L’invasione dei robot domestici è ancora lontana
Immagine in evidenza: “Sprung a Leak” di Cécile Evans, Haus der Kunst di Monaco,
da Wikimedia
Che i robot sarebbero definitivamente entrati nelle nostre case è diventato
chiaro nel 2008. Quell’anno la società iRobot – fondata nel 1990 da tre
ricercatori in robotica del MIT di Boston: Rodney Brooks, Colin Angle e Helen
Greiner – annunciò infatti che il robot aspirapolvere Roomba aveva raggiunto i
2,5 milioni di esemplari venduti nel mondo.
Sul finire del primo decennio del nuovo millennio, si assistette insomma a un
cambiamento epocale: milioni di abitazioni domestiche, al tempo soprattutto
negli Stati Uniti, iniziarono a essere popolate da robot in grado di muoversi in
autonomia per le nostre case, imparando a navigarle con efficacia sempre
maggiore ed entrando per certi versi a far parte dei nuclei familiari.
Non è un modo di dire: “Numerosi studi hanno dimostrato che gli umani sono
disposti a provare emozioni nei confronti di tutto ciò che si muove”, racconta
sul New Yorker Patricia Marx, scrittrice e docente a Princeton. “Di conseguenza,
non mi dovrei sorprendere di essere accorsa a liberare il mio Roomba quando si è
incastrato sotto il divano. E di essermi sentita in colpa quando le sue ruote si
sono incastrate a causa di un filo che aveva raccolto”.
In poche parole, attraverso il Roomba e simili robot domestici almeno una parte
di esseri umani ha iniziato a provare una sensazione inedita: l’affezione (e
l’apprensione) nei confronti di esseri artificiali. Com’è possibile? “Conosco
molte storie a riguardo”, mi aveva spiegato nel corso di un’intervista proprio
Colin Angle. “Le persone acquistano un robot per le pulizie, lo portano a casa e
lo accendono. E lo osservano mentre si muove per casa, in autonomia, lavorando
per loro. È la stessa natura umana, il modo in cui il nostro cervello è
configurato, che ci spinge a considerare ciò che si muove per conto proprio come
se fosse vivo. E infatti la stragrande maggioranza delle persone che hanno una
macchina di questo tipo finisce per dargli un nome. Potrebbe anche essere una
nuova definizione di robot: una macchina a cui sentiamo di dover dare un nome
perché lo percepiamo vivo”.
I dati confermano che, effettivamente, la maggior parte dei proprietari di
Roomba (o degli altri robot da casa che si sono nel frattempo diffusi) fornisce
loro un nome proprio, come se fosse un animale domestico. Di compagni
artificiali, d’altra parte, è ormai pieno il mondo: nel solo 2023 sono stati
venduti circa 23 milioni di robot per la casa, portando le vendite cumulative
poco al di sotto dei 100 milioni complessivi.
Gli ultimi anni non sono però stati dei più facili per i robot. Nonostante il
successo del Roomba e la crescita dei concorrenti (Roborock, Ecovacs o Dreame,
tutti di fabbricazione cinese), non si è assistito a quella moltiplicazione di
robot specializzati che si pensava si sarebbero presi cura di ogni aspetto
domestico. Al contrario, l’unico altro aiutante robotico che si è parzialmente
diffuso è il parente più prossimo del Roomba (anche dal punto di vista del
design): il robot tagliaerba.
A oltre vent’anni dall’introduzione del Roomba (avvenuta nel 2002) e mentre
iRobot, l’azienda simbolo della rivoluzione robotica, è alle prese con parecchie
difficoltà finanziarie (causate dall’aumento della concorrenza, dalla mancata
acquisizione da parte di Amazon e soprattutto dallo scarso successo degli altri
modelli), sembra insomma che l’evoluzione dei collaboratori domestici
artificiali si sia fermata.
Ancora oggi, i robot aspirapolvere rappresentano oltre il 70% del mercato,
mentre molti altri prodotti sono andati incontro al fallimento: i robot
tagliaerba, come detto, sono il secondo segmento più diffuso, ma con volumi di
vendita molto inferiori. Altri dispositivi – come i robot da cucina, quelli
piega-bucato (FoldiMate, Laundroid) o gli assistenti umanoidi – sono stati
abbandonati prima del lancio o sono rimasti prototipi a causa dello scarso
interesse commerciale. Laundroid, per esempio, ha chiuso nel 2020 dopo anni di
hype e investimenti, mentre FoldiMate è stato ritirato prima della
commercializzazione. I robot da cucina multifunzione, come il Thermomix, pur
essendo molto diffusi, non sono considerabili robot in senso stretto: mancano
infatti di mobilità e autonomia.
