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La “patrimoniale” non deve essere più un tabù ma un atto doveroso
I soldi ci sarebbero, e tanti. Il problema è andare a prenderseli dove stanno e redistribuirli sulla base delle esigenze della collettività. Un obiettivo di buon senso che però incontra ostacoli feroci quando si pronuncia la parola/tabù “patrimoniale” ossia una tassazione sui grandi patrimoni. Secondo la Banca d’Italia, la ricchezza privata […] L'articolo La “patrimoniale” non deve essere più un tabù ma un atto doveroso su Contropiano.
L’orrore è il capitalismo
1000 miliardi di dollari ad una sola persona non sono solo uno sproposito, sono un orrore. Il premio di tale cifra elargito degli azionisti di Tesla a Elon Musk è superiore al prodotto interno lordo della maggioranza degli stati, è più di quanto possiedono assieme i tre miliardi di persone […] L'articolo L’orrore è il capitalismo su Contropiano.
7 novembre. La Rivoluzione fu anche lotta per la sopravvivenza, come potrebbe essere oggi
Le visioni delle Rivoluzione d’Ottobre con cui abbiamo dovuto fare i conti nei decenni trascorsi, possono essere riassunte in almeno due narrazioni fuorvianti: 1) Per la borghesia è stato né più né meno che un colpo di mano, un colpo di stato, da parte dei bolscevichi che hanno così impedito […] L'articolo 7 novembre. La Rivoluzione fu anche lotta per la sopravvivenza, come potrebbe essere oggi su Contropiano.
DISUGUAGLIANZE: LO 0,1% DELLA POPOLAZIONE PIÚ RICCA INQUINA IN UN GIORNO QUANTO LA METÀ PIÚ POVERA IN UN ANNO
Tra pochi giorni in Brasile comincerà la 30esima conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici e l’organizzazione Oxfam ha pubblicato un report che mostra in modo inequivocabile come ci sia una profonda ingiustizia nelle emissioni inquinanti: anche in questo caso, sono i super ricchi miliardari a consumare la quota maggiore di risorse del nostro pianeta. La scala di proporzione va oltre l’immaginabile: secondo i calcoli di Oxfam, un individuo appartenente allo 0,1% più ricco del pianeta emette in un solo giorno più CO2 di quanto il 50% più povero della popolazione mondiale ne produce in un anno. Il calcolo viene effettuato non solo analizzando lo stile di vita, ma anche gli investimenti: i super ricchi investono principalmente in settori inquinanti, e il 60% degli investimenti dei miliardari globali è concentrato in settori devastanti per il clima, come petrolio e miniere. La quota di inquinamento di 308 miliardari supera quelle di 118 Paesi messi insieme. Come spiega il portavoce di Oxfam Italia Francesco Petrelli ai microfoni di Radio Onda d’Urto, “dal 1990, la quota di emissioni dei super-ricchi è cresciuta del 32%, mentre quella della metà più povera si è ridotta del 3%”. A pochi giorni da COP30, un altro fattore è da rilevare: i lobbisti del carbonio che si accreditano alle conferenze sul clima sono un numero spropositato: l’anno scorso erano stati 1.773 lobbisti delle industrie del carbone, del petrolio e del gas, più di quanti fossero i delegati dei 10 Paesi più colpiti dalla crisi climatica. Ascolta o scarica l’intervista con Francesco Petrelli, portavoce di Oxfam Italia. Ascolta o scarica
« Se sembri povero, la polizia ti umilia » : in Marocco, la GenZ contro il muro delle disuguaglianze e della corruzione
