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Israele e la guerra della droga in Siria
Le tensioni nel sud della Siria sono aumentate quando, il 16 luglio 2025, aerei da guerra israeliani hanno bombardato il Ministero della Difesa a Damasco, le aree intorno al palazzo presidenziale e alcuni villaggi di As-Suwayda, uccidendo almeno duecentocinquanta siriani. Le autorità transitorie siriane, guidate dall’ex capo di al-Qaeda, Ahmed […] L'articolo Israele e la guerra della droga in Siria su Contropiano.
L’operatore ONU Gennaro Giudetti sotto i bombardamenti a Gaza. Il governo italiano intervenga
Ieri mattina era arrivato l’ordine perentorio alla popolazione palestinese di lasciare la zona di Deir el Balah, a Gaza, dove hanno sede le Ong e l’agenzia dell’Onu. Molti non avevano i mezzi per allontanarsi mentre fame e sete colpiscono soprattutto i bambini. L’attacco aereo è partito ieri sera, oggi l’avanzata terrestre con i carri armati che stanno distruggendo tutto. È stata individuata una “zona rossa” da radere al suolo. In questa zona agisce come operatore umanitario un cittadino italiano, Gennaro Giudetti, che tenta ancora di portare conforto e aiuto. Il governo italiano, la Farnesina, debbono intervenire immediatamente per fermare l’ennesima violazione del diritto internazionale che rappresenta uno smacco per il pianeta intero. Quanto accade al nostro concittadino e quanto subisce l’intera popolazione dell’area è l’ennesimo crimine di cui Israele e il suo governo debbono rendere conto. Netanyahu è un criminale e chi lo sostiene, come il governo italiano, è un  miserabile  complice. Maurizio Acerbo , segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
Israele bombarda Damasco. Interessi geopolitici dietro la difesa dei drusi
Dopo giorni di scontri sanguinosi nella provincia siriana di Sweida e una serie di attacchi aerei israeliani senza precedenti su Damasco e il sud del paese, le forze governative e le milizie druse hanno concordato un nuovo cessate il fuoco. L’annuncio è giunto nelle stesse ore in cui jet israeliani […] L'articolo Israele bombarda Damasco. Interessi geopolitici dietro la difesa dei drusi su Contropiano.
SIRIA: NUOVA ESCALATION DI VIOLENZE SETTARIE NEL SUD. DAANES: “UNICA SOLUZIONE AUTONOMIA DEMOCRATICA E RISPETTO DEL PLURALISMO”
Sale a 135 morti il bilancio degli scontri settari nel sud-ovest della Siria. I combattimenti sono iniziati tra le milizie della comunità drusa e quelle beduine dopo il sequestro di un giovane druso da parte di una banda beduina di Dar’a. In seguito, è intervenuto l’esercito del cosiddetto governo di transizione dell’autoproclamato presidente siriano – il post-jihadista Al Shaara – in teoria per tentare di porre fine ai combattimenti. In realtà, diversi video mostrano miliziani jihadisti (alcuni con le patch di Daesh sulle divise) impegnati in violenze e torture nei confronti di combattenti e civili drusi. Ne ha “approfittato” di nuovo Israele, che occupa ancora un pezzo di Siria, fino alle porte di Damasco. Con la scusa di “difendere i drusi”, l’esercito israeliano ha bombardato le vicinanze di una colonna di carri armati di Hayat Tahrir al Sham che si apprestavano a entrare nella roccaforte drusa di Suwayda. “Un avvertimento al governo di Damasco”, affermano da Tel Aviv. L’esercito israeliano, che è impegnato in colloqui indiretti con il governo di transizione siriano per raggiungere una “normalizzazione” dei rapporti, non è andato oltre l’avvertimento, e i militari fedeli al governo siriano sono poi entrati a Suwayda, dove secondo quanto riportato dal ministero della Difesa di Damasco sarebbe entrato in vigore un cessate il fuoco. L’Amministrazione autonoma della Siria del nord e dell’est e le Forze siriane democratiche hanno invitato tutte le parti a cessare il fuoco immediatamente, ricordando in un comunicato “la necessità di rispettare il pluralismo nazionale siriano, riconoscendo i diritti di tutte le componenti senza discriminazioni ed evitando qualsiasi retorica o pratica che prenda di mira un gruppo specifico per motivi politici, religiosi o