Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in IranCronache e prime riflessioni mentre cadono le bombe su Teheran.
L’IRRUZIONE DELLA GUERRA NEL CUORE DELLA NOTTE
Erano le due del mattino. Una videochiamata con un’amica a Teheran si è
trasformata all’improvviso nella visione in diretta di un incubo: la prima
ondata dell’attacco israeliano contro l’Iran. Le case tremavano, il cielo era
attraversato dai rumori dei missili e dei bombardamenti e le strade erano
sommerse dal fumo, dalle urla e dall’abbandono. Lo Stato era assente: nessun
rifugio, nessun piano, nemmeno un avvertimento. Ancora una volta, un popolo
dimenticato veniva sacrificato sull’altare di un progetto geopolitico mortale.
Per comprendere questa situazione, è necessario andare oltre la tradizionale
cornice dello Stato-nazione e della politica di potenza. Ciò che accade oggi può
essere interpretato come la continuazione di un “regime di guerra” nel cuore
stesso del capitalismo globale – un regime che non si fonda solo
sull’occupazione militare, ma sulla riproduzione della paura, sull’eliminazione
dei soggetti politici e sull’organizzazione sistematica della morte.
Come affermano Sandro Mezzadra e Michael Hardt, i regimi bellici contemporanei
non si definiscono più tramite occupazioni tradizionali, ma attraverso un
insieme composito di tecnologie del controllo, gestione dei confini, operazioni
psicologiche e distruzione delle condizioni di vita civili. Il regime di guerra
è oggi parte integrante dello Stato-capitale globalizzato: una rete multilivello
di governi, eserciti, appaltatori della sicurezza e media che portano avanti la
guerra come meccanismo di produzione di potere, legittimità e accumulazione.
> In Iran, una struttura politico-economica già gravemente colpita da
> inflazione, povertà, corruzione sistemica e repressione, si rivela ora del
> tutto incapace di proteggere i propri cittadini di fronte agli attacchi
> esterni.
Da città come Teheran, Karaj, Esfahan, Shiraz e Mashhad arrivano testimonianze
che confermano l’assenza anche delle infrastrutture minime di allerta o rifugio.
Le persone vengono a conoscenza degli attacchi solo dal rumore delle esplosioni.
Madri e padri che cercano di salvare le proprie figlie i propri figli a mani
nude; ospedali che, pur non essendo obiettivi militari dichiarati, si ritrovano
paralizzati da interruzioni elettriche, sovraffollamento e in alcuni casi
colpiti direttamente.
Testimoni oculari a Teheran raccontano che, dalla mezzanotte fino all’alba,
raffiche e esplosioni hanno squarciato il silenzio, facendo tremare più volte
gli edifici. La gente ha cercato rifugio per strada, non solo per paura degli
attacchi, ma anche per timore del crollo delle proprie case. «Il silenzio dopo
l’esplosione», dice un residente, «è più spaventoso dell’esplosione stessa».
In un altro resoconto locale, una donna del quartiere Niru-ye Havaei racconta di
aver passato tutta la notte sulle scale con i suoi figli, convinta che fosse più
sicuro lì che dietro le pareti di vetro dell’appartamento. A Esfahan,
un’infermiera riferisce che il pronto soccorso del suo ospedale è stato gestito
al lume di candela, senza elettricità né ossigeno. A Mashhad, un ragazzo scrive
che sua madre ha avuto una crisi di panico, confondendo il rumore dei droni in
cielo con quelli usati per la repressione durante le proteste del 2022.
> Questo regime, attraverso una distribuzione asimmetrica della violenza, prende
> di mira le strutture della vita stessa: elettricità, acqua, ospedali, scuole e
> media.
La distruzione delle infrastrutture civili non è più un effetto collaterale, ma
parte integrante della logica bellica. Non è una guerra contro lo Stato, ma
contro la capacità stessa delle persone di vivere. In questo senso, la politica
di guerra è una politica contro la vita.
L’ILLUSIONE LIBERATRICE
All’inizio, Donald Trump, con un linguaggio coloniale e sprezzante, dichiarò che
«per preservare il grande impero persiano, è meglio che l’Iran accetti un
accordo con noi» — come se la storia dell’Iran non fosse altro che un’appendice
da piegare ai sogni imperiali americani. Poco dopo, ha avuto inizio l’attacco
israeliano. In una dichiarazione teatrale, Netanyahu si è rivolto al popolo
iraniano affermando: «Non siete voi il bersaglio dei nostri attacchi, ma il
regime e alcuni individui specifici».
Questa distinzione fittizia, tuttavia, non è segno di etica, bensì parte
integrante di un discorso bellico delle potenze globali, in cui la linea tra
popolo e governo viene deliberatamente cancellata per rendere la morte
legittima. Allo stesso tempo, le immagini della famiglia Pahlavi nei loro
incontri con esponenti israeliani rappresentano un altro tassello dello stesso
progetto politico-mediatico, che trasforma la catastrofe in opportunità.
