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L’ultima corsa di Marco Cavallo per tutte le libertà
Le ultime tappe del viaggio di Marco Cavallo hanno condotto il cavallo azzurro a Brindisi e Bari, due porti strategici del Sud Italia affacciati sull’Adriatico e rivolti verso l’Albania. Da queste sponde, l’Italia sta sperimentando l’esternalizzazione delle frontiere per conto di un’Unione europea sempre meno sovranazionale e sempre più pericolosamente piegata ai desideri e alle costose stravaganze delle frange etnonazionaliste e di estrema destra, in questo caso esportando un modello di detenzione amministrativa che, negli ultimi decenni, ha già dimostrato il proprio fallimento economico, umano, ambientale, sociale e culturale. A Gjadër e Shëngjin, in Albania, sorgono infatti i nuovi centri di detenzione ispirati al sistema, già rovinoso, dei CPR italiani: avamposti di un’Europa che detiene e respinge prima di accogliere, che esternalizza la propria coscienza insieme alle promesse identitarie fondate sull’esclusione e sulla reclusione, eludendo il principio stesso dello stato di diritto. Vista dall’alto del centro di detenzione per migranti di Gjadër, provincia di Lezhë, nord dell’Albania. Foto: Nicolas Lesenfants Ramos. Fermarsi a Bari, nel giorno dedicato alla salute mentale, assume così un valore profondamente simbolico e politico: è un incontro ai margini dell’esclusione, là dove la promessa di libertà si scontra con il meccanismo della reclusione e con la continua evocazione del respingimento. Mentre il cavallo azzurro approda scorge il mare delle coste puglies, porta con sé, nel suo fragile corpo di legno, le voci raccolte lungo il viaggio e i sogni delle persone in movimento, di quelle recluse, di quelle che creano intorno al suo passaggio o cavalcano nel suo solco continuano a credere che l’immaginazione possa ancora abbattere i muri che la politica costruisce e alimenta. UN CORTEO AL GALOPPO CHE ROMPE IL SILENZIO A Bari, il corteo di Marco Cavallo parte in silenzio, ma la sua presenza è dirompente. È una ‘primavera della mente che entra senza bussare’ e, nell’uscire allo scoperto, esplode, rompendo i tappi della repressione, della retorica plastica e delle paure forzatamente introiettate che ancora creano sacche di marginalità e isolamento sociale. Non è un caso che la marcia parta dal piazzale antistante la sede principale dell’università, ovvero un’altra “istituzione totale”, oggi segnata da un diffuso malessere sociale, dove pressione, isolamento e competizione esasperata generano allarmanti livelli di disagio, soprattutto tra la popolazione giovanile e tra il personale. Secondo dati diffusi dall’Istat – Istituto Nazionale di Statistica e analisi riportate dall’agenzia stampa ANSA, in Italia un terzo degli studenti universitari soffre di ansia, e oltre un quarto manifesta sintomi depressivi. Uno studio internazionale (“Exploring mental health of Italian college students: a systematic review and meta-analysis”, giugno 2025) stima, inoltre, che il rischio suicidario tra gli studenti italiani sia attorno al 7%. La salute mentale dovrebbe occupare un posto centrale nelle politiche giovanili, come ha ricordato anche il rappresentante delle studentesse e degli studenti intervenuto in piazza a Bari durante la manifestazione, Valerio Fresa, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale contestualmente alla marcia di Marco Cavallo. Colui o colei che vengono etichettati/e come “matti” o “matte”, nell’interpretazione basagliana, vengono resi/e così diversi/e da apparire alieni/e, esclusi/e persino dal ruolo di nemico/a che assicurerebbe, invece, un’identità maggiormente definita e parte integrante della società. Allo stesso modo, la persona giovane che cerca di formare la propria identità in una società ferocemente competitiva rischia in tale concezione di essere percepita come estranea, fino a essere respinta attraverso la continua idealizzazione della migrazione come unica via possibile, quasi fosse necessario liberarsi della potenziale diversità delle