etnici”. “La Siria a cui aspiriamo – si legge nel comunicato sulle violenze settarie – dev’essere uno Stato per tutti, senza emarginazione o esclusione, costruito su basi democratiche che garantiscano l’effettiva partecipazione di tutta la popolazione alla gestione degli affari del Paese”. Le istituzioni confederali del Rojava hanno inoltre esortato tutte le parti “ad adottare approcci realistici che rispettino la natura della società siriana e a lavorare con serietà per costruire un modello politico moderno e democratico basato su giustizia, uguaglianza e diritti umani“. “La soluzione in un paese multietnico come la Siria – aggiunge in un comunicato il Kongra-Starr, Movimento delle donne della Siria del nord-est – è un’amministrazione decentralizzata, federale e democratica con al centro le donne”. “Il popolo – prosegue la nota – ha bisogno di pace e di una società democratica”. Di tutt’altro avviso sembrerebbe essere il governo di transizione di Al Shaara (Al Jolani), ma anche l’inviato speciale Usa per la Siria Tom Barrack. Venerdì scorso, dopo un importante incontro tra Damasco e l’Amministrazione autonoma del Rojava, il diplomatico statunitense ha dichiarato: “Una nazione, un popolo, un esercito, una Siria. Le Forze Siriane Democratiche sono lente nell’accettare, negoziare e procedere in questa direzione. C’è solo una strada e quella strada è Damasco”. I recenti incontri si inseriscono nel quadro del negoziato in corso dallo scorso mese di marzo 2025. L’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale ha rilasciato una dichiarazione: “La diversità in Siria non è una minaccia per la sua unità, ma piuttosto una fonte di forza che deve essere protetta e consolidata”, si legge nel comunicato. “Le richieste che avanziamo oggi per un sistema democratico pluralistico, per la giustizia sociale, per l’uguaglianza di genere e per una costituzione che garantisca i diritti di tutte le componenti non sono nuove; – ricordano le istituzioni confederali del nord-est – sono il cuore della lotta dei siriani dal 2011. Etichettarle come secessionismo è una distorsione della verità della lotta siriana contro la tirannia”. Per fare il punto della situazione nel sud-ovest siriano e sui colloqui tra Damasco e DAANES, su Radio Onda d’Urto è intervenuto Tiziano Saccucci, dell’Ufficio Informazione Kurdistan in Italia. Ascolta o scarica.
Lettera di una laureanda di Gaza
Riceviamo la terza lettera da Nancy Hamad, laureanda in economia a Gaza. Sei mesi fa Nancy ha ricevuto dal collettivo “Romatre Etica” una laurea honoris causa simbolica in economia, in concomitanza con quella conferita dalla Terza università capitolina, in modo scandaloso e inopportuno, praticamente a porte chiuse, alla costituzionalista ex ufficiale dell’esercito israeliano Daphne Barak Erez: l’accademica è stata una delle artefici sul piano giuridico del regime di apartheid della cosiddetta “unica democrazia in Medio Oriente”. La situazione a Gaza è stata molto difficile per noi, i bombardamenti israeliani sono andati avanti per altri dieci giorni, giornate molto intense, strane e insolite: non eravamo abituati a sentire così vicino il rumore dei bombardamenti. Questa situazione mi rende una testimone della notte, della sua forza e questa mi mette in tensione, mentre seguo questa prima fase dei negoziati. Ora si percepisce questa tensione dappertutto, un’apprensione per ciò che potrebbe succedere e se si riuscirà a porre fine a questa guerra crudele e difficile per tutti noi. O forse no? La tensione e le preoccupazioni mi hanno consumato la vita in questi ultimi giorni. La guerra mi ha privato della mia passione per la vita. Non ho voglia di fare nulla in queste condizioni così difficili. Volevo integrare la mia laurea triennale con una laurea magistrale, ma la situazione che viviamo mi ha fatto perdere la speranza e il desiderio di continuare a perseguire i miei sogni e la mia strada. La vita mi appare come già finita, ma forse perché questo tipo di vita, a Gaza, è oltremodo difficile. Spero che la guerra finisca, così come i bombardamenti e le esplosioni. Spero che gli aiuti umanitari possano finalmente raggiungere le persone affamate che non possono riceverli a causa dell’occupazione. Grazie a tutti.   Redazione Roma
