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Migrazioni e lotte sindacali nel settore tessile pratese
Il distretto industriale di Prato è stato recentemente oggetto di attenzione nazionale a causa delle lotte del sindacato di base Sudd Cobas contro le insostenibili condizioni di lavoro di alcune imprese tessili del territorio. Per capire le origini di questi conflitti sindacali è importante ripercorrere la storia recente di questo settore nel pratese tramite lo sguardo etnografico che ci viene offerto dal libro Tight Knit. Global Families and the Social Life of Fast Fashion di Elizabeth I. Krause, che si concentra sull’impatto della migrazione cinese nella zona. Prato è un microcosmo di industrializzazione e migrazione che può essere studiato a partire da tre fasi distinte: il flusso regionale di contadini toscani dopo la guerra, l’arrivo dei migranti meridionali negli anni ’60 (oggi circa il 12% della popolazione) e, dagli anni ’90, l’ondata di migrazione transnazionale dominata dai cinesi di Wenzhou. LA LOGICA DEL FAST FASHION Da questo decennio prende il via il consolidamento delle catene di approvvigionamento globali e la trasformazione del settore grazie a migliaia di immigrati cinesi che si stabilirono nelle zone industriali della Toscana per produrre abbigliamento. Si trattò di una vera e propria controtendenza rispetto alla delocalizzazione in Asia, generando il pronto moda, cioè una produzione manifatturiera iper-veloce che ha trasformato il volto della città di Prato. Il pronto-moda è legato al fenomeno del fast fashion, un modello di business in cui le fasi di design, produzione e vendita sono così serrate da sovrapporsi, producendo abbigliamento per rispondere immediatamente alle tendenze in voga. Questo sistema, nato negli anni ’60 ed esploso negli anni ’90, ha moltiplicato le stagioni della moda da due l’anno a sei-otto o più, con retailer che cambiano collezioni mensilmente. Per i consumatori la fast fashion incarna la fantasia di una democrazia dell’eleganza, permettendo identità flessibili a basso costo. Per retailer come Zara o H&M e per i loro investitori è una formula vincente che massimizza i profitti minimizzando le scorte e i margini di ribasso. > Tuttavia questo modello richiede all’altro capo della catena regimi di lavoro > estremamente flessibili e spesso con alti tassi di sfruttamento, con turni di > 16-18 ore, ambienti di lavoro malsani e la dolorosa necessità per molti operai > di mandare i propri bambini in Cina per essere accuditi, liberando tempo per > il lavoro. Prato è diventato un focolaio di imprenditoria transnazionale, con una fitta rete di piccole imprese a conduzione familiare cinese che spesso subappaltano lavoro ad altr* cinesi. Questa rete è ciò che si cela il più delle volte dietro l’etichetta Made in Italy. Una lettura simile viene sposata da Antonella Ceccagno nel saggio L’etnicizzazione della forza lavoro nella moda italiana contenuto nel libro Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi. Ceccagno sostiene che tradizionalmente gli studi su questo fenomeno si sono concentrati su aree specifiche come Prato che rappresenta il caso più significativo per essere stato il primo distretto di insediamento, un hub di smistamento e l’unico luogo dove lavoratrici e lavoratori cinesi hanno raggiunto in massa il ruolo di committenti, controllando quasi interamente la filiera del fast fashion low-cost in una catena transnazionale che coinvolge Cina, Turchia e vari Paesi europei. Le ricerche in materia si sono spesso limitate all’analisi dei singoli laboratori, ai loro vantaggi competitivi basati su flessibilità, costi ridotti, lunghe ore di lavoro e reti transnazionali o al concetto di imprenditoria etnica. Sarebbe invece utile spostare l’attenzione sulla rete complessiva dei laboratori cinesi e verso il processo di etnicizzazione della forza lavoro, inteso come pratica funzionale a un preciso regime produttivo. La maggior parte di questa forza lavoro, se non la totalità, non