In Francia è in vistoso aumento la delinquenza poliziesca. Il sito Basta!, che
ospita l’unica banca dati indipendente e affidabile oggi disponibile, indica che
«Dal 2005, più di 500 persone sono morte durante un’interazione con le forze
dell’ordine. Negli ultimi anni, il numero di questi omicidi ha raggiunto soglie
senza precedenti – fino a 65 morti nella sola annata 2024».
L’ONG Flagrant déni ne analizza le cause in un rapporto inedito uscito il 18
novembre, “Polizie delle polizie: perché bisogna cambiare tutto”, frutto di
un’indagine durata diversi anni. Massiccio aumento del numero di casi di
violenza da parte di persone che detengono l’autorità pubblica, delinquenza
poliziesca, crisi dell’IGPN (Inspection générale de la Police nationale, cioè
l’organo interno incaricato di controllare, investigare e sanzionare le
eventuali violazioni commesse dai funzionari della polizia nazionale francese,
la cosiddetta “police des polices”), mancanza di indipendenza e ruolo delle poco
conosciute “cellule di deontologia” a livello locale, ancora meno indipendenti.
Per Flagrant déni c’è un’istituzione poliziesca alla deriva.
«Per quanto riguarda l’IGPN, la constatazione è che si tratta di una macchina
per convalidare, giustificare e ripulire i poliziotti. A volte, nonostante
situazioni piuttosto evidenti, l’IGPN sarà lì per giustificare e sostenere i
poliziotti», ha detto Mohamed Jaite, presidente della sezione di Parigi del
Sindacato degli Avvocati di Francia.
Le constatazioni sono allarmanti e le loro conseguenze perverse. L’IGPN, così
ben nota al grande pubblico, in realtà tratta solo il 10% dei casi giudiziari,
lasciando che i servizi locali, come le “cellule deontologiche”, svolgano un
ruolo sempre più importante. Tuttavia, questi servizi offrono ancora meno
garanzie di indipendenza rispetto all’istituzione madre, già pesantemente
criticata. Si tratta di piccoli servizi dipartimentali (cioè presenti nei
singoli dipartimenti francesi) che dipendono direttamente dal direttore o dalla
direttrice della polizia locale. Il loro compito è trattare i casi considerati
“meno gravi” rispetto a quelli affidati all’IGPN, ma nella pratica gestiscono
anche: indagini per violenze con prognosi pesanti, incidenti mortali in
custodia, incidenti stradali mortali con coinvolgimento della polizia, o casi
senza “retentissement médiatique”, cioè senza forte impatto mediatico.
In realtà, le pratiche investigative seguono meno i principi giuridici derivanti
dal diritto internazionale e dai diritti fondamentali, quanto piuttosto le “lois
de la pénurie”. Ovvero, quando lo Stato funziona in scarsità cronica, la
scarsità stessa diventa una norma che produce inefficienze, ingiustizie e
perdita di capacità istituzionale. “Lois de la pénurie” è una formula adoperata
da media e ONG in Francia per spiegare il deterioramento di servizi come scuola,
sanità, giustizia o, appunto, le “police des polices”, incapaci di reggere
l’aumento dei casi che devono trattare. Nel contesto della polizia francese, ad
esempio, “lois de la pénurie” significa che la mancanza di mezzi non solo
impedisce di far bene le indagini, ma produce effetti prevedibili e sistemici,
come ritardi, inchieste incomplete, impunità di fatto. Il rapporto descrive
l’IGPN anche come «un’istituzione allo stremo», incapace di far fronte ai
fascicoli che le vengono affidati. «Mentre il numero di inchieste aumenta da
quasi dieci anni, gli organici dell’IGPN diminuiscono». Oggi l’ispettorato conta
260 agenti e nove delegazioni locali “sature”. Come tutta la polizia
giudiziaria, soffre di «gravi difficoltà di reclutamento». Nel reparto
inchieste, 36 posti su 135 non sono coperti.
Il risultato, segnala la ONG, è inequivocabile: un progressivo crollo della
capacità investigativa dell’apparato giudiziario. Le cifre sono dolorose: il
tasso di risoluzione dei casi di violenza da parte della polizia è diminuito del
25% tra il 2016 e il 2024 (dati inediti del Ministero della Giustizia).
