Pericolose rimozioniMENTRE IL PARLAMENTO FA DIVENTARE UN REATO IL DISSENSO, A ROMA, IL PORTAVOCE
DELLA RETE NO DL SICUREZZA E ASSESSORE MUNICIPALE, LUCA BLASI, VIENE
MANGANELLATO NEL CORSO DI UNA MEDIAZIONE TRA MANIFESTANTI E POLIZIOTTI. INTANTO
A MONZA VIENE NOMINATO QUESTORE UN POLIZIOTTO CONDANNATO A TRE ANNI E OTTO MESI
NEL PROCESSO DIAZ. TUTTO QUESTO ACCADE IN UN PAESE NEL QUALE LE FORZE DI POLIZIA
– I LORO VERTICI MA ANCHE I LORO SINDACATI – NON HANNO VOLUTO AFFRONTARE IL CASO
GENOVA 2001 PER QUEL CHE È STATO E PER QUANTO LASCIAVA INTRAVEDERE. UN PAESE CHE
2020, CON LE VIOLENZE CONTRO I DETENUTI NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA A
VETERE, HA PRESO ATTO CHE LA TORTURA FA PARTE DELLA NOSTRA STORIA E DEL NOSTRO
PRESENTE. “IN UNA SITUAZIONE COSÌ CRITICA – SCRIVE LORENZO GUADAGNUCCI – AVREMMO
BISOGNO DI FORZE DI POLIZIA AUTENTICAMENTE DEMOCRATICHE NELLA VITA INTERNA E
NELLA DIALETTICA COL RESTO DELLA SOCIETÀ, IN GRADO DI SOTTRARSI ALLE INGERENZE
DEL POTERE POLITICO, CAPACI DI ISPIRARSI SOLO ED ESCLUSIVAMENTE AI DETTAMI E
ALLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE. NON ABBIAMO NIENTE DEL GENERE…”
Foto di Ferdinando Kaiser
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Vorrei partire in questa mia breve riflessione dalla definizione che lo staff di
Amnesty International ha scelto per annunciare il mio intervento (durante la
giornata di riflessione promossa a Roma in occasione dei cinquant’anni di
Amnenesty international): “Vittima di tortura durante il G8 di Genova”. In
effetti è così, la notte del 21 luglio 2001 mi trovai fra i 92 malcapitati
presenti alla scuola Diaz al momento dell’irruzione della polizia di stato.
Fummo picchiati selvaggiamente e subito dopo arrestati con accuse inventate,
molto fantasiose anche sul piano strettamente giudiziario – primo caso nella
storia di arresto in flagranza per associazione a delinquere (finalizzata nel
nostro caso alla devastazione e al saccheggio) – e sulla base di false
ricostruzioni dei fatti e perfino con prove costruite ad hoc: le due bombe
molotov introdotte nella scuola dalla stessa polizia. E tuttavia è solo dal 2015
che parliamo della vicenda Diaz come di un caso di tortura. Da quando l’Italia,
su nostro ricorso, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per non
avere fatto giustizia, nonostante le condanne inflitte in via definita a una
decina di funzionari e dirigenti di polizia. La Corte di Strasburgo, per la
prima volta, definì come tortura la “macelleria messicana” alla scuola Diaz,
secondo la colorita rappresentazione che ne diede uno dei funzionari
responsabili dell’intervento. Fino al 2015 si parlava di blitz, di irruzione, o
di pestaggio e spedizione punitiva, oppure – in modo metaforico – appunto di
macelleria messicana o ancora di tonnara, come ebbi a scrivere io stesso nel mio
libro Noi della Diaz. Non so perché non abbiamo parlato fin da subito di
tortura, e perché nemmeno i media lo abbiano mai fatto prima del 2015: eppure
l’operazione Diaz, violentissima, durò ben due ore, in un luogo chiuso nel pieno
controllo della polizia, insomma aveva tutti i crismi di un caso di tortura,
secondo la definizione accettata a livello internazionale.
Forse l’omissione è avvenuta perché la tortura è istintivamente associata alle
carceri, a persone detenute e sottoposte a violenze nel rapporto molti a uno,
col torturato solo in una stanza chiusa di fronte ai suoi aguzzini, o forse
perché prevalevano nei media e nella società italiano il pudore, o perfino la
paura, nel dover riconoscere che in Italia si era potuto praticarla in modo così
plateale, in una scuola adibita a dormitorio, contro decine di persone inermi,
utilizzando reparti specializzati e alla presenza fisica di quasi tutti i
dirigenti di rango più alto della polizia di stato.
