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Crisi sociale e sanitaria in Sudan: intervista a due operatrici di Emergency
Da aprile 2023 il Sudan è lacerato da una guerra civile tra l’esercito nazionale e le forze di supporto rapido (Rsf), una milizia paramilitare. Il conflitto ha dato luogo alla più «grave crisi umanitaria al mondo» secondo le Nazioni Unite, con 12 milioni di sfollati, 25 milioni di persone affette da carestia, centinaia di migliaia di feriti e decine di migliaia di morti civili. Il sistema sanitario è al collasso, gli aiuti umanitari sono insufficienti e non riescono a raggiungere tutte le aree interessate dalla crisi. L’ospedale Salam center di Emergency nella capitale Khartoum, attivo dal 2007, è rimasto in piedi per tutta la durata della guerra; solo da gennaio 2025 ha vaccinato 1133 bambini, ne ha visitati 4633 e ha accettato in pronto soccorso 2100 persone, portando a termine 41 interventi di cardiochirurgia specializzata. A raccontarlo sono Elena Giovanella, responsabile della clinica di anticoagulazione del Salam Center e Abulwahab Abdallah Hassan Suha, senior medical officer e direttrice del dipartimento. Qual è lo status del vostro ospedale e qual è stato l’impatto della guerra sulla struttura? Giovanella: L’intero sistema sanitario sudanese è gravemente danneggiato, il nostro ospedale per fortuna non è mai stato colpito. A causa della ristrettezza dei fondi e dell’impossibilità di ricevere aiuti umanitari per via aerea, le risorse mediche e chirurgiche sono molto inferiori ai bisogni della comunità. Le catene di approvvigionamento sono state interrotte, sia gli abitanti dell’area che le strutture sanitarie hanno dovuto comprare le scorte al mercato nero, per un costo che in pochissimi potevano permettersi. Al momento il nostro staff è composto da 120 persone, 10 internazionali e 110 nazionali, e viviamo dentro la struttura. Riusciamo a fare al massimo 20 operazioni al mese, dobbiamo selezionare i pazienti da sottoporvi in base a chi ha più chances di sopravvivere. All’inizio della guerra, quando le Rsf controllavano la città, eravamo lontane dall’area dei combattimenti quindi a differenza di altri ospedali non abbiamo subito danni eccessivi. A partire dall’ottobre 2024, quando l’esercito ha lanciato la campagna di riconquista della capitale, ci siamo ritrovate nel mezzo del fuoco incrociato: abbiamo dovuto allestire un bunker nel seminterrato dove durante i bombardamenti portavamo anche i pazienti. Ritirandosi, poi, le milizie hanno distrutto o portato via tutti i cavi elettrici lasciando la città completamente al buio e il carburante necessario per alimentare il generatore era difficile da trovare – a un costo comunque molto alto – mettendo gravemente a rischio la tenuta dell’ospedale. Suha: Durante tutta la campagna non entrava nulla nell’area, siamo sopravvissute grazie alle scorte di cibo secco e abbiamo organizzato camion di distribuzione dell’acqua, che riuscivamo a rimediare da un pozzo sotto la struttura, per la popolazione locale rimasta senza. Da gennaio, quando i combattimenti si sono intensificati, abbiamo dovuto interrompere totalmente la chirurgia, perché l’ospedale poteva essere un obiettivo militare e operare era troppo pericoloso. Abbiamo ripreso solo a fine aprile. In questi due anni la struttura è stata riorganizzata più volte, in base alle esigenze: abbiamo aperto un ambulatorio pediatrico che oggi si occupa di varie patologie tra cui la malnutrizione, che interessa tre milioni di bambini nel paese. Siamo ripartite anche con il programma vaccinale, ma in molti hanno saltato dosi critiche e sono esplose epidemie come il colera che ora colpisce sei regioni. Allo stato attuale è anche difficile monitorarne la diffusione, non abbiamo numeri precisi dei malati e dei morti. È cambiata la situazione da quando l’esercito a fine marzo ha riconquistato la città? Suha: Sì, da un lato è migliorata perché sono ripartiti gli aiuti umanitari, il cibo terapeutico per le persone affette da malnutrizione e i vaccini, dall’altro l’afflusso di pazienti è aumentato a dismisura. All’ambulatorio pediatrico riusciamo a visitare 67 bambini al giorno e negli ultimi mesi ne sono arrivati sempre di più. Sfollati provenienti da tutte le zone del conflitto sono venuti a chiedere assistenza: dal Darfur o dal