Sullo schermo dei telefoni, messaggi e voti si susseguono: «Quando preferisci manifestare questa settimana?», chiede un utente al resto della comunità Discord. Nelle chat room online, altri e altre immaginano come migliorare il sistema scolastico marocchino. Naji, Beda e Lina hanno tra i 22 e i 25 anni, vivono a Rabat, Oujda o Meknès, in Marocco, e si sono incontrat3 online attorno a una stessa parola d’ordine: dimissioni per il primo ministro marocchino Aziz Akhannouch. A partire dal 27 settembre 2025, il Marocco è teatro di grandi manifestazioni. Dietro la loro organizzazione non ci sono né partiti, né sindacati, né personaggi famosi: solo giovani riuniti su un server Discord. Il movimento ha preso il nome di “GenZ212”, dalla generazione Z, nata all’inizio degli anni 2000, e dal prefisso telefonico del Marocco. Il movimento chiede risorse per il sistema educativo, quello sanitario e la fine della corruzione nel Paese. Più di 200.000 giovani marocchin3 si stanno organizzando autonomamente, accomunati dall’età e della convinzione che il futuro non può più aspettare. SERVIZI PUBBLICI, NON STADI «A Rabat hanno costruito uno stadio di hockey da 250 milioni di dirham [23 milioni di euro]. Nel frattempo, le nostre facoltà non hanno risorse e alcune persone vivono ancora in tenda dopo il terremoto di Al Haouz di due anni fa», denuncia Beda, studentessa ventiduenne della facoltà di farmacia. Il movimento GenZ212 si batte in particolare contro l’organizzazione dei Mondiali di calcio previsti in Marocco nel 2030, per i quali vengono investiti miliardi a scapito dei servizi pubblici. Venerdì 10 ottobre, re Mohammed VI ha tenuto un discorso davanti al Parlamento marocchino. Il sovrano ha chiesto specialmente al governo di dare priorità alla creazione di posti di lavoro e al miglioramento dei servizi pubblici nell’ambito dell’istruzione e della sanità. Tuttavia, ha evitato accuratamente di menzionare il movimento dei e delle giovani. Dopo questo discorso, il collettivo GenZ212 ha lanciato una nuova chiamata a mobilitarsi «contro il governo e tutte le persone corrotte che ostacolano la realizzazione delle aspirazioni del popolo marocchino». Per Naji, il discorso del re ha avuto l’effetto di una doccia fredda. Lo studente ventiquattrenne, al settimo anno di medicina, si aspettava «almeno un riconoscimento del movimento e della necessità di aprire il dialogo. Il discorso è vuoto e rafforza la legittimità del governo», è la sua analisi. > Lo studente di medicina ha tutti i motivi per volere che le cose cambino nel > suo Paese. «Quando sono di turno di notte in ospedale, non è raro che alle 3 del mattino finiscano le garze o i guanti sterili», sospira. A causa della mancanza di risorse dell’ospedale pubblico, vede pazienti trasferiti da una città all’altra per una semplice TAC. È stata proprio la morte, nel mese di agosto, nell’ospedale pubblico di Agadir, di otto donne venute lì per partorire con taglio cesareo, a scatenare il movimento sociale. «RISVEGLIARE LA COSCIENZA POLITICA DI UNA GENERAZIONE» Sin dall’inizio della mobilitazione GenZ212, Naji trascorre le notti su Discord e le giornate in strada, quando può. Vede nel movimento «un’opportunità per risvegliare la coscienza politica della nostra generazione, quella che i nostri genitori non hanno avuto». A casa sua, la politica non è mai stata un tabù. I suoi genitori sono persino iscritti al partito socialista marocchino. Il giovane è già attivo in un’associazione per la difesa dei diritti delle donne e si considera «di estrema sinistra». Ma sa di rappresentare una minoranza nel Paese. La maggior parte dei suoi compagni e delle sue compagne non è politicizzata. «Né di destra, né di sinistra» è infatti uno degli slogan principali del movimento GenZ212, che vuole prendere le distanze dai partiti nei quali i giovani e le giovani non hanno fiducia. Riunite dietro la rivendicazione di un miglioramento dei servizi pubblici, persone giovani di diverse tendenze politiche si confrontano nella mobilitazione: monarchiche, apolitiche, umaniste o persino islamiste di estrema destra. TRE PERSONE MORTE, 400 FERITE «Mio padre e mio fratello hanno sempre parlato molto di politica, ma era una cosa da maschi», ci dice. «Ma quando