La casa è un diritto, non un prodotto finanziario: intervista a Jaime Palomera
«Bisogna aumentare le tasse affinché l’accumulazione di alloggi diventi
insostenibile»
Gemma García
L’8 aprile, mentre il governo catalano raggiungeva un accordo con ERC, Comuns e
CUP per regolare gli affitti brevi, Jaime Palomera presentava El segrest de
l’habitatge – Il sequestro della casa (Pòrtic, 2025). Il libro non si limita a
tracciare le cause che hanno portato a una società di inquilinə sempre più
poverə e chi vive di rendita degli affitti sempre più ricchi, ma propone anche
una via d’uscita.
Ricercatore e cofondatore dell’Istituto di Ricerca Urbana di Barcellona (IDRA),
Palomera sottolinea che, di fronte all’attuale panorama, perfino il padre del
liberalismo economico, Adam Smith, si rivolterebbe nella tomba. Parliamo con lui
delle cause che hanno trasformato l’abitazione in un prodotto finanziario e
delle proposte per renderla un vero diritto.
Cosa ha permesso la costruzione di un quadro culturale che normalizza il
business dell’abitare?
La società dei proprietari si basava inizialmente sull’idea che tutti potessero
avere una proprietà. Si attribuisce a Franco la frase: «Un proprietario in più,
un comunista in meno», perché si immaginava questa società anche come forma di
controllo sociale, per rendere le persone meno ribelli. Ma non ha funzionato
fino in fondo: molti proprietari hanno organizzato il più grande movimento
operaio d’Europa negli anni ’70. La dittatura non diceva solo che saresti
diventato proprietario, ma che ti saresti arricchito: «Assicurati una
plusvalenza per il futuro». Si promosse una cultura della proprietà e
dell’arricchimento col suolo. Molte famiglie operaie divennero proprietarie di
alloggi popolari. Ma il modello aveva un problema intrinseco: se tutti
possiedono un bene il cui prezzo sale sempre, arriverà il momento in cui chi non
ha nulla non potrà più accedervi.
Cosa rappresentava la casa di proprietà per la classe lavoratrice?
Ancora oggi, la maggior parte della società è proprietaria perché ereditiamo
quel modello iniziato negli anni ’50. Per la gente lavoratrice, la casa è spesso
l’unica fonte di ricchezza per generazioni. A Ciutat Meridiana, il quartiere più
povero di Barcellona, un vicino mi raccontò che, dopo aver vissuto in baracche,
il padre comprò un piccolo appartamento. Entrando, disse: «Ora, figli miei, se
volete fare i bisogni in mezzo al soggiorno, potete farlo, perché non verrà
nessun signorotto a dirmi nulla». Venivano da un cortijo [una fattoria, ndt] del
sud della Spagna e avere una proprietà era sinonimo di libertà. La proprietà può
anche generare disuguaglianza, ma per chi non ha mai avuto nulla, è la sola
fonte di ricchezza. Il punto è che oggi la situazione è come una partita a
Monopoly: chi ha case ne compra altre, chi non ne ha paga affitti e non può
risparmiare per acquistare.
Foto di Victor Serri
La disuguaglianza in questo “Monopoly” è aumentata con la crisi del 2008?
Lo Stato ha agito deliberatamente, indebitandoci, affinché il prezzo delle case
non scendesse. I fondi d’investimento hanno avuto un ruolo cruciale, potendo
indebitarsi per investire. Lo Stato ha steso loro il tappeto rosso con incentivi
fiscali. La crisi è stata una catastrofe sociale ma anche l’inizio di un nuovo
paradigma: la società dei proprietari si sta rompendo sia in alto che in basso.
Chi possedeva, ora possiede di più; la terza generazione potrà esserlo solo per
eredità.
Il problema abitativo ha ricevuto più attenzione perché ha iniziato a colpire
anche la classe media?
Viviamo in una società sempre più neofeudale: non conta più il merito, ma dove
sei nato e cosa erediti. Inizialmente la crisi colpì lavoratorə con redditi
bassi e senza cuscinetti. Oggi, moltə giovani crescono passando da un affitto
all’altro. E i loro genitori o nonnə erano proprietarə o avevano affitti
stabili. È il risultato delle politiche neoliberali implementate anche in Spagna
da ministri come Boyer e Solchaga. E anche chi crea opinione pubblica
(giornalistə, politicə, opinionistə) si percepisce come classe media.
Economisti, lobby immobiliari e media ripetono che è un problema di offerta.
Perché questa logica non vale per l’abitazione?
Dire che i prezzi salgono per la domanda è come dire che un aereo cade per la
gravità. Non si capisce il funzionamento del mercato immobiliare. Storicamente,
i periodi di maggiore costruzione hanno coinciso con le maggiori impennate di
prezzo. Il suolo è scarso e dove c’è attività economica, i prezzi salgono più
dei salari. I proprietari del suolo hanno posizioni monopolistiche, diversamente
da un mercato competitivo. Inoltre, la domanda non viene solo da chi cerca casa,
ma anche dagli investitori internazionali. È la tempesta perfetta.
Nel libro rivendichi il termine “redditiere”. Perché?