è italiana. Il contesto in cui queste imprese nascono è caratterizzato da: l’ascesa di competitor come la Cina, il potere crescente dei retailer globali, il sorgere del fast fashion e la delocalizzazione. Le piccole imprese italiane, impossibilitate a delocalizzare, hanno avuto bisogno di forme più drastiche di riduzione dei costi, trovando nei migranti cinesi una risposta. È in questo scenario turbolento che lavoratrici e lavoratori cinesi si sono inseriti come terzisti, prima a Prato, Milano e Napoli, poi in tutto il Paese. L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO Queste imprese si basano sull’interdipendenza tra la stasi intra-laboratorio e la mobilità inter-laboratorio. La stasi è garantita dagli sleeping agreements, accordi per cui lavoratori e lavoratrici vivono e mangiano all’interno del laboratorio stesso o in alloggi vicini gestiti dal datore di lavoro. Alle ditte finali italiane viene offerta una sorta di “delocalizzazione in loco”, con manodopera a bassissimo costo, violazione sistematica delle leggi sul lavoro ed esternalizzazione dei costi. Esiste una mobilità interna che si manifesta come spostamento temporaneo di chi lavora tra laboratori per far fronte a picchi di produzione e una mobilità territoriale, una strategia di uscita per cercare opportunità migliori. Il funzionamento di questo sistema richiede due condizioni sine qua non. In primis la delocalizzazione della riproduzione sociale (figlie e figli vengono spesso mandati in Cina dai nonni o affidati a balie) e l’etnicizzazione della forza lavoro. Quest’ultimo è un processo attivo volto a ridurre la diversità linguistica e culturale tra chi lavora. Assumendo quasi esclusivamente connazionali (spesso da precise province come Zhejiang e Fujian) si minimizzano incomprensioni, si condividono aspettative comuni (come l’ideologia del migrante di successo disposto a sacrifici estremi per arricchirsi rapidamente) e si garantisce che un nuovo operaio, arrivato all’improvviso, sia immediatamente produttivo nei ritmi frenetici del fast fashion. Questo non significa raggiungere una piena omogeneità (i dialetti sono diversi) ma crea una sufficiente fluidità funzionale alla produzione. Il quadro si complica se teniamo in considerazione altri elementi. > La forza lavoro impiegata non è esclusivamente cinese essendoci anche una > importante componente pakistana e bengalese che lavora sia per l’imprenditoria > italiana che per quella cinese. L’immagine dei cinesi terzisti e degli > italiani committenti, inoltre, ormai appartiene al passato . Gli imprenditori cinesi sono diventati anche committenti mentre tanti imprenditori italiani sono passati alla rendita attraverso l’affitto dei capannoni e la rinuncia all’attività di impresa. Si tratta esattamente del contesto economico in cui si svolgono le lotte sindacali a Prato e che viene descritto nel dettaglio da Morganne Blais‑McPherson in Recognition and refusal in Italy’s migrant labour struggles: building a better life from the picket line. Il modello Prato si regge ormai su un sistema produttivo duale dove, accanto a un segmento di imprese, come la Texprint Srl, che operano nella stampa su tessuto e nella commercializzazione, spesso per clienti di fascia alta, si è sviluppato un fitto e periferico sottobosco di piccole e piccolissime imprese. La competitività del sistema nel suo complesso poggia su un sistematico abbassamento del costo del lavoro, reso possibile da un meccanismo di ricatto giuridico-amministrativo perfetto tramite la legge Bossi-Fini del 2002 che vincola il permesso di soggiorno al possesso di un regolare contratto di lavoro. Questo legame crea una leva potentissima che spinge lavoratrici e lavoratori migranti ad accettare violazioni contrattuali sistematiche pur di non perdere il proprio status legale. LE LOTTE ALLA TEXPRINT La richiesta centrale degli operai in sciopero alla Texprint, sintetizzata nello slogan “8×5” dipinto sulla Casa dei Diritti, ovvero la rivendicazione di una settimana