Messaggi da Gaza
In un precedente articolo abbiamo raccontato uno scorcio di vita di Sharif, palestinese nativo di Gaza e collaboratore di “Un ponte per” a Siena, dove vive e lavora come mediatore culturale.  Non molto tempo fa Sharif ha perso il padre a Gaza per mancanza di cibo e di medicinali. In questi ultimi due anni ci ha aiutato a entrare in contatto con una studentessa di Gaza laureanda in Economia, Nancy Hamad, a cui è stata conferita simbolicamente la laurea honoris causa in economia da parte del collettivo universitario RomaTre Etica nello stesso giorno in cui il terzo ateneo romano la conferiva, quasi a porte chiuse, alla costituzionalista Daphne Barak Erez, protagonista, nel suo Paese, del giustificazionismo giuridico alla base della recrudescenza, di questi ultimi decenni, del regime di apartheid del governo sionista. Non si contano più le volte in cui Nancy si è dovuta trasferire in emergenza, con tutta la famiglia, per raggiungere sempre nuovi siti presentati come “sicuri” dall’esercito israeliano. Ogni volta ha dovuto organizzare il proprio lavoro di ricerca per la tesi di laurea, all’ombra di un gazebo allestito da un gruppo di volontari informatici per ristabilire con ponti-radio il collegamento alla rete internet. Qui di seguito condivido una delle nostre comunicazioni via Whatsapp, tra un black-out e l’altro: D.: Nancy, appena puoi mandami un messaggio, così posso far sapere a quante più persone possibile cosa stai passando a Gaza.  R.: Ciao Stefano, spero che tu stia bene. Io e la mia famiglia stiamo bene, grazie a Dio, ma stiamo attraversando il periodo peggiore dall’inizio della guerra a Gaza. Il continuo spostamento e l’instabilità sono difficili da descrivere. Vivere in una tenda è una delle difficoltà più grandi che affrontiamo, soprattutto in estate. È molto difficile per me descrivere la sensazione, la sofferenza per il caldo, la sofferenza per l’acqua non potabile, dato che ho avuto molti problemi di salute a causa dell’acqua sporca e non ho potuto andare in ospedale o nei centri medici per mancanza di medicine, oppure il disagio di accendere un fuoco per cucinare con queste alte temperature e tante altre difficoltà. Ora ci troviamo nel quartiere di Al-Nasr, nel centro della città di Gaza, ma all’interno del campo siamo stati esposti a diversi bombardamenti. Grazie a Dio, io e la mia famiglia non siamo rimasti feriti, nonostante i frammenti di proiettili e i sassi che volavano sopra le nostre teste. Per quanto riguarda i prezzi dei generi alimentari, sempre molto elevati, il problema è diventato insostenibile a causa della scarsità di beni disponibili nei mercati, come farina, olio per friggere, lenticchie, zucchero, pomodori, cetrioli e melanzane. I beni sono molto scarsi nei mercati a causa della chiusura dei valichi, che è durata più di 100 giorni. Tuttavia, non c’è liquidità all’interno della Striscia e, se disponibile, la commissione è molto alta, superiore al 40%. Recentemente mi sono candidata per diversi lavori per aiutare la mia famiglia, ma non sono stata accettata perché richiedevano diversi anni di esperienza. La situazione attuale, con la carestia, è molto più difficile di quando ero a Deir al-Balah. Sono stata molto felice dell’arrivo degli attivisti stranieri giunti in nave dall’Italia per sostenerci nella Striscia di Gaza. Molto triste è stato anche quando il commando israeliano ha sequestrato la barca e deportato gli attivisti. Sono stata anche molto felice del convoglio che è venuto dai nostri Paesi arabi per sostenerci, e noi a Gaza siamo sempre molto felici per queste ammirevoli prese di posizione. Raccontavo sempre queste buone notizie a mio nonno, il padre di mio zio Sharif, che ne era sempre molto felice, ma per volontà di Dio, lui è morto 10 giorni fa, il 14 giugno 2024. Grazie di essere al nostro fianco. Vi siamo molto grati e sarò molto felice di venire a Roma, capitale del Paese che ha sempre sostenuto la Palestina. I miei saluti a tutti e un ringraziamento speciale a tutta la redazione di Radio Onda d’Urto. Ho tardato a rispondervi a causa di Internet, poiché i principali punti di comunicazione nella Striscia di Gaza sono stati bombardati e qui la connessione è pessima.     Stefano Bertoldi