Kordofan sono più di due settimane di viaggio e spesso arrivano già consumati da malattie come la tubercolosi. Una donna è arrivata dal campo profughi di Zamzam, nel Darfur, per ricevere un’operazione al cuore; quando è arrivata la sua condizione era già troppo avanzata e non abbiamo potuto procedere con l’intervento. Ci ha raccontato che al campo venivano attaccati dalle milizie ogni giorno, che stupravano, uccidevano, razziavano e arrestavano arbitrariamente. Il vostro ospedale è l’unico gratuito in una regione che interessa 300 milioni di persone e molti Stati, avete operato pazienti provenienti da 35 Paesi diversi, cosa ha comportato lo scoppio della guerra? Giovanella: L’impatto è stato devastante, allo scoppio del conflitto avevamo 35 pazienti dal Ciad, Uganda, Somaliland, Etiopia e altri Paesi in attesa di interventi chirurgici. Siamo riuscite a operarli tutti ma non sapevamo come farli evacuare. Grazie alla collaborazione di altre Ong e al nostro staff li abbiamo portati ai confini o in zone sicure. Due bambini li ho portati io stessa fino a Port Sudan, attraversando aree controllate dalle milizie. Milioni di persone hanno perso l’accesso a cure mediche specializzate gratuite, il nostro ospedale era un punto di riferimento per tutta la regione, soprattutto per il reparto cardiologico. L’impatto di questa guerra eccede i confini del Sudan. Dr. Suha come sono cambiate le geografie del suo Paese, la coesione sociale e la vita quotidiana dallo scoppio del conflitto? Suha: sento di avere due identità: quella professionale che deve rimanere concentrata e la cittadina che ha il cuore spezzato. Il Sudan è devastato. Ho perso amici, vicini e quelli che sono sopravvissuti hanno perso tutto, intere famiglie sono state separate o decimate. La mia è sfollata in Egitto, mia madre ha una malattia cronica e non la vedo da quasi due anni. Le scuole e le università sono chiuse o distrutte, i luoghi un tempo pieni di vita come le piazze, le strade, i mercati e gli spazi culturali sono sventrati o deserti. Le maglie della nostra vita quotidiana sono irrimediabilmente sfaldate, ci vorrà ben oltre la fine della guerra per ricucirle. La sfiducia e la diffidenza imperano e minano profondamente la coesione sociale, per gruppi etnici che hanno subito persecuzioni come la comunità Masalit c’è un trauma collettivo da superare. Le persone sono state colpite per la loro identità e questo lascerà delle cicatrici indelebili. Tuttavia, la società civile non è persa: ho visto famiglie accogliere vicinati interi nella loro casa rimasta in piedi, organizzare collettivamente i trasporti, condividere quel poco di cibo e acqua a disposizione. Gli studenti credono ancora nella possibilità di costruire un Paese migliore e unito attraverso la cultura e la creatività. Il Sudan ha sempre trovato la forza di reinventarsi, ci riuscirà anche questa volta. Affinché ciò avvenga, però, è necessario che sia fatta giustizia. La comunità internazionale deve costringere i responsabili di queste atrocità a prendersi le proprie responsabilità, oltre agli aiuti umanitari abbiamo bisogno di un processo politico di ricostruzione. Nell’immagine di copertina la vista aerea della città di Khartoum. Di Christopher Michel, da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Crisi sociale e sanitaria in Sudan: intervista a due operatrici di Emergency proviene da DINAMOpress.
Guerra civile in Sudan: come orientarsi nel conflitto
Il Sudan continua a sanguinare. E lo fa con un filo di voce. In un recente comunicato a margine del secondo anniversario del conflitto civile che da oltre due anni infiamma il Paese, Antònio Guterres, segretario delle Nazioni Unite, ha dichiarato che «la crisi in Sudan ha raggiunto proporzioni sconcertanti, con quasi 12 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case. Di queste, più di 3,8 milioni hanno attraversato i Paesi vicini, mentre metà della popolazione – circa 25 milioni di persone – soffre la fame». Stando invece all’ultimo rapporto UNICEF, il numero di bambini e bambine che hanno bisogno di assistenza umanitaria è raddoppiato, passando dai 7,8 milioni dell’inizio del 2023 agli oltre 15 milioni di oggi. Inoltre, «17 milioni di loro non vanno a scuola da due anni, mentre le ragazze corrono gravi rischi, tra cui la violenza sessuale, la tratta e il