persone in fase di crescita in contesti che rifiutano di accogliere i processi e gli esiti di tale cambiamento. L’emigrazione giovanile è infatti in costante crescita, soprattutto nel Sud Italia: tra il 2013 e il 2022, la Puglia ha registrato uno dei tassi più alti di emigrazione di giovani laureati (25-34 anni), raggiungendo le cifre di una persona emigrata ogni mille abitanti, tenendo conto solo dei dati statisticamente rilevabili e senza includere i/le giovani in mobilità. Il matto, così come la persona giovane, è dunque l’altro da sé, colui che deve restare altrove, invisibile, per permettere alle classi dominanti di difendere la fragile illusione di una normalità chiamata “società”. Lo stesso meccanismo di esclusione e rimozione si ripete oggi nei CPR, centri di detenzione amministrativa dove persone senza documenti, anziché essere in condizione di condividere le proprie storie e il potenziale, vengono rinchiuse in nome della sicurezza: luoghi che ripropongono, sotto nuove forme, la logica dei manicomi. L’INCONTRO CON LA CITTÀ TRA INCREDULITÀ E SPERANZA Il passaggio di Marco Cavallo per le strade di Bari suscita curiosità, stupore e talvolta derisione. All’improvviso, dietro un angolo, se ne intravede soltanto un frammento, poi il cavallo azzurro si rivela interamente, e il turchese del suo corpo ligneo si accende di una luce impossibile da ignorare o da sfuggire con lo sguardo. «Ma chi è quello? Ma libera pure noi?» – ironizza a voce alta una ragazza uscendo da un negozio. La sua battuta canzonatoria attira altri sguardi, altre persone di passaggio, più o meno curiose. È proprio in quell’istante che si manifesta la forza dell’arte pubblica: l’ironia diventa partecipazione, lo scherno si trasforma in domanda. «Da che cosa abbiamo bisogno di essere liberati?», chiede un uomo uscendo dal suo negozio per fermarsi a osservare il passaggio di Marco Cavallo accanto alla ‘Cavallina terrona’ creata a Latiano (BR) nel 2008. L’EREDITÀ DELLA LEGGE 180 QUALE BENE COMUNE E PERCORSO TRASFORMATIVO La campagna #180benecomune che ha l’obiettivo di difendere la ‘legge che ci rende umani per restare umani’, promossa dal Forum Salute Mentale con la partecipazione di centinaia di sigle da tutto il territorio nazionale, richiama proprio questo spirito trasformativo. La legge 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, pur essendo passata alla storia in tal modo, in realtà non è banalmente la ‘norma che ha chiuso i manicomi’, come viene continuamente ricordato in occasione di ogni uscita di Marco Cavallo, ma è un vero un presidio di civiltà che ha dato avvio a un percorso ancora lungi dall’essere concluso e che prevede un cambiamento profondo dell’approccio alla salute così come alla sanità pubblica. Si tratta di un percorso culturale, e non soltanto di un esito legislativo, che affronta in maniera estesa come mai prima di allora la dimensione dei diritti umani, il riconoscimento dell’altro, le possibilità di convivenza con la diversità, dentro e fuori di noi. Oggi, mentre si tenta di ridimensionarne l’eredità e i CPR rappresentano l’inasprimento delle politiche pubbliche sotto forma di istituzioni della segregazione e della violenza sociale, riaffermare quello spirito è più urgente che mai: la dignità umana non conosce confini. In tale ottica, ogni tappa del viaggio di Marco Cavallo che ha attraversato la penisola nel corso dell’ultimo mese è stata costruita attraverso percorsi di dialogo con le comunità locali, intrecciando musica, arte, immagini, incontri con le istituzioni locali, documentazioni giornalistiche, dibattiti e performance teatrali. LE VOCI DI BARI E LE TESTIMONIANZE DAL CAMPO Durante l’incontro finale del 10 ottobre, lo psichiatra Claudio Minervini del Centro Sperimentale Pubblico per lo Studio e la Ricerca sulla Salute Mentale Comunitaria “Marco Cavallo” di Latiano (BR) ha ricordato le origini di Marco Cavallo, nato nel 1973 all’interno del manicomio di San Giovanni a Trieste, sotto la direzione di Franco Basaglia. «Il cavallo blu – racconta Minervini – nacque dal