«I nostri casi vengono archiviati “senza seguito”, ma per noi ci sono delle
conseguenze. Ci sono operazioni, traumi. Il risarcimento delle famiglie in lutto
passa necessariamente attraverso la giustizia, anche se non ci crediamo più
davvero”, dice anche Mélanie N’goye-Gaham, Collectif Mutilées pour l’exemple.
L’obiettivo di ogni indagine penale, ovvero individuare i responsabili, non è
più garantito nella metà dei casi di violenza da parte delle forze dell’ordine.
Il clamoroso caso di Sainte-Soline fornisce l’ennesimo esempio di questa realtà
statistica. Nonostante un’indagine durata due anni e mezzo, una documentazione
eccezionale (2000 video, 5000 foto, decine di testimonianze, perizie), la
giustizia non è stata in grado di identificare un solo poliziotto responsabile.
Nonostante la pressione esercitata dall’esposizione mediatica del caso, la
trascrizione delle prove video è stata troncata dal servizio investigativo. Il
caso è esploso in questi giorni grazie a un’inchiesta del quotidiano Libération
che ha portato alla luce prove video gravi che mostrano un uso illecito e
violento della forza da parte dei gendarmi a Sainte-Soline durante una protesta
contro un grande progetto di bacini (reservoir) d’irrigazione agricola — spesso
chiamati “méga-bassines”, con ordini gerarchici, modalità di tiro pericolose,
esultanza per le ferite provocate e una cultura istituzionale che sembra
legittimare un uso estremo della repressione.
Le immagini delle body-cam dei gendarmi mostrano che durante la manifestazione
del 25 marzo 2023 sono stati usati “tir tendus” di granate lacrimogene ed
esplosive, un metodo proibito. Secondo Libération, questi lanci di granate
pericolose, senza avvertimenti e in modo indiscriminato, sono l’esito di ordini
diretti o incoraggiamenti da parte di superiori della gendarmeria. I filmati
rivelano una “volontà di ferire o mutilare” da parte di alcuni gendarmi. Nei
video si sentono gendarmi usare un linguaggio incredibilmente violento e
deumanizzante verso i manifestanti (“chiens”, “fils de pute”…), e perfino
esultare per le ferite provocate: “Je compte plus les mecs qu’on a éborgnés”
(“non conto più quanti ne abbiamo resi ciechi”). I gendarmi mobilitati quel
giorno erano moltissimi (oltre 2.000 secondo l’articolo di Libération), e
avrebbero sparato più di 5.000 granate, una parte considerevole delle quali
erano “GM2L” — cioè granate con carica esplosiva, non solo lacrimogena. Anche un
relatore delle Nazioni Unite per i difensori dell’ambiente ha reagito
denunciando una strategia “deliberata” di gestione della protesta, con violenza
pianificata.
Nel dossier si legge che anche a Marsiglia, a Vaulx-en-Velin, a
Corbeil-Essonnes, le vittime e le famiglie delle vittime si confrontano ogni
giorno con questa impunità. Nel caso El Khalfaoui, i sigilli sono scomparsi
prima di riapparire miracolosamente pochi giorni dopo che il ministro della
Giustizia si è occupato del caso. Nel caso Zecler, tutti hanno potuto constatare
il carattere razzista dell’aggressione della polizia, tranne la giustizia. Nel
caso Bico, prove balistiche essenziali non sono state sequestrate. Non si tratta
di disfunzioni puntuali, ma di pratiche sistematiche e generalizzate.
È proprio questo che rende tali pratiche intollerabili: si ripetono e si
amplificano. Se le pratiche illegali della polizia persistono e si aggravano, è
anche perché la giustizia non svolge il suo lavoro di controllo. Da anni si
accumulano critiche e raccomandazioni sull’argomento, senza alcun effetto. «È
necessaria una forte volontà politica di fronte all’inerzia delle autorità
esecutive e giudiziarie. Chiediamo un’inchiesta parlamentare e il rispetto dello
Stato di diritto», spiega Lionel Perrin, coordinatore legale dell’ONG Flagrant
déni.
Eppure non c’è nulla di inevitabile. Le indagini rivelano che non mancano
proposte, provenienti sia da autorità esterne che da professionisti, così come
soluzioni collaudate all’estero. Ciò che manca è la volontà. Tuttavia, se il
potere giudiziario rimane passivo e l’esecutivo persiste nel rafforzare la sua
dottrina di intervento delle forze dell’ordine, allora la palla passa al
legislatore.