Michael Hudson: la guerra all’Iran è una lotta per il controllo unipolare del mondo da parte degli Stati Uniti
L’economista Michael Hudson spiega come la guerra contro l’Iran miri a impedire ai paesi di liberarsi dal controllo unipolare degli Stati Uniti e dall’egemonia del dollaro, e a interrompere l’integrazione eurasiatica con Cina e Russia. Gli oppositori della guerra con … Leggi tutto L'articolo Michael Hudson: la guerra all’Iran è una lotta per il controllo unipolare del mondo da parte degli Stati Uniti sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Raggiunto il colmo dell’assurdo con il bombardamento dell’Iran da parte degli USA
I terribili disastri che il Presidente USA ha fatto in solo sei mesi nel mondo (Ucraina, Groenlandia, Panama, Palestina,  Canada, Messico,  ritiro degli USA  dall’OMS, rinnovato rigetto degli Accordi di Parigi, guerra disordinata  dei dazi commerciali mondiali) sono sconvolgenti. Lo stesso dicasi  dei disastri  in casa (deportazione di  immigrati,  imprigionamento degli  avversari politici, rigetto delle  sentenze di giudici non  conforme ai suoi interessi, corruzione, repressione delle manifestazioni  cittadine di massa  contro le sue politiche).  Ed ora, l’attacco contro l’Iran secondo il copione tragico della distruzione dell’Iraq e l’uccisione di Hussein, quello della Libia con l’uccisione di Gheddafi… per non parlare dell’Afghanistan, della Siria. Pochi giorni fa, il capo supremo degli Stati Uniti ha avuto l’indecenza di affermare in pubblico “ non abbiamo ancora deciso di ucciderlo, per il momento” (facendo riferimento al  capo supremo dell’Iran). Non ci sono parole per qualificare questa  dichiarazione criminale. Quel che  è più sconvolgente è che ciò possa accadere, a mia conoscenza,  senza alcuna dichiarazione di dissenso o di condanna da parte di altri leader politici  e autorità morali.  Qui sta  il senso della perversità assurda ma cosciente  dei dirigenti dominanti specie occidentali: essi giustificano pubblicamente,  cioè invocano la giustizia, per commettere l’ingiustizia della  violenza, del  fare la guerra ad un altro Stato, affermando che l’Iran non può né deve  possedere l’arma nucleare perché ciò costituirebbe un grave pericolo per la sicurezza  regionale e mondiale. L’invocazione viene proprio   dai leader di  Stati nucleari (gli USA e Israele lo sono) o dai loro alleati (per esempio, i membri della NATO), affermando cosi che la loro arma  nucleare non è affatto un pericolo… ed hanno quindi il diritto di possederla e di vietarla  agli altri Stati. Il leader  più violento e “fuorilegge”, oltre il primo ministro d’Israele,  è proprio il presidente USA che punisce l’Iran nel mentre gli USA si sono sempre opposti con forza  all’idea di un Trattato  internazionale ONU di Proibizione delle armi nucleari. Il Trattato  è stato approvato  ed  entrato in vigore come legge internazionale nel 2021 perché i Parlamenti di più di 60 Stati lo hanno ratificato. Gli USA  continuano a rigettarlo con disprezzo pur essendo il primo e unico paese che  ha usato la bomba atomica per massacrare gli abitanti  delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.  A 24 ore dai bombardamenti contro l’Iran, i leader europei  non hanno preso le distanze  dall’operato degli USA, mantenendo la  loro sottomissione al capo dell’Occidente e preferendo continuare a parlare del “pericolo iraniano”. E’ possibile immaginare che il resto del mondo sia capace a breve o medio termine  di mettere fine all’operato di Trump e di Netanyahu?  Sarebbe un buon punto di partenza se alcuni leader “occidentali” cominciassero a esprimere  pubblicamente il loro  dissenso  e la loro condanna della guerra contro l’Iran. C‘è limite a tutto , anche alla perversità degli Stati dominanti.   Riccardo Petrella