vedi un’auto della polizia investire un ragazzo della nostra età, non puoi fare a meno di scendere in strada», aggiunge. La giovane è cresciuta a Oujda, nel Marocco orientale. Nella notte del 1° ottobre, uno studente di 19 anni è stato investito da un furgone della polizia durante gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Dall’inizio delle manifestazioni in totale tre persone sono morte e 400 sono rimaste ferite. «Avevo già partecipato a boicottaggi all’università, ma mai a manifestazioni», continua Beda. Dall’inizio del movimento GenZ212, ha preso coscienza del sistema di repressione poliziesca in atto nel Paese. > «Stavamo semplicemente camminando per strada con amici e amiche e uno di noi è > stato arrestato senza motivo, per poi essere rilasciato la mattina dopo», > racconta. «Gli arresti avvengono spesso anche in base all’aspetto fisico. Chi sembra povero, viene insultato e umiliato», dice Lina, ragazza marocchina di 24 anni. «Ma se sembri una persona ricca e la polizia può trarne vantaggio, non esita a farlo, usando il proprio potere», precisa Naji, a cui è già stato chiesto di pagare per ottenere dei lasciapassare ospedalieri. Una cultura anche detta delle «mazzette», simbolo di un sistema in cui tutto si paga, che i giovani e le giovani marocchine condannano. UNA GIOVENTÙ LUCIDA «Qui la polizia è corrotta, così come lo è il sistema giudiziario, la libertà di espressione viene calpestata… la lista è lunga», elenca Lina. E denuncia il controllo oppressivo dello Stato, che arriva fino alle aule scolastiche. La giovane scende in piazza da sempre. Ricorda le sue prime mobilitazioni sulle spalle del padre quando, nelle manifestazioni del febbraio 2011, si chiedevano riforme politiche nel regno. Sulla scia delle primavere arabe, queste mobilitazioni avevano portato a una riforma della costituzione marocchina, riducendo alcuni poteri politici e religiosi del re e rafforzando quelli del primo ministro. > Oggi, «le disuguaglianze in Marocco sono più marcate che nei paesi > occidentali, la classe media è molto più povera della borghesia», osserva la > giovane marocchina. «È importante battersi per i diritti di chi non ne ha». Lina, che ha studiato in un’università privata e non ha mai vissuto in condizioni precarie, manifesta per gli altri e le altre. Per la sua famiglia allargata, ad esempio, che non ha avuto le stesse opportunità dei genitori. Proprio come Naji, neanche lei crede che le richieste del collettivo GenZ212 saranno ascoltate dai leader marocchini. Ma a distanza due settimane, hanno potuto osservare che la loro mobilitazione è già il trampolino di lancio per la politicizzazione di molte persone giovani nel Paese. «Si vedono già i cambiamenti, siamo passati da un forum disorganizzato a server locali e chat room tematiche», spiega Naji. «Forse non avremo un primo ministro nato nel 2002 che ci comprenda, ma sono felice di vedere la nostra generazione così unita», aggiunge Beda. L’articolo originale è stato pubblicato in francese su Basta!, traduzione di Benedetta Rossi per Dinamopress. Clicca qui per la versione originale. Immagine di copertina di Mounir Neddi su Wikimedia Commons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo « Se sembri povero, la polizia ti umilia » : in Marocco, la GenZ contro il muro delle disuguaglianze e della corruzione proviene da DINAMOpress.
La Cina fa il Plenum di tecnologia
Da lunedì a giovedì di questaa settimana, a Pechino si svolge la IV sessione plenaria (plenum) del XX comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc). Se ti è venuta voglia di cambiare pagina dopo aver letto queste prime due righe, ripensaci: al di là della denominazione stantia, di sovietica memoria […] L'articolo La Cina fa il Plenum di tecnologia su Contropiano.
