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Anticipazioni sulla prossima manovra finanziaria: flat tax, difesa e fittizia occupazione
COME IL GOVERNO UTILIZZA L’AUMENTO (FITTIZIO) DELL’OCCUPAZIONE Tanto ottimismo da parte del Governo non sarebbe giustificato alla luce dei recenti dati statistici: la crescita economica in termini reali del 2024 è stata più o meno la stessa dell’anno precedente; ha fatto eccezione qualche timido segnale di miglioramento sul deficit che ha subito fatto sperare all’Italia di potere superare le criticità e il regime di controllo a cui si viene sottoposti da parte di Bruxelles per il superamento della fatidica soglia del 3%. Ma i dati non significano nulla senza il contesto a cui fanno riferimento. Un Paese che non cresce e che, allo stesso tempo, vede collocato l’85% della base imponibile Irpef tra i redditi da lavoro dipendente non può essere un Paese “sano”. Non per niente, infatti, quando ultimamente si parla di ridurre ulteriormente la pressione fiscale per le aziende si fa riferimento a quell’esigua crescita del numero degli occupati (una “crescita” basata sull’aumento dei contratti precari e del numero degli occupati più anziani) che ha portato un leggero incremento del gettito contributivo. Come a dire: la ricchezza la genera il lavoro dipendente ma a beneficiarne sono le imprese, e al contempo si ignorano gli effetti positivi che un reale e significativo aumento dell’occupazione potrebbe comportare per l’economia, in primis per le cosiddette “spese improduttive” (pensioni, welfare state, servizi…). Sicuramente sarebbe utile introdurre un maggior numero di aliquote fiscali, per bilanciare la situazione, ma il Governo ha voluto la “flat tax” che è l’esatto opposto. Una scelta veramente coraggiosa, all’opposto, sarebbe stata quella di aumentare le tasse per le imprese e i redditi elevati, destinando i maggiori introiti a investimenti reali, dal welfare all’aumento dei salari. Si tratterebbe di una manovra che allontanerebbe il contenimento del debito ma con effetti benefici sulla classe lavoratrice; una scelta siffatta romperebbe la gabbia di Bruxelles, quella stessa in cui la Meloni, al pari di chi l’ha preceduta, ci ha rinchiuso. ANTICIPAZIONI SULLA PROSSIMA MANOVRA FINANZIARIA Il Ministro Giorgetti ha anticipato i principali contenuti del Disegno di Legge di Bilancio per il triennio 2026-2028, da cui, dopo il passaggio in Consiglio dei Ministri, nascerà la Legge di Bilancio vera e propria. Questa dovrebbe prevedere interventi pari a circa 18 miliardi annui di media. Al centro della manovra si troverà l’approfondimento della flat tax, l’imposta non progressiva basata sulla logica della riduzione fiscale complessiva, anche per i redditi bassi, in ragione della diminuzione del peso fiscale su quelli più alti e del supposto, conseguente effetto benefico su tutte le fasce di reddito. Per cui prosegue la riduzione della tassazione sui redditi da lavoro, con la seconda aliquota IRPEF che dall’attuale 35% passerà al 33%. La riduzione del numero delle aliquote è cosa vecchia: Nel 1998 l’aliquota minima aumentò al 18,5 per cento e la massima scese al 45, mentre gli scaglioni diminuirono da sette a cinque. Nello stesso anno, poi, i redditi da capitale iniziarono ad essere tassati in maniera proporzionale, non più progressiva (vennero, cioè, eliminate le variazioni di aliquota all’interno dello scaglione, indipendentemente dalle dimensioni dei redditi da capitale da tassare). Complessivamente si può affermare che dal 1974 al 2022 le aliquote per i redditi bassi siano aumentate, mentre sono invece diminuite quelle per quelli alti. Così come il numero di scaglioni: nel 1974 ce ne erano 32, col 10% come aliquota minima e il 72% come massima; nel 2022 abbiamo 4 scaglioni, 23% di aliquota minima, 43% di massima[1]. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, inoltre, «per il complesso dei lavoratori dipendenti le modifiche normative hanno comportato una riduzione del prelievo di circa 3 punti percentuali, che viene tuttavia più che compensata dall’effetto del drenaggio fiscale, pari a circa 3,6 punti percentuali, con un saldo sul reddito disponibile negativo per circa 0,6 punti»[2]. Il drenaggio fiscale è proprio quell’effetto per cui, a causa dell’inflazione, cresce il proprio reddito nominale mentre si contrae quello reale e pertanto si viene tassati di più anche se in realtà si possiede di meno. In breve, si tratta dell’effetto dell’inflazione sulle imposte, proprio ciò da cui la flat tax dovrebbe difendere i lavoratori dipendenti, diminuendo il numero di aliquote. Eppure, i dati parlano chiaro: senza indicizzazione all’inflazione l’unico effetto conclamato è la riduzione del peso fiscale sui redditi alti (senza contare il fatto che diverse tipologie di reddito, ad esempio quelli da capitale o da attività finanziarie, non fanno più parte della base imponibile dell’imposta).  Quando parliamo la tassazione, inoltre, dovremmo anche considerare la diminuzione dei redditi reali – per dirla in breve, la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie – e, nello specifico, la caduta del potere di acquisto dei salari. Siamo dunque convinti che non sarebbe stato preferibile un intervento strutturale a proposito di progressività delle aliquote, salari e democrazia nei luoghi di lavoro, invece che il prosieguo della flat tax e del percorso di regolamentazione normativa in favore della contrattazione di secondo livello e del cosiddetto “coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa”[3]? Per concludere, fra i contenuti della Manovra anticipati dal Ministro ci sono i circa 3,5 miliardi per la famiglia e contrasto alla povertà previsti per il prossimo triennio (assolutamente insufficienti se rapportati all’effettivo aumento della popolazione in povertà occorso negli ultimi anni[4]). Notizie dell’ultima ora dal pianeta previdenziale con la esclusione dei lavori usuranti dall’aumento di 3 mesi dell’età necessaria per andare in pensione in base all’aspettativa di vita. Per una maggioranza andata al Governo promettendo la cancellazione della Fornero un magro risultato e l’ennesima beffa ai danni di un elettorato ora smemorato e prima credulone. LA DIFESA Le spese per la difesa sono favorite attraverso il ricorso alla clausola di salvaguardia pensata appositamente per andare in deroga alla regola aurea del contenimento del rapporto debito/PIL. La UE non poteva rinunciare a uno dei suoi capisaldi, pur se risalente agli anni delle politiche economiche di austerità, ma al contempo doveva favorire la spesa per le armi: da qui il ricorso al sistema delle deroghe. Secondo le proiezioni, nel 2028 – ultimo anno previsto per applicare la clausola di salvaguardia – l’indebitamento risulterebbe più elevato rispetto ad oggi, ma la scommessa del Governo sembra essere quella di tenere a bada il rapporto debito/Pil nonostante l’aumento della spesa militare. L’idea è che «il 60 per cento della maggiore spesa venga soddisfatta attraverso l’importazione di beni militari»[5], il che farebbe aumentare il Pil, rendendo però la nostra economia sempre più dipendente dall’industria bellica e il nostro Paese via via più legato alle dinamiche pre-belliche che si svolgono negli ultimi anni, sotto i nostri occhi, tra le principali potenze globali. Tutta l’analisi del Governo e dei suoi centri studi parte dal presupposto che l’aumento delle spese militari produrrà effetti benefici sulla economia e che fondamentalmente il Pil sia destinato a crescere, assieme a un progressivo abbattimento del debito e all’aumento della produttività del lavoro. A pagare queste scelte sarà senza dubbio la classe lavoratrice mentre gli effetti benefici paventati dal Governo sono ancora da dimostrare e in ogni caso avrebbero come merce di scambio guerre e devastazioni in vaste aree del Globo. Federico Giusti ed Emilio Gentili, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università -------------------------------------------------------------------------------- [1] E. Gentili, L’attacco degli imprenditori. Roma: Sensibili alle foglie, 2025, p. 475. [2] Ufficio Parlamentare di Bilancio, Rapporto sulla politica di bilancio, Giugno 2024, p. 17. [3] E. Gentili, F. Giusti, S. Macera, Legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese, https://cub.it/legge-sulla-partecipazione-dei-lavoratori-alla-gestione-al-capitale-e-agli-utili-delle-imprese/. [4] https://www.openpolis.it/parole/che-cose-la-poverta-assoluta/. [5] Audizione della Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio nell’ambito delle audizioni preliminari all’esame del Documento programmatico di finanza pubblica 2025 (Doc. CCXLIV, n. 1), p. 84.
