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Sciopero generale a Genova: siamo ancora vivi, siamo ancora vive!
C’era un vento che portava via stamattina, in piazza Verdi, davanti alla stazione Brignole di Genova e a dire il vero non c’era nemmeno la folla che ci si aspettava, o in cui si sperava. Poi, piano piano, la situazione è cambiata: non quella meteorologica, ma quella umana. Gli studenti e le studentesse hanno cominciato a popolare la piazza. Il numero dei partecipanti è diventato più che ragguardevole e non perché è venerdì, come afferma chi non ha altri argomenti. Greta Thunberg, Francesca Albanese, Yanis Varoufakis: non si può certo dire che gli oratori della manifestazione di oggi siano “i soliti.” Foto di https://www.facebook.com/diem25.org Richi Rudino, il portuale che dà il via alla manifestazione, non ha fatto sconti a nessuno: gli aiuti raccolti per Gaza sono ancora fermi ai valichi controllati da Israele. I palestinesi sopravvissuti vivono in tende allagate e non era vero che seguendo i canali “istituzionali “ gli aiuti sarebbero stati consegnati in 48 ore. Non consegna aiuti umanitari chi ha deciso a tavolino di sterminare un intero popolo: perché dovrebbe? E non consegnano aiuti umanitari nemmeno i loro complici. E allora, c’è una sola cosa da fare: blocchiamo tutto, per bloccare la prepotenza del governo israeliano. Si parte, ancora una volta con i portuali in testa al corteo. Foto di Clara Habte Anche ventiquattro anni fa Genova era sulle prime pagine dei giornali. La città che aveva visto la resa dei nazisti ai partigiani e la ribellione di popolo contro il governo fascista Tambroni era stata scelta nel 2001 da Massimo D’Alema come teatro per la parata degli otto grandi, i padroni del mondo, venuti qui a ribadire che comandavano loro. Non perché avessero ricevuto un mandato politico dai popoli, o perché possedessero una qualsiasi legittimazione morale;  semplicemente perché erano i maggiori azionisti della Banca Mondiale. Genova 2001: Carlo Giuliani assassinato, cariche della polizia, torture. La posta in gioco era troppo grande: da una parte i padroni del mondo, dall’altra chi diceva no. Troppo ingenue erano state le persone che avevano pensato che si trattasse solo di una “manifestazione un po’ più importante”: le conseguenze di quei giorni e di quella prepotenza sono ben presenti ancora oggi. Dal 2000, in Italia come nel mondo, la povertà è cresciuta e la forbice tra i più ricchi e i più poveri si è allargata; si è intensificata la guerra contro i migranti; le guerre ed il riarmo sono sempre più considerate cose “normali; Il lavoro è sempre più precario e malpagato e ad esso si subordina qualunque scelta di vita. La solidarietà tra lavoratori è sempre più condizionata. A questo pensavo stamattina quando mi sono avviata in corteo dietro i portuali, che hanno fatto la differenza cinque anni fa bloccando le navi armiere della Bahri. “Sgréuzzi” (grezzi), dicono orgogliosamente di se stessi, ma indispensabili. E pensavo alle differenze e alle analogie con il corteo di stamattina e quelli di ventiquattro anni fa. Via Venti Settembre è ancora in salita (provate a percorrerla in corteo per crederci); gli studenti e le studentesse sono allegramente “misti”, di tutti i colori e di tutte le culture, come quelli che avevano animato il corteo dei migranti del 19 luglio 2001. Questi di oggi, però, allora non erano ancora nati. La repressione di piazza Alimonda e della Diaz, i governi fascisti, il Jobs Act, le riforme peggiorative della scuola e lo svuotamento della rappresentanza attraverso leggi elettorali sempre meno rappresentative non sono riusciti a condizionarli, a impaurirli, a scoraggiarli. Meloni, vai a casa, cantano con i loro ritmi, ma forse i ritmi sono uguali ai nostri…. “Quando è troppo, è troppo” hanno detto i portuali che hanno bloccato le navi armiere.  