La non neutralità della rete ai tempi del web 2.0: cos’è e da dove si origina la violenza digitale di genere
Nella nostra società multimediale e iperconnessa, l’uso dei social, come di altri strumenti e servizi digitali – le app, ad esempio, ce n’è una per ogni esigenza – è ormai diffusissimo, al punto tale che anche la persona più âgée non ricorda com’era la vita prima che fosse scandita dall’accendersi e dallo spegnersi della luce blu di uno smartphone. Già, com’era prima? Chi lo sa, indugia in nostalgici ricordi di telefoni analogici, dispositivi tradizionali che trasmettevano la voce convertendola in segnali elettrici che viaggiavano su cavi di rame, oppure di televisioni a tubo catodico. Sgomenta addirittura pensare che ci siano stati anni in cui non eravamo raggiungibili ovunque e comunque, come oggi siamo sempre, attraverso una rete dati, Wi-Fi o hotspot offerti da amici, colleghi di lavoro o perfetti ma generosi sconosciuti: ma come abbiamo fatto a vivere così? Per i nativi digitali, invece, un “prima” non c’è: tutto è nato nel ventunesimo secolo e il Novecento, sfondo fondamentale per le generazioni che li hanno preceduti, sembra essere retrodatato di cento anni, quasi a rappresentare un periodo della vita dell’uomo sulla Terra lontanissimo da oggi, come se non vi fosse continuità temporale tra secondo e terzo millennio. Insomma, per gli appartenenti alla Generazione Z è come se l’umanità fosse sempre vissuta all’interno dell’attuale sistema informativo-relazionale, complesso intreccio fra calcolo e connettività digitale che non si chiama più nemmeno Internet: va oltre Internet e si configura come un’infrastruttura in cui le tecnologie computazionali e quelle comunicazionali si sono saldate all’interno di piattaforme su scala globale, gestite da pochi attori privati, monarchi del regno del big tech. Visualizzare questa dicotomia fra archi generazionali è fondamentale per capire l’enorme impatto che la violenza digitale ha sulle persone, nell’ambito del più ampio fenomeno della violenza che un essere umano o un gruppo di esseri umani può dirigere verso i propri simili. Una persona nata prima dell’avvento della società della comunicazione, se parla di violenza digitale, è probabilmente incline a pensare che si tratti di un fatto relegato al virtuale e, pertanto, meno impattante sulla vita reale. Chi scrive lo può testimoniare. Questo modo di ragionare – che inevitabilmente proviene dal modo in cui, come esseri pensanti, ci siamo formati – tende a mitigare la rilevanza del fenomeno: esso è immateriale, pertanto intangibile. Invece, le persone nate nell’era digitale, soprattutto in quella che Tiziana Terranova, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Orientale di Napoli, definisce “il dopo Internet” (primo ventennio del Duemila), hanno sperimentato, fin dalla nascita, che sul piano degli effetti violenza digitale e violenza fattuale si intrecciano in un unicum perverso e inestricabile, tanto da essere l’una la cassa di risonanza dell’altra e viceversa. Soprattutto, hanno sperimentato e introiettato come il piano di interazione su cui si riproduce, tra gli altri fenomeni sociali, anche quello della violenza digitale, sia governato dai giganti finanziari che monopolizzano le piattaforme. Negli anni precedenti al ventennio del terzo millennio, invece, se pure si stava già mostrando l’effetto fortemente impattante della connessione globale sulla vita del pianeta e dei suoi abitanti, ci si percepiva come umanità dentro un’opportunità: la società della conoscenza sembrava aprire le porte a un modo nuovo di essere collettività. O, quantomeno, così ci veniva raccontata dalla narrazione mainstream. Oggi sappiamo bene che la violenza digitale, come tutto ciò che accade attraverso e dentro le piattaforme, può essere effettiva, concreta, tangibile tanto quanto quella che avviene sul piano fattuale: usa solo strumenti, in parte, differenti. Alla luce di queste trasformazioni sociali – che Terranova descrive molto bene nel suo libro Dopo Internet (Ed. Nero, 2022) – si può facilmente comprendere che la rete non è neutra. Quando il campo di osservazione si restringe agli aspetti più specificamente di genere, l’impatto della violenza digitale sulla vita di una persona cambia in base al suo sesso e al modo in cui il suo corpo è situato nel mondo. La studiosa di innovazione sociale Lilia Giugni, attivista femminista intersezionale, ha