sogno di una persona ricoverata che lo disegnò con la pancia piena di desideri. C’era chi vi mise un fiasco di vino, chi un orologio perduto, chi il desiderio di rivedere il proprio bambino dato che all’epoca si poteva essere detenuti in un manicomio per il solo fatto di essere ragazze madri. In pochissimo tempo, Marco Cavallo divenne così il simbolo della liberazione collettiva: quando riuscì a sfondare i cancelli del manicomio, furono i sogni, non solo le persone, a uscire all’aria aperta e a rivedere il cielo fino a perdercisi.» Oggi, quel gesto si ripete idealmente davanti ad altri cancelli ovvero quelli dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), dove uomini e donne vengono rinchiusi per il supposto ‘reato’ di non avere i documenti in regola senza poter accedere neanche a una procedura processuale né poter conoscere il proprio destino. Lo psichiatra Filippo Cantalice, membro del comitato direttivo nazionale dell’associazione Psichiatria Democratica, racconta l’accesso negato al CPR di Bari Palese, in viale Europa: «Solo parlamentari e consiglieri regionali possono accedervi. Noi, nonostante l’autorizzazione firmata, siamo stati respinti. Ma ciò che è invisibile deve diventare visibile: i CPR sono strutturati lungo corridoi infiniti, a metà tra manicomio e carcere, luoghi dove la sofferenza è resa sistemica e l’incuria raggiunge livelli estremi di invivibilità». Cantalice ricorda come Basaglia, a Gorizia, avesse capito con chiarezza fino a che punto, nonostante i migliori sforzi e tentativi da parte di esperti e professionisti, un manicomio non potesse in alcun modo essere “umanizzato”, ma soltanto essere chiuso. «Lo stesso vale per questi lager moderni. Non si tratta di riformarli, ma di abolirli.» TRA SALUTE MENTALE E POLITICHE MIGRATORIE: UNA STESSA LOGICA DI SEGREGAZIONE Il legame tra i manicomi di ieri e i centri di detenzione di oggi non è solo simbolico. Entrambi nascono da un medesimo impulso: isolare ciò che la parte conformista della società ritiene deviante non vuole vedere. Che si tratti di disagio mentale, povertà, o percorsi migratori, il meccanismo è lo stesso: spostare il problema altrove, confinandolo dietro muri fisici e burocratici, ai margini delle città e spesso in luoghi alieni come reso evidente dalle strutture attraversate dal viaggio di Marco Cavallo a Brindisi e a Bari, così come nelle tappe precedenti. E se ieri i manicomi servivano a proteggere la società dalle proprie paure, oggi la detenzione amministrativa ne riproduce la logica con altri nomi e altri corpi fabbricando terrore laddove potrebbe non essercene e dove, anzi, le persone sono necessarie per ricomporre un tessuto sociale vivente come nel caso dell’Italia meridionale esemplificato dai progetti di accoglienza diffusa realizzati lungo la dorsale ionica in Calabria e studiati in tutto il mondo. La legge 180 aveva aperto una breccia nella cultura della segregazione così come l’attivazione dei progetti SPRAR, poi SAI, avevano fatto per l’accoglienza delle persone migranti e rifugiate, ma ora quelle brecce rischiano di richiudersi. E DOPO, COSA FARÀ MARCO CAVALLO? Sui muri del Centro Sperimentale “Marco Cavallo” di Latiano (Brindisi), una scritta su una foto storica recita: «Cosa farà Marco Cavallo quando sarà finito?» Oggi, la domanda calza a pennello e ne genera molte altre: Attraverserà di nuovo l’Italia a ritroso, per ricucire le ferite sociali che ha incontrato? Porterà con sé le proposte, le speranze, i desideri raccolti lungo la strada? O, forse, riuscirà a varcare nuovi cancelli, a partire da quelli extraterritoriali di Gjadër e Shëngjin, e ad attraversare l’Adriatico, simbolicamente, per oltrepassare anche i confini della mente e della politica di detenzione? L’ULTIMA CORSA DEL CAVALLO AZZURRO Fino alla fine, Marco Cavallo è rimasto fedele al suo destino: quello di unire ciò che il potere divide, di rendere visibile ciò che è nascosto. Nel giorno della Giornata mondiale della salute mentale, il suo arrivo a Bari chiude un percorso iniziato a Trieste il 6 settembre, nei