Fisco: il ceto medio immaginario
C’era una volta la progressività fiscale. La scrissero nell’art. 53 della Costituzione come criterio per istituire il sistema tributario. Negli ultimi decenni – attraverso la riduzione degli scaglioni dei redditi, l’introduzione di tassazioni separate e l’ampliamento delle “flat tax” – di fatto è stata progressivamente tradita l’indicazione dei costituenti. Oggi siamo arrivati al paradosso di dichiarare che a pagare le imposte sono soltanto i ricchi. «Chi guadagna dai 60 mila euro in su, di fatto, finisce sempre per pagare per due: per sé e per chi resta totalmente a carico della collettività. È la trappola del ceto medio: molti ricevono senza dare, pochi danno senza ricevere». L’affermazione – in occasione della dodicesima edizione dell’Osservatorio sulle entrate fiscali, a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentata il 30 settembre alla Camera dei Deputati – è di Stefano Cuzzilla, presidente della Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità. La maggior parte dei mezzi di comunicazione ha riportato la notizia con questo titolo: “L’IRPEF sulle spalle di pochi. Il ceto medio la paga per tutti”. Anche l’attuale Governo continua a promettere che nella prossima legge di bilancio ci sarà un intervento a favore del ceto medio, alleggerendo l’aliquota IRPEF intermedia dal 35% al 33%, possibilmente alzando il tetto dello scaglione fino a 60mila euro. Il risultato effettivo sarà che i contribuenti con redditi superiori a 60mila euro usufruiranno della maggiore diminuzione di imposta (1.440 euro). Peccato che tutti si scordino di segnalare che gli italiani con redditi sopra i 60mila euro sono 2,1 milioni e rappresentano soltanto il 5% del totale dei 42,5 milioni di contribuenti. È del tutto evidente che considerare “ceto medio” il 5% più ricco è ridicolo oltre che un insulto alla logica. In realtà, in Italia il reddito medio dei contribuenti è di 24mila euro annui, mentre il reddito mediano (cioè il reddito di chi si trova nel mezzo della classifica dei contribuenti) è soltanto di 20mila euro. “In medio stat virtus”, scriveva Aristotele. Il problema sta nel comprendere dove si trova il “medio”. Tanto più che il filosofo greco affermava che “la virtù sta nel mezzo” per esortare a cercare l’equilibrio e la moderazione, rifuggendo ogni esagerazione. Oggi invece dilagano gli estremisti camuffati da moderati, dimenticando che “tutti devono concorre alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53 Costituzione). Se molti non contribuiscono, probabilmente significa che ci sono troppi poveri e anche troppi evasori fiscali. E sempre più spesso si dà la colpa ai primi, mentre si perdona i secondi, attraverso la “pace fiscale”, l’unica pace di cui abbiamo notizia. Come scriveva Francis Bacon: “Niente provoca più danno in uno Stato del fatto che i furbi passino per saggi”. Rocco Artifoni
Firenze e Milano, capitali della rendita urbana
La rendita è spesso definita come reddito “parassitario”. Infatti – a differenza del salario e del profitto (derivante dallo scambio commerciale) – essa rappresenta una forma di reddito non scaturito dal lavoro svolto da chi la percepisce, ma generato da … Leggi tutto L'articolo Firenze e Milano, capitali della rendita urbana sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Abolire la flat tax e aggiornare i valori catastali
