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Accordi che uccidono: zone SAR o zone al di fuori di qualsiasi giurisdizione?
1. In una vasta zona di mare a sud di Lampedusa e di Malta, nella quale nel 2018 si era costruita a tavolino la finzione di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) affidata alla responsabilità del governo di Tripoli, sostenuto fino al 2020 dalla missione della Marina militare italiana NAURAS (nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro), si sta rivelando il costo umano e la totale inefficacia del Memorandum d’intesa siglato tra Italia e “Libia”, in realtà soltanto con il governo provvisorio di Tripoli, nel mese di febbraio del 2017, prorogato nel 2020 e ancora nel 2023. Si intensificano intanto le notizie degli abusi a cui sono sottoposti i migranti intrappolati in Libia e già nel 2020 si aveva notizia di tre persone, di nazionalità sudanese, uccise dalla sedicente “guardia costiera libica” al termine di una operazione di intercettazione in alto mare e riconduzione a terra. Persone uccise a colpi di arma da fuoco che, con il loro tentativo di fuga, si volevano sottrarre alle sevizie inflitte dai carcerieri libici anche nei centri di detenzione “governativi” ed al turpe mercato di esseri umani che continua a caratterizzare la condizione di chi viene riportato in Libia. Come riferisce l’AGI, lunedì 13 ottobre “Unità libiche avrebbero sparato contro una imbarcazione di migranti nella Sar maltese: a riferirlo sono il centro di monitoraggio non governativo Alarm Phone e la ong Mediterranea. I 140 migranti sono poi sbarcati a Pozzallo. ‘Una persona, con una pallottola nel cranio – spiega l’ong – è in coma e sta lottando tra la vita e la morte e altre due risultano gravemente ferite, al volto e a una mano, vittime dei colpi sparati da una motovedetta libica’. L’attacco sarebbe avvenuto ieri ‘a circa 110 miglia nautiche a sud est della Sicilia’. Non è ancora chiaro se nell’attacco una persona sia rimasta uccisa. “Insieme ad Alarm Phone – prosegue Mediterranea – avevamo avvisato le autorità italiane fin dal pomeriggio di ieri, ma solo oggi, con ventiquattr’ore di ritardo dalla tragica sparatoria, sono partiti i soccorsi. La persona ora in fin di vita poteva essere raggiunta subito da un elicottero maltese o italiano ieri. Ci auguriamo riesca a sopravvivere. Ma se dovesse finire diversamente, di fronte alla scelta di omettere un necessario soccorso urgente, sappiamo di chi sono le responsabilità’”. Secondo quanto comunicato successivamente dalla stessa agenzia, “ Emorragia cerebrale, teca cranica danneggiata e frammenti ossei all’interno ma non ci sarebbe alcun proiettile: è in condizioni disperate un 15enne migrante egiziano ferito gravemente alla testa prima di un soccorso della Guardia costiera nella Sar maltese, e trasportato in elisoccorso al Cannizzaro di Catania, ora intubato e in stato comatoso. Un altro compagno di viaggio ha una parte del volto disintegrata, mascella e mandibola, ed è cosciente: a colpirlo è stato forse un razzo di segnalazione esploso ad altezza d’uomo. Il terzo è stato colpito ad una coscia, ha un foro d’entrata e un foro d’uscita, è il meno grave dei tre. Gli ultimi due sono al momento negli ospedali di Modica e Ragusa. La Ong mediterranea parla di una aggressione ‘armata da parte dei miliziani libici’ che sarebbe avvenuta nel pomeriggio di ieri. I tre feriti facevano parte di un numeroso gruppo di 140 persone in tutto, che si era imbarcato – secondo quanto apprende l’AGI – su un natante in ferro quattro giorni fa. In molti hanno ferite da percosse, parecchi anche con bruciature, segno di torture patite prima della partenza. A bordo di una motovedetta della guardia costiera e di un pattugliatore della Guardia di finanza, i migranti sono sbarcati a Pozzallo. Lo sbarco si è concluso da poco“. Sembra che i migranti siano stati soccorsi soltanto quando, dopo essere rimasti per ore sotto il fuoco dei libici, erano giunti a circa 50 miglia da Pozzallo. In un comunicato di Alarmphone si denuncia come ” Nonostante avessimo allertato le autorità europee, comprese quelle italiane e maltesi, della presenza dell’imbarcazione in difficoltà, queste non sono intervenute. Per oltre 12 ore, nessuna nave della guardia costiera o altro mezzo è intervenuto per salvare o assistere il gruppo attaccato. Data la mancanza di intervento, l’attacco al barcone di migranti ha potuto proseguire senza ostacoli. Per ore, le persone a bordo hanno riferito che il gruppo di miliziani è rimasto nelle loro vicinanze, attaccandoli e sparando continuamente. Nel pomeriggio, le persone hanno anche riferito che le forze della milizia stavano speronando la loro imbarcazione, rischiando che si capovolgesse”. Soltanto molte ore dopo il primo allarme, lanciato nella giornata di domenica 12 ottobre, e dopo che i contatti con il barcone sotto attacco dei libici in acque internazionali erano stati interrotti, si è appreso che i naufraghi erano stati soccorsi dalla Guardia costiera italiana il giorno successivo, mentre nulla, per quanto risulta, veniva operato dalle autorità maltesi, che pure erano state allertate. Anche questa circostanza non costituisce certo una novità, basti pensare al caso della nave militare italiana Libra, nel 2013, ed al processo che ne è seguito. 