio”, B’Tselem sostiene che, da ottobre 2023, lo Stato israeliano ha attuato una politica sistematica di annientamento nei confronti della Striscia di Gaza che equivale a genocidio. La frase “Quasi nessuna nazione che ha commesso un genocidio ha compreso, in tempo reale, ciò che stava facendo” non è un’ennesima giustificazione, né un’attenuante per Israele. Io vedo in questa riflessione di Yuli Novak il coraggio di guardarsi allo specchio, come società e come umanità in generale. “Il genocidio è di solito il risultato di uno sviluppo graduale, nel corso di anni, di condizioni in cui un regime repressivo e discriminatorio diventa genocida. Decenni di occupazione, oppressione e apartheid hanno prodotto una profonda disumanizzazione dei palestinesi, che sono arrivati a essere visti dagli israeliani come una minaccia e come un problema da “risolvere”. Condizioni di questo tipo possono persistere a lungo senza sfociare in genocidio. Spesso, un evento violento che genera un senso di minaccia esistenziale funge da detonatore che porta alla commissione effettiva di un genocidio. Nel caso del nostro genocidio, gli orrori del 7 ottobre 2023 e il trauma vissuto dalla società israeliana sono stati, di fatto, il detonatore di un assalto totale alla Striscia di Gaza, presentato come un atto di autodifesa. L’immenso trauma degli israeliani è stato sfruttato dall’attuale governo di estrema destra per portare avanti una politica che figure chiave stavano già cercando di promuovere.” https://www.btselem.org/publications/202507_our_genocide In Turchia il genocidio armeno ufficialmente è ancora tabù. In Canada solo negli ultimi decenni il genocidio delle popolazioni indigene è affiorato alla coscienza collettiva. Per oltre un secolo (dal XIX secolo fino agli anni ’90!!) i bambini e le bambine indigeni furono sottratti alle famiglie e forzati a vivere nelle Residential Schools, dove subivano maltrattamenti, abusi fisici e psicologici, veniva loro impedito di parlare le proprie lingue e mantenere la propria cultura. La società canadese bianca sapeva? In Italia nella coscienza collettiva prevale ancora la rimozione o la minimizzazione del colonialismo italiano e le violenze perpetrate (uso dei gas in Etiopia, campi di concentramento in Libia, repressioni brutali in Somalia). L’immaginario popolare e mediatico italiano tende a rappresentare il colonialismo come “mite” o “umanitario”, attraverso il mito degli “Italiani brava gente”. La società italiana sapeva? In Europa i migranti “sono arrivati a essere visti come una minaccia e come un problema da “risolvere”. Le stesse parole usate da B’Tselem per i palestinesi possono essere usate per descrivere il processo di disumanizzazione delle persone migranti in Europa. Recentemente, 13 persone sono sbarcate sulla Sotillo Beach di Castell de Ferro, provincia di Granada (Andalusia). I bagnanti hanno reagito in modo aggressivo: li hanno rincorsi, afferrati e immobilizzati. In una scena si vede un uomo in costume arancione inginocchiato sulla schiena di uno dei migranti, in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Nessuno-a che abbia agito in modo compassionevole, umano… Come è possibile? E’… mostruoso… https://www.thetimes.com/world/europe/article/speedboat-migrants-spain-sunbathers-6n6gpdksj?utm_source=chatgpt.com I mostri non sono da qualche parte là fuori. Sono dentro ognuno-a di noi. E’ possibile che non siamo tra quelli-e che disumanizzano le persone migranti, rifugiati-e, Rom… Eppure, è possibile che siamo tra quelli-e che disumanizzano il fascista, il trumpiano… O se non arrivano alla disumanizzazione, comunque giocano sul territorio della polarizzazione. “Le tattiche polarizzanti, le guerre culturali e il purismo morale, scrive Evans, sono portati avanti per smuovere le coscienze e mobilitare, “ma il risultato può comunque essere più sopraffazione, meno empatia, più aggressività, meno pensiero critico, più pensiero di gruppo”. Rischiano di dividere gli attivisti per la giustizia sociale “in fazioni più ossessionate l’una dall’altra che dal porre fine all’ingiustizia che è la loro causa comune”. Con il risultato che “invece di affrontare i problemi del mondo reale, stiamo sprecando