lavorativa di 40 ore, ad esempio è di per sé la prova lampante di una realtà in cui gli orari di lavoro sono regolarmente e massicciamente superiori ai limiti di legge, spesso senza riposi settimanali né ferie pagate, e in condizioni di sicurezza che portano a infortuni gravi, come la perdita di un dito da parte di un operaio, un evento realmente accaduto e che diede il via alla protesta. La risposta istituzionale a questo sistema, ovvero lo Sportello Anti-Sfruttamento del Comune di Prato, pur riconoscendo formalmente il problema, viene ritratta da Morganne Blais‑McPherson come un dispositivo inefficace. Esso offre un percorso di regolarizzazione, attraverso il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione sociale (ex art. 18) ma a una condizione precisa: il lavoratore o la lavoratrice migrante deve accettare di performare il ruolo della “vittima” da rieducare e integrare. In cambio della partecipazione a programmi assistenziali che impartiscono lezioni basilari sulla vita in Italia, come l’uso corretto degli elettrodomestici o la raccolta differenziata, il lavoratore riceve un sussidio misero e la promessa di un futuro permesso. È in questo vuoto di tutela efficace, in questa frattura tra diritti formali e sostanziali, che esplode la specificità della lotta sindacale portata avanti dal Sudd Cobas. La loro strategia è di colpire il cuore del ciclo produttivo capitalistico, rifiutando le temporalità lunghe e burocratiche dell’Ispettorato del Lavoro. > Lo sciopero prolungato per mesi alla Texprint non si basa su un’astensione dal > lavoro di massa ma sull’instaurazione di un presidio permanente, > un’infrastruttura militante fisica eretta strategicamente all’incrocio di via > Sabadell. L’obiettivo è materiale e immediato, ovvero bloccare fisicamente > l’uscita dei camion carichi di tessuti finiti, interrompendo il flusso delle > merci e colpendo l’azienda nel suo punto vitale, la consegna al cliente. La Casa dei Diritti, con la sua vernice rossa accesa, diventa il simbolo e il quartier generale di questo assedio economico. La natura durevole del tessuto, a differenza di beni deperibili, trasforma lo scontro in una logorante guerra di attrito economico. La direzione della Texprint può permettersi di accumulare metri e metri di stoffa nei magazzini, contando sul fatto che il prodotto non si deteriori, mentre chi fa i picchetti deve sostenere il blocco a tempo indeterminato. I costi di questa guerra sono tangibili per entrambe le parti. Per l’azienda significa ritardi nelle consegne, danni reputazionali e pressioni contrattuali dalla clientela mentre per i picchettatori si traduce in multe collettive che hanno superato la soglia dei 50.000 euro e in una repressione violenta che ha incluso tentativi di sfondare i blocchi con i camion, sgomberi della polizia e l’uso della forza per rimuovere le e i manifestanti. Per sostenere economicamente e logisticamente questa resistenza prolungata diventa fondamentale la costruzione di una “comunità di lotta”. Questa rete di solidarietà, composta da scioperanti, attivist* italian*, studenti e simpatizzanti, fornisce l’ossigeno finanziario e materiale per la sopravvivenza del presidio. Fondi raccolti nelle assemblee sindacali, donazioni online, equipaggiamento donato per sostituire tende e gazebo distrutti e soprattutto la condivisione dei turni di vigilanza notturna sono gli elementi che permettono la riproduzione materiale dei picchettatori, consentendo loro di dormire a casa, lavarsi e disporre di cibo. La lotta trascende la semplice rivendicazione contrattuale per “8×5” e si trasforma in una sfida materiale ed esistenziale all’intero modello di produzione. Lo slogan “per una vita più bella” incarna questa duplice natura perché è una richiesta concreta di più tempo libero e salari migliori ma anche un rifiuto profondo di un sistema economico che riduce l’esistenza umana a un lavoro usurante e pericoloso. La copertina è di Ivan Samkov da Pexels SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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L’Uganda sta soffocando nei nostri abiti usati
