Per uno sciopero europeo e sociale contro la guerra e il riarmo
“Fermare la folle corsa dei governi di tutto il mondo che sta trascinando il
pianeta verso distruzione, povertà e catastrofe climatica. La torsione
autoritaria riguarda anche tutti i governi europei che si dicono – sia pur in
forme diverse – “democratici” e si incarna in misure razziste, patriarcali e in
un militarismo che punta a imporre un presente di povertà, sfruttamento e a
chiudere ogni spazio di opposizione e lotta. ReArm Europe non è solo un piano
industriale militarista che pretende di asservire alla guerra la produzione, la
ricerca e le spese sociali degli Stati e i fondi dell’Unione, ma è anche parte
di una più generale intensificazione del comando sul lavoro vivo e sulla
riproduzione sociale. È sempre più urgente aprire un processo di organizzazione
in grado di connettere chi oggi lotta contro il razzismo, il sessismo, la
devastazione ambientale, la precarietà”. Questa è in estrema sintesi la proposta
delle rete RESET against the war che ha partecipato alla manifestazione del 21
giugno, a piazza a Porta San Paolo. Di seguito rilanciamo il loro contributo
pubblicato anche da altre testate del movimento [accì]
La guerra incombe sulle nostre vite. La continuazione del conflitto in Ucraina,
l’acuirsi dell’occupazione del genocidio in Palestina, il divampare del
conflitto in Medio Oriente dopo l’attacco di Israele all’Iran, la lotta per una
nuova spartizione delle risorse africane che dilania il Congo. Sono tanti i
teatri di guerra che ci mostrano un mondo in frantumi, nel quale il disordine
travolge ogni giorno la vita di milioni di persone. In questo stesso mondo,
Stati e grandi aziende tecnologiche guidano una nuova corsa agli armamenti che
risucchia ricerca e risorse: dalla Cina che prepara l’esercito del futuro, ai
paesi del Nord Africa, fino all’Europa.
Ciò a cui siamo di fronte non è una semplice sommatoria di molteplici scenari di
guerra, ma rappresenta una risposta generale alla crisi irreversibile dei
processi di accumulazione e dei meccanismi di comando del capitale sul lavoro
vivo e sulla riproduzione sociale innescati con la crisi finanziaria del 2008 e
che hanno trovato un ulteriore accelerazione con la pandemia. La guerra è un
tentativo di “mettere ordine”, senza mai riuscirci del tutto, in presenza di
molte crisi che agiscono simultaneamente su vari livelli – ecologico,
economico-finanziario, geopolitico, istituzionale e sociale – e rispetto a
processi transnazionali che trasformano ed erodono il potere degli Stati. Dietro
il flettere i muscoli del militarismo e degli eserciti c’è il tentativo di
riconfigurare i rapporti sociali e non certo a vantaggio di donne e uomini,
precarie e precari e migranti.
Nella drammaticità del momento, riconosciamo nella guerra e nella sua
contestazione un banco di prova decisivo per i movimenti organizzati e chiunque
voglia qualcosa di più della miseria di questo presente. Questa guerra devasta e
uccide, ma viene combattuta nella società e non solo nei campi di battaglia. Noi
non siamo soggetti attoniti di fronte ai rulli di tamburi degli eserciti, non
siamo materia residuale dietro le strategie dei generali e dei governi: siamo le
donne, gli uomini e le persone LGBTQI+ che possono rovesciare il tavolo della
guerra, bloccarne l’espansione, trasformare il cupo cielo del presente in un
progetto comune di liberazione. Noi denunciamo, critichiamo, condanniamo chi
bombarda, distrugge, uccide, e anche chi è colluso con questa macchina di morte
ma non possiamo fermarci a questo.
Cogliere qual è la posta in gioco è oggi decisivo per non rimanere invischiati
nella logica del nemico, nella geopolitica dei fronti e dei blocchi, nella
ragione degli Stati, delle rappresentazioni omogenee e monolitiche dei popoli,
delle identità, di tutti quei soggetti che si muovono all’ombra del capitale.
ORGANIZZARE L’OPPOSIZIONE ALLA GUERRA
Opporsi alla guerra e alle sue logiche è oggi il punto di partenza per ogni
lotta che punti a non essere meramente residuale e reattiva: contrastare le
pretese ordinatrici del militarismo, della violenza patriarcale, del razzismo,
dello sfruttamento e della devastazione ambientale è il punto di partenza per
fare della pace un orizzonte reale di lotta al di là di ogni condivisibile, ma
insufficiente, evocazione morale. Serve costruire praticamente una politica
altra, con una capacità di organizzazione transnazionale, che sappia finalmente
produrre un piano di comunicazione tra soggetti sociali, precarie, migranti,
donne e persone LGBTQI+ che subiscono ovunque gli effetti e i costi sociali
della guerra e li rifiutano con i loro comportamenti e le loro rivendicazioni.