prodotto su questo tema un testo meraviglioso quanto necessario (La rete non ci salverà, Longanesi, 2022), in cui dimostra, dati alla mano, perché la rivoluzione digitale è sessista e che: > “Molestie e minacce online, pornografia non consensuale, informazioni > personali condivise senza permesso: in tutto il pianeta milioni di donne sono > esposte alla violenza digitale. E le cose non vanno meglio dall’altra parte > dello schermo. Ingegnere IT, influencer e altre lavoratrici del tech > discriminate o sfruttate sul lavoro. Pregiudizi sessisti dell’intelligenza > artificiale e forme discriminatorie di smart working. Catene di produzione > high-tech intrise di abusi e misoginia, e abissali disparità di genere > nell’accesso alle risorse tecnologiche.” Insomma, ecco descritto – in parole tutt’altro che povere – come è messo il nostro mondo tecnologicamente avanzato sotto il profilo dei diritti civili. Nel libro si dimostra che la violazione degli stessi si lega profondamente al modo in cui è costruito il nostro sistema economico. Come nelle altre industrie della globalizzazione, anche l’industria del tech è basata su discriminazioni sociali e sfruttamento del lavoro. A partire da fatti di cronaca, l’autrice descrive vari piani su cui avviene l’ingiustizia: * quello al di qua dello schermo, in cui la violenza digitale di genere si attua, per citare alcune modalità, attraverso l’odio manifesto sui social, la manipolazione della privacy, la sessualizzazione delle immagini del corpo femminile o la ridicolizzazione dei corpi non binari e queer, il cyberbullismo ai danni di chi è considerato fuori dai canoni estetici e comportamentali convenzionali; * quello dietro lo schermo, in cui si registra un costante sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori gig, cioè coloro che vengono ingaggiati con incarichi flessibili e precari attraverso piattaforme digitali nell’ambito del lavoro on demand o nella gestione di servizi di delivery; * quello delle discriminazioni attuate attraverso una digitalizzazione dei servizi che esclude progressivamente le persone prive di accesso all’educazione informatica, alimentando un vero e proprio fenomeno di ghettizzazione conoscitiva (si pensi alla difficoltà di utilizzo dello SPID); * quello dell’uso degli strumenti di riconoscimento facciale per creare esclusione dei volti non conformi agli stereotipi della whiteness, oppure per attuare forme di repressione e persecuzioni politiche. Questa breve riflessione non ha l’intento di metterci in stato di ansia rispetto all’uso della tecnologia né di favorire atteggiamenti luddisti, quanto di dare visibilità ai lavori di ricerca coraggiosi e validi – sopra citati – che su questo tema conducono con chiarezza a una consapevolezza: quella che, come Giugni scrive nella sua efficace introduzione al testo, > “la lotta per la giustizia di genere nel ventunesimo secolo non può che > passare per due binari paralleli: la denuncia della violenza e dello > sfruttamento attivati dalla tecnologia, e quella delle oscene disuguaglianze > nella sua distribuzione sociale e geografica.” Web 2.0 Dopo Internet – Edizioni Nero Generazione Z – Treccani Il privilegio della whiteness – il manifesto Gig economy: come funziona e vantaggi – Randstad La rete non ci salverà – Lilia Giugni (Google Books) Nives Monda
[Ora di buco] E lo chiamano merito (1/4: trasmissione integrale)
Nella trasmissione affrontiamo con tre corrispondenze: 1) il tentativo di censura ministeriale del libro "Trame del tempo", edizione rossa di Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi, edito da Laterza. Ne parliamo con Giovanni Carletti, editor di Laterza; 2) la vita precaria delle precarie della scuola, tra attesa delle graduatorie, conclusione di concorsi pnrr, richiesta di naspi; 3) la povertà educativa istituzionalizzata dal ministero nel resoconto del "Progetto Futura" del Forum disuaglianza e diversità e Save the children. Ne parlaimo con Andrea Morniroli co-coordinatore del Forum
Venezia, finto matrimonio in Piazza San Marco: nuova protesta di Extinction Rebellion per le nozze di Bezos