matrimonio forzato, con un totale di oltre 12 milioni di persone a rischio per violenza di genere». Sono numeri impressionanti, che fanno del Sudan il teatro della più grave crisi umanitarie della storia recente, ma che sono solo la lunga coda di un conflitto che da oltre cinquant’anni ha visto il Paese lacerarsi sotto una catena ininterrotta di guerre tribali, conflitti etnici e colpi di stato. VICENDE COLONIALI Culla di una delle più antiche civiltà conosciute, il regno di Kush, stanziale tra la prima e la sesta cataratta del Nilo, in quel territorio che i romani chiamarono Nubia, tra il 1896 e il 1956 il Sudan entrò a far parte del protettorato anglo-egiziano, un dominio congiunto esercitato tuttavia solo in via nominale, poiché il controllo effettivo del territorio così come la designazione dei suoi governatori restava in mano alla corona inglese. Mantenere una presa salda su Khartoum era cruciale per la Gran Bretagna, che poteva così assicurarsi un argine strategico alle mire espansionistiche dell’impero francese in Darfur. Durante questo periodo, il governo britannico mise in atto una politica fortemente sbilanciata in favore dei territori del nord, che in virtù degli storici legami con l’Egitto e il mondo arabo era assai più facilmente cooptabile nei gangli dell’amministrazione coloniale, rispetto ai più frammentati territori del sud (a struttura tribale e perlopiù cristiani o animisti). Ad accentuare questo divario ci fu la cosiddetta Southern Policy, una serie di provvedimenti varati dal governo britannico tra il 1922 al 1946, che sulla scia del noto divide et impera vietava ai sudanesi del nord di viaggiare nel sud senza regolare autorizzazione (Passports and Permits Ordinance Act), promuoveva lo sviluppo nel sud di un sistema educativo in lingua inglese (in luogo di quello arabo) e promuoveva la diffusione della religione cristiana (a scapito di quella mussulmana). Attraverso politiche di soft-power, l’Inghilterra sperava di limitare l’influenza arabo-egiziana e preparare le regioni meridionali a una eventuale integrazione nella federazione britannica dell’Africa Orientale. In seguito, con la Conferenza di Juba del 1947, i due territori furono riunificati in un unico stato, ma molti rappresentanti del Sud organizzarono una serie di manifestazioni di protesta, temendo che i ben più sviluppati cugini del Nord monopolizzassero le principali istituzioni estromettendoli dalla vita del Paese – cosa che di fatto avvenne. INDIPENDENZA SUDANESE E SECESSIONE DEL SUD SUDAN Questa situazione d’instabilità politica contribuì più o meno direttamente alle numerose guerre civili (1955–1972 e 1983–2005), che culminarono, cinquant’anni dopo e con un bilancio complessivo di oltre di due milioni di morti e quattro milioni di rifugiati, nella dichiarazione d’indipendenza del Sud Sudan firmata il 9 luglio del 2011. A Nord intanto la situazione precipitava. Con la secessione del Sud, il Paese aveva perduto circa 75% delle intere riserve petrolifere, nonché la sua principale fonte di entrata in valuta estera. La disoccupazione e l’inflazione schizzarono a livelli mai visti, scatenando in breve tempo un’ondata di proteste generali dovuta alla grave carenza di generi alimentari. Il popolo chiese le dimissioni del governo, ma le manifestazioni vennero represse nel sangue dall’allora presidente del Paese, Omar Al-Bashir, che aveva cercato di contenere la crisi con drastici tagli ai sussidi. Nel corso del suo trentennale governo, Bashir era riuscito ad accentrare il potere politico agendo su diversi fronti: da una parte aveva isolato le opposizioni sciogliendo i sindacati e abolendo i partiti, dall’altra aveva legato il proprio destino a quello delle élite, assicurandosi che le posizioni apicali venissero ricoperte da suoi fedelissimi, disposti a usare le risorse statali per sostenerlo in caso di un eventuale colpo di stato. Inoltre, gli introiti straordinari derivanti dalla vendita del petrolio (che nel 2008 arrivò a toccare i 130 dollari a barile), consentirono al governo di calmierare i beni di prima necessità a valori ben al di sotto del normale prezzo di mercato, mitigando il dissenso fra le frange più deboli della popolazione. > Con la secessione del Sud Sudan però, le cose cambiarono in fretta: la rete > dei rapporti clientelari di Bashir si