energie politiche preziose per gestire la polarizzazione stessa”. (Diego Galli, https://www.rigenerazionale.it/p/polarizzazione) A proposito di ‘purismo morale’… Standing Together è nella lista di organizzazioni da boicottare redatta da “The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI)”, un membro fondatore del movimento BDS. L’organizzazione è accusata di “normalizzazione”, ossia di rendere normale lo status quo e richiamare l’attenzione solo su odio ed empatia, senza puntare il dito contro le cause strutturali del conflitto, l’oppressione, l’occupazione e l’apartheid. L’accusa di normalizzazione è rivolta spesso a movimenti congiunti di israeliane-i e palestinesi. Certo, la normalizzazione dello status quo e la favola della coesistenza di ebrei e palestinesi che suonano e cantano insieme è insidiosa, ma l’accusa di normalizzazione rivolta a Standing Together è altrettanto insidiosa. Si legge sul sito del movimento BDS (https://www.bdsmovement.net/standing-together-normalization) che Standing Together promuove l’idea che palestinesi e israeliani possano convivere se scelgono l’empatia invece dell’odio, però non riconosce il regime di apartheid e colonizzazione israeliana come causa principale del conflitto. In realtà, Standing Together riconosce il regime di disuguaglianza e denuncia il regime di occupazione. Perché allora boicottarli? Durante un’intervista alla CNN, la giornalista Christiane Amanpour ha detto a Rula Daood, co-direttrice di “Standing Together”: “Alcuni palestinesi vi hanno criticato. Vi accusano in qualche modo di normalizzare l’occupazione. Il movimento BDS ha detto che questa è normalizzazione…”. Rula Daood ha risposto: “…Quando sei seduto comodamente a casa negli Stati Uniti o in Europa, è molto più facile guardarci senza capire le realtà in cui viviamo… A volte può essere per ignoranza… Sono una cittadina palestinese di Israele e la vita non è facile. Siamo cittadini di seconda classe… Quindi venire qui e boicottare gli unici attivisti—sia palestinesi sia ebrei—che osano opporsi a questo governo, parlare un linguaggio diverso, dire che questa occupazione deve finire, che questa guerra deve finire, che deve esserci un accordo sul tavolo affinché i prigionieri possano tornare a casa… significa semplicemente andare contro la volontà del popolo. Se sei davvero rivoluzionario, capisci che ci sono persone che soffrono e ci sono governi.” Si può guardare l’intera intervista a questo link (https://edition.cnn.com/2025/05/14/Tv/video/amanpour-green-daood ) e io l’ho riguardata. Qualcosa in me avrebbe voluto forse che Rula e Alon-Lee fossero più incisivi sulla denuncia dell’occupazione militare e sulle condizioni di apartheid, forse addirittura qualcosa in me, era infastidito dal titolo “Il dolore è un dolore reciproco”, perché come si può paragonare il dolore del gruppo degli oppressi e del gruppo degli oppressori? Eppure, come ricordano Combatants for Peace CfP nei loro inviti alla Joint Memorial Ceremony: “Nel lutto fianco a fianco, non cerchiamo di equiparare le narrazioni, ma di trasformare la disperazione in speranza e costruire ponti di profonda compassione capaci di cambiare la realtà…”. La Joint Memorial Ceremony è organizzata da CfP e dal ‘Parents Circle Families Forum’. Si svolge ogni anno alla vigilia dello Yom Hazikaron (Giorno della Memoria israeliano), che, nella cultura dominante israeliana, tende a rafforzare narrazioni culturali di dolore, vittimismo e disperazione. La Cerimonia trasforma questa narrazione portando palestinesi e israeliane/i a “piangere insieme e modellare un’altra via possibile”. Allora, sì, il dolore è lo stesso, anche se la condizione per questo riconoscimento passa per il primo riconoscimento delle asimmetrie di potere, delle strutture oppressive e delle responsabilità. “Riconosciamo la differenza nelle dinamiche di potere tra israeliani e palestinesi e usiamo i nostri privilegi lavorando insieme per resistere all’ingiustizia.” (Dal sito di CfP https://www.cfpeace.org/combatants-for-peace) I movimenti congiunti di ebrei-e israeliani-e e palestinesi subiscono il fuoco incrociato, da un lato dei palestinesi o pro-palestinesi, che li accusano di normalizzazione o non accettano che ci possano essere israeliani-e nella lotta per la Palestina libera (semplificando), dall’altro lato, degli israeliani o pro-israeliani che li accusano di essere antisemiti e/o traditori di Israele. Gli-le israeliani-e che chiedono la fine dell’occupazione sono appellati in ebraico “yafeh nefesh” ossia belle anime, con una connotazione dispregiativa di naïf, ingenui e illusi. Maggiormente, dopo il 7 ottobre, la domanda per loro è stata: “Hai smaltito la sbornia? Sei diventato più realistico-a adesso?”