luoghi dove Basaglia aveva insegnato al mondo intero che «da vicino nessuno è normale» e che quella che chiamiamo “normalità” altro non è che un’illusione dalla quale guardarsi bene se si vuole realmente essere – e, soprattutto, restare – umani. Da Gradisca d’Isonzo a Milano, da Ponte Galeria a Palazzo San Gervasio, per oltre un mese il cavallo azzurro ha attraversato l’Italia dei confini e delle paure, chiedendo la chiusura dei CPR e il ritorno a una cultura della cura, non della reclusione. Marco Cavallo porta vicinanza, curiosità e coraggio. Ricorda che la malattia, ammesso sia tale, non può essere curata attraverso l’esclusione, così come la mobilità umana non può essere governata attraverso la detenzione. Perché, come ci insegna ancora Basaglia, la libertà non può più essere un privilegio, ma essa stessa è terapia e orizzonte di crescita collettiva. Anna Lodeserto
Dai manicomi ai centri di detenzione: la lunga marcia di Marco Cavallo contro la detenzione
A BRINDISI, IL DOPPIO “CAVALLO BLU” DI BASAGLIA SFIDA IL CONFINE ADRIATICO Simbolo della liberazione dei manicomi psichiatrici nell’Italia degli anni Settanta, Marco Cavallo, il celebre “cavallo blu” di Trieste, è tornato in cammino il 6 settembre scorso, a cinquant’anni dalla sua creazione. Il suo viaggio lo ha condotto fino alla punta meridionale dell’est della penisola, a Brindisi, di fronte all’Adriatico guardando idealmente verso la costa di arrivo delle persone deportate in Albania, a ridosso del centro di detenzione extraterritoriale costruito dal governo italiano a Gjadër. Tra memoria e resistenza, il suo passaggio in Puglia ha riacceso la lezione di Basaglia: finché esiste un lager, non può esserci cura. È proprio in questi termini che Franco Basaglia descrive i manicomi, a partire da quello di Gorizia, nel quale entrò per dirigerlo il 16 novembre 1961, affermando: «Questo qui è un lager e finché c’è un lager nessuna terapia è possibile». Da quel momento in poi, il suo operato rappresentò una cesura netta con quanti speravano che si trattasse di istituzioni migliorabili o normalizzabili, come lui stesso aveva provato a credere e persino iniziato a fare agli inizi del suo percorso, per poi rendersi conto che qualsiasi tentativo di rendere quei luoghi tollerabili o ‘vivibili’ equivaleva in realtà a mantenerne la funzione repressiva, una negazione della vita e della possibilità di trovare pace nell’arco dell’esistenza delle persone sottoposte alla reclusione. Per loro, e insieme a loro, Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro si sono battuti per tutta la vita contro l’istituzione totale (riprendendo il concetto sviluppato nelle teorie esposte dal sociologo canado-statunitense Erving Goffman, in particolare nel testo “Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates”, pubblicato a New York nel 1961 e tradotto per la prima volta in lingua italiana nel 1968 da Franca Ongaro, con la collaborazione e il testo introduttivo del marito), lasciando un’eredità avanguardista che ora galoppa spedita attraverso la penisola, nella pancia e sulle zampe di Marco Cavallo. È stato un viaggio lungo e faticoso, il suo, attraversando i principali luoghi di reclusione italiani, da Gorizia fino a Brindisi e Bari, dove il suo percorso iniziato oltre un mese prima si conclude in concomitanza con la Giornata mondiale della salute mentale, celebrata in tutto il mondo il 10 ottobre di ogni anno. Le ultime tappe dell’itinerario di Marco Cavallo lo portano oggi a Brindisi per proseguire alla volta di Bari dove è atteso per la conclusione in “grand finale”. Due porti strategici dell’Europa meridionale affacciati sull’Adriatico e, in particolare sull’Albania: è proprio lì, sull’altra sponda del mare, che l’attuale governo italiano sfrutta la lunga coda della propria posizione dominante, o meglio di una proiezione nutrita di ideologia neocoloniale come accuratamente descritta dall’antropologo internazionalista di origine albanese Fabio Bego, spingendo al limite più estremo, sia dal punto di vista geografico che