> I monarchici, allineandosi con le politiche guerrafondaie, si presentano come
> portavoce del popolo, come se quel popolo che ha affrontato i proiettili a
> mani nude nella rivolta “Donna, Vita, Libertà” non fosse mai esistito.
Questo sguardo dall’alto, strumentale e intriso di disprezzo, rappresenta le
iraniane e gli iraniani non come soggetti politici, ma come pedine mute sulla
scacchiera della geopolitica globale. Il giorno seguente, una nuova messinscena:
«Bisogna preparare l’Iran alla rivoluzione». Poi: «L’obiettivo è il cambiamento
di regime». E infine: «Abbiamo preparato l’Iran per proteste e sollevazioni
popolari. Popolo, insorgi!»
Ma questo “invito alla rivolta” proviene dalle stesse potenze che da anni
costringono la popolazione iraniana a sopravvivere sotto il peso di sanzioni,
minacce e una guerra che ha reso la vita stessa insostenibile. La rivolta a cui
si fa appello non mira alla liberazione, bensì a una redistribuzione strategica
della morte secondo la mappa degli interessi globali.
Come possono insorgere coloro che, in quello stesso momento, hanno perso i
propri cari sotto le macerie? Come potrebbero rivoltarsi quelle e quelli che
sono fuggite dalle loro case e città solo per restare in vita? Nella logica del
capitale e della guerra, le cittadine e i cittadini comuni non sono solo
vittime, ma anche responsabili di pagare il prezzo dei missili che li
colpiscono.
In quest’ordine, la morte è uno strumento della politica e la distruzione
diventa il linguaggio della legittimità.
VIVERE COME RESISTENZA
In questo regime, il confine tra “nemico militare” e “popolazione civile” viene
deliberatamente cancellato. La frase minacciosa «quello che abbiamo fatto a
Gaza, lo faremo anche in Iran» non è semplicemente una tattica: è l’espressione
di una politica che merita di essere chiamata per nome — politica della morte, o
necropolitica.
In tale cornice, gli Stati non si limitano a decidere chi vive, ma pianificano
la morte: attraverso l’assedio, l’interruzione dell’accesso alle risorse vitali
e infine il bombardamento. Questa politica della morte è accompagnata da
interventi psicologici e mediatici. Agenzie di stampa e analisti legati ai
blocchi di potere giustificano la guerra con il linguaggio dell’“aiuto
umanitario”. In queste narrazioni, i bombardamenti vengono rappresentati come un
preludio alla libertà. Questo processo svuota la violenza del suo significatoe
trasforma la morte in soluzione.
In questa logica, anche la protesta diventa qualcosa di predefinito e
controllabile. Le stesse potenze che hanno imposto sanzioni e insicurezza
invitano ora il popolo iraniano alla rivolta – non per la libertà, ma per
ricostruire un ordine più adatto ai loro interessi. Questa politica
dell’insurrezione “guidata” è parte della macchina bellica stessa: una macchina
che desidera la rivolta, ma ne pretende anche il controllo. La rivolta, così
concepita, non è un atto di liberazione, ma una strategia per ribilanciare i
poteri.
Da questa prospettiva, ciò che diventa urgente è la ricostruzione di un
orizzonte di resistenza, non basato sulla salvezza esterna o su interventi
umanitari, ma fondato sulle azioni autonome del popolo, in solidarietà con altri
soggetti espulsi dal sistema globale.
> La vera resistenza non si costruisce in alleanza con poteri militari, ma nel
> riappropriarsi del potere dentro la vita quotidiana.
In questo contesto, narrazioni, memorie e testimonianze popolari diventano atti
politici. Chi scrive sotto i bombardamenti, chi ascolta in silenzio il ronzio
dei droni nella notte, chi stringe la propria bambina o il proprio bambino in un
rifugio immaginario: tutte e tutti sono portatrici e portatori di una forma di
resistenza. Una resistenza che non risiede nelle armi, ma nel sopravvivere, nel
raccontare, nell’insistere a esistere contro ogni tentativo di cancellazione.
In un mondo dove la morte è diventata uno strumento di legittimazione, forse
l’unica forma di resistenza possibile è restare in vita come atto politico:
resistere non per gli Stati, né per opposizioni che rappresentano l’altro volto
dello stesso ordine, ma per la vita, per la giustizia, per la fine di una
politica che trasforma l’essere umano in obiettivo militare.
Ciò che accade oggi in Iran è parte di un quadro più ampio: l’ordine globale del
capitalismo bellico. Un ordine che, sotto la maschera della democrazia e della
sicurezza, rende le popolazioni obiettivi legittimi da colpire. In quest’ordine,
la morte non è un errore, ma una necessità funzionale.
Resistere a questa realtà è possibile solo se si trasformano le narrazioni, si
ricostruiscono i confini etici e si riportano i soggetti popolari dal margine al
centro dell’azione politica. Solo allora potremo tornare a parlare della vita
come atto politico, e non più della morte.
Immagine di copertina di Mohammadjavad Alikhani (wikimediacommons)
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