Il processo ungherese di MajaNei giorni 4 e il 6 giugno si sono tenute due importanti udienze per Maja,
antifascista detenuta in carcere in Ungheria da oltre un anno in stato di
isolamento.
PERCHÉ NECESSARIO
Maja ha richiesto i domiciliari e il 5 giugno ha iniziato uno sciopero della
fame a oltranza denunciando le sue condizioni insostenibili. 23 ore al giorno in
cella in isolamento, ora d’aria con manette ai polsi e alle caviglie,
impossibilità di studiare, di incontrare e avere contatti con i propri cari, un
livello igienico generale basso, cimici, cibo avariato, una condizione di
“tortura bianca” che ci fa pensare alle condizioni del 41 bis.
Maja è stata estradata illegalmente, altre persone stanno affrontando lo stesso
processo in Germania.
Il processo di Maja è lo stesso in cui sono coinvolti molti antifascisti in
tutta Europa, molti in carcere oggi in Germania, Gino per cui solo
provvisoriamente possiamo tirare un sospiro di sollievo e Ilaria Salis su cui
pende una richiesta di revoca di immunità.
BREVE AGGIORNAMENTO SUL PROCESSO
In questi giorni abbiamo assistito a due udienze molto lunghe e con la stessa
identica liturgia già vista nelle udienze dello scorso anno per Ilaria Salis.
Conduce, suona, canta, fa il il pm, l’accusa, manda i video, un’unica persona:
il giudice (sempre lui). Che a fine processo dà anche una botta di scopa e
rassetta l’aula.
In queste udienze ci sono stati molti testimoni, NESSUNO ha riconosciuto Maja.
Sono stati proiettati molti video, in NESSUNO di questi si vede MAI Maja. Allo
stato dei fatti non esistono prove, l’unico motivo per cui Maja è in prigione
oggi si basa su supposizioni e la richiesta, a oggi, è di 24 anni di carcere. Un
processo del genere in qualunque Paese europeo non avrebbe motivo di andare
avanti, un tipo di accusa, ricordo, che anche qualora gli imputati risultassero
colpevoli non prevede carcere, a meno che tu non sia in Ungheria e a meno che tu
non sia Antifascista.
DA SEGNALARE tre testimoni polacchi, vittime di un pestaggio. Moglie, marito e
amico, i tre si dichiarano “passanti”, che erano a Budapest in vacanza, quindi
non partecipanti al giorno dell’Onore. Si dà il caso che basta googlare i loro
nomi per trovarli facilmente in più di una foto in cui tengono insieme la
bandiera blu di Ruch Narodowy, movimento di estrema destra polacco. Anche loro,
comunque, non riconoscono Maja.
Eppure Maja resta in carcere.
LA DITTATURA DELLE MINORANZE
No, non è Vannacci.
Il clima in cui si svolge il processo ormai viene dato per scontato, ma anche
stavolta abbiamo avuto una conferma. Da una parte i nazisti con uno striscione,
posizionati proprio davanti l’entrata del tribunale in circa sei persone, dotati
di telecamere e pronti ad aggredire e a riprendere chiunque facesse il tragitto
per entrare. Gli oltre 100 antifascisti invece confinati su due marciapiedi a
distanza. Così tutte quelle e tutti quelli che dovevano entrare facevano una
passerella in cui venivano fotografate/i, riprese/i, insultate/i, aggredite/i
verbalmente, cercando una qualsiasi reazione. Talvolta alcuni di quelli dotati
di telecamera si staccavano e cercavano di riprendere le facce di chi era nel
presidio antifa, cercando di infilare la telecamera e lanciando insulti o
provocazioni: «c’è qualche antifa coraggioso che vuole essere intervistato?».
Ovviamente è vietato reagire, perché la polizia è a tutela loro e non osa
mettersi in mezzo, a meno che qualcuno non gli risponde e sappiamo già che il
rischio è quello che sta vivendo Maja.
Una dimostrazione plastica di come in sei si può avere tanto potere da non
essere necessario altro, di come alla fine anche lì non è che ci siano le masse
popolari a sostenere ‘sta roba e di come si sta in un Paese del genere, che si
prende cura di te come una minoranza da tutelare, se sei nazista.
MA CHI È MAJA?