Camminando in mezzo ai miei compagni e compagne, finalmente non tutti miei coetanei e coetanee, mi è tornato alla mente un altro ricordo genovese: le lotte contro la Mostra Navale Bellica degli anni ’80. Costruire armi “dà lavoro” si dice da sempre e si diceva anche allora. Da oltre 25 anni manifesto, con pochi compagni e compagne ogni mercoledì sui gradini del Palazzo Ducale, il palazzo del G8, contro tutte le guerre.  “Costruire armi dà lavoro”, ci hanno ripetuto circa cinquemila volte le persone a cui consegnavamo i volantini. E’ da allora che cerchiamo di rispondere che anche l’arte, la salute, la cultura danno lavoro e che la differenza tra costruire armi e fare altro è negli enormi profitti che l’industria bellica dà ai suoi azionisti. Il fatturato della Leonardo spa è cresciuto enormemente da quando i teatri di guerra nel mondo si sono moltiplicati. E in proporzione si sono moltiplicati i compensi del suo amministratore delegato. Quando abbiamo cominciato a manifestare sui gradini del Palazzo Ducale Greta Thunberg non era ancora nata. Chissà se le farebbe piacere sapere che aveva dei compagni e compagne lontani, durante le sue manifestazioni solitarie per il clima davanti al Parlamento svedese e che prima o poi li avrebbe incontrati in piazza. E che anche loro avrebbero cercato di ricordare ai passanti che la guerra distrugge risorse, ambienti, vite e non risolve alcun problema, come sta dimostrando l’Ucraina. “E basta con ‘ste patrie!” recita uno striscione dei pacifisti e delle pacifiste dell’Ora in silenzio per la pace, ai quali, laici e cattolici, piace citare Don Milani: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.” (L’obbedienza non è più una virtù) Il corteo genovese di oggi è figlio anche della Global Sumud Flotilla.  Non c’era altro da fare, avranno certo pensato i partecipanti quando si sono imbarcati pieni di grandi speranze e, immagino, di grande paura. L’ingiustizia contro i palestinesi era troppo grande per accettarla in silenzio. E probabilmente molti e molte dei partecipanti, ideologicamente molto lontani dalla teoria e dalla pratica della nonviolenza, non avrebbero mai pensato che una volta nella vita avrebbero camminato, anzi, navigato, sulle orme di Gandhi… Gli incontri sono il bello dei cortei: anch’io ne ho fatti molti stamattina. E anch’io ho cercato tra la moltitudine dei miei compagni e compagne persone che so bene non avrei potuto incontrare, perché hanno lasciato questa vita: come Stefano Kovac, presidente di ARCI Genova, deceduto proprio oggi, o come Don Gallo, che non sarebbe mancato per niente al mondo. Ma c’era anche il più piccolino dei partecipanti, figlio di un mio ex alunno, poco più di un mese di vita… Hai un bel record, ragazzino! Tocca a te, ora! L’irriducibile Papillon del film di Franklin J. Schaffner, (“incorreggibile” l’avrebbero chiamato i giudici francesi) mentre fugge dall’Isola del Diavolo su una zattera ridicola, alza il pugno e grida: “Sono ancora vivo!” Grazie ai portuali, a Greta, a Francesca Albanese, alla Global Sumud Flotilla, agli obiettori e obiettrici di coscienza dell’esercito israeliano,  ai e alle manifestanti  anonimi  di Genova, di Seattle, di Torino, di Roma: siamo ancora vivi. Siamo ancora vive.   Redazione Italia
Pericolose rimozioni
MENTRE IL PARLAMENTO FA DIVENTARE UN REATO IL DISSENSO, A ROMA, IL PORTAVOCE DELLA RETE NO DL SICUREZZA E ASSESSORE MUNICIPALE, LUCA BLASI, VIENE MANGANELLATO NEL CORSO DI UNA MEDIAZIONE TRA MANIFESTANTI E POLIZIOTTI. INTANTO A MONZA VIENE NOMINATO QUESTORE UN POLIZIOTTO CONDANNATO A TRE ANNI E OTTO MESI NEL PROCESSO DIAZ. TUTTO QUESTO ACCADE IN UN PAESE NEL QUALE LE FORZE DI POLIZIA – I LORO VERTICI MA ANCHE I LORO SINDACATI – NON HANNO VOLUTO AFFRONTARE IL CASO GENOVA 2001 PER QUEL CHE È STATO E PER QUANTO LASCIAVA INTRAVEDERE. UN PAESE CHE 2020, CON LE VIOLENZE CONTRO I DETENUTI NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA A VETERE, HA PRESO ATTO CHE LA TORTURA FA PARTE DELLA NOSTRA STORIA E DEL NOSTRO PRESENTE. “IN