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Proteste negli Stati Uniti chiedono la fine di retate e deportazioni di immigrati
Migliaia di persone sono scese in piazza in oltre 1.600 località degli Stati Uniti per chiedere la fine delle retate di immigrati, delle deportazioni senza un giusto processo e dell’uso delle forze federali contro le comunità più vulnerabili. Le proteste, indette con lo slogan “Good Trouble Lives On”, hanno anche reso omaggio all’eredità del leader dei diritti civili John Lewis. Mercoledì 17 luglio si sono svolte in tutti gli Stati Uniti oltre 1.600 manifestazioni di protesta contro le politiche migratorie dell’attuale amministrazione. Con lo slogan “Good Trouble Lives On”, le manifestazioni sono state organizzate in omaggio all’eredità del deputato e attivista per i diritti civili John Lewis, a cinque anni dalla sua morte. Le proteste sono state promosse da un’ampia coalizione di organizzazioni civili, religiose e per i diritti umani. Insieme, hanno denunciato l’aumento delle retate nei quartieri latini e asiatici, l’uso di forze militari e di polizia per l’applicazione della legge sull’immigrazione, le deportazioni senza un giusto processo, i tagli al sistema sanitario pubblico Medicaid e il crescente uso di forze militari e di polizia per l’applicazione della legge sull’immigrazione. Concentrazioni in città chiave Tra le città con la maggiore partecipazione si segnalano Chicago, Atlanta, Oakland, St. Louis, Annapolis e Tempe (Phoenix). In quest’ultima decine di persone hanno bloccato a tratti l’autostrada US-60, portando cartelli con messaggi come “#EndICE” e “Immigrants Make Us Great”. Ad Atlanta, centinaia di persone hanno marciato dalla storica chiesa Big Bethel AME alla Ebenezer Baptist Church, simbolo del movimento per i diritti civili. Le attività sono state pacifiche e di natura civica. Hanno incluso veglie a lume di candela, esibizioni musicali, registrazione degli elettori e interventi pubblici. A Chicago, i partecipanti hanno tenuto una veglia interreligiosa con letture di testimonianze di migranti detenuti. In altre città, leader religiosi, operatori sociali e medici hanno alzato la voce contro quella che hanno descritto come una “militarizzazione della politica di immigrazione”. I manifestanti hanno chiesto l’immediata sospensione delle retate a sfondo razziale, la fine delle deportazioni senza revisione giudiziaria e il ripristino dei programmi sociali di base, come Medicaid, che sono stati tagliati per motivi di bilancio. Hanno inoltre denunciato l’uso della Guardia Nazionale e del Corpo dei Marines nell’applicazione delle leggi sull’immigrazione, definendolo un segno di crescente autoritarismo. L’eredità di John Lewis Lo slogan della giornata, “Good Trouble Lives On”, fa riferimento alla famosa frase di John Lewis: “La buona lotta continua”. Gli organizzatori hanno invocato la sua memoria come simbolo di lotta pacifica e disobbedienza civile di fronte a leggi ingiuste. Per molti partecipanti, le attuali politiche di immigrazione non rappresentano solo un passo indietro dal punto di vista legale, ma anche un attacco alla dignità umana e al tessuto sociale del Paese. Informazioni tratte da The Guardian e Az Family Questo materiale è condiviso con il permesso di Prensa Comunitaria. Desinformémonos
No Kings Day: 11 milioni di persone manifestano contro Trump in tutti gli Stati Uniti
Nonostante la pioggia, la mobilitazione lanciata dal Movimento 50501 (50 proteste, 50 Stati, un movimento) sabato 14 giugno, nel giorno del compleanno di Donald Trump e di una parata militare a Washington,  costata 45 milioni di dollari, per celebrare il 250° anniversario della nascita dell’esercito americano ha avuto pieno successo, con proteste pacifiche in tutto il Paese contro le politiche migratorie del presidente e in difesa della democrazia. Le manifestazioni si sono svolte senza problemi, salvo qualche eccezione. Ad Atlanta la polizia ha lanciato lacrimogeni contro un gruppo di manifestanti che si stava dirigendo verso un’autostrada e a Los Angeles le forze dell’ordine hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni contro la folla. Uno degli organizzatori del Movimento 50501 è stato colpito da un proiettile di gomma mentre distribuiva mascherine. A Denver la polizia ha bloccato una strada e lanciato proiettili al peperoncino e lacrimogeni contro i manifestanti pacifici. “Oggi abbiamo fatto la storia” si