Derisi, picchiati, senz’acqua
Riprendiamo dal sito de Il Manifesto: Derisi, picchiati, senz’acqua. Due giorni
in cella in Israele
Siamo stati intercettati alle 1.58 di giovedì. Sulla mia barca, la Hio, parte
della missione della Global Sumud Flotilla, sono saliti cinque soldati
israeliani, i mitra spianati con i laser puntati su di noi. Un mese esatto dopo
la partenza da Barcellona.
A bordo i militari ci hanno consentito di andare in bagno e di mangiare, di bere
e di fumare. Hanno dirottato la barca verso il porto di Ashdod. Siamo rimasti
attraccati al molo un paio d’ore.
Prima di farci scendere, un soldato ha voluto parlare con il nostro capitano:
«My friend, my friend, listen to me, questa ti piacerà: quando i nani proiettano
ombre lunghe vuol dire che il sole è basso». È l’ultima cosa che ci ha detto.
MENTRE SCENDEVAMO, ho sentito qualcuno dalle altre barche della missione
gridare: la polizia sarà peggio. Ho toccato piede a terra e, senza nemmeno
rendermi conto, un agente mi ha preso il braccio e me lo ha girato dietro la
schiena, per farmi più male possibile. Poi ci hanno fatto mettere seduti sul
pavimento, su una spianata di cemento.
> Greta Thunberg è stata avvolta nella bandiera israeliana, come fosse un trofeo
> di guerra. L’hanno messa seduta in un angolo, gli agenti la circondavano e si
> scattavano selfie
> È lì che hanno raccolto tutti. Poco prima di me, era scesa Greta Thunberg. Una
> ragazza di ventidue anni, una donna coraggiosa. L’hanno avvolta nella bandiera
> israeliana, come fosse un trofeo di guerra.
L’hanno messa seduta in un angolo, un poliziotto le diceva che quello lì era uno
«special place for a special girl». Altri agenti le si sono messi intorno e si
sono scattati dei selfie con Greta costretta dentro la bandiera.
Poi si sono accaniti contro un’altra ragazza, Hanan. L’hanno obbligata a sedersi
davanti alla bandiera israeliana, perché la guardasse. Hanno preso a calci le
persone, ci hanno ordinato di piegare la testa, guardare a terra, chi alzava lo
sguardo veniva messo in ginocchio. Un attivista più anziano si è urinato
addosso.
Qualsiasi oggetto richiamasse la Palestina veniva strappato via, preso, buttato
a terra e calpestato. Hanno strappato a tutti i braccialetti ai polsi. Una
ragazza è stata trascinata a terra perché il braccialetto non si rompeva. Non
era nemmeno la bandiera palestinese, era quella somala.
SONO RIMASTO sul cemento un paio d’ore, altri molto di più, cinque o sei ore.
Hanno chiesto i passaporti degli italiani e ci hanno fatto passare dal controllo
immigrazione. Lì mi hanno aperto lo zaino: tutto quello che richiamava la
Palestina, veniva preso e buttato nella spazzatura. Nella mia borsa hanno
trovato anche una copia del Corano e sono impazziti, come in un cortocircuito:
si sono convinti che fossi di fede musulmana e per due ore ogni poliziotto che
mi passava davanti mi derideva.
Nella trousse, hanno trovato delle salviette umide di colore rosa e mi hanno
detto «sei una femmina», ridevano, si davano pacche sulle spalle. Dopo il
controllo di frontiera, ci hanno fatto spogliare, lasciandoci addosso solo le
mutande. Abbiamo subito due interrogatori, soltanto in uno dei due era presente
un’avvocata. Ci hanno chiesto se volessimo essere deportati, e alla fine
l’annuncio: si va in galera. È lì che è arrivato Itamar Ben Gvir, il ministro
della sicurezza nazionale di Israele. Ci stava aspettando ad Ashdod per
assicurarsi che fossimo trattati come terroristi perché pensava che lo fossimo.
Ce lo ha urlato, che siamo dei terroristi. Ce l’avevo proprio davanti. Di fronte
a lui gli agenti israeliani hanno voluto mostrarsi feroci: ci hanno messo una
benda sugli occhi e le fascette di plastica ai polsi, strettissime.