Extinction Rebellion ha organizzato un finto matrimonio in Piazza San Marco, in segno di protesta contro lo sfarzoso matrimonio del miliardario Jeff Bezos e Lauren Sanchez. Il movimento denuncia le influenze dei super ricchi sulla crisi ecoclimatica e sugli equilibri democratici di molti Paesi del mondo. È il primo dei tre giorni del matrimonio di lusso di Jeff Bezos e Lauren Sanchez, e a Venezia non si fermano le proteste. Questa mattina è tornata in azione Extinction Rebellion, con due figure mascherate in abito nuziale comparse in Piazza San Marco, legate con una mano a un finto pianeta e con l’altra ad altre persone che reggevano cartelli con scritto “i governi”, “i media”, “l’economia” e la “giustizia”. Alle loro spalle avrebbero dovuto issare un grande striscione che recitava “The 1% ru(i)ns the world” (ovvero “L’1% rovina il mondo”). Ma la polizia è intervenuta immediatamente disperdendo una pacifica manifestazione e sgomberando di peso decine di persone. Questo nonostante non vi fossero problemi per ordine pubblico e sicurezza. “Il diritto di manifestare pacificamente è garantito dalla Costituzione e la polizia può disperdere i manifestanti solo se pongono un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico” afferma Elisa, una delle persone spostate di peso. “Il nostro messaggio di dissenso non può essere silenziato con la forza: il matrimonio di Jeff Bezos e dei suoi 250 invitati ultraricchi nella città simbolo della crisi climatica è uno dei paradossi del nostro tempo” continua Elisa. “Questo accade mentre la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi super miliardari sta influenzando l’intero sistema globale, condizionando i governi, i media, minacciando le democrazie e aggravando la crisi eco-climatica, di cui Venezia è un triste simbolo tangibile”. Ancora una volta, Extinction Rebellion riporta l’attenzione sull’impatto sproporzionato dei consumi e dello stile di vita delle persone più ricche del pianeta sul riscaldamento globale. Secondo uno degli ultimi studi pubblicati su Nature, infatti, si stima che l’1% più ricco della popolazione mondiale sia responsabile di circa il 20% dell’aumento delle temperature globali. Negli ultimi anni, inoltre, l’influenza delle persone più ricche del mondo è cresciuta in molti settori, da quello politico e quello mediatico. Sono diversi infatti i governi che sono stati, e vengono ancora oggi, supportati direttamente o indirettamente da ultra miliardari, influenzando molte delle politiche in tema di diritti, innovazione tecnologica e transizione energetica. Molte sono anche le piattaforme mediatiche di proprietà di pochi imprenditori miliardari che ne influenzano la libertà e la qualità di informazione, come Mark Zuckerberg, Elon Musk e lo stesso Bezos. Egli è infatti proprietario del Washington Post, giornale al quale, a partire dall’autunno scorso, ha imposto una linea editoriale che si occuperà solo di “libertà personali e libero mercato”, non potendo quindi più pubblicare opinioni contrarie a questi principi. “Mentre Venezia combatte, anno dopo anno, con l’intensificarsi degli effetti della crisi climatica e della speculazione, i nostri politici invitano la città a rimanere asettica di fronte all’arrivo di chi sta contribuendo in modo sproporzionato alla condizione in cui siamo” commenta Angela, riferendosi al commento del presidente della Regione Veneto sulle numerose proteste degli ultimi giorni. “Democrazia non è stare zitti, ma poter esercitare il diritto al pacifico dissenso!”. La protesta di oggi segue infatti quella di martedì all’Hotel Danieli, in cui 4 persone avevano appeso uno striscione in cima ad una gru con scritto “Tassare i ricchi per ridare al pianeta”, e quelle del comitato cittadino “No space for Bezos” e di Greenpeace. Proteste che sono state capaci di far spostare le nozze dalla Scuola Grande della Misericordia all’Arsenale, un luogo più semplice da “difendere” da eventuali altre iniziative di dissenso. Iniziano così tre giorni di festeggiamenti che promettono sfarzo senza precedenti, tra feste in palazzi storici e l’invasione della laguna di Venezia da parte di yacht di lusso, mentre crescono le diseguaglianze nel mondo, che hanno raggiunto livelli estremi e costituiscono, come ricorda il Presidente Mattarella, una minaccia per la democrazia. Fonti * Il Manifesto, https://ilmanifesto.it/bezos-e-in-citta-i-comitati-preparano-la-festa * Nature Cliamte Change, https://www.theguardian.com/environment/2025/may/07/two-thirds-of-global-heating-caused-by-richest-study-suggests#:~:text=Two%2Dthirds%20of%20global%20heating,suggests%20%7C%20Climate%20crisis%20%7C%20The%20Guardian * The