politico-amministrativo, la sperimentazione legata all’esternalizzazione delle frontiere in regime di detenzione, alimentando i continui decreti-legge con la paura propagandistica e preparando il terreno alla replica del modello verso i paesi terzi su scala europea. A Gjadër e Shëngjin, nel nord dell’Albania, i nuovi centri ispirati ai CPR italiani (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), avamposti di un’Unione europea che rinchiude prima di accogliere, che esternalizza la propria coscienza insieme al proprio controllo, mentre prepara la riforma del regime previsto dalla “direttiva rimpatri” (direttiva 2008/115) stanno per compiere un anno dai primi trasferimenti coatti, la maggior parte dei quali hanno avuto origine proprio dal porto di Brindisi. Arrivare qui non può mai essere una casualità, né un mero passaggio, bensì un incontro/scontro tra la promessa di libertà e la macchina implacabile dell’internamento, nel cuore della geografia dell’esclusione. Raggiungendo la sponda più stretta dell’Adriatico, Marco Cavallo trasporta nella sua carcassa blu tutte le voci incontrate lungo il cammino: quelle dei/lle pazienti, delle persone migranti, delle voci artistiche, delle mani artigiane e della cittadinanza, insieme a tutti coloro pronti a credere ancora che l’immaginazione possa abbattere i muri là dove la politica li erige. UN SIMBOLO NATO IN UN MANICOMIO, MA PRONTO A CHIUDERLO Marco Cavallo è nato nell’ospedale psichiatrico del Parco di San Giovanni di Trieste, non come un essere vivente, ma come un atto d’immaginazione collettiva. Pazienti e artisti lo crearono sotto la guida dello psichiatra Franco Basaglia, figura chiave della riforma psichiatrica italiana. Il suo nome è associato a quello di un vero cavallo che all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso trasportava biancheria e viveri all’interno del manicomio, visto dalle persone in stato di reclusione come l’unico essere vivente libero e autorizzato a entrarvi. Quando il cavallo rischiava di essere abbattuto, pazienti e operatori si mobilitarono per salvarlo e per ottenere che restasse a riposo nelle vicinanze. Si trattò di un gesto di resistenza in un luogo pensato per negare l’umanità e proprio da quella rivolta nacque un cavallo gigantesco in cartapesta, abbastanza grande, come spiegavano i pazienti che avevano contribuito a crearlo, per poter “contenere tutti i nostri sogni”. Il 25 febbraio 1973, quando il cavallo varcò per la prima volta le porte del manicomio e avanzò per le strade di Trieste, più di cinquecento persone lo accompagnarono in giubilo e ricerca di libertà. Fu “l’inizio della fine” dei manicomi italiani, un momento storico di gioiosa esplosione, un grido collettivo di libertà e dignità a cielo aperto. Cinque anni più tardi, la legge 180, detta legge Basaglia, avrebbe contribuito ad avviare il lungo processo per l’abolizione dei manicomi in Italia. Più che una riforma della salute mentale, tale legge rappresentò un autentico manifesto di umanità e progresso e sancì un impegno collettivo concreto per la libertà e la responsabilità sociale. L’EREDITÀ DI FRANCO BASAGLIA OGGI Durante la sua vita, e anche dopo la morte, Franco Basaglia (1924–1980) sconvolse la visione dominante della follia. Per lui, quello che ancora oggi viene definito “malattia mentale” non era una devianza di carattere individuale, ma il sintomo di una società malata, segnata dall’esclusione, dalla povertà, dalla discriminazione e dall’ingiustizia sociale. Sulla scia del quadro teorico sviluppato da Goffman e sull’esperienza diretta avviata inizialmente nel nord-est dell’Italia per poi essere esposta in tutto il mondo (in particolare in Brasile), Franco Basaglia ha denunciato per tutta la vita un sistema in cui manicomi, carceri e, oggi, centri di detenzione obbediscono alla stessa logica: rinchiudere chi disturba la società. Decenni dopo, questa visione illumina ancora l’azione di psicologi, attivisti e organizzazioni della società civile che sostengono il viaggio di Marco Cavallo nei CPR. Tali centri, creati