assottigliò, il numero dei ministri del > suo governo passò da 49 a 21, il prezzo dei beni e l’inflazione salì alle > stelle e gli stipendi dei lavoratori diminuirono. Il progressivo deterioramento delle condizioni di vita dei cittadini, portò i sudanesi e le sudanesi a organizzarsi in sindacati ombra e a manifestare in favore di salari migliori. Il Comitato Centrale dei Medici Sudanesi fu lanciato nel 2011 e organizzò un primo sciopero nel 2012. Nel 2016, si unì a un sindacato ombra di avvocati e di giornalisti per formare l’Associazione dei Professionisti Sudanesi (SPA). Furono in particolare le donne a mobilitarsi, poiché le politiche di feroce islamizzazione e il rigido codice di comportamento imposto dalla polizia morale aveva progressivamente marginalizzato il loro ruolo nella vita politica. Sotto le ingenti pressioni della società civile, l’11 aprile del 2018, il generale Awad Ibn Auf, vicepresidente e ministro della Difesa di Bashir, annunciò che le varie forze di polizia avevano congiuntamente rimosso Bashir dal potere. I leader del colpo di stato proclamarono una transizione di due anni verso un governo civile. Poche ore dopo, Ibn Auf, considerato troppo vicino al vecchio presidente, annunciò le dimissioni e fu sostituito dal tenente generale Abdel Fattah al-Burhan, che divenne Capo del Consiglio Militare Transitorio (TMC). Le proteste però non si arrestarono. Vennero formati spazi di aggregazione autogestiti che offrivano cibo e cure mediche gratuite, si allestirono palchi dove artiste e artisti e attiviste e attivisti politici potevano esibirsi liberamente e i vecchi edifici coloniali vennero ritinteggiati con le immagini dei martiri della rivoluzione. Il 3 giugno, il TMC ordinò ai soldati di disperdere brutalmente le manifestazioni: furono uccise almeno 120 persone, decine di donne vennero stuprate e il governo oscurò l’intera rete internet per impedire la diffusione delle atrocità commesse. In seguito, le forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC) indissero una nuova manifestazione per il 30 giugno (la “Marcia dei Milioni”), con proteste simultanee in tutti i principali centri urbani del Paese. Si aprì così una nuova fase di negoziati con l’obiettivo di formare un governo di transizione condiviso tra civili e militari. In base a questi accordi, fu istituito un Consiglio Sovrano composto da undici membri (cinque nominati dal TMC, cinque dalle FFC e un undicesimo scelto di comune accordo) per guidare il paese verso elezioni democratiche entro tre anni. Il 20 agosto 2019, il Consiglio Sovrano nominò Abdalla Hamdok, economista con esperienza presso le Nazioni Unite, come Primo Ministro. Tuttavia, alcune sacche di resistenza fedeli al vecchio governo si opposero alla spartizione dei poteri e così, dopo un breve periodo di transizione democratica e l’ennesimo colpo di stato, Burhan divenne il capo del Consiglio Sovrano del Sudan. LA GUERRA CIVILE In questo scenario si è consumata l’ultima delle catastrofi in ordine di tempo. A contrapporsi in una guerra fratricida sono stavolta le Forze armate sudanesi (SAF) e le RSF, le forze paramilitari di supporto rapido. Se le prime rappresentano l’esercito regolare, le RSF, al contrario, sono una vera e propria milizia parallela e autonoma nata da una costola dei Janjaweed, il famoso gruppo di combattenti di etnia baggara che stando ad un report delle Nazioni Unite avrebbe trucidato in Darfur tra i 10 e i 15 mila civili innocenti. Le due fazioni sono rispettivamente capeggiate dall’attuale presidente al-Burhan e dal suo vice al governo, Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemedti), entrambi attivamente coinvolti nelle stragi che si consumarono in Darfur tra il 2003 e il 2006 e per le quali l’ex-presidente Bashir è già stato processato dalla corte penale internazionale con l’accusa di genocidio e crimini contro l’umanità. Il canovaccio di questo ennesimo conflitto è più o meno il solito: dopo aver unito le forze con Hemedti per rovesciare il governo civile, Burhan raggiunse un’intesa con diverse organizzazioni civili, tra cui la Ffc -Db (Forces for Freedom and Change – Democratic Block) che prevedeva, tra le altre cose, l’abrogazione della dichiarazione costituzionale del 2019, l’insediamento delle autorità civili a tutti i livelli e, più importante, la fusione