2. Gli accordi bilaterali conclusi tra Italia ed autorità libiche di Tripoli, al di là della dubbia legittimità formale,  non possono modificare la portata cogente delle Convenzioni internazionali che regolano le attività di ricerca e soccorso in mare. Quegli accordi che violino quanto prescritto dalle Convenzioni sarebbero illegittimi e determinerebbero la responsabilità di chi li ha sottoscritti e vi ha dato esecuzione. Una argomentazione, quella della  derogabilità delle Convenzioni per effetto di accordi bilaterali,  già utilizzata dal governo italiano nel 2012, davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi, concluso poi con un totale rigetto delle tesi difensive italiane e dunque con la condanna. Una condanna che oggi si cerca di aggirare. Non si tratta semplicemente di riaffermare diritti che sono stati violati, spesso a costo della vita di centinaia di persone, occorre arrivare a sanzioni esemplari che impediscano che questi comportamenti violenti dei libici siano ancora tollerati, se non incentivati, e proseguano in futuro con un costo sempre più elevato in termini di vite umane. A fronte di una opinione pubblica che ormai appare indifferente, se non apertamente complice, rispetto alla morte in mare, alle torture ed agli abusi di ogni genere inflitti ai migranti “soccorsi” in acque internazionali e ripresi dalle diverse milizie libiche, dopo l’intervento della sedicente Guardia costiera “libica”. L’indagine che sarà aperta dalla magistratura dovrà accertare i tempi del soccorso portato dalle autorità italiane ai migranti vittime di questa ennesima aggressione da parte della sedicente Guardia costiera libica, o meglio di una delle diverse Guardie costiere che foraggiate dagli accordi con l’Italia e l’Unione europea hanno trasformato il Mediterraneo centrale in uno spazio al di fuori di qualsiasi giurisdizione. Purtroppo, troppo spesso, sotto gli occhi vigili di Frontex e delle tante autorità militari che sorvegliano questa zona di acque internazionali per prevalenti finalità economiche, per garantire il traffico commerciale e la circolazione delle risorse energetiche che arrivano dalla Libia e dalla Tunisia. Non certo per salvare vite umane, compito che viene svolto dalle ONG con difficoltà crescenti, dopo decine di fermi amministrativi, che hanno riguardato persino i piccoli aerei in uso al soccorso civile per avvistare le imbarcazioni in difficoltà. Ma troppo spesso scomodi testimoni della collusione nelle attività di intercettazione violenta e nei respingimenti collettivi in mare “su delega” dell’Italia, di Malta e dell’Unione europea, che forniscono ai miliziani libici, in divisa di Guardia costiera, mezzi, supporto finanziario e addestramento. 3. La Corte di Cassazione dell’1 febbraio 2024 n. 4557, con riferimento all’epoca dei fatti del caso ASSO 28, dunque al luglio del 2018, poche settimane dopo la istituzione di una zona SAR “libica”, rilevava come “Nonostante la notifica (unilaterale) della istituzione della zona SAR libica all’IMO, la stessa non era operativa, non esisteva uno stato libico unitario e le autorità di Tripoli — riconosciute dalle Nazioni Unite — avevano perso il controllo di parti molto vaste del territorio che prima controllavano”. Una considerazione che può ripetersi ancora oggi, nonostante siano mutati i rapporti di forza e le modalità sul campo dello scontro politico e militare ancora in corso tra le diverse fazioni libiche. Cade la finzione di una zona SAR “libica” e le autorità maltesi, malgrado qualche sporadico intervento, dimostrano per l’ennesima volta di non potere garantire interventi di Search and Rescue in tutta la vasta zona SAR loro assegnata. Dopo la vicenda Almasri, sulla quale il voto del Parlamento non chiude le attività di indagine che proseguono a livello internazionale, i libici hanno alzato il livello della violenza con cui intervengono attaccando i barconi carichi di migranti e sparando persino sulle navi del soccorso civile per allontanarle dalle acque internazionali nelle quali spadroneggiano per conto dei governi italiano e maltese, con i finanziamenti provenienti dall’Unione europea e con il costante tracciamento garantito dagli assetti aerei di Frontex. L’intero sistema di ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale deve essere rivisto, perchè sta costando troppe vite umane, vittime di ritardi se non vere e proprie omissioni di soccorso. Se non