Mi sono reso conto in questo anno, da quando abbiamo cominciato a seguire
insieme a Michele Zerocalcare e ad altre/i antifasciste/i la vicenda degli
antifa a Budapest, che questa storia non gode di grande simpatia. Più che
simpatia potremmo dire empatia, forse perché è complicato immedesimarsi in
questi ragazzi e ragazze o forse perché ha vinto la narrazione che li
disumanizza. Anche tra le nostre fila si spreca chi pensa che andare a Budapest
a picchiare i nazisti sia una cosa “scema” (la semplifico al massimo) e non si
capisce bene perché dei pischelli si debbano organizzare per una tale impresa.
Manca dalla narrazione un dato fondamentale, che ogni anno, così come c’è il
giorno dell’onore, c’è anche chi organizza una contro-manifestazione. Chi lo fa
viene perseguitato letteralmente, sia dal governo, che dai fascisti e dalla
polizia. In questo contesto avvengono questi fatti ed è sempre molto facile
giudicarli e analizzarli dal comodo del proprio divano (o della propria
assemblea) e forse è anche giusto farlo ma solo dopo che tutte/i sono state/i
riportate/i a casa.
Fatta questa premessa, chi è Maja?
In questi giorni a Budapest c’è stata una grande presenza solidale, oltre 100
antifa hanno riempito l’aula di tribunale e fatto un presidio durante tutta la
durata delle udienze (dalle 7 alle 13) e abbiamo avuto modo di conoscerle/i.
UNA STORIA DI COMUNITÀ
Parlando con i compagni e le compagne e chiedendo come mai fossero lì e cosa
pensavano di questo processo abbiamo scoperto che molte/i erano amiche/ci di
Maja, che ci andavano a scuola insieme. Avevano fatto le elementari e le medie
oppure il liceo con Maja, c’erano i loro genitori e la loro comunità della
cittadina da cui tutte/i provenivano, Jena, una città di circa 100mila abitanti,
nota (a me no) per un’importante storia di università di filosofia.
Non c’era quindi una strana composizione di antagoniste/i insurrezionaliste/i
come dicono in Ungheria, di terroristi che chissà come si erano organizzati.
C’era una comunità di una cittadina, di amiche, di amici, di genitori, che
avevano visto crescere Maja a scuola, al liceo, in città, come una delle tante
ragazze e dei tanti ragazzi che giravano, facevano cose e, nel suo caso, si
interessava e faceva plitica. Il suo “caso” (che è brutto chiamare così, perché
Maja è una persona, non un caso) aveva certamente scosso quella comunità e
aperto un dibattito, molti dei genitori provenivano dai movimenti pacifisti e
questa narrazione sulla “violenza” di sicuro li metteva anche in difficoltà. Ma,
come si dice a Roma, «i figli so’ figli de tutti» e la comunità aveva risposto.
Così, questa storia è già tutta un’altra storia.
Poi a Budapest c’erano realtà politiche, collettivi e anche parlamentari come
Carola Rakete, il padre e il fratello di Maja.
In aula non è possibile fare cori o contestazioni di alcun genere, tantomeno
parlare, così le e i solidali hanno trovato il modo di portare una forma di
contestazione silenziosa, cambiandosi le magliette e riproducendo i colori
arcobaleno sugli spalti dell’aula di tribunale, in un Paese che sta vietando il
Pride. Un modo creativo ma anche radicale di fare politica laddove tutto ciò non
è affatto scontato. Ma anche un modo di allargare il caso di Maja a un tema che
sta coinvolgendo l’Europa in un Paese che non ha i minimi requisiti per stare
nella comunità europea.
DUE COSE VELOCI SULL’UNGHERIA DI ORBÁN
In questi giorni abbiamo avuto modo di parlare e confrontarci anche con alcuni
giornaliste/i ungheresi di sinistra riguardo alla situazione più generale del
Paese, che spesso subisce una narrazione “occidentale” e stereotipata.
L’incontro è avvenuto in un posto che sembrava a tutti gli effetti un centro
sociale in un distretto storicamente di sinistra di Budapest. Già questo per me
era una grande novità, non pensavo esistesse un centro sociale (anche se non è
occupato e non si chiama così) e non sapevo ci fosse ancora qualcosa di sinistra
in quella città e in quel Paese.