Un report pubblicato alla fine di maggio 2025 sollecita il governo italiano a realizzare una riforma fiscale con l’obiettivo di una maggiore equità e di un rilancio economico. In particolare viene chiesta l’abolizione della flat tax e del regime forfettario per i lavoratori autonomi, l’aggiornamento dei valori catastali degli immobili, la ridefinizione del sistema delle detrazioni fiscali. Attualmente, la flat tax rappresenta un’imposta unica sostitutiva per partite IVA individuali che operano all’interno di specifiche soglie di ricavi. Negli ultimi anni c’è stata una crescita nelle adesioni, perché il regime forfettario è molto conveniente. Ma l’imposta piatta proporzionale contribuisce a generare distorsioni e iniquità fiscali con molteplici effetti negativi: * riduzione della progressività costituzionale: i meccanismi agevolati riducono l’efficacia delle aliquote progressive su cui si basa l’IRPEF; * comportamenti elusivi: la presenza di soglie di ricavi invoglia il frazionamento delle attività per evitare il superamento dei limiti dell’agevolazione; * disuguaglianze tra lavoratori: gli autonomi in flat tax sono tassati molto meno rispetto ai lavoratori dipendenti a parità di reddito; * perdita di gettito per lo Stato: la restrizione della base imponibile comporta minori risorse disponibili. L’aggiornamento dei valori catastali degli immobili è una misura attesa da tempo e frequentemente dibattuta nel contesto della giustizia fiscale. L’attuale sistema, fermo a valori storici superati da decenni, determina una disparità di trattamento fra proprietà e riduce la trasparenza delle imposte sul patrimonio. Pertanto, la revisione degli indici catastali con un allineamento ai valori effettivi di mercato comporterebbe una maggiore equità orizzontale fra proprietari di immobili e un incremento del gettito pubblico. L’aggiornamento catastale viene valutato come un passaggio chiave per potenziare la trasparenza della fiscalità immobiliare, rafforzare la redistribuzione e favorire la semplificazione degli adempimenti. Anche la giungla delle detrazioni fiscali andrebbe ampiamente rivista, poiché si tratta di sconti fiscali talvolta irrazionali, introdotti soltanto a vantaggio di determinate categorie produttive o commerciali. Abrogare tali agevolazioni amplierebbe la base imponibile, renderebbe il sistema più equo e aiuterebbe nell’obiettivo di razionalizzare la spesa fiscale. Questa posizione trova riscontro in dati e analisi provenienti sia dal Ministero dell’Economia sia da enti indipendenti, che sottolineano le criticità strutturali che compromettono l’efficienza del sistema. Sono azioni ritenute indispensabili per affrontare il persistente calo demografico, la debole partecipazione femminile al lavoro e gli effetti dei dazi commerciali internazionali, che minacciano le prospettive di sviluppo del Paese. Un sistema tributario più semplice, trasparente e progressivo, insieme a una base imponibile più ampia, creerebbe condizioni favorevoli per innovazione, occupazione di qualità e competitività internazionale. Le raccomandazioni del report si armonizzano con le linee del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sottolineando la necessità di proseguire sulla rotta di riforme per assicurare all’Italia crescita sostenibile, equità nella distribuzione della ricchezza e capacità di risposta agli shock globali. Il 2025 è indicato come un anno-chiave per l’Italia. Se la traiettoria della spesa pubblica non verrà corretta con interventi strutturali, il rapporto debito/Pil potrebbe tornare a crescere. La revisione del Patto di stabilità europeo e le nuove regole di bilancio comunitarie delineano un quadro più stringente nel medio termine. L’Italia deve consolidare i propri conti e rilanciare gli investimenti produttivi, altrimenti rischia di trovarsi impreparata di fronte a nuove crisi sistemiche. Nota: il report sopra citato non è stato redatto da un gruppo di economisti comunisti, ma è il rapporto annuale del Fondo Monetario Internazionale al termine della sua missione in Italia nel maggio 2025. Rocco Artifoni