interverrà l’Imo (Organizzazione internazionale del mare) di Londra, che è una organizzazione legata alle Nazioni Unite, dovrà promuoversi una vasta mobilitazione internazionale che dovrà coinvolgere quelle altre agenzie delle Nazioni Unite, come l’OIM e l’UNHCR, che denunciano gli abusi commessi dalla sedicente guardia costiera libica, ma non riescono a mettere in discussione i poteri, ma soprattutto i doveri di soccorso, che il riconoscimento di una zona SAR in acque internazionali comporta a carico degli Stati costieri. Quanto successo negli ultimi giorni, ma queste aggressioni si ripetono da anni, impone la sospensione immediata del riconoscimento internazionale di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) affidata esclusivamente alle autorità libiche, ed un ridimensionamento della zona SAR ancora riconosciuta a Malta, per ragioni economiche, ma per una estensione che le autorità maltesi, ammesso che ne abbiano l’intenzione, non sono certo in grado di controllare. Dopo le incursioni armate dei libici nella zona di ricerca e salvataggio maltese, dopo altre vittime innocenti degli accordi bilaterali per contrastare quella che si definisce soltanto come “immigrazione illegale”, occorre che l’Unione europea imponga la sospensione degli accordi tra Malta ed il governo di Tripoli, su una zona SAR riconosciuta a La Valletta solo per ragioni economiche, ma che non assolve ad alcuna effettiva funzione di salvataggio, risultando ormai uno spazio sottratto a qualsiasi giurisdizione, dove si spara e si uccide impunemente. Ma è altrettanto urgente bloccare l’ennesima proroga automatica del Memorandum d’intesa Gentiloni del 2017 con il governo di Tripoli, e fare chiarezza, al di là del procedimento penale bloccato con un voto politico dal Parlamento, sul caso Almasri sul quale si rischia un conflitto di attribuzione, e sulla attuale organizzazione delle diverse autorità militari che si contendono il controllo della cosiddetta zona SAR “libica”, come se fosse uno spazio di sovranità, di traffici e di abusi, e non invece uno spazio riconosciuto a livello internazionale per la salvaguardia della vita in mare. Fulvio Vassallo Paleologo
Quattro voci a proposito del Mar Mediterraneo
Giovedì 17 luglio presso gli spazi del Kontiki (Via Cigliano 7) di Torino ha avuto luogo la presentazione di due libri: “Sospesa: Una vita nella trappola dell’Europa” (add editore, 2025) di Mariangela Paone, giornalista di El País, e “Mare Aperto – Storia umana del Mediterraneo centrale” (Einaudi, 2025) di Luca Misculin, giornalista de Il Post. L’evento, organizzato in collaborazione con Medici Senza Frontiere e Mediterranea, ha visto anche gli interventi di Riccardo Gatti e Celeste Mosca, rispettivi collaboratori delle ONG coinvolte. Quattro voci impegnate nel raccontare alcuni dei volti del Mar Mediterraneo; luogo di migrazione, pirati, tragedie umane, commercio e storicamente al centro di un infinito dibattito politico. Nonostante la “piccola” dimensione del Mar Mediterraneo, racconta Luca Misculin, questa distesa d’acqua è lo sfondo di continui ed importanti eventi: la guerra russo-ucraina (il Mar Nero è la propaggine orientale del Mediterraneo), il conflitto tra Israele e Striscia di Gaza o il capovolgimento di Bashar al-Assad in Siria sono tutti esempi utili per osservare la centralità geografica, sociale e culturale del Mediterraneo. Misculin si tuffa in una parentesi storica. Intorno alla fine del ‘400, momento nel quale vengono scoperte le Americhe e di conseguenza si espande l’esplorazione dell’Oceano Atlantico, il Mediterraneo sembra perdere il proprio status di centro del mondo. Gli uomini del tempo, come avviene dopo ogni grande scoperta, sono convinti che il futuro mercantile (ma anche politico) si sposterà velocemente in quella zona che separa l’estremo Ovest europeo dall’Est americano, ma la realtà odierna del Mediterraneo si dimostra essere un capo d’abbigliamento intramontabile, un pino verde anche nel più gelido degli inverni. Continuando a nuotare nella Storia, Misculin abbraccia un racconto difficile da districare dall’afflato leggendario: l’autore, particolarmente concentrato nello studio del Canale di Sicilia, cita Lampedusa ed il suo antico e profondo legame con i pirati sviluppato tra i tre e i quattrocento anni fa. L’isola siciliana, parte dell’arcipelago delle Isole Pelagie, è il nodo centrale di un ipotetico Triangolo delle Bermude mediterraneo composto insieme all’Isola di Pantelleria e Malta; grazie alla sua pozione geografica propizia e all’assenza di abitanti, i pirati la trasformano presto in un’importante zona di attracco. I nuovi occupanti si rendono conto essere presente sull’Isola un santuario-grotta, eretto probabilmente al tempo dell’invasione musulmana della Sicilia, e lo trasformano in un luogo di culto tanto per i pirati cristiani, quanto per i musulmani. Lampedusa