C’è, ma è in grande difficoltà e ha pochissimi margini di movimento. Di fatto la
destra ha convinto l’opinione pubblica che le persone di sinistra e i politici
di sinistra sono dei pedofili (sì, pensavo fosse un errore di traduzione invece
è proprio così) con una campagna mediatica e social potentissima che ha ripetuto
cose surreali ma che sono entrate nell’immaginario. La parola antifascista è
sinonimo di terrorista. Sappiamo che lo strascico dello stalinismo in questi
Paesi e la reazione a esso è servita ad alimentare una visione distorta rispetto
a tutto ciò che richiama al comunismo e sappiamo che quindi parlare nei termini
in cui siamo abituate/i a pensare in Italia non ha senso. Ma oggi Orbán ha
creato una condizione da cui sarà veramente complicato tornare indietro e se le
destre di tutta Europa guardano a l’Ungheria come modello forse sarebbe bene
approfondire la questione.
> Oggi Orbán potrebbe non tornare al potere alle prossime elezioni ma chi si
> candida a sostituirlo proviene comunque dalla destra e non ha certo una
> visione diversa di società.
Ma lascio valutazioni più approfondite a chi ne sa di più, ciò che mi
interessava segnalare e che per la prima volta abbiamo avuto sentore
dell’esistenza di qualcosa di sinistra, delle sue sfaccettature e divisioni,
delle sue difficoltà e di come questo processo viene visto, di come noi veniamo
viste/i quando andiamo lì e credo che di tutto ciò bisogna tener conto se non si
vuole avere un atteggiamento che è il contrario dell’internazionalismo.
IL DISCORSO DI MAJA
Immaginate di stare in isolamento da oltre un anno. Immaginate di poter vedere
le vostre amiche e i vostri amici solo alle udienze, da dietro delle guardie in
passamontagna senza poterle/i abbracciare o poterci scambiare una parola.
Immaginate di assistere a un processo farsa che ha già deciso come andrà a
finire. Immaginate cioè che la vostra vita scivoli dentro un baratro e che ogni
cosa punta a piegarvi, a farvi chiedere pietà.
In quell’aula scura, in quel palazzo semivuoto dove l’unico rumore che si sente
nei corridoi è quello di catene che si trascinano, di fronte a un giudice che
sembra non avere un’anima, un minimo cenno di umanità, in un processo che viene
svolto in una lingua che non capisci, legato come “Hannibal the cannibal”. In
questo contesto Maja entra con un sorriso, poi si alza e va di fronte questo
giudice con i capelli sciolti, senza paura, e gli dice in faccia quello che
pensa di lui, quello che pensa di questo processo, quello che pensa della vita e
conclude con «Sono antifascista perché necessario. Questa è la cosa più
importante da dire». Finito si gira e guarda le sue amiche e i suoi amici che si
alzano e urlano «FREE MAJA, FREE FREE MAJA». Il giudice resta basito e
sconcertato, con lo stesso tono asettico dice che non si possono fare queste
cose in aula e poi prosegue, come se niente fosse. Ma di questo giudice la
storia non avrà mai bisogno, di persone come Maja ne abbiamo bisogno sempre di
più. Io ne ho bisogno anche solo per alzarmi la mattina e mettere un piede
dietro l’altro.
di Mattia Tombolini
COSA SI PUÒ FARE
Cosa si può fare per Maja e per le altre persone coinvolte in questo processo?
La verità è che si può (e si deve) fare tutto. Non possiamo aspettarci niente
dal tribunale di Budapest, non possiamo aspettarcelo dalla politica che sembra
in imbarazzo a dire che i nazisti sono un problema per la democrazia (e quindi
gli dispiace se qualcuno li picchia).
Quello che si può fare è essere solidali, aumentare questa solidarietà in
maniera esponenziale e immaginare tutte le forme possibili di lotta e di
conflitto, perché se c’è una cosa che la storia ci ha insegnato è che la libertà
non cade mai dal cielo.
Maja è in sciopero della fame perché non può fare altro in quella condizione, a
noi sta inventarci il modo di darle supporto, perché potrà sembrare retorico ma
questa storia ci riguarda in prima persona. Oggi che l’Italia ha appena
approvato il DL Sicurezza potremmo vedere un moltiplicarsi di provvedimenti
verso persone che manifestano e dovremmo inventare modi di resistere e tirarle
fuori. Immaginare un metodo, una forma di organizzazione, di supporto legale e
far sì che lo slogan «si parte e si torna insieme» non sia solo retorica.
L’immagine di copertine è di Mattia Tombolini
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