di tutti i gruppi paramilitari in unico esercito professionale riconosciuto. > Lo scopo dichiarato era quello di far confluire le RFS nell’esercito regolare > e limitare così il crescente potere di Hemedti, sancendo di fatto la fine di > quella fragile alleanza basata sulla spartizione d’interessi personali, > particolarismi politici e giochi di potere. Gli effetti di questa rottura si > sono resi evidenti nell’assalto alla capitale Khartoum da parte delle forze > dell’RFS il 15 aprile del 2023. Durante la rivolta, sono state colpite numerose infrastrutture pubbliche, tra cui il quartier generale dell’esercito, la sede della televisione di stato e il palazzo del Presidente. Dopo due anni di occupazione ribelle, nel marzo scorso, le truppe di Hemedti sono state ricacciate ad ovest e costrette a ripiegare in Darfur, dove Hemedti ha già dichiarato di voler formare un governo parallelo patrocinato dagli Emirati Arabi e dal gruppo paramilitare russo Wagner. Ma la sua reazione non si è limitata a questo: la scorsa settimana, numerosi droni esplosivi sono stati lanciati contro la città di Port Sudan, attuale capitale amministrativa e polo strategico cruciale per lo smistamento degli aiuti nel paese, colpendo il principale deposito di carburante della città. Camilla Passarotti, programme manager di Emergency in Sudan, la ONG che da 14 anni offre cure gratuite e di qualità a bambine e bambini fino ai 14 anni, descrive così gli attacchi: «Alle 4.30 circa di sabato 3 maggio si è sentita una forte esplosione, tremavano i vetri delle finestre della nostra casa. Non si è visto subito il fumo per cui non si capiva esattamente quale fosse la zona colpita, ma abbiamo poi appreso che si trattava dell’area dell’aeroporto e, dalle ricostruzioni, sembra si siano verificate più esplosioni. A seguito dell’episodio in città è aumentata la presenza di controlli e l’aeroporto è stato chiuso ma ha già riaperto nella serata di ieri. Noi abbiamo limitato i nostri spostamenti in città, muovendoci solo tra casa e ospedale per garantire la sicurezza dello staff. Ora monitoreremo cosa accadrà nei prossimi giorni». DISASTRO UMANITARIO E INGERENZE STRANIERE L’elevato grado di sofisticazione tecnologica delle armi utilizzate dall’RFS, e in particolare quella dei droni, ha suscitato forti sospetti tra gli analisti internazionali. Un rapporto di Amnesty International ha accusato gli Emirati Arabi di aver fornito alle truppe dell’RSF ordigni bellici di fabbricazione cinese, come le bombe guidate GB50A e gli obici AH-4 da 155 mm. Com’è noto, la Cina è il principale partner commerciale di Karthoum e acquista circa il 70% di tutte le sue esportazioni petrolifere, garantendo in cambio prestiti a basso interesse, supporto logistico, infrastrutture e numerosi investimenti in settori strategici come quello minerario e nucleare. E, ovviamente, armi. Analizzando decine di documenti e filmati, Amnesty international ha infatti dimostrato che la Cina si servirebbe di Abu Dhabi per far arrivare i propri rifornimenti in Sudan, aggirando così l’embargo stabilito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2018. In un discorso televisivo rilasciato ai media statali sudanesi il primo maggio scorso, il ministro della Difesa Yassin Ibrahim ha annunciato che il governo ha interrotto i rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, inclusi il ritiro del proprio ambasciatore e la chiusura dell’ambasciata nel paese del Golfo: >  «L’intero mondo ha assistito, per oltre due anni, al crimine di aggressione > contro la sovranità del Sudan, la sua integrità territoriale e la sicurezza > dei suoi cittadini da parte degli Emirati Arabi Uniti». Complementarmente > sembra che il governo abbia richiesto (e ottenuto) aiuti militari, soprattutto > droni, da Iran e Turchia, nonché sostegni da parte di Egitto e forse Russia. Oggi, a più di due anni da un conflitto che conta almeno 140 mila morti e una quantità incalcolabile di ferite e feriti, le risposte della comunità internazionale sono tiepide e tardano ad arrivare. Mamadou Dian Balde, coordinatore regionale dei Rifugiati in Sudan e Direttore Regionale dell’UNHCR per la regione dell’Est e del Corno d’Africa e dei Grandi Laghi, ha dichiarato che degli 1,8 miliardi di dollari stanziati dal Piano regionale di risposta alle persone rifugiate