si trasforma in zona franca, di rifornimento e di conseguenza in un luogo in cui vige tra pirati la regola di non combattersi all’interno del territorio: tale legge di non belligeranza si estende velocemente anche a tutti quegli schiavi che, in un modo o in un altro (ad esempio, grazie ai naufragi delle imbarcazioni schiaviste su cui navigano), riescono a raggiungerne la riva; giunto sull’Isola, ogni uomo può considerarsi libero. Misculin, a questo punto, lascia spazio al presente storico: ancora oggi Lampedusa rappresenta per molte persone l’opportunità per una vita migliore e libera da povertà, guerre, fame o dittature. Il Mar Mediterraneo è un luogo profondamente eterogeneo in cui sono avvenute e avvengono le più disparate attività: dal commercio legale, al contrabbando; da eventi criminali, ad attraversate all’insegna di una vita migliore; da conflitti armati, alla pirateria. È in virtù di questa eterogeneità e vitalità che si dovrebbe prestare sempre attenzione al Mar Mediterraneo curandolo, con spirito di collaborazione nazionale ed internazionale, evitando di girargli le spalle e fingendo sia un problema di qualcun altro. Mariangela Paone raccoglie il microfono e racconta la storia di Rezwana Sekandari. Rezwana parte da Kabul (Afghanistan) insieme ai genitori (Naseer e Fatima), due sorelle (Negin e Mehrumah) ed un fratello (Hadith). Ma questo non è un viaggio di piacere come tanti. Naseer è un giornalista di un’emittente televisiva privata afghana e Rezwana fin da piccola ha la possibilità, grazie ai contatti del padre, di doppiare personaggi delle serie tv americane all’interno della medesima emittente. Tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 Naseer decide di fuggire da Kabul a causa delle minacce ricevute in risposta alle inchieste svolte sulle autorità locali. Inizialmente la famiglia cerca un modo per viaggiare in modo sicuro chiedendo all’ambasciata statunitense dei visti per tutti, ma l’organo USA dà la possibilità solo alla madre ed ai figli di lasciare il Paese. Fatima, dunque, rifiuta perché non se la sente di intraprendere da sola un viaggio con quattro bambini. A questo punto la famiglia imbocca l’itinerario alternativo: volano a Teheran (Iran), si spostano dalla capitale a Tabriz (Iran) per poi prendere un autobus diretto verso il confine turco; qui, a bordo di un’automobile, vengono condotti su un furgone che, dopo svariati tentativi, riesce a portarli in territorio turco e poi ad Istanbul (Turchia); la successiva fermata è una spiaggia di Smirne (Turchia) in cui si imbarcano su un’affollata nave di profughi (sono 300 le persone a bordo) in rotta per l’Isola di Lesbo (Grecia). Il 28 ottobre 2015, momento nel quale Rezwana ha 13 anni, la nave di legno su cui la famiglia viaggia affonda a tre chilometri dalla costa; Naseer, Fatima, Negin, Mehrumah e Hadith muoiono annegati. Rezwana viene invece tratta in salvo da un peschereccio turco. La bambina riceve asilo in Grecia e poi riesce a raggiungere la Svezia (il Paese che Naseer sognava di raggiungere fin dal principio) grazie ad una prozia che vi abita. Purtroppo però la storia non è ancora conclusa: al compimento dei 18 anni, Rezwana è costretta a tornare in Grecia a causa del Regolamento di Dublino; viene deportata ad Atene nel febbraio 2020 (luogo in cui tutt’ora abita). È qui che Mariangela Paone (già a conoscenza fin dal 2015 del caso di Rezwana) interviene decidendo di scrivere un libro impegnato nel raccontare la storia della giovane donna. La giornalista riferisce di averla incontrata la prima volta nel 2021 nella capitale greca, occasione in cui immediatamente Rezwana chiede se sia possibile rintracciare i corpi della sua famiglia. Grazie agli sforzi di quella che Paone chiama la “rete dei fili invisibili” (persone che tengono a galla persone nonostante le falle del sistema di accoglienza), vengono ritrovati nel cimitero di Kato Tritos le tombe della madre (Fatima) e di una delle sorelle (Negin). Paone passa il microfono a Riccardo Gatti, SAR team leader, SAR advisor e Skipper attualmente legato a Medici Senza Frontiere. L’attivista denuncia la scelleratezza e la violenza strutturale del sistema di accoglienza, in particolare concentrandosi sul recente Decreto Piantedosi in materia di immigrazione. Quest’ultimo, infatti, mette mano sui metodi di assegnazione dei porti sicuri che comportano la selezione di attracchi lontani dai luoghi di salvataggio (in altre parole, lontani della Sicilia). La conseguenza di tale provvedimento è un drastico aumento dei costi di gestione per le navi ONG (ad esempio, se si salvano dei naufraghi a Sud della Sicilia è spaventosamente più costoso farli sbarcare a Genova che non sull’Isola stessa) e dei tempi di navigazione (ciò che prima si faceva in tre giorni di viaggio, ora ne richiede fino a dieci). Il Decreto Piantedosi è uno strumento