Guardian, https://www.theguardian.com/business/2025/jan/22/influence-of-super-rich-on-donald-trump-threatens-democracy-say-patriotic-millionairesTax Justice Network, * Wired, https://www.wired.it/article/jeff-bezos-washington-post-sezione-opinioni-trump/ * Venezia Today, https://www.veneziatoday.it/politica/zaia-matrimonio-bezos-venezia.html * Italia Che Cambia, https://www.italiachecambia.org/news/jeff-bezos-extinction-rebellion/ * BBC, https://www.bbc.com/news/articles/cd0vjr07570oOpen, https://www.open.online/2025/06/14/venezia-matrimonio-jeff-bezos-polemiche-zaia-brugnaro/ * Corriere della Sera, https://www.corriere.it/economia/finanza/25_maggio_28/chi-sono-i-centimiliardari-e-perche-fanno-male-alla-democrazia-i-nuovi-oligarchi-e-la-societa-piu-diseguale-dell-antico-egitto-aac394a8-e702-4713-a4f6-4a062a442xlk.shtml * AskaNews, https://askanews.it/2025/04/04/monito-di-mattarella-sulla-democrazia-concentrare-potere-la-indebolisce-2/   Extinction Rebellion
L’Uganda sta soffocando nei nostri abiti usati
> Cosa succede realmente ai nostri abiti usati quando li “doniamo”? Spesso li > regaliamo alle organizzazioni umanitarie, convinti di fare una buona azione. > Dopo tutto, possono essere riutilizzati e comprati anche a buon mercato. > Tuttavia non tutto è destinato al riuso. Capita che certi oggetti si trovino > in quantità eccessive e il più delle volte perfino in cattive condizioni, come > i nostri vecchi vestiti che stanno sommergendo l’Uganda. Ogni anno in Austria vengono prodotte 228.100 tonnellate di rifiuti tessili: abiti vecchi, scarpe usate, tessuti per la casa e per l’arredamento di cui circa il 17% viene riutilizzato e riciclato, ma la maggior parte viene incenerita. Un’altra grande percentuale viene esportata. Nel 2022 sono state esportate ben 67.000 tonnellate di rifiuti tessili. Spesso non è chiaro dove vadano a finire, avverte l’Associazione austriaca per la Politica dello Sviluppo e per la Giustizia globale, Südwind. 80.000 TONNELLATE DI ABITI USATI ESPORTATI IN UGANDA NONOSTANTE IL DIVIETO DI IMPORTAZIONE Uno di questi Paesi a farsi carico dei nostri vecchi abiti è proprio l’Uganda. Ogni anno nel Paese africano orientale vengono scaricate 80.000 tonnellate circa di vestiti usati, nonostante il divieto di importazione di abiti usati introdotto nel 2023 dal presidente Yoweri Museveni. Gli abiti vengono raccolti, selezionati, smistati e venduti al mercato di Owino nella capitale Kampala. Il commercio del second hand è un mercato enorme in cui si stima lavorino 700.000 persone, soprattutto giovani e donne, ed è un grande problema, riferisce Faith Irene Lanyero, sindacalista dell’Uganda Textile Garments, Leather & Allied Workers Union. VESTITI USATI IN UGANDA: LE IMPRESE LOCALI DI ABBIGLIAMENTO SONO IN DIFFICOLTÀ L’industria tessile ugandese sta vivendo un periodo difficile a causa del basso costo degli abiti di seconda mano. Due sono le ragioni che concorrono a svantaggiare la produzione locale. In primis gli abitati usati vengono venduti ad un prezzo più basso rispetto all’abbigliamento prodotto in loco e in secondo, molte persone considerano gli abiti di seconda mano provenienti dall’estero di qualità superiore rispetto a quelli prodotti localmente, nonostante, secondo Lanyero, il 60% degli abiti usati non è più utilizzabile e quindi è un rifiuto. GLI ABITI USATI: UN PERICOLO PER LE PERSONE E PER L’AMBIENTE Grandi quantità di vestiti usati finiscono nell’ambiente, insieme ad altri rifiuti, rilasciando microplastiche e sostanze inquinanti. Quello che quasi tutti ignorano è che i problemi riguardano anche l’Europa, se pensiamo ai pesci che prima ingeriscono le microplastiche dei nostri vecchi vestiti e poi vengono esportati per il consumo alimentare, spiega Faith Irene Lanyero. Inoltre, gli indumenti finiscono nei corsi d’acqua e nei condotti idrici e li ostruiscono, causando inondazioni. Sulla terraferma spesso si accumulano enormi cumuli di rifiuti che rappresentano un pericolo da non sottovalutare. Nell’agosto 2024, ad esempio, la discarica di Kiteezi, di 14 ettari, a Kampala, ha iniziato a franare dopo le piogge, seppellendo diversi edifici residenziali e causando la morte di 21 persone. Un “disastro che era prevedibile”, ha dichiarato il sindaco di Kampala, Erias Lukwago, all’agenzia di stampa AFP. UNA MALEDETTA BENEDIZIONE Sicuramente il divieto di importazione non rappresenta una soluzione, almeno non nel breve periodo, sottolinea il sindacalista. Da un lato, il mercato del second hand