legge nel sito del Movimento. “Il 14 giugno 2025, più di 11 milioni di persone in oltre 2.000 città e paesi degli Stati Uniti si sono sollevate in un unico giorno di protesta pacifica per dichiarare: l’America non ha un re. Abbiamo la Costituzione e continueremo a difenderla. Si tratta della più grande protesta contro Donald Trump nella storia degli Stati Uniti e di una delle più grandi azioni di protesta coordinate mai registrate sul suolo americano. Ci siamo mobilitati dappertutto – Stati repubblicani, Stati democratici, centri urbani, città rurali, riserve, coste e campagne. In tutta la nostra diversità, attraverso ogni generazione, gli americani hanno inviato un messaggio più forte di qualsiasi pubblicità politica, opinionista o donatore miliardario: Non ci faremo governare. Abbiamo visto questa amministrazione sguinzagliare l’ICE come una forza di polizia segreta, sequestrando i nostri vicini senza un giusto processo. Abbiamo visto giornalisti presi di mira, manifestanti pacifici colpiti da lacrimogeni e intere comunità minacciate per zittirle. Ma oggi abbiamo rotto il silenzio. Oggi abbiamo ricordato al mondo chi detiene il vero potere in questa democrazia: noi. Questo è un punto di svolta. Questa è la linea che tracciamo. Questo è il momento che la storia ricorderà – quando milioni di persone si sono unite per dire NO a Trump, Vance, Vought, Theil e a tutti i loro corrotti compari. Condanniamo il fascismo che è qui ora in America e i fascisti che hanno pervertito la nostra Costituzione, smantellato i nostri controlli ed equilibri e stanno terrorizzando il nostro popolo”. Nei social media del Movimento 50501 si possono vedere video delle varie manifestazioni: https://bsky.app/profile/50501movement.bsky.social https://www.facebook.com/50states50protests https://www.instagram.com/50501movement       Redazione Italia
Los Angeles, coprifuoco, 4.700 militari e proteste contro le politiche migratorie di Trump
A cinque giorni dall’inizio delle proteste contro le politiche migratorie, la situazione a Los Angeles sembra infiammarsi ogni ora che passa. Ieri, martedì 10 giugno, la sindaca Karen Bass ha introdotto il coprifuoco nel centro cittadino, dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha inviato ulteriori 2 mila membri della Guardia Nazionale nella città californiana, insieme a 700 marines, portando così a 4.700 il numero di militari che ora presidiano la città – teoricamente, col solo compito di proteggere gli uffici governativi, non di svolgere azioni di polizia. Questi dovrebbero contribuire a sedare le rivolte esplose nella seconda città più popolosa degli Stati Uniti contro le politiche migratorie dell’esecutivo, che hanno portato all’arresto di centinaia di persone teoricamente presenti irregolarmente sul territorio statunitense – tra queste, molti bambini, anziani e donne incinte. D’altronde, la promessa di deportare centinaia di migranti era una parte centrale della campagna elettorale di Trump. La politica muscolare del presidente, che non sta risparmiando nessun ambito – dalla repressione all’interno degli atenei all’atteggiamento in materia di politica estera, passando per le politiche economiche e la soppressione dei diritti civili – trova qui una dimostrazione plastica di cosa il potere possa arrivare a fare contro i suoi stessi cittadini per dimostrare la propria forza. «Generazioni di eroi dell’esercito non hanno versato il loro sangue su coste lontane solo per vedere il nostro Paese distrutto dalle invasioni e dalla mancanza di leggi del Terzo Mondo qui in casa, come sta succedendo in California» scrive senza mezzi termini il presidente degli Stati Uniti sul proprio social media Truth. In questo contesto, la Guardia Nazionale e i marines, afferma Trump, hanno il compito di «liberare» la città dalla violenza dei manifestanti, nonostante la sindaca Bass e il governatore dello Stato David Newsom (chiamato da Trump Newscum nei suoi post su X, ovvero letteralmente “nuovo schifo”) abbiano più volte ribadito che le forze di polizia fossero più che sufficienti per placare la rivolta. Nel criticare la mossa del presidente, Bass ha ricordato che, invece di perseguire spacciatori e criminali violenti, Trump se la sta prendendo con «famiglie e bambini». Le proteste dei cittadini sono iniziate lo scorso venerdì 6 giugno, dopo che sei agenti dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) avevano arrestato oltre 40 persone per