Ed è probabilmente anche alla luce dei tanti fallimenti che, negli ultimi anni,
hanno iniziato a farsi largo numerose nuove startup, che stanno ripensando il
settore da zero, approfittando dei progressi nel campo della robotica e
dell’intelligenza artificiale. E quindi, qual è il futuro dei robot domestici?
Prima di tutto, bisogna dare una definizione di “robot domestici”. Secondo la
società di ricerca Global Market Insights, un robot domestico è uno strumento
che, “utilizzando l’intelligenza artificiale, percepisce e interagisce con
l’ambiente circostante, eseguendo dei compiti autonomamente e adattandosi alle
preferenze dell’utente”. Questa definizione ci dice però poco di un aspetto
cruciale: il robot in questione è tuttofare o specialistico? È un robot in grado
di compiere molteplici mansioni o è addestrato per eseguire un solo compito ben
definito (pulire i pavimenti o tagliare l’erba)?
Fino a questo momento, come detto, il panorama commerciale è stato dominato da
quest’ultimo tipo di robot, che però – segnala sempre Global Market Insights –
“manca della versatilità necessaria ad affrontare un’ampia gamma di faccende
domestiche. Inoltre, questi robot possono avere difficoltà con compiti complessi
che richiedono destrezza e capacità di giudizio simili a quelle umane, come
piegare il bucato o preparare i pasti”.
Se non bastasse, pochi di noi possono permettersi (anche per ragioni di spazio)
di ospitare un robot aspirapolvere, uno che pulisce i pavimenti, uno che cucina,
uno che piega i vestiti, ecc. Ed è anche per questo che, come ha spiegato al
Boston Globe Fady Saad (fondatore di Cybernetix Ventures), “abbiamo visto
tantissimi fallimenti nella robotica di consumo e molti dei tentativi di iRobot
di creare ulteriori prodotti rispetto al Roomba non hanno avuto successo”.
LA STRADA IN SALITA DEL ROBOT TUTTOFARE
Allo stesso tempo, l’idea di creare un robot domestico multitasking, in grado
quindi di svolgere molteplici mansioni, è incredibilmente complessa: raccogliere
la polvere richiede caratteristiche totalmente diverse rispetto a piegare i
vestiti o caricare la lavastoviglie. E se bastasse modificarli e riadattarli per
permettere loro di portare a termine un numero maggiore di mansioni? “I robot
specializzati sono percepiti come dispositivi limitati e adatti a un solo
compito”, ha spiegato alla BBC Yoshiaki Shiokawa, ricercatore dell’università di
Bath. “Penso che ci siano forti indicazioni che questi robot siano invece
sotto-utilizzati”.
Per dimostrare la sua tesi, Shiokawa e alcuni suoi colleghi dell’Advanced
Interaction and Sensing Lab hanno riadattato un normale Roomba in modo che fosse
in grado di annaffiare le piante, caricare il cellulare (e seguire il suo
padrone affinché l’avesse sempre a portata di mano), trasportare la spesa dalla
macchina alla cucina e anche… giocare con il gatto (anche se è più probabile che
sia stato il gatto a compiere questa scelta).
Per quanto si sia trattato soltanto di una sperimentazione, lo studio eseguito
all’università di Bath indica una possibile strada da seguire, che non implica
necessariamente la trasformazione dei robot, ma semmai un ampliamento delle
funzionalità praticabili con minime modifiche a livello di design e
caratteristiche.
Eppure, mano a mano che la ricerca sulla robotica va nella direzione di un
assistente domestico tuttofare, sembra quasi inevitabile – a giudicare dai vari
prototipi emersi negli ultimi anni – che questo prenda una forma umanoide,
dotata di gambe, braccia e anche torso e testa.
“Le aziende stanno scommettendo sulla capacità dei robot di fronteggiare una
serie più ampia di compiti imitando il modo in cui le persone camminano, si
piegano, raggiungono gli oggetti, li afferrano e più generalmente portano a
termine le loro mansioni”, si legge sul New York Times. “Poiché le case, gli
uffici e i magazzini sono già stati costruiti per gli esseri umani, gli umanoidi
sarebbero meglio equipaggiati per navigare il mondo rispetto a ogni altro
robot”.
Gli esempi non mancano: Optimus di Tesla, H1 e G1 della cinese Unitree o il
chiacchieratissimo Neo di X1 (azienda norvegese). Se giudicassimo dai video
aziendali caricati su YouTube e su TikTok – che mostrano questi robot umanoidi
muoversi agilmente per casa, stirare, afferrare una bibita dal frigorifero e
portarla al proprietario, portare fuori il cane e addirittura eseguire balli
coreografati – penseremmo che il futuro dei robot domestici sia già diventato
realtà. Le cose, in realtà, sono molto diverse.