Anch’io ho avuto bisogno di un po’ di tempo per accettare questa definizione:
vittima di tortura. Ma poi ho capito – studiando un po’ – che la tortura fa
parte della nostra storia e del nostro presente. Al G8 di Genova fu praticata su
larga scala: alla Diaz, nella caserma di polizia di Bolzaneto – oggetto di uno
specifico processo – e anche nella centrale operativa dei carabinieri, a Forte
San Giuliano, per quanto su quest’ultimo caso non ci siano state inchieste della
magistratura. Le torture a Genova hanno coinvolto centinaia e centinaia di
agenti di tutte le forze dell’ordine – polizia di stato, carabinieri, polizia
penitenziaria – come autori o come agenti necessariamente consapevoli di quel
che avveniva attorno a loro, e qui mi riferiscono in particolare alla caserma di
Bolzaneto, dove le torture fisiche e psicologiche andarono avanti per ben tre
giorni.
Le torture al G8 di Genova hanno avuto due principali caratteristiche. Hanno
colpito non carcerati ma gente comune, attivisti, manifestanti qualunque,
persone fermate per strada sostanzialmente a casaccio, e sono state praticate
per ragioni prettamente politiche, cioè per colpire e mettere fuori gioco un
movimento nascente, giudicato politicamente pericoloso – per la fase espansiva
che stava attraversando – dall’establishment internazionale.
Un’operazione di verità
Le torture al G8 di Genova sono state un’operazione di verità. Hanno mostrato il
lato oscuro delle nostre forze dell’ordine, un lato che avevamo dimenticato, o
che fingevamo di non vedere; i fatti del luglio 2001 hanno chiarito che la
tortura è una pratica che accompagna tutta la storia delle polizie dell’Italia
repubblicana: a Genova fu praticata su larga scala e su cittadini qualunque, ma
fu possibile perché c’era una “tradizione” pregressa.
Il G8 di Genova è stato anche un disastro per la gestione dell’ordine pubblico,
che fu colpevolmente militarizzata, con esiti fallimentari: l’uccisione a colpi
di pistola di un ragazzo di 23 anni, centinaia di arresti arbitrari e
illegittimi, una catena di abusi e violenze di strada da parte delle forze di
polizia. Il G8 di Genova è stato inoltre un festival del falso in atto pubblico,
con innumerevoli verbali infedeli consegnati alla magistratura, il festival
della menzogna messa nero su bianco su carta intestata.
Le violenze di Genova ci hanno fatto poi capire che la riforma del 1981, quella
che aveva smilitarizzato la polizia di stato, quella che aveva introdotto la
nozione di “polizia democratica”, ad appena vent’anni dalla sua introduzione era
già evaporata. Ci hanno fatto capire che la pratica della tortura è una presenza
costante, e incombente, nella vita delle forze dell’ordine, e che perciò
andrebbe portata alla luce, dovrebbe essere discussa e combattuta insieme con
gli agenti e nel discorso pubblico, invece di negarla, di sottovalutarla, di
fingere che non ci sia.
Voglio ricordare che a Genova, alla scuola Diaz, alcuni agenti usarono perfino
strumenti portati alla bisogna, non solo i manganelli in dotazione – fra l’altro
erano i tonfa, classificati come armi potenzialmente letali dalla stessa polizia
– ma anche mazze fuori ordinanza, e manganelli elettrici, che io stesso ho
provato sulla mia schiena. E voglio anche ricordare che le varie tecniche di
tortura praticate a Bolzaneto – il “comitato di accoglienza” con le due file di
agenti a colpire i detenuti, costretti a passare in mezzo, con sputi, calci,
pugni; la posizione del cigno; le nudità imposte; i segni a pennarello sul viso;
e poi gli insulti, le derisioni, le minacce (sulle ragazze anche minacce di
violenza sessuale) e via elencando – fecero sorgere il legittimo dubbio che ci
fosse una competenza specifica, una pratica diffusa, una trasmissione
“professionale” di tali tecniche fra una generazione e l’altra di agenti. Un
dubbio legittimo.