Organizzare l’opposizione alla guerra, imporre la sua fine, fermare il
genocidio, vuol dire per noi oggi rifiutare ogni arruolamento nei suoi fronti,
valorizzando le lotte attuali e attivandone altre più potenti, trovando così
parole condivise per produrre iniziativa. Non ci serve infatti richiamare parole
d’ordine abusate, insufficienti quando non controproducenti, ma costruire un
discorso e una pratica condivisi capaci di fare i conti con le differenze tra
soggetti organizzati, condizioni sociali e geografiche.
Ciò rende decisivo collocarsi oltre i confini nazionali, ripensare
l’internazionalismo oltre la tradizione dell’internazionalismo stesso. Per
quanto possiamo considerare odiose e bisognose di risposta le politiche portate
avanti dal governo o le condizioni che dobbiamo affrontare nei territori e negli
spazi metropolitani, infatti,non è più rinviabile riconquistare una capacità di
immaginazione e azione transnazionale. Ciò non significa solo riconoscere che
tutte e tutti siamo presi in processi che agiscono su questa dimensione, ma
anche comprendere che qui possiamo trovare la forza necessaria per contrastare
quei processi.
L’EUROPA COME SPAZIO MINIMO DI LOTTA E MOVIMENTO
Contestiamo il piano di riarmo dell’Unione Europea e contestiamo il vertice NATO
che pretende di deciderne i dettagli, spingendo gli Stati Membri ad aumentare la
loro spesa militare. Tuttavia, la nostra opposizione deve puntare a rovesciare
un’Europa di guerra che va ben oltre il piano di riarmo e incide nella società
il suo codice fatto di sfruttamento, autoritarismo, patriarcato, razzismo e
devastazione ambientale. Essere parte dell’elaborazione di un discorso e di una
pratica di lotta transnazionali ed europei, capaci di guardare l’Europa oltre i
suoi confini istituzionali, è parte integrante dell’opposizione alla guerra.
Lo scenario di guerra ha reso per l’ennesima volta evidente come i diritti umani
rappresentino oggi un mero strumento retorico che l’Unione Europea ha continuato
a sbandierare mentre consentiva che l’Italia facesse dell’Albania un centro di
detenzione per migranti, stabiliva liste dei paesi “terzi” sicuri in cui
deportarli, continuava a fare accordi con lo Stato genocidario di Israele. I
governi sovranisti promuovono politiche esplicitamente neoautoritarie che
colpiscono direttamente l’involucro formale democratico: Stato di diritto,
pluralismo, libertà di informazione, separazione dei poteri.
Questa erosione della democrazia è il segno di un cambiamento epocale che
attraversa tutti gli Stati e ovunque spinge ad un nuovo protagonismo gli organi
esecutivi sopra i parlamenti, inserisce i governi dentro reti di rapporti e
decisioni sovranazionali in cui i loro spazi di manovra sono sempre più
limitati, limita gli spazi di movimento e di libertà rinforzando comando e
obbedienza. Non tifiamo per il tanto peggio tanto meglio, né crediamo che ciò
che fanno i governi sia indifferente. Ma sappiamo che non sarà resuscitando la
rappresentanza democratica e neanche un’ipotetica Europa dei diritti che
possiamo conquistare una nuova politica di liberazione. Questo non significa che
dobbiamo smettere di pretendere dalle istituzioni, nazionali ed europee, ciò di
cui abbiamo bisogno, rivendicando spazi di libertà e di giustizia, ma che
dobbiamo organizzare la nostra forza oltre quello, per prendere di più di quanto
esse sono disposte o possono darci.
Alla sterile opposizione tra europeisti e non europeisti rispondiamo dicendo che
dobbiamo organizzarci necessariamente dentro a questa Europa, sapendo che lo
dobbiamo fare contro di essa e anche oltre i suoi confini istituzionali.
OLTRE IL RIARMO
Con il piano ReArm Europe il peso della guerra entrerà ancora più direttamente
nei bilanci e nelle politiche della Commissione Europea e degli Stati Membri,
per quanto con ritmi e intensità differenti tra i diversi paesi. Ma la folle
corsa agli armamenti, che il piano vuole accelerare e finanziare, non ha
semplicemente la funzione di preparare l’Unione Europea all’allargamento dello
scontro militare già mondiale. Certo, i piani di riarmo producono strumenti di
guerra e arricchiscono i produttori di armi. Nel suo complesso, tuttavia, il
piano ReArm Europe rappresenta soprattutto uno degli strumenti con cui saranno
intensificate, su scala europea, politiche di disciplinamento sociale. Dobbiamo
essere in grado di leggere il filo che lega ciò che vediamo accadere intorno a
noi, il filo che connette condizioni e realtà differenti, per opporvi le nostre
connessioni e la nostra organizzazione.