A dimostrarlo è stato un video pubblicato dall’influencer cinese Zhang Genyuan,
che dopo aver noleggiato un G1 di Unitree al prezzo di 1.400 dollari al giorno
ha mostrato come questo robot combinasse un sacco di danni nel tentativo di
dargli una mano in cucina, rompendo le uova e rovesciando ovunque il latte.
Forse anche in seguito a questa pubblica umiliazione, Unitree Robotics ha
annunciato che, per il momento, non lancerà sul mercato robot umanoidi,
segnalando inoltre l’ostacolo – ancora da superare – delle stringenti misure di
sicurezza necessarie. “Non è facile prevedere quanto tempo ancora ci vorrà, ma
penso che non avverrà prima di altri due o tre anni”, ha spiegato ai giornalisti
il cofondatore di Unitree, Wang Xinjing, lo scorso aprile.
E poi c’è il flop di Optimus, il robot di Tesla che – stando alle solite
irrealizzabili promesse di Elon Musk – avrebbe già dovuto essere in produzione,
arrivando alla consegna di 5mila esemplari entro il 2025. In realtà, Optimus è
lontanissimo dalla fase di produzione e non è nemmeno chiaro se mai lo sarà:
nell’aprile 2025 sono stati pubblicati dei video in cui si vede Optimus
camminare in linea retta (qualcosa che era già stato fatto dal robot Wabot-1 nel
1972), ma al momento non si sa nulla di più dei destini commerciali del robot
Tesla.
Il punto, come segnala Wired, è che “nonostante gli incredibili progressi degli
ultimi anni, nessuno ha ancora capito come rendere questi robot realmente abili
o intelligenti”. I robot di oggi possono essere autonomi soltanto se svolgono un
compito semplice e ben circoscritto; mentre se si occupano di faccende più
complesse – come quelli utilizzati e ormai molto diffusi nelle fabbriche e nei
magazzini – devono essere attentamente programmati ed eseguire movimenti
definiti con la massima precisione, senza alcuna autonomia.
LA SCOMMESSA FINANZIARIA
Malgrado questa situazione di stallo, gli analisti si aspettano che il mercato
dei robot domestici cresca del 20% annuo da qui al 2032, passando dai 10
miliardi di dollari del 2023 ai 53 miliardi previsti per i primi anni del
prossimo decennio. Com’è possibile, considerando la situazione di stallo in cui
questo settore attualmente si trova? Come spesso capita nel mondo
dell’innovazione tecnologica, l’obiettivo è riversare nella robotica domestica
un tale fiume di denaro da permettere di superare tutti gli ostacoli attualmente
presenti, dando vita a una sorta di profezia che si autoavvera (grazie alla
potenza finanziaria degli investitori).
Secondo PitchBook, dal 2015 a oggi gli investitori hanno finanziato oltre 50
startup che si occupano di robot umanoidi con 7,2 miliardi di dollari. Solo lo
scorso anno gli investimenti hanno superato 1,6 miliardi, senza includere i
soldi che Elon Musk ha sicuramente investito nel già citato Optimus. “Temo che
si sia giunti al picco dell’hype”, ha spiegato, parlando con la MIT Tech Review,
Leila Takayama, vicepresidente della società di robotica RobustAI. “È in corso
una battaglia tra tutte le Big Tech, che devono ostentare e mostrare ciò che
sono in grado di fare, promettendo di poter presto fare ancora di meglio”.
ROBOT UMANOIDI: IL JOLLY DELL’INTEGRAZIONE COI MODELLI LINGUISTICI
Ed è proprio per (provare a) soddisfare le aspettative degli investitori che
tantissime startup stanno insistendo sulla strada dei robot umanoidi, nonostante
le evidenti difficoltà, i fallimenti e le cautele mostrate anche dai colossi del
settore (come la già citata Unitree). Una di queste è Shenzhen Dobot, che
dovrebbe commercializzare il suo robot Dobot Atom entro la fine dell’anno al
prezzo di circa 30mila euro. E che cosa si ottiene per un prezzo del genere? Nel
video di presentazione – in cui è molto probabile che Atom fosse manovrato da
remoto, come avviene quasi sempre nei materiali promozionali – lo si vede
preparare goffamente la colazione, portare un pacco in ufficio e poco altro. Un
po’ poco per una cifra del genere, no?