presunta violazione delle leggi sull’immigrazione, per poi fermarne oltre un centinaio nelle ore successive. I cittadini, di fronte a quello che ritengono l’ennesimo abuso da parte dell’amministrazione del presidente, hanno deciso di ribellarsi, dando vita a vere e proprie scene di guerriglia urbana, con lanci di pietre verso i poliziotti, barricate di fortuna e sabotaggi. L’intero centro città è stato sgomberato e ogni assembramento dichiarato illegale, mentre i manifestanti hanno bloccato arterie stradali cruciali come l’autostrata 101 e Figueroa Street. Decine sono le persone arrestate, mentre alcuni agenti sono stati feriti e, insieme ad essi, anche alcuni giornalisti, raggiunti da proiettili di gomma sparati direttamente dalle forze dell’ordine. Gavin Newsom, governatore della California, ha detto che l’ordine di Trump di schierare 2 mila membri della Guardia Nazionale nelle strade dello Stato è stato dato «senza consultare i responsabili delle forze dell’ordine della California», «illegalmente e senza motivo». «Questo sfacciato abuso di potere da parte di un presidente in carica ha innescato una situazione esplosiva, mettendo a rischio il nostro popolo, i nostri ufficiali e la Guardia Nazionale». E mette in guardia: «La California potrebbe non essere l’ultimo Stato» nel quale Trump manderà ordini simili, dal momento che «quando Donald Trump ha chiesto l’autorizzazione generale per comandare la Guardia Nazionale, ha fatto in modo che quell’ordine si applicasse a tutti gli Stati del Paese». Nella serata del 10 giugno, a partire dalle ore 20, Bass ha istituito un coprifuoco nel centro di Los Angeles, per «fermare i malintenzionati che stanno approfittando della caotica escalation voluta dal presidente», consigliando a chi non sia residente di «evitare la zona». Nonostante ciò, molti sono stati gli arresti di massa causati dalle diverse violazioni del coprifuoco. Intanto, i governatori degli Stati a guida democratica hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale affermano che «La decisione del presidente Trump di schierare la Guardia Nazionale della California è un allarmante abuso di potere» che interferisce con il legittimo lavoro dei governatori. Nel frattempo, la protesta ha esondato i confini californiani e si prepara a dilagare in altri Stati. Per tale motivo, in Stati come il Texas (a guida repubblicana) il governatore si sta preparando a schierare la Guardia Nazionale per le strade dello Stato, dopo che lunedì 9 giugno sono stati registrati scontri tra cittadini e forze dell’ordine nella città di Austin. Abbott ha anche dichiarato che firmerà una legge per permettere alle forze dell’ordine di «utilizzare tutti gli strumenti disponibili per combattere i criminali senza essere presi di mira da procuratori disonesti». Intanto, manifestazioni sono già state registrate nelle città di New York, Chicago e Atlanta. L'Indipendente
Los Angeles, in migliaia contro le politiche migratorie di Trump. Centinaia di arresti
È stato un fine settimana di durissimi scontri a Los Angeles, con i cittadini scesi in strada per protestare contro le politiche antimigratorie del presidente Donald Trump. Venerdì sera gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) – l’agenzia federale che si occupa di frontiere e immigrazione – hanno arrestato più di 40 persone per presunte violazioni delle leggi sull’immigrazione, per poi fermarne oltre un centinaio nelle ore successive. L’ultima di una lunga serie di operazioni diventate la normalità sotto l’amministrazione Trump, cui i cittadini di Los Angeles hanno deciso di ribellarsi dando vita a scene di guerriglia urbana, tra lanci di pietre verso i poliziotti, barricate di fortuna e sabotaggi. Trump ha firmato un ordine esecutivo per inviare 2mila agenti della Guardia Nazionale, mentre il segretario alla Difesa Peter Hegseth ha fatto sapere che sono pronti a intervenire anche i marines. Decine i manifestanti arrestati fino ad ora dalla polizia. Gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine sono stati violenti. Centinaia di persone sono scese in strada per protestare contro le misure sull’immigrazione. Manifestazioni spontanee si sono moltiplicate in vari quartieri della città. In Downtown, l’intero centro è stato sgomberato e ogni assembramento dichiarato illegale, mentre i manifestanti hanno bloccato arterie strategiche come la Highway 101 e Figueroa Street. Alcuni hanno lanciato bottiglie