Le misure autoritarie e di criminalizzazione che abbiamo visto in Italia con il
d.l. Sicurezza, l’attacco alle proteste contro il genocidio a Gaza che abbiamo
visto in Germania, la minaccia costante contro i corpi non conformi che si
scarica ovunque con violenza contro le soggettività lgbtqia+ – trova l’appoggio
esplicito di governi di Stati europei – il razzismo istituzionale e le politiche
di deportazione delle e dei migranti che accomunano le politiche della
Commissione e quelle degli Stati europei anche extra UE (si veda l’UK): sono
tutti tasselli che compongono il nuovo puzzle europeo segnato dall’inasprimento
dello sfruttamento, dalla coazione al lavoro, dalla precarietà come unico
orizzonte possibile.
Ma cosa c’è dietro il mostrare i muscoli di Stati e Commissione? Sbaglieremmo a
pensare che siano il segno della loro forza, così come sbaglieremmo a pensare
che siano il segno di una loro grande debolezza. La crescita del militarismo, il
costante richiamo alla sicurezza e l’individuazione di nemici che assumono di
volta in volta la faccia di migranti, donne, persone trans, lavoratori e di
chiunque mostra comportamenti disallineati dalle università alle periferie,
esprime soprattutto la ricerca di nuovi strumenti di disciplina sociale e quindi
di coazione al lavoro per garantire i processi di accumulazione dentro un
disordine che li mette costantemente a rischio. Da questa prospettiva, la guerra
è sia il segno sia l’esito di questo disordine. Ed è in questo campo di tensione
che dobbiamo collocarci e conquistare spazio. Questo intendiamo quando diciamo
non si tratta di un mero “riarmo”: per lottare contro il riarmo, dobbiamo
conquistare la capacità di colpire l’insieme di questi processi. Una capacità di
pensiero e di azione. In una parola: riacquisire una capacità di organizzazione
che ci è mancata in questi anni.
Come situarsi in questo contesto eterogeneo di guerra?
UNO SCIOPERO CONTRO LA GUERRA
Vogliamo costruire una politica di parte in grado di intrecciare le lotte sul
lavoro, sul terreno ecologico, femministe e trasfemministe, la cui
frammentazione e chiusura è oggi intensificata dalla guerra, che impone fronti e
blocchi. Dobbiamo recuperare e reinventare una capacità di comunicazione tra i
soggetti e le realtà organizzate che travalichi i confini e le condizioni
differenti, facendone punti di forza e di attacco per articolare un movimento di
opposizione alla guerra in grado di affermare la nostra politica di pace e di
lotta.
Non partiamo da zero: nonostante tale drammatica situazione, in Italia e nel
resto del mondo, migliaia di persone continuano a mobilitarsi contro la guerra
in tutte le sue forme, contro la complicità delle istituzioni statali e
sovranazionali, a partire dalle mobilitazioni femministe e transfemministe, che
per prime hanno legato l’opposizione alla guerra alla lotta contro il
patriarcato, contro il razzismo, contro lo sfruttamento e la devastazione
ambientale. Queste mobilitazioni mostrano che dietro lo sbigottimento e la paura
che la guerra porta con sé cresce, all’interno della società, un sentimento di
repulsione e rifiuto della guerra. Tuttavia, più in generale il piano della
mobilitazione rimane parziale e frammentato. Non riesce ad andare al di là di un
intervento su una singola questione o su un singolo scenario di guerra, restando
spesso bloccato su posizioni campiste.
Un processo in grado di fare del piano transnazionale ed europeo un piano di
contesa e di scontro che, al rifiuto dell’Europa del riarmo, non contrapponga la
dimensione nazionale coi suoi confini. Sciopero perché deve puntare a
interrompere i meccanismi di riproduzione della guerra: uno sciopero contro lo
sfruttamento, contro la violenza patriarcale e razzista, contro la devastazione
ambientale. Ma anche uno sciopero concreto contro le condizioni insopportabili
del lavoro contemporaneo, che la guerra aggrava erodendo i salari già bassi con
l’inflazione galoppante, comprimendo welfare e ammortizzatori sociali per
finanziare le spese militari, contrapponendo lavoro e salute, lavoro e
sicurezza, lavoro e sostenibilità ambientale.
Uno sciopero per ricomporre le soggettività del lavoro impoverito e frammentato
che negli anni hanno perso capacità di organizzazione, di mobilitazione, di
lotta. Uno sciopero sconfinato per conquistare il nostro tempo, il nostro
spazio, la nostra libertà. Un processo di accumulo di forza e di capacità che
chiamiamo sciopero sociale ecotransfemminista contro la guerra. La parola
d’ordine dello sciopero contro la guerra deve attraversare a partire da oggi
tutti gli spazi di mobilitazione e di attivazione, deve essere lo spazio di
invenzione di una nuova capacità di organizzazione, il volano per la costruzione
di linguaggi e discorsi comuni, un grimaldello che sfida i soggetti sindacali,
la bussola che ci porti a costruire nuove connessioni attraverso i confini, la
possibilità di una convergenza reale tra soggetti, condizioni, movimenti, la
forza che spinge oltre i loro limiti tutte le mobilitazioni e le scadenze
precostituite.
Costruiamo lo sciopero europeo contro la guerra!
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Redazione Italia