. Forse accade lo stesso per i-le palestinesi che credono nella co-resistenza con gli-le israeliani-e: “Come puoi fidarti con quello che sta succedendo?”. Martin Luther King nel suo discorso a Montgomery, Alabama (1957) disse: “Siamo particolarmente interessati al ruolo delle persone bianche di buona volontà. Siamo quindi grati quando troviamo membri della popolazione bianca che fanno un serio sforzo per cambiare… Cerchiamo di incoraggiarli ad agire con fermezza in accordo con le loro convinzioni più profonde.” Incoraggiare la partecipazione di israeliane-i nella resistenza al genocidio, all’occupazione e alla pulizia etnica non diluisce la richiesta di giustizia, anzi, la rinforza. Il rischio è forse, come ho letto in qualche commento, di creare degli eroi israeliani (eroi all’interno del gruppo oppressore) e lasciare in ombra le persone che resistono (del gruppo degli oppressi)? Allora, ritornando alla domanda sul 17 agosto, c’erano, sì, più immagini e foto degli ostaggi israeliani che dei bambini gazawi, sicuramente c’erano più bandiere israeliane che cartelli con la scritta ‘Stop Genocide’, eppure possiamo guardare allo stesso tempo, sia i punti ciechi della società israeliana, sia le possibilità ai margini. E a quelle voglio guardare, non oscurando il resto (e non oscurarlo significa sentire tutto il peso di questa realtà), guidata dalla speranza. La speranza non è un sentimento ma un’attitudine, non è che si ha o non si ha, ma si coltiva, o come direbbe l’attivista Maoz Inon, “si fa speranza insieme”. “La Speranza Attiva non è pensiero illusorio… La rete della vita ci chiama a intervenire in questo momento. Abbiamo percorso molta strada e siamo qui per fare la nostra parte… La Speranza Attiva è la disponibilità a scoprire le forze in noi stessi-e e negli altri; la disponibilità a scoprire la grandezza e la forza dei nostri cuori…” (Joanna Macy) E dunque, ‘fare speranza’ per me e mettermi dentro e non fuori del quadro a cui guardo, è in questo momento far conoscere e amplificare quella parte (sì, certo, minoritaria) della società israeliana che il 17 agosto non chiedeva la fine della guerra per salvare “i suoi”, ma incarnava un futuro di liberazione collettiva per tutte le persone dal fiume al mare. Link alla prima parte dell’articolo Ilaria Olimpico
Dove cercare la speranza nella terra tra il fiume e il mare? Prima parte
Il futuro non si manifesta mai prima al centro. Il futuro si manifesta prima ai margini. – Otto Scharmer. Lo sciopero e la manifestazione del 17 agosto in Israele danno un segno di speranza per la trasformazione nella consapevolezza della società israeliana, o ancora una volta mostra che la società israeliana è egocentrica, etnocentrica, incapace di provare empatia se non per “i suoi”, una società malata, una società… mostruosa? Più di una conversazione in questi giorni sottintendeva o esplicitamente portava questa domanda. Sono partner di un israeliano, madre di due figlie con cognome ebraico, referente del gruppo italiano di Amici di Combatants for Peace, creatrice del metodo ‘Storie che Riconnettono’ che ha l’intenzione di promuovere culture di pace in tempo di policrisi, e risvegliare storie di connessione, compassione e coraggio. Da questa mia ‘positionality’, come esploro questa domanda? E’ stato invocato uno sciopero generale e sono state organizzate manifestazioni di protesta in varie città, chiedendo la fine immediata della guerra, il rilascio degli ostaggi e la sospensione della nuova operazione militare a Gaza. Hanno partecipato centinaia di migliaia di persone, forse un milione. Netanyahu e i suoi ministri hanno bollato la protesta come un atto che rafforza