e altri oggetti contro gli agenti. La polizia e la Guardia Nazionale hanno risposto con gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma sparati ad altezza degli occhi e delle gambe. Almeno 56 persone sono state arrestate, con accuse che vanno dal lancio di molotov contro gli agenti all’utilizzo di motociclette per speronare i cordoni di polizia. Tre agenti e alcuni giornalisti sono rimasti feriti. Il fotografo inglese Nick Stern ha raccontato al Guardian: «Alcuni manifestanti sono venuti ad aiutarmi, mi hanno portato in braccio e ho notato che mi colava sangue lungo la gamba». La giornalista australiana Lauren Tomasi è stata colpita da un proiettile di gomma mentre stava documentando le cariche della polizia. L’invio della Guardia Nazionale, verificatosi senza il consenso del governatore, rappresenta la prima applicazione unilaterale di questa misura in California dal 1965. Quest’azione ha scatenato una crisi politica e istituzionale, con il governatore della California Gavin Newsom e la sindaca della città Karen Bass che hanno apertamente contestato l’intervento federale. Newsom ha annunciato l’intenzione di ricorrere per vie legali contro quella che ha definito «una violazione della sovranità dello Stato della California»: «Questi sono gli atti di un dittatore, non di un presidente», ha dichiarato. Anche la sindaca Bass ha chiesto formalmente a Trump di revocare l’intervento militare e ha invitato i manifestanti a mantenere la calma: «Non date a Trump ciò che vuole – ha scritto – restate calmi, restate pacifici. Non cadete nella trappola. Non usate mai la violenza e non fate del male alle forze dell’ordine». Bass ha inoltre sottolineato che «quando si fanno irruzioni nei supermercati e nei luoghi di lavoro, quando si dividono genitori e figli e quando si fanno circolare blindati per le nostre strade, si crea paura e panico», definendo lo schieramento della Guardia Nazionale «una escalation pericolosa». Sul fronte legale, il Titolo 10 del Codice delle Forze Armate richiederebbe che l’impiego della Guardia Nazionale avvenga su richiesta del governatore. La Casa Bianca, però, ha giustificato l’intervento parlando di «ribellione» in corso. Le proteste sono scoppiate dopo una serie di raid dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), in particolare nel distretto di Paramount, dove sono stati arrestati molti migranti. Gli agenti federali hanno fatto irruzione in abitazioni e luoghi di lavoro, provocando paura e panico tra la popolazione. L’area è a forte presenza latinoamericana: nelle proteste in corso a Los Angeles contro i raid dell’ICE spiccano infatti tra la folla numerose bandiere messicane. Il New York Times le ha definite «un simbolo» delle manifestazioni. Molti dei partecipanti sono cittadini statunitensi di origine messicana — 26,6 milioni secondo il Pew Research Center — che rivendicano con orgoglio le proprie radici. Nel frattempo, il Pentagono ha messo in stato di massima allerta anche i Marines di Camp Pendleton. Il capo della Difesa Pete Hegseth ha avvertito che, in caso di ulteriore violenza, saranno mobilitati. Trump, dal canto suo, ha rincarato la dose su Truth Social, definendo i manifestanti «istigatori e facinorosi spesso prezzolati» e invocando l’arresto immediato di chi protesta con il volto coperto. Ha accusato Newsom e Bass di essere incompetenti e di averlo costretto ad agire per ristabilire l’ordine. «Rendiamo di nuovo grande l’America!», ha scritto il presidente, alimentando ulteriormente lo scontro.   L'Indipendente
La distopia rovesciata delle politiche migratorie
Con Semuren (Castelvecchi, 2024), Francesco Vietti ribalta il baricentro delle migrazioni globali. Nel romanzo l’Italia è dilaniata da una guerra civile e devastata dalla crisi climatica; la Cina diventa l’approdo di imponenti flussi migratori. È un’opera narrativa intensa, sorretta da una trama che si snoda con ritmo e tensione crescente, e al tempo stesso uno strumento di riflessione sulle politiche migratorie contemporanee e sul funzionamento materiale e simbolico dei confini. Al centro della storia ci sono due personaggi: Francesco, un italiano in fuga, e Shen Fu, un giornalista cinese incaricato di documentare il collasso dell’Europa. Le loro traiettorie, inizialmente distanti e asimmetriche, si incrociano in un finale sorprendente che restituisce densità umana e ambivalenza politica all’intera narrazione. > Elemento cardine dell’opera