> Cosa succede realmente ai nostri abiti usati quando li “doniamo”? Spesso li > regaliamo alle organizzazioni umanitarie, convinti di fare una buona azione. > Dopo tutto, possono essere riutilizzati e comprati anche a buon mercato. > Tuttavia non tutto è destinato al riuso. Capita che certi oggetti si trovino > in quantità eccessive e il più delle volte perfino in cattive condizioni, come > i nostri vecchi vestiti che stanno sommergendo l’Uganda. Ogni anno in Austria vengono prodotte 228.100 tonnellate di rifiuti tessili: abiti vecchi, scarpe usate, tessuti per la casa e per l’arredamento di cui circa il 17% viene riutilizzato e riciclato, ma la maggior parte viene incenerita. Un’altra grande percentuale viene esportata. Nel 2022 sono state esportate ben 67.000 tonnellate di rifiuti tessili. Spesso non è chiaro dove vadano a finire, avverte l’Associazione austriaca per la Politica dello Sviluppo e per la Giustizia globale, Südwind. 80.000 TONNELLATE DI ABITI USATI ESPORTATI IN UGANDA NONOSTANTE IL DIVIETO DI IMPORTAZIONE Uno di questi Paesi a farsi carico dei nostri vecchi abiti è proprio l’Uganda. Ogni anno nel Paese africano orientale vengono scaricate 80.000 tonnellate circa di vestiti usati, nonostante il divieto di importazione di abiti usati introdotto nel 2023 dal presidente Yoweri Museveni. Gli abiti vengono raccolti, selezionati, smistati e venduti al mercato di Owino nella capitale Kampala. Il commercio del second hand è un mercato enorme in cui si stima lavorino 700.000 persone, soprattutto giovani e donne, ed è un grande problema, riferisce Faith Irene Lanyero, sindacalista dell’Uganda Textile Garments, Leather & Allied Workers Union. VESTITI USATI IN UGANDA: LE IMPRESE LOCALI DI ABBIGLIAMENTO SONO IN DIFFICOLTÀ L’industria tessile ugandese sta vivendo un periodo difficile a causa del basso costo degli abiti di seconda mano. Due sono le ragioni che concorrono a svantaggiare la produzione locale. In primis gli abitati usati vengono venduti ad un prezzo più basso rispetto all’abbigliamento prodotto in loco e in secondo, molte persone considerano gli abiti di seconda mano provenienti dall’estero di qualità superiore rispetto a quelli prodotti localmente, nonostante, secondo Lanyero, il 60% degli abiti usati non è più utilizzabile e quindi è un rifiuto. GLI ABITI USATI: UN PERICOLO PER LE PERSONE E PER L’AMBIENTE Grandi quantità di vestiti usati finiscono nell’ambiente, insieme ad altri rifiuti, rilasciando microplastiche e sostanze inquinanti. Quello che quasi tutti ignorano è che i problemi riguardano anche l’Europa, se pensiamo ai pesci che prima ingeriscono le microplastiche dei nostri vecchi vestiti e poi vengono esportati per il consumo alimentare, spiega Faith Irene Lanyero. Inoltre, gli indumenti finiscono nei corsi d’acqua e nei condotti idrici e li ostruiscono, causando inondazioni. Sulla terraferma spesso si accumulano enormi cumuli di rifiuti che rappresentano un pericolo da non sottovalutare. Nell’agosto 2024, ad esempio, la discarica di Kiteezi, di 14 ettari, a Kampala, ha iniziato a franare dopo le piogge, seppellendo diversi edifici residenziali e causando la morte di 21 persone. Un “disastro che era prevedibile”, ha dichiarato il sindaco di Kampala, Erias Lukwago, all’agenzia di stampa AFP. UNA MALEDETTA BENEDIZIONE Sicuramente il divieto di importazione non rappresenta una soluzione, almeno non nel breve periodo, sottolinea il sindacalista. Da un lato, il mercato del second hand è un’importante fonte di occupazione, anche se spesso non ufficiale e quindi sempre un problema rimane se pensiamo ai diritti dei lavoratori. I salari sono bassi e le tutele scarse. La sindacalista riferisce di lavoratori che vengono rinchiusi e che passano lunghi turni al caldo senza cibo né acqua potabile e di abusi, delle vere e proprie condizioni di “schiavitù moderna”. Un altro aspetto che, secondo Lanyero, è