La realtà è che le tantissime startup che stanno lavorando ai robot assistenti
umanoidi – tra le altre: FigureAI (valutata 2,6 miliardi di dollari), Cobot (460
milioni), 1X (210 milioni), Sanctuary AI (229 milioni), Plus One (170 milioni) –
sono ancora lontanissime dalla commercializzazione a prezzi accessibili di un
robot realmente tuttofare.
Per lo meno, sembrano però avere le idee chiare su quale sia la strada da
seguire per raggiungere questa nuova “next big thing” del mondo tecnologico:
l’integrazione dei robot con i large language model, che dovrebbero aiutare i
robot a comprendere i comandi espressi in linguaggio naturale (input) e poi
elaborarli al fine di trasformarli in un’azione concreta (output).
Un esempio di come tutto ciò potrebbe funzionare proviene da Gemini Robotics: i
modelli d’intelligenza artificiale sviluppati da Google per il mondo della
robotica, basati su Gemini (il large language model di Google) e definiti come
“modelli avanzati visione-linguaggio-azione”. Come si legge su Spectrum, “Gemini
Robotics può ricevere tutti gli input e restituire istruzioni per azioni fisiche
da parte di un robot”. In un video dimostrativo, un ingegnere spiega al robot
usato nel laboratorio di “prendere il pallone da basket e schiacciarlo a
canestro” (minuto 2:27 nel video qui sotto). Dopo aver ricevuto il comando, il
braccio robotico afferra una palla da basket in miniatura e la deposita nel
mini-canestro.
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Come spiega la voce narrante nel video, “è un compito per il quale il robot non
è mai stato addestrato”, così come gli oggetti che manovra “non erano mai stati
visti prima, ma sfruttando la comprensione di concetti come ‘basket’ o
‘schiacciata’ di Gemini il computer ha comunque compreso il compito”.
“Questo esempio del basket è uno dei miei preferiti: il robot è stato in grado
di collegare questi concetti per portare a termine il compito nel mondo fisico”,
ha dichiarato Kanishka Rao, responsabile ingegneristico del progetto, durante
una conferenza stampa. L’idea, in sintesi, è che il robot attraverso gli LLM in
essi integrati comprenda i comandi e sia in grado di portarli a termine,
mettendoli in collegamento con la miriade di azioni diverse che –sfruttando il
classico addestramento per tentativi ed errori – ha nel frattempo imparato a
eseguire. Questa forma di “embodied intelligence” (intelligenza incorporata o
incarnata) potrebbe essere la più promettente per lo sviluppo di robot capaci di
assisterci in svariati compiti (come i large language model già fanno in ambito
testuale).
Gli ostacoli, però, non sono solo tecnici (pensate per esempio a quanto sia
difficile per un robot capire che pressione esercitare quando afferra un uovo o
avere la destrezza necessaria ad attaccare il guinzaglio al collare di un cane,
compiti banali per noi umani), ma anche teorici. Come hanno spiegato i
programmatori di Physical Intelligence (altra startup di robotica), “non esiste
un archivio di azioni eseguibili dai robot simile ai dati relativi a testi e
immagini disponibili per addestrare gli LLM. In ogni caso, ottenere i progressi
necessari nel campo della ‘intelligenza fisica’ potrebbe richiedere una mole di
dati esponenzialmente superiore”.
“Le parole in sequenza, da un punto di vista dimensionale, sono un giocattolino
rispetto al movimento e all’attività degli oggetti nel mondo fisico”, ha
affermato Illah Nourbakhsh, esperto di robotica della Carnegie Mellon
University. “I gradi di libertà che abbiamo nel mondo fisico sono di gran lunga
superiori alle semplici lettere dell’alfabeto”.
Una possibile soluzione è quella di far vedere ai robot migliaia (milioni?) di
ore di video presenti su YouTube, che dovrebbero consentire loro anche di capire
quale tipo di forza esercitare a seconda delle mansioni richieste e degli
oggetti coinvolti. Un’altra possibile soluzione è di far compiere ogni tipo di
azione domestica a degli esseri umani monitorati nei loro movimenti tramite
sensori (trasformandoli così in dati analizzabili dalla macchina) oppure di
permettere ai robot di esercitarsi liberamente, commettendo tutti gli errori
necessari, in ambienti virtuali (in maniera simile a come alcune startup
addestrano le auto autonome).
È proprio seguendo quest’ultimo metodo che si è svolto l’addestramento di Neo
della norvegese 1X. Addestramento però non ancora sufficiente, visto che in una
delle sue più recenti dimostrazioni – durante la quale ha caricato una
lavastoviglie, raccolto i vestiti da una lavatrice e pulito la superficie della
cucina – era comunque manovrato da remoto.