è la frontiera, colta nella sua duplice > dimensione: da un lato, le politiche di contenimento sempre più sofisticate e > repressive; dall’altro, i molteplici tentativi di attraversamento che > testimoniano una persistente capacità d’azione. Vietti esaspera – senza mai renderle inverosimili – le tecnologie e le pratiche già in campo nel nostro presente, ottenendo un effetto straniante e perturbante: ciò che oggi appare come tendenza diventa, nel suo futuro, struttura dominante. Il paesaggio che ne risulta non è però segnato solo da muri, sorveglianza e guardie di confine. Semuren è anche racconto di possibilità. La capacità di agire – individuale e collettiva – si manifesta in forme impreviste, nonostante un contesto politico radicalmente ostile. Il quadro geopolitico immaginato da Vietti riflette e rilancia alcune delle trasformazioni in corso: l’erosione dell’egemonia statunitense, l’emergere di nuovi attori globali – in primis la Cina – e un salto di scala nelle dinamiche autoritarie. I confini che Semuren mette in scena sono radicalmente aggressivi, ma non insormontabili. Resta sempre un certo grado di porosità. Questa ambivalenza attraversa anche uno dei luoghi centrali nel romanzo: la città murata di Kowloon in Cina, immenso ghetto abitato da migranti. Vietti la descrive con attenzione minuziosa, restituendo un ambiente caotico e verticale, soffocante e denso di vita. In questo spazio informale si condensano disperazione, relazioni inedite, audaci economie sotterranee. Come per i confini, anche qui l’oppressione non è assoluta: emergono pratiche di convivenza, forme di socialità, controcondotte. La città murata è specchio della complessa dialettica tra esclusione e inclusione, mai definitiva. > Opera inquieta e coinvolgente, Semuren ci mostra un futuro che è in dialogo > serrato con il nostro presente. Alcuni degli scenari immaginati – come i > centri per migranti in Albania – si sono concretizzati mentre il libro era > ancora in lavorazione. Non si tratta di un mero esercizio di distopia, ma di > una proiezione plausibile delle attuali linee di tendenza. Anche nella sua conclusione, il romanzo non concede illusioni facili. Il governo della mobilità è uno dei dispositivi portanti attraverso cui prende forma il mondo e il suo volto è feroce. E tuttavia, Semuren non è un’opera rassegnata: nella trama e nella costruzione dell’universo narrativo, Vietti lascia spazio all’imprevisto e all’azione. Le politiche di radicale esclusione accelerano, ma la possibilità di contestarle resta aperta. Ed è in questo margine, fragile ma ostinato, che che c’è spazio per immaginare un esito radicalmente differente. Immagine di copertina di CEphoto, Uwe Aranas, wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La distopia rovesciata delle politiche migratorie proviene da DINAMOpress.
La politica globale della deportazione
A metà marzo, cinque migranti venezuelani sono stati caricati su un volo governativo statunitense diretto a El Salvador. Sono stati trasferiti coattivamente al CECOT, la megacarcerazione di massa voluta da Nayib Bukele, dove migliaia di persone sono detenute in condizioni di totale isolamento. Il volo è partito nonostante un ordine preciso, firmato dal giudice federale James Boasberg, che ne vietava la deportazione. Secondo Boasberg, si è trattato di «un deliberato disprezzo della legge», sufficiente a giustificare un procedimento per oltraggio alla corte contro alcunə funzionarə dell’amministrazione Trump. Il riferimento normativo è l’Alien Enemies Act, una legge del 1798 concepita per espellere stranierə “nemicə” in tempo di guerra, oggi riesumata come strumento per aggirare le garanzie giuridiche fondamentali. In aperta violazione del giusto processo, oltre 130 venezuelanə sono statə trasferitə in segreto in una struttura detentiva extraterritoriale, all’interno di un piano annunciato che prevede la deportazione massiva di milioni di persone, la militarizzazione delle frontiere e la sistematica rimozione dei vincoli legali. > Più in generale, le immagini dellə migrantə incatenatə, diffuse a partire dal > giorno dell’insediamento di Trump, sono un segnale preciso: non si tratta solo > di una produzione scenica, ma di una pedagogia della paura rivolta a l’insieme > della popolazione migrante. Da questa prospettiva, la deportazione è una > categoria indispensabile per comprendere l’architettura del nuovo regime > reazionario globale. Due