per trattenere le persone migranti ‘colpevoli’ di non possedere un pezzo di carta, incarnano oggi l’espressione più attuale di quella cultura della paura, della repressione e della punizione ereditata dall’epoca pre-Basaglia. Si tratta di luoghi che prolungano un sistema di controllo e violenza mai del tutto scomparso tanto da essere ora persino esportabile, come sta accadendo in via sperimentale nella provincia di Lezhë, nel nord dell’Albania. DAL MONDO PSICHIATRICO ALLA DETENZIONE AMMINISTRATIVA Cinquanta anni dopo, Marco Cavallo è tornato in cammino, più deciso e rapido che mai. Nell’ambito della campagna promossa, tra gli altri, dal Forum Salute Mentale, dalla rete Mai più lager – No ai CPR, dalla SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, dalla Brigata Basaglia e dall’Associazione 180amici Puglia, l’iniziativa Il viaggio di Marco Cavallo nei CPR s’inserisce in un impegno collettivo per denunciare l’internamento e rivendicare la chiusura dei centri di detenzione amministrativa. Dopo aver aperto la strada e denunciato l’umanità negata negli ospedali psichiatrici giudiziari, oggi attraversa una nuova generazione di istituzioni invisibili, permeate di violenza strutturale e razzismo istituzionale. Da Trieste a Brindisi, passando per Milano, Roma e Potenza, ogni tappa del viaggio di Marco Cavallo ha dato vita ad assemblee pubbliche, performance artistiche e letture di lettere indirizzate alle persone detenute. A Brindisi, due cavalli blu — uno giunto da Trieste e l’altro, chiamato ‘Cavallina terrona’ per sottolineare il suo radicamento nel Sud d’Italia e del mondo, proveniente dal Centro Sperimentale Pubblico per lo Studio e la Ricerca sulla Salute Mentale Comunitaria “Marco Cavallo” di Latiano (BR) — hanno guidato una manifestazione che ha riunito artisti e associazioni, tra cui l’Associazione 180amici Puglia APS e la rete NO CPR Brindisi. Inserita nella campagna nazionale per la salute mentale e la giustizia sociale “180 Bene Comune”, l’iniziativa ha denunciato condizioni di vita allarmanti: isolamento prolungato, sofferenza psichica, uso sistematico di psicofarmaci per soffocare il disagio. Artisti, operatori e attivisti, seguendo Marco Cavallo nelle sue uscite pubbliche e nelle traversate da un territorio all’altro, hanno lanciato a gran voce un appello collettivo per la chiusura definitiva di tutti i CPR e la difesa incondizionata dei diritti delle persone migranti. Inoltre, la tappa di Brindisi assume un significato particolare nel quadro generale della campagna, poiché il CPR locale è il più vicino al centro di Gjadër, in Albania, situato a meno di duecento chilometri in linea d’aria. Numerose persone migranti espulse da Brindisi sono state trasferite via mare sotto scorta militare, illustrando la dimensione transnazionale del sistema di detenzione italiano. È infatti dal porto di Brindisi che, nel mese di aprile scorso, sono partiti i primi convogli militari dei trasferimenti coatti diretti verso le nuove strutture albanesi istituite in applicazione del decreto-legge 37/2025. Le persone sono in stato di reclusione in maniera indeterminata e per durata indefinita con il pretesto di essere in possesso di un documento scaduto o di aver smarrito anche quello mostrando, nel frattempo, il vero volto di una feroce politica europea di esternalizzazione delle frontiere e di rafforzamento istituzionale della detenzione amministrativa. Tale sistema riproduce sotto nuove forme e con mezzi rafforzati la logica dei vecchi manicomi psichiatrici, pretendendo di proteggere la società dalle proprie paure propagandistiche in nome di una supposta legalità nell’accezione già denunciata da Luca Rastello nel suo libro “La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani” e nel testo “I feticci della legalità e della memoria”. UN VIAGGIO DI RESISTENZA E MEMORIA ACCOMPAGNATO DA ARTE E TEATRO Nel piccolo spazio di fronte a uno degli ingressi del centro di detenzione di Restinco, i partecipanti hanno letto ed esposto attraverso i propri corpi i nomi delle cinquanta persone