ATTACCO USA AI SITI NUCLEARI IN IRAN. ANALISI E COMMENTI SU RADIO ONDA D’URTO
Il mondo resta in attesa di capire cosa accadrà dopo che tra sabato 21 e domenica 22 giugno gli Stati Uniti sono entrati in guerra a fianco di Israele contro l’Iran bombardando i 3 sisi nucleari iraniani di Fordow, Isfahan e Natanz. Il presidente Usa Trump ha parlato di un “grande successo” degli attacchi che – dice – avrebbero annientato “tutti i siti nucleari”, notizia che però non trova conferme. Al contrario, il regime di Teheran, avvertito dagli Usa dei raid imminenti, prima degli attacchi avrebbe trasferito in località segrete le materie prime e i macchinari per mettere in sicurezza il programma nucleare. Il tycoon – smentendo ancora una volta se stesso, il suo staff e gli altri esponenti del suo governo – è anche tornato a fare riferimento all’opzione del cosiddetto “regime change” nonostante lui stesso avesse più volte affermato che questo non rientra negli obiettivi Usa: “Se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime?”, ha scritto provocatoriamente sul suo social network lanciando il surreale acronimo “MIGA, Make Iran Great Again”. Il Parlamento iraniano, intanto, discuterà un disegno di legge sulla sospensione della cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Non solo, dopo gli attacchi delle scorse ore l’Iran ha minacciato di “serie conseguenze” gli Stati Uniti, facendo riferimento a un “ampliamento” della guerra. Intanto oggi, lunedì 23 giugno, il ministro degli esteri iraniano Araghchi incontra il presidente russo Putin per chiedere maggiore sostegno alla Federazione russa. Un cambio di regime non può avvenire per decisione di “paesi terzi”, ha detto il portavoce del Cremlino Peskov. Allineato, su questo, il ministro degli esteri francese Barrot, mentre la Repubblica popolare cinese ha chiesto di nuovo che i lavori per una de-escalation. Le attenzioni degli stati, degli attori economici internazionali, ma anche di lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo, alle prese con il carovita e condizioni sempre più dure anche a causa di guerre e riarmo, si concentra anche sulle conseguenze economiche dell’ulteriore escalation in Medio oriente segnata dai raid Usa in Iran. Il prezzo del petrolio, infatti, è già salito di oltre il 4 per cento, quello del gas è aumentato di due punti percentuali. Se Teheran dovesse decidere di chiudere lo stretto di Hormuz, dal quale transita il 30% per cento del petrolio mondiale e un quinto del gas naturale liquefatto, le conseguenze sull’economia globale, in particolare sul costo dell’energia, sarebbero pesanti. La decisione finale sulla chiusura spetta al Consiglio supremo di sicurezza nazionale iraniano. A pagare il prezzo maggiore sarebbe l’Europa. In caso di chiusura di Hormuz, infatti, Bruxelles non avrebbe altra scelta che comprare tutto il petrolio e il gas di cui necessita dagli Stati Uniti, gli unici a guadagnarci, vista anche l’impossibilità di acquistare dalla Russia per via delle sanzioni relative alla guerra in Ucraina. Continuano intanto gli attacchi incrociati tra Israele e Iran. Nelle ultime ore si segnalano bombardamenti intorno alla capitale iraniana Teheran e sui siti nucleari iraniani. I caccia di Tel Aviv hanno colpito di nuovo anche la sede della tv pubblica, mentre l’Iran continua a lanciare batterie di missili balistici dirette verso lo stato israeliano. Nel sud di Israele è stata colpita un’importante infrastruttura elettrica e l’energia risulta interrotta. A partire dalla mattinata di lunedì 23 giugno 2025, la redazione di Radio Onda d’Urto raccoglie analisi e commenti sulla situazione: * Rafat Ahmad, giornalista iraniano. Ascolta o scarica. * Martino Mazzonis, giornalista, americanista e nostro collaboratore. Ascolta o scarica. * Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea e Storia della globalizzazione presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Ascolta o scarica. * Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme de Il Manifesto, direttore di Pagine Esteri e nostro collaboratore. Ascolta o scarica.
Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in Iran
Cronache e prime riflessioni mentre cadono le bombe su Teheran. L’IRRUZIONE DELLA GUERRA NEL CUORE DELLA NOTTE Erano le due del mattino. Una videochiamata con un’amica a Teheran si è trasformata all’improvviso nella visione in diretta di un incubo: la prima ondata dell’attacco israeliano contro l’Iran. Le case tremavano, il cielo era attraversato dai rumori dei missili e dei bombardamenti e le strade erano sommerse dal fumo, dalle urla e dall’abbandono. Lo Stato era assente: nessun rifugio, nessun piano, nemmeno un avvertimento. Ancora una volta, un popolo dimenticato veniva sacrificato sull’altare di un progetto geopolitico mortale. Per comprendere questa situazione, è necessario andare oltre la tradizionale cornice dello Stato-nazione e della politica di potenza. Ciò che accade oggi può essere interpretato come la continuazione di un “regime di guerra” nel cuore stesso del capitalismo globale – un regime che non si fonda solo sull’occupazione militare, ma sulla riproduzione della paura, sull’eliminazione dei soggetti politici e sull’organizzazione sistematica della morte. Come affermano Sandro Mezzadra e Michael Hardt, i regimi bellici contemporanei non si definiscono più tramite occupazioni tradizionali, ma attraverso un insieme composito di tecnologie del controllo, gestione dei confini, operazioni psicologiche e distruzione delle condizioni di vita civili. Il regime di guerra è oggi parte integrante dello Stato-capitale globalizzato: una rete multilivello di governi, eserciti, appaltatori della sicurezza e media che portano avanti la guerra come meccanismo di produzione di potere, legittimità e accumulazione. > In Iran, una struttura politico-economica già gravemente colpita da > inflazione, povertà, corruzione sistemica e repressione, si rivela ora del > tutto incapace di proteggere i propri cittadini di fronte agli attacchi > esterni. Da città come Teheran, Karaj, Esfahan, Shiraz e Mashhad arrivano testimonianze che confermano l’assenza anche delle infrastrutture minime di allerta o rifugio. Le persone vengono a conoscenza degli attacchi solo dal rumore delle esplosioni. Madri e padri che cercano di salvare le proprie figlie i propri figli a mani nude; ospedali che, pur non essendo obiettivi militari dichiarati, si ritrovano paralizzati da interruzioni elettriche, sovraffollamento e in alcuni casi colpiti direttamente. Testimoni oculari a Teheran raccontano che, dalla mezzanotte fino all’alba, raffiche e esplosioni hanno squarciato il silenzio, facendo tremare più volte gli edifici. La gente ha cercato rifugio per strada, non solo per paura degli attacchi, ma anche per timore del crollo delle proprie case. «Il silenzio dopo l’esplosione», dice un residente, «è più spaventoso dell’esplosione stessa». In un altro resoconto locale, una donna del quartiere Niru-ye Havaei racconta di aver passato tutta la notte sulle scale con i suoi figli, convinta che fosse più sicuro lì che dietro le pareti di vetro dell’appartamento. A Esfahan, un’infermiera riferisce che il pronto soccorso del suo ospedale è stato gestito al lume di candela, senza elettricità né ossigeno. A Mashhad, un ragazzo scrive che sua madre ha avuto una crisi di panico, confondendo il rumore dei droni in cielo con quelli usati per la repressione durante le proteste del 2022. > Questo regime, attraverso una distribuzione asimmetrica della violenza, prende > di mira le strutture della vita stessa: elettricità, acqua, ospedali, scuole e > media. La distruzione delle infrastrutture civili non è più un effetto collaterale, ma parte integrante della logica bellica. Non è una guerra contro lo Stato, ma contro la capacità stessa delle persone di vivere. In questo senso, la politica di guerra è una politica contro la vita. L’ILLUSIONE LIBERATRICE All’inizio, Donald Trump, con un linguaggio coloniale e sprezzante, dichiarò che «per preservare il grande impero persiano, è meglio che l’Iran accetti un accordo con noi» — come se la storia dell’Iran non fosse altro che un’appendice da piegare ai sogni imperiali americani. Poco dopo, ha avuto inizio l’attacco israeliano. In una dichiarazione teatrale, Netanyahu si è rivolto al popolo iraniano affermando: «Non siete voi il bersaglio dei nostri attacchi, ma il regime e alcuni individui specifici». Questa distinzione fittizia, tuttavia, non è segno di etica, bensì parte integrante di un discorso bellico delle potenze globali, in cui la linea tra popolo e governo viene deliberatamente cancellata per rendere la morte legittima. Allo stesso tempo, le immagini della famiglia Pahlavi nei loro incontri con esponenti israeliani rappresentano un altro tassello dello stesso progetto politico-mediatico, che trasforma la catastrofe in opportunità. > I monarchici, allineandosi con le politiche guerrafondaie, si presentano come > portavoce del popolo, come se quel popolo che ha affrontato i proiettili a > mani nude nella rivolta “Donna, Vita, Libertà” non fosse mai esistito. Questo sguardo dall’alto, strumentale e intriso di disprezzo, rappresenta le iraniane e gli iraniani non come soggetti politici, ma come pedine mute sulla scacchiera della geopolitica globale. Il giorno seguente, una nuova messinscena: «Bisogna preparare l’Iran alla rivoluzione». Poi: «L’obiettivo è il cambiamento di regime». E infine: «Abbiamo preparato l’Iran per proteste e sollevazioni popolari. Popolo, insorgi!» Ma questo “invito alla rivolta” proviene dalle stesse potenze che da anni costringono la popolazione iraniana a sopravvivere sotto il peso di sanzioni, minacce e una guerra che ha reso la vita stessa insostenibile. La rivolta a cui si fa appello non mira alla liberazione, bensì a una redistribuzione strategica della morte secondo la mappa degli interessi globali. Come possono insorgere coloro che, in quello stesso momento, hanno perso i propri cari sotto le macerie? Come potrebbero rivoltarsi quelle e quelli che sono fuggite dalle loro case e città solo per restare in vita? Nella logica del capitale e della guerra, le cittadine e i cittadini comuni non sono solo vittime, ma anche responsabili di pagare il prezzo dei missili che li colpiscono. In quest’ordine, la morte è uno strumento della politica e la distruzione diventa il linguaggio della legittimità. VIVERE COME RESISTENZA In questo regime, il confine tra “nemico militare” e “popolazione civile” viene deliberatamente cancellato. La frase minacciosa «quello che abbiamo fatto a Gaza, lo faremo anche in Iran» non è semplicemente una tattica: è l’espressione di una politica che merita di essere chiamata per nome — politica della morte, o necropolitica. In tale cornice, gli Stati non si limitano a decidere chi vive, ma pianificano la morte: attraverso l’assedio, l’interruzione dell’accesso alle risorse vitali e infine il bombardamento. Questa politica della morte è accompagnata da interventi psicologici e mediatici. Agenzie di stampa e analisti legati ai blocchi di potere giustificano la guerra con il linguaggio dell’“aiuto umanitario”. In queste narrazioni, i bombardamenti vengono rappresentati come un preludio alla libertà. Questo processo svuota la violenza del suo significatoe trasforma la morte in soluzione. In questa logica, anche la protesta diventa qualcosa di predefinito e controllabile. Le stesse potenze che hanno imposto sanzioni e insicurezza invitano ora il popolo iraniano alla rivolta – non per la libertà, ma per ricostruire un ordine più adatto ai loro interessi. Questa politica dell’insurrezione “guidata” è parte della macchina bellica stessa: una macchina che desidera la rivolta, ma ne pretende anche il controllo. La rivolta, così concepita, non è un atto di liberazione, ma una strategia per ribilanciare i poteri. Da questa prospettiva, ciò che diventa urgente è la ricostruzione di un orizzonte di resistenza, non basato sulla salvezza esterna o su interventi umanitari, ma fondato sulle azioni autonome del popolo, in solidarietà con altri soggetti espulsi dal sistema globale. > La vera resistenza non si costruisce in alleanza con poteri militari, ma nel > riappropriarsi del potere dentro la vita quotidiana. In questo contesto, narrazioni, memorie e testimonianze popolari diventano atti politici. Chi scrive sotto i bombardamenti, chi ascolta in silenzio il ronzio dei droni nella notte, chi stringe la propria bambina o il proprio bambino in un rifugio immaginario: tutte e tutti sono portatrici e portatori di una forma di resistenza. Una resistenza che non risiede nelle armi, ma nel sopravvivere, nel raccontare, nell’insistere a esistere contro ogni tentativo di cancellazione. In un mondo dove la morte è diventata uno strumento di legittimazione, forse l’unica forma di resistenza possibile è restare in vita come atto politico: resistere non per gli Stati, né per opposizioni che rappresentano l’altro volto dello stesso ordine, ma per la vita, per la giustizia, per la fine di una politica che trasforma l’essere umano in obiettivo militare. Ciò che accade oggi in Iran è parte di un quadro più ampio: l’ordine globale del capitalismo bellico. Un ordine che, sotto la maschera della democrazia e della sicurezza, rende le popolazioni obiettivi legittimi da colpire. In quest’ordine, la morte non è un errore, ma una necessità funzionale. Resistere a questa realtà è possibile solo se si trasformano le narrazioni, si ricostruiscono i confini etici e si riportano i soggetti popolari dal margine al centro dell’azione politica. Solo allora potremo tornare a parlare della vita come atto politico, e non più della morte. Immagine di copertina di Mohammadjavad Alikhani (wikimediacommons) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in Iran proviene da DINAMOpress.