di dissuasione che sembra aver funzionato (almeno in parte e momentaneamente): la Geo Barents, nave di Medici Senza Frontiere che ha salvato oltre 16mila persone in mare, ha interrotto nel 2024 le sue attività di salvataggio anche a causa degli eccessivi costi di navigazione per raggiungere i porti sicuri. Gatti cede la parola a Celeste Mosca, attivista e Rhib driver di Mediterranea. Mosca racconta l’intricata vicenda in cui Mediterranea è coinvolta, un’indagine operata dal GUP del Tribunale di Ragusa. Per ulteriori informazioni in merito, ne ho scritto in precedenza in questo articolo: Il mare affondato: Mediterranea Saving Humans tra CPR, indagini e rifugi. L’incontro si conclude con una preoccupazione. Misculin e Paone hanno timore dello stigma che vive chiunque si occupi di immigrazione: dai giornalisti, ai divulgatori; dai pochi politici interessati alla protezione dei migranti, agli attivisti; dai volontari, alle associazioni. I due giornalisti guardano con apprensione alla crescita dello stigma perché tale reprobazione può portare le persone a smettere di occuparsi di migrazione e, di conseguenza, alla fuoriuscita del tema migratorio dall’agenda comunicativa. È necessario ricordarlo: nonostante si parli di migranti in termini numerici, ognuno di loro è un figlio di qualcuno, una persona che ha sogni, progetti, aspirazioni e desideri; come tale va rispettata ed aiutata. È facile far ricadere le responsabilità sugli altri, ma se si vuole indicare la via della democrazia, è necessario sobbarcarsi l’onere di essere un esempio virtuoso. Michael Giargia
Dare un nome alle vittime della migrazione recuperate nel Mediterraneo centrale
ASGI , EMERGENCY, C e V., e Mem.Med Memoria Mediterranea scrivono alle autorità per tutelare la dignità delle vittime recuperate nel Mediterraneo e il diritto dei loro familiari a conoscerne la sorte. Con una lettera inviata il 4 luglio 2025 e indirizzata alla Procura e alla Prefettura di Siracusa, al Sindaco di Augusta e al Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, le quattro organizzazioni si sono rivolte alle autorità competenti per garantire lo svolgimento di tutte le procedure volte a una corretta identificazione delle due persone decedute recuperate dall’equipaggio dell’imbarcazione Life Support di EMERGENCY in acque internazionali, nella zona SAR libica lo scorso 27 giugno. Il ritrovamento è avvenuto dopo che, nei giorni precedenti, il velivolo Seabird della ONG Sea-Watch aveva già individuato la presenza di sei corpi nella medesima area, e a seguito dell’apertura di un caso SAR da parte del Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) di Roma. Le organizzazioni firmatarie hanno evidenziato come l’inumazione immediata dei corpi impedisca spesso un’identificazione delle persone decedute. Per consentire di restituire un’identità alle vittime anche a distanza di tempo, è necessario lo svolgimento di esami forensi approfonditi, la corretta registrazione delle informazioni raccolte in merito agli oggetti repertati, ai dati fisionomici e agli eventuali segni particolari rinvenuti sulla salma, l’assegnazione di un codice identificativo unico alle salme e la sepoltura in un luogo certo e facilmente rintracciabile. Tali pratiche sono in linea con le raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 2024, che invita i pubblici ministeri ad autorizzare sistematicamente indagini conformi agli standard internazionali per la documentazione e la conservazione dei dati. Altresì le organizzazioni firmatarie hanno offerto la propria disponibilità a cooperare con le autorità al fine di favorire il matching tra segnalazioni informali di scomparsa e informazioni sulla persona deceduta. Considerato che ad oggi l’inumazione dei corpi delle persone decedute non risulta ancora essere stata effettuata e che nei giorni successivi all’invio della lettera, l’associazione Mem.Med Memoria Mediterranea ha raccolto la segnalazione del familiare di una persona scomparsa che potrebbe risultare compatibile con l’evento in oggetto, le organizzazioni firmatarie auspicano il pieno accoglimento da parte delle autorità competenti di tutte le richieste avanzate. “Riuscire ad identificare le vittime del Mediterraneo è importante perché è un modo per restituire loro dignità e visibilità, per ricordare i loro nomi e le loro storie, per dare ai loro cari certezze oltre a un luogo e un corpo da piangere” concludono ASGI, EMERGENCY, Sea-Watch e Mem. Med Memoria Mediterranea. ASGI Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione
Occupare l’utopia