coordinate ci aiutano a leggere questa tendenza: la dimensione genealogica e il riconoscimento della discontinuità attuale. Da un lato, la deportazione è tutt’altro che una novità. Costituisce da tempo un’infrastruttura fondamentale del governo della mobilità: una pratica ordinaria, sistemica, che si regge su filiere amministrative complesse, sull’uso politico della burocrazia e sulla precarizzazione strutturale degli status giuridici. Dall’altro lato, siamo di fronte a un salto di qualità. Le nuove strategie si distinguono per inventiva repressiva, uso spregiudicato del diritto e impiego massiccio di vecchie e nuove tecnologie. Si moltiplicano, a più livelli, gli accordi per la deportazione verso Paesi terzi che non coincidono con quelli di origine: il caso USA-El Salvador si affianca al progetto UK-Rwanda – mai implementato ma fondamentale nel tracciare una nuova rotta –, alla proposta europea sui returns hubs, all’accordo Italia-Albania. Quest’ultimo, in particolare, rivela una torsione nuova: il tentativo italiano di mantenere giurisdizione legale su persone dislocate altrove, fondando un regime legale extraterritoriale ma ancora formalmente “nazionale”. Tuttavia, non siamo di fronte a un blocco monolitico guidato da una sola corrente ideologica. L’estrema destra globale non è l’unico attore di questa partita. Le politiche della deportazione si radicano e si sviluppano anche all’interno delle cosiddette forze riformiste e liberali, che spesso inseguono, legittimano o addirittura inaugurano dispositivi simili. È un sistema policentrico, in cui la rincorsa securitaria diventa principio ordinatore trasversale. Peraltro, è una processualità sedimentata ben prima dell’ascesa dell’attuale governance reazionaria. > Nonostante la sua rilevanza globale, la deportazione non è l’unico strumento > del governo della mobilità, né sempre il più efficace. È certamente il più > spettacolare, il più mediatizzato. Ma lavora insieme ad altri dispositivi, > spesso più invisibili, come le politiche di esternalizzazione delle frontiere, > che agiscono prima ancora che la persona possa entrare nello spazio giuridico > europeo o nordamericano. Queste politiche bloccano il movimento dellə migrantə sul nascere, nei Paesi di transito o in quelli di origine, grazie a una rete di accordi economici, logistici e militari che affidano il controllo delle frontiere a Stati terzi, in cambio di risorse, legittimità o appoggio geopolitico. La deportazione produce effetti materiali radicali: rimozione violenta, separazioni familiari, traumi. Ma è anche uno strumento simbolico: parla anche a chi resta, costruisce l’orizzonte della deportabilità. Non si deporta chiunque: si deportano soggetti precari. La deportabilità, in questo ciclo globale, non è solo il prodotto specifico della condizione di irregolarità: agisce in uno spettro più ampio. Negli Stati Uniti, ad esempio, sempre più persone sono allontanate pur avendo status regolari o ibridi. In Albania sono stati trasferiti coattivamente anche i richiedenti asilo. È utile, allora, pensare alla deportazione come a una processualità complessa: una pratica distribuita lungo una sequenza azioni e agita da una pluralità di attorə – funzionarə, amministratorə, forze dell’ordine, compagnie aeree, agenzie private – che operano all’interno delle istituzioni democratiche. La deportazione non è un incidente di percorso: è uno degli strumenti con cui le politiche migratorie hanno assunto la forma attuale. > Non si tratta, dunque, di una finestra o una parentesi, ma di una politica di > lungo corso, attraversata da accelerazioni, crisi, torsioni autoritarie. Non > siamo, ora, davanti alla sua configurazione finale. Al contrario, le forme > della deportazione sono in piena e inquieta evoluzione. Se è vero che la deportazione e la deportabilità segnano profondamente la soggettività migrante, è molto utile provare a non assolutizzarle. I movimenti dellə migrantə non sono mai completamente bloccati, neanche in questa fase, e le condotte non sono mai del tutto governabili. Le traiettorie migranti restano mobili, complesse, inquiete. C’è sempre uno scarto, un corpo a corpo non risolto una volta per tutte. È in quello spazio che si giocano, oggi, le possibilità di un’altra politica della mobilità. Immagine di copertina di Herzi Pinki, wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La politica globale della deportazione proviene da DINAMOpress.