UNA SITUAZIONE COSÌ CRITICA – SCRIVE LORENZO GUADAGNUCCI – AVREMMO BISOGNO DI FORZE DI POLIZIA AUTENTICAMENTE DEMOCRATICHE NELLA VITA INTERNA E NELLA DIALETTICA COL RESTO DELLA SOCIETÀ, IN GRADO DI SOTTRARSI ALLE INGERENZE DEL POTERE POLITICO, CAPACI DI ISPIRARSI SOLO ED ESCLUSIVAMENTE AI DETTAMI E ALLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE. NON ABBIAMO NIENTE DEL GENERE…” Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Vorrei partire in questa mia breve riflessione dalla definizione che lo staff di Amnesty International ha scelto per annunciare il mio intervento (durante la giornata di riflessione promossa a Roma in occasione dei cinquant’anni di Amnenesty international): “Vittima di tortura durante il G8 di Genova”. In effetti è così, la notte del 21 luglio 2001 mi trovai fra i 92 malcapitati presenti alla scuola Diaz al momento dell’irruzione della polizia di stato. Fummo picchiati selvaggiamente e subito dopo arrestati con accuse inventate, molto fantasiose anche sul piano strettamente giudiziario – primo caso nella storia di arresto in flagranza per associazione a delinquere (finalizzata nel nostro caso alla devastazione e al saccheggio) – e sulla base di false ricostruzioni dei fatti e perfino con prove costruite ad hoc: le due bombe molotov introdotte nella scuola dalla stessa polizia. E tuttavia è solo dal 2015 che parliamo della vicenda Diaz come di un caso di tortura. Da quando l’Italia, su nostro ricorso, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per non avere fatto giustizia, nonostante le condanne inflitte in via definita a una decina di funzionari e dirigenti di polizia. La Corte di Strasburgo, per la prima volta, definì come tortura la “macelleria messicana” alla scuola Diaz, secondo la colorita rappresentazione che ne diede uno dei funzionari responsabili dell’intervento. Fino al 2015 si parlava di blitz, di irruzione, o di pestaggio e spedizione punitiva, oppure – in modo metaforico – appunto di macelleria messicana o ancora di tonnara, come ebbi a scrivere io stesso nel mio libro Noi della Diaz. Non so perché non abbiamo parlato fin da subito di tortura, e perché nemmeno i media lo abbiano mai fatto prima del 2015: eppure l’operazione Diaz, violentissima, durò ben due ore, in un luogo chiuso nel pieno controllo della polizia, insomma aveva tutti i crismi di un caso di tortura, secondo la definizione accettata a livello internazionale. Forse l’omissione è avvenuta perché la tortura è istintivamente associata alle carceri, a persone detenute e sottoposte a violenze nel rapporto molti a uno, col torturato solo in una stanza chiusa di fronte ai suoi aguzzini, o forse perché prevalevano nei media e nella società italiano il pudore, o perfino la paura, nel dover riconoscere che in Italia si era potuto praticarla in modo così plateale, in una scuola adibita a dormitorio, contro decine di persone inermi, utilizzando reparti specializzati e alla presenza fisica di quasi tutti i dirigenti di rango più alto della polizia di stato. Anch’io ho avuto bisogno di un po’ di tempo per accettare questa definizione: vittima di tortura. Ma poi ho capito – studiando un po’ – che la tortura fa parte della nostra storia e del nostro presente. Al G8 di Genova fu praticata su larga scala: alla Diaz, nella caserma di polizia di Bolzaneto – oggetto di uno specifico processo – e anche nella centrale operativa dei carabinieri, a Forte San Giuliano, per quanto su quest’ultimo caso non ci siano state inchieste della magistratura. Le torture a Genova hanno coinvolto centinaia e centinaia di agenti di tutte le forze dell’ordine – polizia di stato, carabinieri, polizia penitenziaria – come autori o come agenti necessariamente consapevoli di quel che avveniva attorno a loro, e qui mi riferiscono in particolare alla caserma di Bolzaneto, dove le torture fisiche e psicologiche andarono avanti per ben tre giorni. Le torture al G8 di Genova hanno