Hamas. Il focus era sugli ostaggi israeliani e in effetti l’evento è stato promosso dal “Forum delle famiglie degli ostaggi”. Sentire i discorsi incentrati su 50 ostaggi (israeliani) senza un minimo accenno a migliaia (le cifre cambiano a seconda delle fonti, da 60.000 a centinaia di migliaia) di persone morte a Gaza (palestinesi) innesca una sorta di fastidioso risentimento, se non un boato di indignazione feroce. E’ forte la tentazione di vedere dunque il 17 agosto non come segno di speranza, ma piuttosto come segno di una società cieca e sorda al dolore dell’altro, soprattutto dell’altro di cui è carnefice. Eppure, sono comunque centinaia di migliaia di persone che stanno chiedendo la fine della guerra. E soprattutto, tra loro, se scegliamo di guardare ai margini dove emergono le possibilità, ci sono gruppi e movimenti che chiedono non solo la fine della guerra per gli ostaggi, ma perché stanno co-resistendo insieme a palestinesi, di solito cosiddetti palestinesi del ‘48, formalmente con cittadinanza israeliana, ma “di serie B”. Questi movimenti non hanno remora a chiamare più precisamente questa guerra “genocidio”, denunciano la morte per fame a Gaza e la pulizia etnica nella Cisgiordania, vogliono la fine dell’occupazione e incarnano un futuro di giustizia, sicurezza e libertà per tutte le persone dal fiume al mare. Hanno navigato il trauma del 7 ottobre insieme. Alcuni membri di Combatants for Peace (CfP) hanno raccontato di come sia stato delicato riprendere i loro incontri, palestinesi e israeliani-e insieme. Hanno prima fatto degli incontri online in gruppi separati, poi ogni gruppo ha accolto una persona dell’altro gruppo in qualità solo di osservatore, e solo infine hanno potuto riprendere le loro attività insieme. Un israeliano di CfP ha raccontato quanto il 7 ottobre avesse avuto il potenziale di innescare in lui di nuovo diffidenza e odio e come il trigger sia stato disinnescato dai messaggi empatici dei CfP palestinesi. Un altro israeliano di CfP ha raccontato che immediatamente dopo l’attacco del 7 ottobre, quando non si sapeva cosa sarebbe successo ancora e i figli erano terrorizzati dalle notizie, ha mostrato loro i messaggi dei suoi amici palestinesi. In questi quasi due anni, i movimenti congiunti di ebrei israeliane-i e palestinesi ‘Combatants for Peace’ CfP e ‘Standing Together’ (e cito solo quelli che seguo di più) hanno co-resistito e protestato contro l’orrore della violenza. Ecco solo alcune delle loro iniziative: Gerusalemme, 25 maggio 2025 – Una decina di attivisti-e di Standing Together si sono mobilitati per proteggere palestinesi contro le bande di estrema destra che erano arrivate per creare violenza nella Città Vecchia di Gerusalemme, in occasione del “Giorno di Gerusalemme”. Tel Aviv e Gerusalemme, 3 agosto 2025 – Centinaia di attiviste-i, tra cui CfP, hanno protestato chiedendo giustizia per Awdah Hathaleen, educatore e attivista palestinese, ucciso dal colono Yinon Levi il 28 luglio nel suo villaggio di Umm Alkhair, a Masafer Yatta. Beit Jala, 15 agosto 2025 – “I giornalisti sono gli occhi e le orecchie del mondo. A Gaza quegli occhi vengono deliberatamente chiusi: più di 200 reporter uccisi dal 7 ottobre 2023”. CfP israeliani e palestinesi hanno organizzato una manifestazione nonviolenta contro l’uccisione recente di sei giornalisti a Gaza e hanno chiesto che Israele sia ritenuto responsabile. Beit Jala, 7 agosto 2025 – Manifestazione nonviolenta settimanale per denunciare la fame a Gaza causata dalle politiche israeliane. L’esercito israeliano ha chiuso la zona e minacciato di intervenire con la forza. Sakhnin, agosto 2025 – Migliaia di cittadini-e, ebrei israeliani e palestinesi, si sono radunati a Sakhnin per chiedere la fine della guerra, del genocidio e della fame forzata a Gaza. Confine di Gaza, 6 agosto 2025 – Al confine di Gaza, ebrei israeliani e palestinesi si sono uniti per dire no all’annientamento, alla distruzione, all’occupazione e alla fame forzata e per denunciare l’abbandono degli ostaggi. L’attivista di Standing Together, Eliah Levine, ha spiegato alla BBC perché hanno interrotto la diretta di Big Brother Israel per chiedere la fine degli orrori a Gaza. “Non