Per Flagrant déni c’è bisogno di un’indagine parlamentare approfondita per
rispondere alle domande che il rapporto lascia aperte: chi sono e cosa fanno
esattamente le “cellule deontologiche”? Perché le procure sono così poco inclini
a perseguire i poliziotti? Come garantire loro maggiore indipendenza? Come
tornare a un tasso di risoluzione dei casi accettabile in uno Stato di diritto?
«L’inchiesta lo dimostra – dice la ONG – anche tra le file della polizia ci sono
persone che testimoniano affinché le cose cambino.
Flagrant déni, nata a Lione, concentra la sua azione su tre assi principali. Il
primo è l’uso del diritto come strumento di contrasto all’opacità delle pratiche
di polizia. Attraverso una guida sul suo sito web fornisce articoli di analisi e
una rete di avvocate, avvocati e giuristi specializzati per rendere più
accessibili norme e procedure, mettendo in comune strategie, documentazione e
strumenti. Offre anche un supporto diretto alle vittime, che può consistere in
consulenze, aiuto nella redazione di atti o iniziative legali avviate
dall’organizzazione stessa.
Il secondo pilastro è l’inchiesta giornalistica, un lavoro di contro-indagine
sulle violenze e sugli abusi istituzionali, raccogliendo testimonianze,
analizzando dossier giudiziari e verificando informazioni che lo Stato spesso
mantiene sotto segreto. L’obiettivo è portare alla luce dati, prove e dinamiche
sistemiche che alimentano l’impunità delle forze dell’ordine e le carenze
strutturali del sistema giudiziario.
Il terzo ambito è il sostegno diretto alle vittime. L’ONG le accompagna in un
percorso giudiziario spesso lungo e difficile, facilitando i contatti con
avvocatə, collettivi e media, aiutando nelle pratiche legali e offrendo un
sostegno continuo. L’idea è permettere alle persone colpite di riappropriarsi
della difesa dei propri diritti attraverso un accompagnamento fatto “con” loro e
non solo “per” loro.
L’organizzazione vive grazie a un piccolo gruppo di dipendenti e volontari,
formalmente costituita come associazione, con statuto di media riconosciuto,
conta oggi due giornalistз part-time, una montatrice–regista responsabile della
produzione video e della direzione artistica, e una grafica che collabora quando
necessario. A queste figure si aggiungono giornalistз freelance a progetto.
Tuttavia, una parte fondamentale del lavoro — gestione del sito, social media,
primo supporto alle vittime — si basa sull’impegno volontario, che permette
all’ONG di mantenere attive le sue inchieste e le sue forme di intervento
pubblico.
Flagrant déni cita vari modelli europei più trasparenti, dalla Norvegia dove lo
Spesialenheten riceve direttamente le denunce, al Belgio in cui il Comité P
pubblica dati dettagliati e offre un modulo online. In Lussemburgo è possibile
denunciare online all’Ispettorato generale mentre in Gran Bretagna l’IOPC cita
persino i nomi degli agenti coinvolti e permette ricerche per unità. Non viene
citata l’Italia dove non solo non esiste nemmeno una parvenza di “polizia delle
polizie” ma il governo di destra ha in cantiere una legge per assicurare uno
scudo penale ancora più efficace a eventuali delinquenti in divisa.
In sintesi, l’ONG propone di garantire la trasparenza pubblicando ogni anno un
rapporto dettagliato sulle indagini penali che coinvolgono poliziotti e
gendarmi; di sganciare gli organi investigativi da ogni tutela del Ministero
dell’Interno per evitare un conflitto strutturale di interessi e dreare un corpo
di officiers de police judiciaire (OPJ) che non appartengano né alla polizia né
alla gendarmeria; di smettere così di affidare le indagini ai colleghi degli
agenti coinvolti (come in Italia è accaduto ad esempio nel caso Aldrovandi) e
minimizzare il rischio di corporativismo, parzialità e autocensura; di
permettere una sorta di pre-denuncia online per ridurre paura, pressioni e
rischi di ritorsione, le vittime spesso rinunciano a denunciare perché devono
farlo direttamente in commissariato, davanti a persone appartenenti allo stesso
corpo dell’agente accusato.
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