Lunedì 16 giugno alle 16.15 all’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo sarà presentato il volume “Occupare l’utopia. Per la liberazione e la costituente del Comune” a cura di Toni Casano e Antonio Minaldi, Multimage, Firenze 2025 Il primo ciclo di seminari del Caffè Filosofico Beppe Bonetti del 2021/22, che diede origine al libro Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo, edito da Multimage nel febbraio 2023 e curato – come quest’ultimo – da Casano e Minaldi, costituiva un’analisi dello “stato delle cose presente”. Affrontava infatti le contraddizioni del cosiddetto antropocene o capitalocene, il capitalismo della sorveglianza, la produzione immateriale, la finanziarizzazione dell’economia, i disequilibri geopolitici e le guerre legate alla precaria riconfigurazione del nuovo ordine mondiale. Il secondo ciclo di seminari del 2023/24, invece, ha prodotto questo secondo libro, uscito sempre per Multimage nel gennaio ’25, Occupare l’utopia. Per la liberazione e la costituente del Comune, che vuole essere la prosecuzione di quei ragionamenti, ma con una curvatura propositiva, il “che fare” insomma. Ecco perché tutte le sue sezioni hanno a che vedere con la liberazione: liberazione della Terra (natura, ambiente, giustizia climatica) liberazione delle donne (femminismi e transfemminismo, movimenti di donne in Chiapas, Kurdistan, Iran, movimenti per la pace) liberazione dei popoli (palestinesi, curdi, messicani zapatisti, migranti tutti) liberazione dal debito (internazionale, pubblico e privato, in quanto funzione essenziale del capitalismo) liberazione del o dal lavoro (operaismo, postoperaismo e pensiero libertario) liberazione del Comune (il bene comune autogestito come alternativa alla dicotomia pubblico/privato) Leggiamo nell’introduzione: Le pratiche di liberazione ci permettono di capire che i luoghi di utopia, i luoghi del mondo che non c’è, in realtà sono qui tra noi. Appartenendo già alle nostre vite, le attraversano in silenzio e in trasparenza, cercando voce per urlare tutta la loro dirompenza rivoluzionaria. La prospettiva di una necessaria unità dei movimenti e delle istanze di liberazione, per quanto lontana e difficile oggi possa apparire, non può e non deve essere concepita nei termini della semplice alleanza politica tra interessi diversi. È necessario pensare in grande e andare oltre. È necessario pensare da subito la convergenza e l’intersezionalità come la messa in comune di parti di un mondo futuribile, in cui il comune valoriale è già tra noi e ci fa da guida. Da quando abbiamo cominciato come Caffè Filosofico questo percorso (che contiamo di riprendere nel prossimo autunno con nuovi seminari di lettura e studio), l’instabilità economica e geopolitica del pianeta si è indicibilmente aggravata: il “mondo grande e terribile”, come lo definiva Gramsci, è insanguinato da più di 50 guerre ed è in corso un genocidio che forse supera per efferatezza quello nazista, da quando la vittima si è fatta carnefice, ossia dalla Nakba. Il “crepuscolo del vecchio ordine imperiale”, come lo abbiamo chiamato nell’ultimo annale di Pressenza, e la crisi del modello economico capitalistico – che conosce da sempre solo l’ipertrofia dell’industria delle armi, finanziata dagli Stati-Nazione, come rimedio ultimo a concorrenza e sovrapproduzione – dovrebbero indurci allo sconforto e alla rassegnazione. Pure ci ostiniamo nella speranza e nella proposta: è questione di sopravvivenza, ma è anche questione di dare un senso alla nostra vita e un futuro ai nostri giovani. Ecco perché l’intento dell’incontro di lunedì sera non è tanto quello di parlare del libro, quanto di utilizzarlo come spunto – e pretesto quasi – per continuare e approfondire il dibattito sul “che fare”. Converseranno insieme, oltre a divers* redattor* di Pressenza Palermo, Rosario Lentini, studioso di storia dell’economia siciliana moderna e contemporanea, e Luca Casarini, animatore del Social Forum di Genova nel 2001 e fondatore di Mediterranea che, con la nave Mar Jonio, tanti soccorsi di migranti in mare ha effettuato, incurante delle denunce per favoreggiamento di immigrazione clandestina, dei processi e del recente spionaggio informatico. Daniela Musumeci
Processo ad ottobre per Mediterranea, primo contro una ong per il soccorso di migranti in mare
Riceviamo e pubblichiamo da Stefano Seppecher Lo scorso 29 maggio il giudice dell’udienza preliminare di Ragusa ha disposto il rinvio al giudizio nei confronti dell’equipaggio della Mare Jonio, nave della ong Mediterranea Saving Humans. Diverse volte in passato equipaggi di navi attive nel soccorso in mare dei migranti sono state coinvolte in processi giudiziari, ma in nessun caso si era andati oltre le fasi preliminari, per questo motivo la vicenda giudiziaria che sta coinvolgendo Mediterranea rappresenta purtoppo una prima volta assoluta. Le origini dei fatti al centro di questa disputa legale risalgono all’agosto del 2020, quando la portacontainer danese Maersk Etienne, su sollecitazione delle autorità portuali di Malta, soccorse in mare un gruppo di 27 persone. Successivamente al soccorso, le autorità maltesi non permisero lo