CI HANNO FATTO salire su un blindato, con addosso solo una maglietta leggera:
l’aria condizionata era accesa al massimo, era davvero freddo. Nel nostro
blindato, c’era un ragazzo scozzese, è riuscito a liberarsi delle fascette e con
l’aiuto di un italiano, Marco, le ha allentate a tutti. Quando abbiamo visto i
compagni scendere dagli altri blindati, avevano le mani viola. Alcuni le
fascette le avevano addosso fin dall’intercettazione: si sono fatti tutto il
viaggio verso il carcere con le mani legate. Dalle due del mattino alle quattro
del pomeriggio.
LA PRIMA NOTTE non ci hanno permesso di dormire: venivano a svegliarci e ci
facevano alzare tutti in piedi, oppure usavano gli altoparlanti. La seconda
notte ci hanno fatto cambiare le celle. Non ci hanno mai dato acqua minerale,
c’era soltanto l’acqua del rubinetto, usciva caldissima. Abbiamo protestato,
sbattuto sulle porte di ferro, gridato «Palestina libera», cantato «Bella Ciao».
Nella seconda cella con me c’era il vice ministro degli esteri turco dell’epoca
di Ahmet Davutoglu. Aveva il braccio rotto, era gonfio. Si è fasciato da solo
perché non gli hanno dato né fasce né antidolorifici. Le medicine non le hanno
date a nessuno, nemmeno a un uomo che soffriva di epilessia. Abbiamo protestato,
chiesto un medico.
Il secondo giorno è arrivata l’assistenza consolare: la console italiana ci ha
chiesto se avessimo subito abusi e ci ha detto che, se avessimo firmato la
deportazione, ci avrebbero rimandato in Italia il giorno dopo.
Molti si sono convinti a firmare ma non so cosa sia successo a chi non lo ha
fatto, ci sono ancora quindici italiani in cella. Io ho firmato: era un
documento in cui accettavo di rinunciare al processo e di essere deportato entro
settantadue ore. Nessuna ammissione di colpevolezza.
HANNO CONDOTTO nuovi interrogatori. A farci domande era un giudice, senza
avvocato. Lo abbiamo chiesto, un legale, hanno risposto che non era necessario,
era solo una chiacchierata. Siamo comunque rimasti in silenzio. Io ho soltanto
detto di essere un giornalista, nell’esercizio della mia professione, e che non
avrei parlato di altro senza un avvocato o assistenza consolare.
Mi hanno chiesto perché volessi andare a Gaza, se non sapessi che esisteva un
blocco su Gaza. Ad altri hanno fatto altre domande più «politiche», chiedevano
dei Fratelli musulmani.
La notte successiva le guardie sono state più violente. La console italiana era
andata via da poco, era venuta a raccogliere altre «firme» per la deportazione,
quando sono arrivate le forze speciali. Hanno spalancato le celle, ci hanno
puntato i fucili addosso con i laser e hanno fatto l’appello. In alcune celle
gli hanno aizzato contro i cani. In una cella hanno trovato una scritta,
«Palestine»: l’avevano lasciata i detenuti usando dei pezzetti di peperone
avanzato e l’acqua del rubinetto. Per cancellarla, i poliziotti hanno lanciato
secchiate di varechina, la notte i prigionieri hanno dormito con i materassi
impregnati.
QUELLA NOTTE, per rappresaglia, hanno ridistribuito le celle, eravamo in dieci,
siamo diventati quindici, così che non ci fosse posto per tutti. Abbiamo girato
i materassi per poter poggiarci sopra tutti la testa. Nella mia cella c’erano
Maso Notarianni e un consigliere del Partito democratico della Lombardia, Paolo
Romano.
Ho avuto la sensazione di trovarmi in un luogo davvero barbaro e speravo davvero
che questa barbarie finisse presto.
Ieri mattina, molto presto, ci hanno svegliato e ci hanno caricato sullo stesso
blindato del viaggio di andata. Immaginavamo ci stessero portando in aeroporto,
ma spiavamo comunque i cartelli dalle fessure del blindato, temevamo ci
potessero trasferire in un altro centro di detenzione.
IL VIAGGIO è durato tre ore, era caldissimo, non si respirava. Abbiamo chiesto
dell’acqua, ci hanno detto che ormai eravamo quasi a destinazione. In aeroporto,
a Eliat. Ci hanno messo su un aereo, destinazione Istanbul. Lì ci hanno accolto
festosi, una propaganda in stile Erdogan: una parlamentare del suo partito ci ha
accolto con vestiti nuovi, scarpe per tutti e kefieh. In tarda serata siamo
saliti sull’ultimo aereo, direzione Roma.
Lorenzo D’Agostino
Giornalista investigativo specializzato in politiche di frontiera
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Redazione Italia