Parlo del rentismo come sistema che genera disuguaglianza e prosciuga l’economia
produttiva. Adam Smith già lo denunciava: i proprietari del suolo si
arricchiscono mentre dormono. Una famiglia che eredita un paio di appartamenti e
integra le entrate non è un redditiere, non vive di reddito degli affitti.
Redditiere è chi vive principalmente di rendite degli affitti. Non si può
equiparare chi affitta un appartamento e chi compra decine di immobili per
trarne profitto. Il conflitto è con i ricchi, non tra vicini.
Foto di Victor Serri
Eppure con due appartamenti in affitto si può vivere come moltə lavoratorə…
Questi influencer vendono fumo. Promettono rendite con piccoli investimenti in
quartieri popolari, ma spesso hanno dietro genitori garanti. I dati fiscali lo
dimostrano: meno del 10% ha rendite da affitto e chi realmente vive di rendite è
una minoranza potente. Per chi guadagna oltre 600.000 euro all’anno, il 35% del
reddito proviene dagli affitti. È un sistema a somma zero: ogni casa acquistata
da un redditiere è una casa in meno per te e per me.
Quindi, dopo anni di lotte per regolare i prezzi degli affitti, ora bisogna
abbassarli?
Abbiamo lottato per la regolazione dal 2017 al 2021, per fermare l’emorragia. Ma
il vero problema è strutturale. Il prezzo dell’affitto è solo un sintomo.
Esistono molti modi per trarre rendite da un immobile: tenerlo vuoto, affittarlo
come turistico o a stagione, coliving, microappartamenti. Se chiudi una porta,
l’investitore ne trova un’altra. Bisogna disincentivare l’acquisto speculativo.
La via è aumentare la pressione fiscale?
Sì. Bisogna aumentare le tasse sull’accaparramento di case. Al tempo stesso, si
dovrebbero offrire incentivi fiscali a famiglie lavoratrici che comprano casa,
ma vincolandoli a rivendite a prezzo controllato (valore d’acquisto +
inflazione). La Generalitat lo sta già facendo per i giovani. È importante,
perché immette case in un sistema regolato, come a Singapore. Chi possiede molte
case, invece, deve essere tassato di più affinché smetta di accumularle.
Finora però si è fatto il contrario, si è incentivato l’accaparramento
Esatto. È uno dei mercati più manipolati dallo Stato, malgrado ci raccontino la
favola del “libero mercato”. Esistono molti aiuti per chi già possiede immobili.
La classe lavoratrice paga più tasse per comprare casa di quanto paghi un fondo
per investire in affitti. Il sistema fiscale è disegnato per favorire chi fa
salire i prezzi.
Foto di Victor Serri
In generale, si premiano i redditieri invece di penalizzarne gli abusi?
Sì. Lo Stato continua a ragionare in ottica neoliberale: si premiano i
comportamenti “buoni” con incentivi, ma si evita di penalizzare. È falso che
dare benefici fiscali ai grandi proprietari aumenti l’offerta o abbassi i
prezzi. Lo dice la scienza.
E le politiche di aiuto gl3 inquilin3?
Alla fine, sono aiuti che finiscono nelle tasche dei redditieri. Anche se con le
migliori intenzioni, si tratta di trasferimenti verso chi vive di rendita.
Meglio penalizzare fiscalmente gli usi speculativi del suolo. Aumentare le tasse
su chi accaparra e aiutare chi non ha casa a comprarne una. Se non fermiamo
l’accaparramento, la ricchezza continuerà a concentrarsi verso l’alto. Alcuni
Paesi, come Singapore, lo stanno già facendo.
I redditieri si oppongono ai contratti di affitto a tempo indeterminato. Ma fino
al 1985 esistevano. Sono una misura fondamentale?
Sì, è fondamentale. Chi vivrà in affitto per tutta la vita ha bisogno di
stabilità. Servono contratti a tempo indeterminato, come già avviene in sette
Paesi europei. Ma da soli non bastano per fermare l’accaparramento.
I governi vantano la costruzione di edilizia pubblica, ma in Catalunya un quarto
della popolazione perderà la protezione entro sette anni. Dovremmo preoccuparci
anche della gestione?
L’edilizia pubblica è ancora marginale e in gran parte è stata privatizzata.
Dopo Thatcher, il consenso era che l’alloggio pubblico dovesse essere residuale.
Ora la Generalitat propone 50.000 alloggi protetti, ma è come gettare secchiate
d’acqua su un incendio.
La lobby dice che la soluzione è costruire più edilizia pubblica. È vero?
I ricchi lo dicono perché sanno che non disturberà il loro potere. Per cambiare
la situazione, serve sì costruire edilizia pubblica, ma soprattutto cambiare le
regole del gioco. Bisogna aumentare le tasse sull’accaparramento di immobili.
Vienna iniziò nel 1917, Singapore nel 1960. È vero che Vienna ha costruito per
un secolo, ma il primo passo fu tassare pesantemente i grandi proprietari,
riducendo così i profitti e facilitando gli acquisti pubblici di suolo.
Immagini di copertina e nell’articolo di Victor Serri, manifestazione per il
diritto all’abitare, 5 aprile 2025, Barcellona
Pubblicato su directa.cat, traduzione in italiano a cura dell’autore per
DINAMOpress
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