sbarco delle persone sul proprio territorio, negando inoltre di aver fatto richiesta di intervenire dal momento che il salvataggio era avvenuto al di fuori delle acque territoriali. Sulla stessa lunghezza d’onda la risposta delle autorità italiane, le quali di fronte alle difficoltà della Etienne non si mostrarono disposte a collaborare. Il divieto di sbarco da parte di questi paesi fu causa di un lungo periodo di disagio per l’equipaggio e soprattutto per le 27 persone soccorse, peraltro già reduci dal trauma del soccorso in mare. Ci vollero infatti 38 giorni per sbloccare l’impasse che si era creata, 38 lunghi giorni durante i quali le 27 persone furono costrette a stare sul ponte di una petroliera non attrezzata per gestire una situazione di quel tipo, nel momento più caldo dell’anno. Un grado di disagio talmente elevato che portò al tentato suicidio di ben tre persone. Ad intervenire in maniera decisiva fu proprio l’ong Mediterranea che dopo molte pressioni ottenne il permesso dalle autorità italiane a prendere quelle persone sulla sua nave Mare Jonio e a farle sbarcare in Italia a Pozzallo, in Sicilia, ponendo così fine al loro calvario. I fatti alla base dell’odierno oggetto del contendere sono successivi alle vicende appena riportate. Un mese più tardi la Maersk Tankers donò 125mila euro a Idra Social Shipping, la società armatrice della Mare Jonio, per contribuire alle spese sostenute da Mediterranea per realizzare il soccorso. Un gesto che non passò inosservato e che fu subito strumentalizzato per generare la situazione che si è creata oggi. Infatti, l’accusa piombata sulla testa dell’ong è stata immediatamente quella di aver tratto un profitto dall’intervento, facendo avanzare così l’ipotesi di reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Le navi delle ong attive nel soccorso in mare sono notoriamente esposte ed esponibili loro malgrado a questo genere di accuse. Anni di campagne mediatiche denigratorie hanno cercato di rappresentarle come dei “pull factor”, ovvero dei fattori di attrazione alla base della scelta di molte persone di tentare il rischioso viaggio per mare, teoria smentita più volte dalle ricerche e dagli studi sull’argomento. Non a caso tutte le volte in cui in precedenza una nave delle ong era stata coinvolta in una vicenda giudiziaria di questo tipo il processo non era mai arrivato alla fase del dibattimento vero e proprio ma si era sempre fermato alla fase delle indagini, non sussistendo sufficienti elementi per procedere. Il caso scuola per questo genere di situazione è quello della nave Iuventa della ong Jugend Rettet. Sette anni di indagini e di fasi preliminari da parte della Procura di Trapani che è stata infine costretta nel 2024 a prosciogliere tutti gli imputati e chiudere anzitempo il processo. Per le ragioni appena citate dunque il processo che si aprirà il prossimo ottobre nei confronti di Mediterranea rappresenta un evento nuovo nel panorama giurisprudenziale italiano in materia di soccorso in mare. Il percorso giudiziario che Mediterranea si vede suo malgrado costretta a intraprendere sarà lungo e incerto, ciò che però non vacilla è la sua ferma volontà di continuare a credere nei propri valori, con a disposizione proprio da questi giorni per il futuro una nuova nave che affiancherà la mare Jonio nelle operazioni di soccorso. Perché come dichiarato dalla presidente di Mediterranea Laura Marmorale commentando quanto raccontato finora: “Prima di salva, poi si discute”. Stefano Seppecher Redazione Italia
Processi e processi
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Luca Casarini per l’accanimento persecutorio contro di lui e la nostra stima profonda per il suo operato in mare. Ricordiamo che giovedì 5 giugno alle 18 sarà a Palermo ad Una Marina di Libri, ai Cantieri Culturali alla Zisa, per intervenire alla presentazione del volume di Giovanna Fiume “Mediterraneo corsaro. Storie di schiavi, pirati e rinnegati in età moderna” Dopo 5 anni dai fatti, siamo chiamati a processo. Un dibattimento pubblico al quale non vogliamo sottrarci: non invochiamo l’immunità come se fossimo ministri. L’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver introdotto sul suolo italiano 27 persone senza documenti “, e’ una medaglia. Quelle 27 persone erano state abbandonate in mare per 38 giorni da più Stati: Malta, Italia, Danimarca, e infine, l’Unione Europea intera. Durante le udienze preliminari dalla loro voce, di quei 27 che hanno nomi e cognomi, storie, vita, abbiamo potuto sentire, anche la giudice e anche il pubblico ministero, in che condizioni erano a bordo della petroliera che li aveva soccorsi, ottemperando alla legge del mare. Una sola donna, con il marito e altri 25 uomini, uno minore. Dovevano fare i propri bisogni su un secchio, senza nemmeno un angolo di privacy. Erano relegati in una parte della prua della