ancora parzialmente a favore del mercato degli abiti di seconda mano è la sua offerta di capi a prezzi accessibili per le persone con un reddito basso; uno svantaggio per l’industria tessile locale che non è in grado di soddisfare la domanda di abiti richiesti, a causa di vecchi macchinari impiegati nella sua produzione. QUALI SOLUZIONI? Secondo Lanyero e la portavoce di Südwind, Gertrude Klaffenböck, le soluzioni a breve e a lungo termine di cui avremmo bisogno includono: maggiore trasparenza sulla destinazione dei nostri vecchi abiti; norme più severe per le esportazioni di abiti usati, in modo che non siano più costituiti per il 60% da rifiuti tessili; diritti più forti per i lavoratori e posti di lavoro equi. Inoltre, le leggi dell’UE hanno il dovere di promuovere la giustizia sociale ed ecologica nel commercio. Tuttavia, i primi passi in questa direzione sono già stati fatti. Lanyero riferisce di un progetto di riciclaggio tra l’UE e l’Uganda, già avviato e destinato a fornire una soluzione temporanea per i rifiuti. L’obiettivo è quello di riciclare gli indumenti in filati. Tuttavia, è importante che venga gestito e attuato correttamente. Secondo Klaffenböck, sono di fondamentale importanza altri tre strumenti giuridici a disposizione dell’UE, che nascono anch’essi da una fase precedente e impongono obblighi alle aziende manifatturiere: il regolamento sulla progettazione ecocompatibile (ESPR), che mira a rendere i prodotti più efficienti dal punto di vista energetico e delle risorse e a migliorarne la riciclabilità. La Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), che incoraggia le aziende a progettare prodotti e processi produttivi più sostenibili e riciclabili e la legge sulla catena di fornitura, Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDD). Südwind ha grandi speranze per quest’ultima, dice il portavoce delle filiere tessili. “Tuttavia, stiamo assistendo a un’industria che si lamenta della burocrazia quando è chiamata a rispettare i requisiti dei diritti umani e del diritto internazionale. Se la legge europea sulla catena di approvvigionamento verrà effettivamente annacquata, come si teme, le aziende dell’ultra fast fashion e della fast fashion rimarranno relativamente incontrastate e potranno continuare ad agire indisturbate come prima”, avverte. Il pacchetto omnibus dell’UE sta mettendo a rischio queste riforme. Con il pretesto della “semplificazione”, ritardi e scappatoie minacciano di indebolire la responsabilità delle aziende nei confronti dei diritti umani e degli standard ambientali. Il nuovo ministro austriaco dell’Economia Wolfgang Hattmansdorfer (ÖVP) si è espresso apertamente contro la legge sulla catena di approvvigionamento. COSA PUÒ FARE IL SINGOLO? Oltre alla responsabilità delle aziende, anche i privati possono fare qualcosa per risolvere i problemi causati dagli abiti usati. Gertrude Klaffenböck riporta alcuni esempi: gli indumenti non più indossati dovrebbero essere donati solo se sono ancora in buone condizioni, altrimenti dovrebbero essere smaltiti nella spazzatura. In questo modo, la responsabilità dello smaltimento è limita al Paese. Dovremmo evitare di: “scaricare anche la responsabilità del problema dei rifiuti sugli altri. Così come abbiamo esternalizzato i problemi ambientali e di diritto al lavoro in altri Paesi, dove è stato prontamente preparato il quadro giuridico”, avverte Klaffenböck. “IL CAPO DI ABBIGLIAMENTO PIÙ SOSTENIBILE È QUELLO CHE NON VIENE MAI PRODOTTO” Ma la questione nasce ancora molto prima. Quando acquistiamo un oggetto, dovremmo già prestare attenzione al suo ciclo di vita e assicurarci che sia il più lungo possibile e quindi puntare alla qualità. Tuttavia, è ancora più importante comprare il meno possibile, poiché “il capo di abbigliamento più sostenibile è quello che non viene prodotto”, ricorda Gertrude Klaffenböck. di Lisa Wohlgenannt (Moment.at) Traduzione dal tedesco di Maria Sartori. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza Wien