possiamo continuare come se nulla fosse mentre decine di migliaia di palestinesi vengono uccisi e 50 ostaggi vengono abbandonati”. Questi due movimenti, Combatants for Peace e Standing Together, insieme a circa 60 organizzazioni fanno parte della Coalizione It’s Time formatasi dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, con l’obiettivo di porre fine al conflitto israelo-palestinese attraverso un accordo politico, garantendo il diritto all’autodeterminazione, l’uguaglianza e una vita sicura per entrambi i popoli. Torniamo quindi alla domanda sul 17 agosto, sapendo che prima di questa data, una parte (Troppo piccola? Abbastanza significativa?) della società si è mobilitata, squarciando il silenzio e la propaganda, denunciando il genocidio, l’orrore, l’annientamento, la fame forzata a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania, l’abbandono degli ostaggi. Una sensazione di apertura arriva nel petto. Forse non tutto è perduto. Forse ai margini c’è speranza. Come internazionali, come europei-e, come italiane-e diamo abbastanza spazio e sostegno a questi movimenti congiunti che stanno co-resistendo, così da nutrire la speranza? Anche Al-Jazeera ha riportato la notizia dello sciopero e delle manifestazioni del 17 agosto. Al-Jazeera è spesso il canale più seguito nei paesi arabi, specie nei Territori Palestinesi: in Cisgiordania e Gaza è la prima fonte di informazione per oltre il 53% del pubblico, distaccando di gran lunga altri network come Palestine TV e Al Arabiya. La sua vasta audience ha fatto sì che, secondo la Columbia Journalism Review, la copertura di eventuali accordi di pace con Israele attraverso Al-Jazeera potrebbe determinare l’accettazione o meno di tali accordi da parte del pubblico palestinese (fonte: Wikipedia). Al-Jazeera è spesso accusata di parzialità (ma chi è imparziale?). E dunque, tenendo presente ciò, è da segnalare che Al-Jazeera ha portato la voce di Alon-Lee Green, leader di Standing Together, per commentare la protesta del 17 agosto, con la domanda che va dritta al punto dolente: “Come il tuo movimento di israeliani-e e palestinesi vede le proteste in Israele che vogliono portare a casa gli ostaggi e ridurre le morti israeliane e focalizzano meno sui palestinesi e le loro condizioni a Gaza?” Alon-Lee Green ha risposto: “Facciamo parte di una società… e crediamo che cambiare la società da dentro e organizzarci sia parte chiave per porre fine a questo incubo e all’annientamento in corso a Gaza, rilasciare gli ostaggi e buttare fuori il governo e risolvere il profondo problema dell’occupazione. E dobbiamo capire che ogni persona che è nelle strade adesso per resistere alla guerra è benvenuta. E dobbiamo capire che partire dal proprio interesse è qualcosa di importante. … E bisogna capire che è importante connettere questo all’interesse palestinese, perché solo se costruiamo una maggioranza di persone, palestinesi ed ebrei-e israeliani-e che costruiscono fiducia, collaborando insieme e resistendo insieme a questa realtà, in questo modo possiamo non solo porre fine a questo annientamento e a questa guerra, ma anche andare oltre e porre fine all’occupazione.” Alon-Lee Green riconosce la realtà e al tempo stesso porta l’attenzione sulle possibilità. Sa benissimo che parte (a quanto sembra gran parte) della società israeliana scesa in piazza vuole la fine della guerra per suo interesse “tribale”. Eppure intravede la possibilità di partire da questo per lavorare dall’interno della società per trasformarla. In diversi video sul suo canale Instagram, Alon-Lee si rivolge al pubblico israeliano, dicendo che si tratta sì di salvare i palestinesi, ma si tratta anche di salvare l’umanità degli israeliani, e chiedendo provocatoriamente di rispondere alla domanda: quale tipo di Paese vogliamo? Dalla prospettiva palestinese e pro-palestinese, potrebbe essere visto come un discorso arrogante. E nella dimensione dell’urgenza di un tempo schiacciato dal dolore e dalla rabbia per l’ingiustizia, è forse veramente arrogante. Eppure, nella dimensione di un tempo profondo, in cui mezzi e fini si sovrappongono e la liberazione dell’oppresso è la liberazione anche dell’oppressore – quanto è