nave, all’aperto giorno e notte. Il Covid imponeva all’equipaggio il distanziamento, ma comunque su una petroliera non ci sono cabine passeggeri. A un certo punto sono finiti i piatti di plastica sui quali poter mangiare quel poco che veniva spartito: hanno dovuto usare dei pezzi di cartone come recipienti per il cibo. Per lavarsi stessa storia: davanti a tutti, utilizzando un barile pieno d’acqua dissalata e un mestolo. L’acqua di mare dissalata era anche quella da bere: si chiama tale, ma il sale ancora si sente. Ad agosto, con 40 gradi di giorno, si sente ancora di più. In mezzo al mare, di notte invece fa freddo. Dormivano buttati sul cordame, sulle cime della nave che è come dormire sui sassi. Il pavimento era tubi, acciaio, grate di ferro. Come stare su una graticola rovente con il sole, su una ghiacciaia durante il buio. La giovane donna, la chiamerò qui Miryam, ha raccontato di come le guardie del lager libico l’abbiano violentata in gruppo, davanti a suo marito e davanti a tutti gli altri prigionieri. Ha descritto, e questo la giudice e il pubblico ministero lo hanno sentito bene, di come quegli uomini strafatti di droga e viagra, facessero lo stesso con le altre, davanti ai loro figli. Il marito, lo chiamerò qui Yusuf, ha raccontato del tentativo di suicidio che tre dei sopravvissuti a bordo della petroliera, dopo un mese di abbandono, hanno tentato: si sono buttati in mare. Il pubblico ministero ha ironizzato: “si sono buttati in acqua, non era mica un suicidio”. Peccato che la paratia della Maersk sia di 15 metri. Equivale a buttarsi da un palazzo di dodici piani in mare aperto. Per 38 giorni nessuno, dico nessuno delle civili e democratiche autorità europee, ha sentito il dovere di mandare almeno un medico. Perché nessuno voleva essere costretto poi a prendersi carico di quei profughi fuggiti dalla Libia. E allora, dopo 38 giorni, ci siamo andati noi. Ci condanneranno per questo? Va bene, lo accetto. Lo rifarei mille volte. Ma loro lo sanno bene questo. E quindi non gli basta. Sanno che imputarci questo “reato” è come darci una medaglia. Nel loro mondo chi fa morire i naufraghi, chi paga per tenerli nei lager o perché siano deportati nel deserto, si può fregiare del titolo di “onorevole”. Chi protegge i criminali contro l’umanità è ministro o premier. Noi ci teniamo a non essere del loro mondo. E allora qual è lo stigma, l’accusa infamante da associare all’articolo 12, per il quale rischiamo 15 anni di galera? Il “lucro”. Come nel caso del mio amico e fratello Mimmo Lucano. Aver tratto profitto. Siamo spiati e scandagliati da anni. Sanno come viviamo, sanno quanti soldi abbiamo, meglio quanti debiti abbiamo. Sanno che non ci siamo arricchiti, sanno tutto. Si inventano la storia della Maersk che decide di farci una donazione tre mesi dopo quel settembre del 2020. Dal dossier dei servizi che è allegato agli atti con la formula della “relazione di polizia giudiziaria “, si capisce che hanno paura di una possibile, strana alleanza che potrebbe allargare il sostegno al soccorso in mare: i grandi armatori del traffico commerciale del Mediterraneo. Lo scrivono nero su bianco, sulla relazione che è agli atti: “obiettivo che gli imputati perseguono, nel tentativo di cambiare le leggi sull’immigrazione decise dagli Stati europei”. La donazione dunque, 125 mila euro, decisa dalla Maersk proprio per scelta politica dopo l’esperienza vissuta con i 27 naufraghi che nessuno voleva, diventa “il lucro”. A nulla valgono le deposizioni degli armatori, che spiegano perché hanno deciso di donare dei soldi a una ONG. Il pubblico ministero di fronte a tanta evidenza, nella requisitoria finale dichiara: “non abbiamo trovato le prove di un accordo, ma come non ipotizzarlo?”. Nessuna prova. Ma ci voleva il “lucro” per farci condannare subito, dal governo e dai suoi sostenitori, per via mediatica. E per farci stare male, come lo sono stato io, per una accusa infamante e spregevole, una menzogna lurida. Una calunnia che infanga. Chi si leggerà la mia deposizione troverà le parole che ho rivolto al pubblico ministero: “mi metta in galera per favoreggiamento, mi dia tutti gli anni che vuole, ma non usi contro di me l’infamia. Lei lo sa chi sono e come vivo. Voi mi conoscete. Sapete che non abbiamo mai fatto nulla, nessuno di noi, per trarre profitto “. Alla fine faremo, dopo 5 anni, questo processo. Lo trasformeremo in un processo all’omissione di soccorso. E nel mentre, saremo in mare con una nuova nave, grande il doppio. Oggi abbiamo anche saputo che siamo formalmente parte civile nel processo per la strage di Cutro. Più di cento morti, tanti bambini. Il rinvio a giudizio lì è stato chiesto per 4 ufficiali della Guardia di Finanza e due della Guardia Costiera. L’accusa è aver fatto morire cento persone, cento esseri umani. Ma non troverete tweet del governo su questo. Redazione Italia