La strada, insomma, è ancora lunghissima e costellata di ostacoli, sotto forma
di costi, sicurezza, privacy ed effettive abilità ancora molto ridotte. E tutto
ciò senza nemmeno prendere in considerazione l’ostacolo forse più importante di
tutti: se anche diventeranno effettivamente capaci, vorremo davvero avere un
robot di forma umanoide, tuttofare e intelligente in casa nostra?
PERCHÉ ROBOT ANTROPOMORFI?
Giunti a questo punto, bisogna anche rispondere a un’ultima, cruciale, domanda:
ma perché questi robot devono essere antropomorfi? Come detto, molti pensano che
questo sia il modo migliore per permettere loro di navigare ambienti pensati
dagli umani per gli umani. Ma non è tutto: “Attraverso questo tipo di design
umanoide, stiamo vendendo una storia sui robot, come se in qualche modo fossero
equivalenti a noi o a ciò che siamo in grado di fare”, ha spiegato alla MIT Tech
Review il docente in Robotica Guy Hoffman. In altre parole, se costruisci un
robot che assomiglia a un essere umano, le persone daranno per scontato che sia
capace quanto un essere umano.
Questo, però, potrebbe anche rivelarsi un boomerang: se la forma umana dei robot
ci fa pensare ad abilità pari o vicine alle nostre, allora potremmo essere
gravemente delusi dai loro movimenti lenti, goffi e scattosi.
Forse questo è un primo ambito di design sul quale si può intervenire, e non
soltanto per questioni ricollegabili alla Uncanny Valley (ovvero la sensazione
di stupore e inquietudine che ci creano esseri artificiali che ricordano da
vicino gli umani). Se anche il robot deve muoversi per casa e afferrare oggetti,
ciò non significa che debba necessariamente avere delle gambe, possedere un
torso o una testa. Potrebbe più semplicemente essere una sorta di “bidone” che
si muove su ruote, dotato di due (o tre? Perché non sei?) braccia e che è in
grado di inserire gli oggetti che afferra in un apposito scompartimento
(semplificando anche il compito, difficilissimo per i robot, di mantenere
l’equilibrio dopo aver preso in braccio qualcosa di pesante).
“Il movimento bipede è il meno efficiente dal punto di vista energetico ed è la
soluzione più dispendiosa: delle strutture cingolate o a ruote possono ottenere
la stessa mobilità”, ha confermato Chen Guishun della startup cinese Innovance.
D’altra parte, nemmeno gli antenati dell’essere umano si muovevano su due gambe,
ci siamo evoluti così nel corso del tempo e ci ricordiamo del prezzo da pagare
al cambiamento della nostra postura ogni volta che soffriamo di mal di schiena.
Perché dovremmo riprodurre nei robot una delle nostre caratteristiche meno
efficaci?
Probabilmente, la scelta è ricaduta sui robot umanoidi per una serie di ragioni
che hanno poco a che fare con la praticità e funzionalità. La prima è culturale:
da oltre un secolo, la fantascienza – da Metropolis di Fritz Lang fino ad Asimov
e Terminator – ci ha abituati all’idea che un robot debba avere sembianze umane.
Questa immaginazione collettiva ha plasmato non solo le aspettative del
pubblico, ma anche le aspirazioni degli ingegneri, influenzando la direzione
della ricerca.
La seconda ragione è comunicativa. Un robot umanoide, anche solo parzialmente
simile a noi, attira immediatamente l’attenzione mediatica e degli investitori.
In poche parole, genera hype: qualità fondamentale in un settore che sta ancora
muovendo i primi passi. Non è un caso se aziende come Tesla, 1X o Unitree hanno
puntato tutto sulla componente visiva: un robot che cammina su due gambe e
afferra una tazza col braccio richiama molto più interesse di un sistema
efficiente, ma anonimo, su ruote.
“I robot umanoidi sono però la soluzione sbagliata per la maggior parte dei
compiti e la biomimesi non è la risposta giusta”, ha scritto su Medium Brad
Porter, fondatore di Collaborative Robotics. “Le ruote sono la risposta migliore
in ogni ambiente commerciale, mentre la stabilità passiva – avere cioè almeno
tre punti di contatto con il suolo, meglio se quattro – è di estremo valore.
Conservare il carico all’interno del cono di stabilità invece che trasportarlo
tra le braccia è anch’essa una soluzione migliore”.
In poche parole, tra C1-P8 e D3-BO è molto più funzionale e utile il primo.
D’altra parte, chiunque abbia visto la trilogia originale di Star Wars non ne ha
mai avuto il minimo dubbio.
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