morte nei CPR dal 1998 a oggi, osservando poi cinque minuti di silenzio in loro memoria. Le ‘bandiere di stracci’ cucite con tessuti di recupero sventolavano al vento come in tutte le altre tappe precedenti, riproducendo ancora una volta la metafora poetica di una dignità ricucita che sopravvive nelle condizioni più ostili e oppressive. Dopo la visita, le persone partecipanti sono rimaste all’esterno, davanti all’ingresso principale del centro, in attesa della conclusione della missione di monitoraggio del deputato Claudio Stefanazzi, vicepresidente della commissione bicamerale del Parlamento italiano per le questioni regionali, che ha dichiarato: «Ho avuto l’onore di guidare nuovamente la delegazione incaricata di ispezionare il CPR di Restinco. I CPR, nati come strutture di transito, sono ormai diventati luoghi di detenzione dove le persone trattenute restano in balia di un sistema di burocrazia insensata, vittime di una repressione che fa della criminalizzazione della migrazione uno strumento di potere, fino a esportarlo oggi in Albania». All’esterno, anche i due cavalli blu attendevano, incarnando il grido collettivo contro i luoghi di disumanizzazione e criminalizzazione dei migranti. Sono poi rientrati a Latiano, prima che nel pomeriggio un corteo animato e variegato in quanto a partecipazione si dispiegasse per le strade del centro di Brindisi, mescolando impegno civico, memoria storica ed espressione artistica. Attorno al cavallo blu, diverse iniziative hanno poi continuato ad animare il centro di Brindisi, intrecciando mostre fotografiche, spettacoli teatrali e dibattiti pubblici, tessendo legami tra salute mentale, migrazione e diritti umani con un messaggio molto chiaro: l’internamento è la sconfitta morale dell’Europa, è ancora possibile invertire la rotta. Nell’auditorium dello Spazio Culturale Yeahjasi Brindisi, lo spettacolo teatrale “Reietti. Come creammo i CPR”, scritto e diretto da Oscar Agostoni in collaborazione con Disturbi Teatro, ha proposto un monologo documentato e intenso che racconta le condizioni all’interno dei CPR italiani, ricordando tutti i decessi avvenuti dal 1998 al loro interno e sostenendo la richiesta per la loro immediata abolizione. Negli stessi spazi di via di Santa Chiara, nel centro storico di Brindisi, è stata presentata la mostra fotografica “The Adriatic Guantánamo ~ La Guantanamo Adriatica”, con gli scatti di Nicolas Lesenfants Ramos che hanno guidato il pubblico nell’esplorazione diretta dei centri di detenzione di Gjadër e Shëngjin costruiti dal governo italiano in Albania. Inizialmente esposta alla House of Compassion di Bruxelles, la mostra e il lavoro giornalistico che la accompagna collegano la mobilitazione italiana a quella della rete transnazionale “Network Against Migrant Detention” e l’inquietante prossimità tra il CPR di Restinco, situato alla periferia di Brindisi, e quello di Gjadër, sull’altra sponda dell’Adriatico. RIPRENDERE L’EREDITÀ DI FRANCO BASAGLIA DIFENDENDO LA DIGNITÀ SENZA FRONTIERE Difendere e proseguire nel soldo dell’eredità di Basaglia oggi equivale a riconoscere il fatto concreto che la dignità non possa essere limitata da frontiere e che nessun individuo debba essere nascosto o rinchiuso per la propria singolarità, fragilità o provenienza geografica. Come ricordava Basaglia, la libertà è terapeutica. Nella sua galoppata decisa, il cavallo blu rinnova questa lezione: la libertà non è un luogo da raggiungere, ma un modo di abitare il mondo, un atto vivente, rinnovato a ogni incontro, a ogni gesto di coraggio, a ogni fragile alleanza. Prosegue così il percorso di Marco Cavallo, apparentemente fragile ma invincibile, lungo il cammino della dignità individuale e collettiva. Anna Lodeserto
CPR: “COSTI ELEVATISSIMI E RIMPATRI AI MINIMI STORICI”, LA DENUNCIA DI ACTIONAID ED UNIBA