è un’importante fonte di occupazione, anche se spesso non ufficiale e quindi sempre un problema rimane se pensiamo ai diritti dei lavoratori. I salari sono bassi e le tutele scarse. La sindacalista riferisce di lavoratori che vengono rinchiusi e che passano lunghi turni al caldo senza cibo né acqua potabile e di abusi, delle vere e proprie condizioni di “schiavitù moderna”. Un altro aspetto che, secondo Lanyero, è ancora parzialmente a favore del mercato degli abiti di seconda mano è la sua offerta di capi a prezzi accessibili per le persone con un reddito basso; uno svantaggio per l’industria tessile locale che non è in grado di soddisfare la domanda di abiti richiesti, a causa di vecchi macchinari impiegati nella sua produzione. QUALI SOLUZIONI? Secondo Lanyero e la portavoce di Südwind, Gertrude Klaffenböck, le soluzioni a breve e a lungo termine di cui avremmo bisogno includono: maggiore trasparenza sulla destinazione dei nostri vecchi abiti; norme più severe per le esportazioni di abiti usati, in modo che non siano più costituiti per il 60% da rifiuti tessili; diritti più forti per i lavoratori e posti di lavoro equi. Inoltre, le leggi dell’UE hanno il dovere di promuovere la giustizia sociale ed ecologica nel commercio. Tuttavia, i primi passi in questa direzione sono già stati fatti. Lanyero riferisce di un progetto di riciclaggio tra l’UE e l’Uganda, già avviato e destinato a fornire una soluzione temporanea per i rifiuti. L’obiettivo è quello di riciclare gli indumenti in filati. Tuttavia, è importante che venga gestito e attuato correttamente. Secondo Klaffenböck, sono di fondamentale importanza altri tre strumenti giuridici a disposizione dell’UE, che nascono anch’essi da una fase precedente e impongono obblighi alle aziende manifatturiere: il regolamento sulla progettazione ecocompatibile (ESPR), che mira a rendere i prodotti più efficienti dal punto di vista energetico e delle risorse e a migliorarne la riciclabilità. La Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), che incoraggia le aziende a progettare prodotti e processi produttivi più sostenibili e riciclabili e la legge sulla catena di fornitura, Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDD). Südwind ha grandi speranze per quest’ultima, dice il portavoce delle filiere tessili. “Tuttavia, stiamo assistendo a un’industria che si lamenta della burocrazia quando è chiamata a rispettare i requisiti dei diritti umani e del diritto internazionale. Se la legge europea sulla catena di approvvigionamento verrà effettivamente annacquata, come si teme, le aziende dell’ultra fast fashion e della fast fashion rimarranno relativamente incontrastate e potranno continuare ad agire indisturbate come prima”, avverte. Il pacchetto omnibus dell’UE sta mettendo a rischio queste riforme. Con il pretesto della “semplificazione”, ritardi e scappatoie minacciano di indebolire la responsabilità delle aziende nei confronti dei diritti umani e degli standard ambientali. Il nuovo ministro austriaco dell’Economia Wolfgang Hattmansdorfer (ÖVP) si è espresso apertamente contro la legge sulla catena di approvvigionamento. COSA PUÒ FARE IL SINGOLO? Oltre alla responsabilità delle aziende, anche i privati possono fare qualcosa per risolvere i problemi causati dagli abiti usati. Gertrude Klaffenböck riporta alcuni esempi: gli indumenti non più indossati dovrebbero essere donati solo se sono ancora in buone condizioni, altrimenti dovrebbero essere smaltiti nella spazzatura. In questo modo, la responsabilità dello smaltimento è limita al Paese. Dovremmo evitare di: “scaricare anche la responsabilità del problema dei rifiuti sugli altri. Così come abbiamo esternalizzato i problemi ambientali e di diritto al lavoro in altri Paesi, dove è stato prontamente preparato il quadro giuridico”, avverte Klaffenböck. “IL CAPO DI ABBIGLIAMENTO PIÙ SOSTENIBILE È QUELLO CHE NON VIENE MAI PRODOTTO” Ma la questione nasce ancora molto prima. Quando acquistiamo un oggetto, dovremmo già prestare attenzione al suo ciclo di vita e assicurarci che sia il più lungo possibile e quindi puntare alla qualità. Tuttavia, è ancora più importante comprare il meno possibile, poiché “il capo di abbigliamento più sostenibile è quello che non viene prodotto”, ricorda Gertrude Klaffenböck. di Lisa Wohlgenannt (Moment.at) Traduzione dal tedesco di Maria Sartori. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza Wien