avuto due principali caratteristiche. Hanno colpito non carcerati ma gente comune, attivisti, manifestanti qualunque, persone fermate per strada sostanzialmente a casaccio, e sono state praticate per ragioni prettamente politiche, cioè per colpire e mettere fuori gioco un movimento nascente, giudicato politicamente pericoloso – per la fase espansiva che stava attraversando – dall’establishment internazionale. Un’operazione di verità Le torture al G8 di Genova sono state un’operazione di verità. Hanno mostrato il lato oscuro delle nostre forze dell’ordine, un lato che avevamo dimenticato, o che fingevamo di non vedere; i fatti del luglio 2001 hanno chiarito che la tortura è una pratica che accompagna tutta la storia delle polizie dell’Italia repubblicana: a Genova fu praticata su larga scala e su cittadini qualunque, ma fu possibile perché c’era una “tradizione” pregressa. Il G8 di Genova è stato anche un disastro per la gestione dell’ordine pubblico, che fu colpevolmente militarizzata, con esiti fallimentari: l’uccisione a colpi di pistola di un ragazzo di 23 anni, centinaia di arresti arbitrari e illegittimi, una catena di abusi e violenze di strada da parte delle forze di polizia. Il G8 di Genova è stato inoltre un festival del falso in atto pubblico, con innumerevoli verbali infedeli consegnati alla magistratura, il festival della menzogna messa nero su bianco su carta intestata. Le violenze di Genova ci hanno fatto poi capire che la riforma del 1981, quella che aveva smilitarizzato la polizia di stato, quella che aveva introdotto la nozione di “polizia democratica”, ad appena vent’anni dalla sua introduzione era già evaporata. Ci hanno fatto capire che la pratica della tortura è una presenza costante, e incombente, nella vita delle forze dell’ordine, e che perciò andrebbe portata alla luce, dovrebbe essere discussa e combattuta insieme con gli agenti e nel discorso pubblico, invece di negarla, di sottovalutarla, di fingere che non ci sia. Voglio ricordare che a Genova, alla scuola Diaz, alcuni agenti usarono perfino strumenti portati alla bisogna, non solo i manganelli in dotazione – fra l’altro erano i tonfa, classificati come armi potenzialmente letali dalla stessa polizia – ma anche mazze fuori ordinanza, e manganelli elettrici, che io stesso ho provato sulla mia schiena. E voglio anche ricordare che le varie tecniche di tortura praticate a Bolzaneto – il “comitato di accoglienza” con le due file di agenti a colpire i detenuti, costretti a passare in mezzo, con sputi, calci, pugni; la posizione del cigno; le nudità imposte; i segni a pennarello sul viso; e poi gli insulti, le derisioni, le minacce (sulle ragazze anche minacce di violenza sessuale) e via elencando – fecero sorgere il legittimo dubbio che ci fosse una competenza specifica, una pratica diffusa, una trasmissione “professionale” di tali tecniche fra una generazione e l’altra di agenti. Un dubbio legittimo. Di tutto questo non si è mai parlato. Le forze di polizia – i loro vertici ma anche i loro sindacati – non hanno voluto affrontare il caso Genova per quel che è stato e per quanto lasciava intravedere. Non hanno voluto un’operazione di verità, di presa di coscienza, di ripudio degli abusi e quindi di ripartenza su nuove basi, con trasparenza, in dialogo col resto della società. Le forze di polizia si sono arroccate, anche rispetto alle inchieste della magistratura, affrontate con spirito omertoso e non collaborativo, al punto – cito dalla sentenza Diaz della Corte di Strasburgo – che la polizia di stato ha “ostacolato impunemente” l’azione della magistratura. La sentenza della Corte, come sappiamo, è stata subita quasi come un affronto e disapplicata nelle sue parti più significative, dove chiedeva il licenziamento dei condannati in via definitiva e l’introduzione dei codici identificativi obbligatori per gli agenti in servizio di ordine pubblico. La stessa legge sulla tortura del 2017 è stata