Di tutto questo non si è mai parlato. Le forze di polizia – i loro vertici ma
anche i loro sindacati – non hanno voluto affrontare il caso Genova per quel che
è stato e per quanto lasciava intravedere. Non hanno voluto un’operazione di
verità, di presa di coscienza, di ripudio degli abusi e quindi di ripartenza su
nuove basi, con trasparenza, in dialogo col resto della società. Le forze di
polizia si sono arroccate, anche rispetto alle inchieste della magistratura,
affrontate con spirito omertoso e non collaborativo, al punto – cito dalla
sentenza Diaz della Corte di Strasburgo – che la polizia di stato ha “ostacolato
impunemente” l’azione della magistratura. La sentenza della Corte, come
sappiamo, è stata subita quasi come un affronto e disapplicata nelle sue parti
più significative, dove chiedeva il licenziamento dei condannati in via
definitiva e l’introduzione dei codici identificativi obbligatori per gli agenti
in servizio di ordine pubblico. La stessa legge sulla tortura del 2017 è stata
approvata in un clima ostile, senza alcun serio dibattito interno alle forze di
polizia, che l’hanno vissuta come un’impropria invasione di campo, dimostrando
tutta la propria immaturità democratica.
Un ponte fra passato e futuro
Perciò oggi, a quasi venticinque anni dal G8 di Genova, tocca dire che il luglio
genovese, anziché un punto di rottura e di frattura quale poteva essere,
un’occasione cioè per un cambio di passo, è stato in verità un ponte fra passato
e futuro, nel segno della continuità, e se vogliamo – visto quanto quei fatti
sono stati plateali – una legittimazione anticipata del futuro, una sorta di
annuncio che quanto accaduto sarebbe stato destinato a ripetersi. Come altro
leggere quanto avvenuto in questi venticinque anni, i tanti troppi casi di abuso
di potere e di violenza di polizia, in che altro modo interpretare le
sconvolgenti, ma non sorprendenti, immagini registrate nel carcere di Santa
Maria Capua a Vetere, immagini che invito a guardare rileggendo,
simultaneamente, le testimonianze dei torturati di Bolzaneto: le immagini del
2020 corrispondono alle testimonianze del 2001, sono sovrapponibili. Santa Maria
Capua a Vetere sembra, anzi è Bolzaneto: allora non vi fu alcuna vera
autocritica e l’orrore si è immancabilmente ripetuto tale e quale.
Genova G8 poteva essere un momento oscuro, una caduta grave e forse gravissima
della legalità e dell’etica costituzionale nelle forze dell’ordine, ma era una
caduta rimediabile, poteva essere una pagina nera da superare attraverso una
seria assunzione di responsabilità. Dobbiamo invece considerarla un biglietto da
visita, un precedente, una storia che non cessa di produrre effetti.
Genova G8 non è finita
Genova G8 è ancora nelle notizie di cronaca. E fa impressione, in questi giorni,
sentire dell’ex capo della polizia e di un suo storico stretto collaboratore,
Gianni De Gennaro e Francesco Gratteri (condannato quest’ultimo a quattro anni
nel processo Diaz), nel frattempo diventati uno manager e l’altro consulente di
importanti aziende private costruttrici, fa impressione saperli chiamati in
causa per la vicenda del pm Michele Prestipino, cioè per i presunti scambi di
informazioni riservate sulla vicenda del Ponte di Messina, il tutto sulla base
di intercettazioni disposte per indagare su un depistaggio successivo alla
strage di via D’Amelio (1993) e sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo
Borsellino, per i quali i sospetti sono concentrati su un defunto (nel 2002)
funzionario, Arnaldo La Barbera, che partecipò, come dirigente più alto in grado
(era il vice di De Gennaro), all’operazione Diaz. La cronaca ci consegna anche
la nomina a questore di Monza di Filippo Ferri, un altro condannato – a 3 anni e
8 mesi – nel processo Diaz.
Tutto questo allarma, specie in una fase storica come l’attuale, attraversata da
evidenti pulsioni autoritarie, ben rappresentate dal recente decreto sicurezza.
In una situazione così critica avremmo bisogno di forze di polizia
autenticamente democratiche nella vita interna e nella dialettica col resto
della società, in grado di sottrarsi alle ingerenze del potere politico, capaci
di ispirarsi solo ed esclusivamente ai dettami e allo spirito della
costituzione. Non abbiamo niente del genere e la preoccupazione è quindi
legittima, perché siamo coscienti di non avere una soluzione a portata di mano,
in un paese che dimostra di avere rimosso l’esperienza del G8 di Genova e che
sembra assecondare le tensioni autoritarie in atto.
Io non ho indicazioni da dare: dico solo che dobbiamo stare molto attenti, e
ricordare, ricordare sempre tutto.
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L’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci è Un’altra memoria (Altreconomia), da poco
nelle librerie (di cui parla in questa intervista). Nell’archivio di Comune i
suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla
speranza e non dalla paura
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