densa questa affermazione e quanto è dura scriverla per la parte di me-noi che ha la spada della giustizia tagliente – queste affermazioni non sono arroganti, ma coraggiose. Anzi sono le uniche possibili in termini di liberazione collettiva. Una palestinese israeliana di Standing Together, Sally Abed, fa riferimento all’interesse proprio degli ebrei israeliani-e, portando una prospettiva insolita, che invita a una scelta di empowerment radicale e di profonda trasformazione. “Sono una donna palestinese, chiedo di lottare per la liberazione del mio popolo, non per salvare me, per salvare noi… Rifiuto che partecipiate alla nostra lotta congiunta per salvare noi… Io chiedo che ogni ebreo-a israeliano-a di questo Paese si unisca a questa lotta a partire da un proprio interesse privato… un interesse profondo di mettere fine all’occupazione e di pace… Altrimenti non costruiremo una partnership autenticamente paritaria. Vi chiedo di unirvi alla lotta in cui entrambi abbiamo un interesse in una vita migliore, un futuro migliore, in pace e libertà… Ci impediscono di immaginare un futuro migliore e noi insistiamo nell’immaginare un futuro migliore.” E’ delicato scrivere e parlare di Palestina e Israele perché c’è la dimensione dell’urgenza, che porta il conato di indignazione, l’istinto di gridare e la sensazione di impazzire; c’è un genocidio sotto i nostri occhi e bisogna fare qualunque cosa possibile pur di fermarlo. Eppure c’è un’altra dimensione che apparentemente è meno urgente, e per questo è marginalizzata. E’ la dimensione del tempo profondo, della compassione e della riconciliazione, è l’essenza della trasformazione del conflitto, è preparare il futuro di riconciliazione facendolo, anche e soprattutto nel mezzo della carneficina. E’ lavorare da dentro la società che non vede (non vuole vedere) i crimini che sta commettendo. Ecco che dentro si fa sentire la voce (o forse il grido): “Non vede? E’ praticamente un genocidio in diretta. Non vuole vedere?? Peggio ancora. Come è possibile? E’… mostruoso”.   Ilaria Olimpico
Cosa succede nel Campo per la Pace nella terra dal Fiume al Mare?
“Perché sappiamo che ora è il momento di costruire un futuro migliore per tutt3 coloro che vivono qui. Un futuro di pace, uguaglianza, giustizia sociale e ambientale, un futuro che garantisca sicurezza e prosperità per tutt3.” – Standign Together, newsletter 10 Luglio 2025 “C’è una cosa che ognun@ di noi può fare: insistere sulla nostra umanità. Perchè non si tratta solo di salvare Gaza, sì, certo, è salvare le persone a Gaza, e siamo orgoglios3 di essere insieme, in solidarietà, in questo, Palestinesi ed Ebre3 con le persone di Gaza, ma sapete cosa? Si tratta anche di difendere la nostra umanità, si tratta di decidere che tipo di paese vogliamo diventare” – Alon-Lee Green, Standing Together https://www.instagram.com/reel/DM0oG-YNWfT/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA== Ieri 3 agosto 2025, a Tel Aviv, It’s Time Coalition, una coalizione composta da oltre 60 organizzazioni per la pace, sia ebraiche che arabe, ha allestito un accampamento in Piazza Dizengoff, a Tel Aviv, per protestare contro la guerra in corso a Gaza. Già per il 31 luglio aveva lanciato un appello: “Dov’eri? Come hai resistito? I nostri nipoti vorranno saperlo. Non possiamo continuare come se tutto fosse normale. Stiamo lanciando un’ondata di azioni d’emergenza a partire da domani, giovedì (31 Luglio). È il momento di interrompere la normalità. È il momento per tutti coloro che hanno resistito dal divano di alzarsi. È il momento di alzare una voce collettiva — contro una guerra criminale e contro l’abbandono di vite umane. Insieme, invochiamo la fine della sofferenza e l’inizio della guarigione” Dopo una serata intensa a Piazza Habima, Tel Aviv, il 31 luglio, dove migliaia di persone hanno riempito la piazza, It’s Time ha lanciato ufficialmente la sua mobilitazione d’emergenza. “Non continueremo come se nulla fosse. Non resteremo a casa mentre continuano le uccisioni, l’abbandono e la fame. A partire da domenica – un accampamento di protesta condiviso per tutte le organizzazioni e attivisti. Vieni a Piazza Dizengoff, a Tel Aviv, e fai parte della