approvata in un clima ostile, senza alcun serio dibattito interno alle forze di polizia, che l’hanno vissuta come un’impropria invasione di campo, dimostrando tutta la propria immaturità democratica. Un ponte fra passato e futuro Perciò oggi, a quasi venticinque anni dal G8 di Genova, tocca dire che il luglio genovese, anziché un punto di rottura e di frattura quale poteva essere, un’occasione cioè per un cambio di passo, è stato in verità un ponte fra passato e futuro, nel segno della continuità, e se vogliamo – visto quanto quei fatti sono stati plateali – una legittimazione anticipata del futuro, una sorta di annuncio che quanto accaduto sarebbe stato destinato a ripetersi. Come altro leggere quanto avvenuto in questi venticinque anni, i tanti troppi casi di abuso di potere e di violenza di polizia, in che altro modo interpretare le sconvolgenti, ma non sorprendenti, immagini registrate nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, immagini che invito a guardare rileggendo, simultaneamente, le testimonianze dei torturati di Bolzaneto: le immagini del 2020 corrispondono alle testimonianze del 2001, sono sovrapponibili. Santa Maria Capua a Vetere sembra, anzi è Bolzaneto: allora non vi fu alcuna vera autocritica e l’orrore si è immancabilmente ripetuto tale e quale. Genova G8 poteva essere un momento oscuro, una caduta grave e forse gravissima della legalità e dell’etica costituzionale nelle forze dell’ordine, ma era una caduta rimediabile, poteva essere una pagina nera da superare attraverso una seria assunzione di responsabilità. Dobbiamo invece considerarla un biglietto da visita, un precedente, una storia che non cessa di produrre effetti. Genova G8 non è finita Genova G8 è ancora nelle notizie di cronaca. E fa impressione, in questi giorni, sentire dell’ex capo della polizia e di un suo storico stretto collaboratore, Gianni De Gennaro e Francesco Gratteri (condannato quest’ultimo a quattro anni nel processo Diaz), nel frattempo diventati uno manager e l’altro consulente di importanti aziende private costruttrici, fa impressione saperli chiamati in causa per la vicenda del pm Michele Prestipino, cioè per i presunti scambi di informazioni riservate sulla vicenda del Ponte di Messina, il tutto sulla base di intercettazioni disposte per indagare su un depistaggio successivo alla strage di via D’Amelio (1993) e sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, per i quali i sospetti sono concentrati su un defunto (nel 2002) funzionario, Arnaldo La Barbera, che partecipò, come dirigente più alto in grado (era il vice di De Gennaro), all’operazione Diaz. La cronaca ci consegna anche la nomina a questore di Monza di Filippo Ferri, un altro condannato – a 3 anni e 8 mesi – nel processo Diaz. Tutto questo allarma, specie in una fase storica come l’attuale, attraversata da evidenti pulsioni autoritarie, ben rappresentate dal recente decreto sicurezza. In una situazione così critica avremmo bisogno di forze di polizia autenticamente democratiche nella vita interna e nella dialettica col resto della società, in grado di sottrarsi alle ingerenze del potere politico, capaci di ispirarsi solo ed esclusivamente ai dettami e allo spirito della costituzione. Non abbiamo niente del genere e la preoccupazione è quindi legittima, perché siamo coscienti di non avere una soluzione a portata di mano, in un paese che dimostra di avere rimosso l’esperienza del G8 di Genova e che sembra assecondare le tensioni autoritarie in atto. Io non ho indicazioni da dare: dico solo che dobbiamo stare molto attenti, e ricordare, ricordare sempre tutto. -------------------------------------------------------------------------------- L’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci è Un’altra memoria (Altreconomia), da poco nelle librerie (di cui parla in questa intervista). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pericolose rimozioni proviene da Comune-info.