per il 2025, rimane finanziato solo il 10%. In un Paese flagellato dalla povertà, con un tasso di malnutrizione dilagante, cicliche epidemie di colera e un processo di desertificazione che appare ormai inarrestabile, le conseguenze di questa decisione rischierebbero di avere un impatto devastante. Stando ai report UNICEF, solo quest’anno le vittime infantili sono aumentate dell’83% rispetto all’inizio del 2024 e la fame e le carestie hanno raggiunto livelli senza precedenti. LA NARRAZIONE MEDIATICA DISTORSIVA L’indifferenza della comunità globale di fronte alla crisi sudanese è sintomatica di una narrazione che vede normalizzare la sofferenza del popolo africano, percepito come intrinsecamente arretrato, barbaro e incivile, una forma di razzismo temperato che affonda le sue radici nelle teorie pseudo-scientifiche della superiorità della razza bianca, nell’uso del concetto di terra nullius come strumento giuridico per l’appropriazione coloniale dei territori e nella deliberata costruzione deumanizzante dell’uomo nero da parte delle potenze occidentali. In tempi moderni, questa forma di prevaricazione culturale persiste nei rapporti commerciali tra gli ex-Paesi coloniali e le potenze dominatrici, sfociando in atteggiamenti di bieco paternalismo quando non di vero e proprio sfruttamento. In un suo saggio pubblicato nel 2012, lo scrittore Teju Cole definisce questo fenomeno “complesso industriale dell’uomo bianco”, evidenziando come le questioni africane siano spesso viste attraverso la lente dell’intervento occidentale piuttosto che dal punto di vista dell’autonomia dei popoli africani. D’altra parte, il crescente fenomeno del land grabbing, ovvero l’acquisizione di vaste aeree territoriali da parte dei governi stranieri e delle multinazionali, ricalca il vecchio modello coloniale in base al quale le terre delle africane e degli africani venivano espropriate a beneficio dei potentati esterni. Non bisogna poi dimenticare il ruolo che i media internazionali giocano nel plasmare la percezione dell’opinione pubblica, perpetuando beceri stereotipi e teorie preconcette che descrivono il continente come povero, corrotto e profondamente violento. Salvare l’Africa da se stessa, questo è il motto, risposta semplice a problemi complessi, ridurre una realtà profondamente stratificata e complessa a una narrativa piatta e facilmente digeribile, tesa a giustificare lo sfruttamento capitalista e a sgravare l’Occidente dal peso delle proprie responsabilità. Un esempio tipico a tal proposito è rappresentato dalla copertura mediatica dei conflitti. > I media occidentali tendono infatti a trascurare il coinvolgimento delle > multinazionali nell’estrazione di petrolio e minerali, che alimentano le > tensioni locali e contribuiscono alla violenza, preferendo concentrarsi su > immagini di grande impatto mediatico che, esulate dal loro contesto > geopolitico, rafforzano il cliché dell’incapacità dell’”uomo africano”, e > deviando al contempo l’attenzione dagl’interessi che le potenze straniere > traggono dall’instabilità del paese. Questo sbilanciamento della copertura mediatica è reso ancora più evidente se considerato in rapporto ad altri contesti bellici di ben più elevata risonanza, non ultimo quelli in corso in Ucraina e nella striscia di Gaza. Attualmente, il Sudan conta circa 50 milioni di abitanti ed è uno dei Paesi più poveri al mondo, con un reddito pro capite lordo inferiore ai 1000 euro l’anno, una mortalità infantile che sotto i cinque anni si aggira a 50,1 per 1.000 nati vivi e un’aspettativa di vita che per gli uomini non arriva ai 60 anni. Il Sudan rappresenta inoltre uno dei principali luoghi di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana giungono in Libia e da qui alle coste europee del Mediterraneo. Se la comunità internazionale continuerà a rimanere cieca di fronte alla sfilata di atrocità che da decenni affligge questo popolo dimenticato, se un’etica della lungimiranza appare quantomai illusoria, saranno forse i milioni di corpi in marcia verso l’Occidente a costringerci a guardare ciò che abbiamo scelto di non vedere. Immagine di copertina di Steve Evans da Flickr.com – Una donna in Sud Sudan, 2011 SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Guerra civile in Sudan: come orientarsi nel conflitto proviene da DINAMOpress.