resistenza. Domenica è Tisha B’Av* (in ebraico: תשעה באב, che significa nove del mese di Av; è tradizionalmente associato alla distruzione di entrambi i Templi di Gerusalemme: Il Primo Tempio, distrutto dai babilonesi nel 586 a.C; il Secondo Tempio, distrutto dai romani nel 70 d.C. E’ un giorno di lutto e digiuno) e includerà un digiuno congiunto guidato da leader dei movimenti per la pace, attivist3 contro la guerra e altri partner. La protesta ha lo scopo di mettere in luce la crisi umanitaria a Gaza, chiedendo al contempo la liberazione immediata degli ostaggi israeliani e la fine della guerra. La serata del 3 agosto è stata anche la serata per Odeh e la comunità di Masafar Yatta. Centinaia di attivist3 hanno protestato a Tel Aviv e a Gerusalemme chiedendo giustizia per Odeh (Awdah) Mohammed Khalil Al-Hathalin, amato educatore palestinese, attivista per la pace, difensore dei diritti umani, fonte di ispirazione per il mondo attivista israeliano, palestinese e internazionale. Odeh è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dal colono israeliano Yinon Levi il 28 luglio, mentre proteggeva la sua comunità . Da allora, il suo corpo non è ancora stato restituito al villaggio per una degna sepoltura. Divers3 palestines3 di Umm Alkhair e di Masafer Yatta sono stat3 arrestat3 e sono attualmente detenut3 nella prigione militare di Ofer. Nel frattempo, Yinon Levi è stato rilasciato agli arresti domiciliari. Centinaia di attivist3 israelian3 e palestinesi hanno espresso la loro solidarietà con le oltre 60 donne di Umm Alkhair che, da giovedì 31, sono in sciopero della fame per chiedere giustizia per Awdah. Invece di onorare la sua vita e permettere alla sua famiglia di seppellirlo con dignità, la polizia ha imposto condizioni disumane: Nessuna tenda del lutto nel suo quartiere. Nessun corteo funebre. Non più di 15 persone in lutto consentite. Combatants for Peace in solidarietà con la comunità ha lanciato un appello per la giustizia: “Il dolore non è un crimine. Il lutto è un diritto. La dignità non ha bisogno di permessi. Questa non è solo una questione locale, è un appello globale per la giustizia. Chiediamo: Restituite subito il corpo di Odeh Permettete alla sua famiglia di piangerlo liberamente e con dignità Lasciate che il suo popolo lo seppellisca nella sua terra, tra i suoi cari. Questo è un appello alla coscienza. Un appello all’umanità. Un appello per la libertà di piangere. Invitiamo ogni difensore dei diritti umani, ogni giornalista, ogni artista, ogni madre, ogni persona che ancora crede nella giustizia: Pronunciate il suo nome. Condividete questo messaggio. Siate al nostro fianco. Insieme, difendiamo la linea della dignità. Per favore, condividete il più possibile: la vostra voce è parte di questa resistenza. Combatants for Peace piange la sua perdita e invia forza alla sua famiglia, alla sua comunità e a tutti coloro che lo conoscevano. Era un faro di speranza e un leader della resistenza nonviolenta contro le ingiustizie orribili e continue dell’occupazione. Che un giorno possiamo vedere realizzata la sua visione: una casa sicura e libera per la sua famiglia, per il suo villaggio e per tutte le persone di questa terra.” Qui la testimonianza commossa, commovente, di Mai Shahin: https://www.instagram.com/reel/DM24r1Iodmv/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA== Ilaria Olimpico
Un confronto diverso, ieri presso lo Spazio Autogestito Arvultùra di Senigallia, un angolo non consueto da cui osservare e riflettere attorno al conflitto israelo-palestinese, quello che Noa Harel e Sauliman Khatibi dell’associazione arabo-israeliana “Combattenti per la Pace” ci hanno offerto con le loro parole. Palestinesi e israeliani che lottano insieme contro l’occupazione, contro la guerra che Israele ha scatenato a Gaza e che ora sta incendiando tutta l’Asia occidentale. Una minoranza certo, ma una minoranza che contiene in sé l’unico futuro possibile, oltre la guerra infinita. Un grazie particolare ad Ilaria e Diego, la prima per le traduzioni e il secondo per il lauto pasto offerto dopo il dibattito. #FreePalestineGaza #feelsenigallia #StopBombingGaza #boicotisraelproduct #senigallia #marche   Daniela Musumeci