Il lavoro di ricerca di Action Aid e dell’Università di Bari, ha fatto emergere nuovi dati che riguardano i 14 centri di reclusione per persone considerate non in regola con i documenti, in Italia e in Albania. Dall’analisi dei dati dai quali parte la denuncia, emergono costi elevatissimi e rimpatri ai minimi storici. Nel frattempo sono 287 i migranti giunti a Lampedusa dopo che le motovedette di guardia costiera, Frontex e Guardia di Finanza hanno soccorso 5 barconi.  Due dei migranti, con intossicazione da idrocarburi, sono stati trasferiti in elisoccorso al Civico di Palermo. Sui barconi, salpati da Zuwara e Zawija in Libia, gruppi di egiziani, siriani, iraniani, bengalesi, eritrei, pakistani e somali. “Il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane”. Con queste parole ActionAid e l’Università degli studi di Bari definiscono il CPR di Gjader che, nel 2024, è stato “effettivamente operativo” per appena 5 giorni per un costo giornaliero di 114 mila euro. Il dossier, pubblicato sul portale “Trattenuti”, esamina i costi e l’efficienza del centro albanese, nato in seguito alla stipula del discusso protocollo tra Roma e Tirana. A fine marzo 2025, spiegano ActionAid e Unibari – a Gjader erano stati realizzati 400 posti. “Per la sola costruzione (compresa la struttura non alloggiativa di Shengjin) sono stati sottoscritti contratti, con un uso generalizzato dell’affidamento diretto, per 74,2 milioni – si legge nella ricerca. L’allestimento di un posto effettivamente disponibile in Albania è costato oltre 153mila euro. Il confronto con i costi per realizzare analoghe strutture in Italia è impietoso: nel 2024 il Cpr di Porto Empedocle è costato 1 milione di euro per realizzare 50 posti effettivi (poco più di 21.000 euro a posto)”. Inoltre, secondo i dati pubblicati sul portale, per l’ospitalità e la ristorazione delle forze di polizia impiegate sul territorio albanese, l’Italia ha speso una cifra che si aggira attorno ai 528 mila euro.  Nell’aggiornamento dei dati su tutti i Cpr presenti in Italia, ActionAid e l’Ateneo pugliese evidenziano inoltre come nel 2024 si sia registrato il minimo storico dei rimpatri negli ultimi dieci anni. Ci espone i dati della ricerca di ActionAid ed UniBari, Fabrizio Coresi, esperto migrazione di Action Aid. Ascolta o scarica
Cronache dal CPR sardo di Macomer
In questo episodio di Harraga, in onda ogni venerdì su Radio Blackout, insieme al prezioso contributo di un compagno dalla Sardegna abbiamo parlato di uno dei CPR più isolati, punitivi…
MIGRANTI: RINVIO ALLA CORTE UE SUL PROTOCOLLO ITALIA-ALBANIA. LA CASSAZIONE SOLLEVA DUBBI SULLA LEGITTIMITÀ
La Corte di Cassazione ha trasmesso due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per chiarire la compatibilità del Protocollo Italia-Albania con il diritto comunitario. Un passaggio che mette in discussione la legittimità del trasferimento di richiedenti asilo nei Centri di permanenza e rimpatrio (CPR) previsti sul territorio albanese. In particolare, la Cassazione ha sollevato dubbi circa la coerenza del protocollo con la Direttiva Rimpatri e la Direttiva Accoglienza, due capisaldi del sistema europeo in materia di gestione delle migrazioni e protezione internazionale. Una risposta potrebbe arrivare in pochi mesi. Le questioni riguardano due casi: quello di un migrante in situazione di irregolarità amministrativa e quello di un richiedente asilo che ha fatto domanda di protezione internazionale da dietro le sbarre di quel Cpr. Per il primo il dubbio è che il trasferimento dall’Italia all’Albania contrasti con la direttiva rimpatri. Per il secondo un analogo sospetto riguarda la direttiva accoglienza. Il tema è quello della territorialità: la prima sezione penale, afferma il Manifesta che ha anticipato la notizia, è tornata sui propri passi capovolgendo una precedente decisione in cui aveva equiparato il Cpr di Gjader a quelli che si trovano in Italia. Il rinvio alla Corte europea arriva dopo una serie di pronunce contrarie da parte delle sezioni immigrazione e delle Corti d’appello italiane, che hanno più volte sottolineato profili di incostituzionalità o contrarietà ai trattati internazionali. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, l’intervista all’avvocato Nicola Canestrini. Ascolta o scarica.