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La Bolivia e il litio, tra orgoglio e pazienza
> Non c’è Paese senza destino se si prende cura delle proprie radici. Il litio è > la radice del XXI secolo. E la Bolivia ce l’ha già nelle sue mani. Le riserve della Bolivia stimate di 23 milioni di tonnellate (33,6% del totale mondiale) sono le prime al mondo. Produzione 2023 quasi nulla (0,0% della produzione mondiale). Valore stimato: oltre 460.000 milioni di dollari. Dati del Servizio Geologico degli Stati Uniti. La Bolivia possiede le maggiori riserve di litio del pianeta, ma ancora non ha una produzione industriale rilevante né una catena di valore consolidata. Non è un Paese povero, è un Paese saccheggiato con una dignità intatta. Ha le risorse, ha la storia e soprattutto ha il litio. Ma mentre il mondo corre dietro il minerale bianco come se fosse sangue per le auto elettriche, la Bolivia cammina al proprio ritmo. Questa pazienza, che per alcuni è arretratezza, potrebbe essere la sua più grande forza. Il cosiddetto triangolo del litio (Cile, Argentina, Bolivia) concentra oltre il 60% delle riserve globali. La Bolivia, con il Salar de Uyuni come epicentro. Esiste un potenziale anche nelle saline di Coipasa a Oruro e di Pastos Grandes a Potosí. Salar de Uyuni: ≈ 21 milioni di tonnellate. Proporzione del “Salar de Uyuni” sul totale del Paese: ≈ 91%. Ciò significa che praticamente tutta la ricchezza di litio della Bolivia si trova sotto la superficie del “Salar de Uyuni”, rendendolo il più grande giacimento singolo del pianeta. Eppure nel 2023 la Bolivia ha fatturato solo circa 180 milioni di dollari per il litio e i suoi derivati. La produzione è stata bassa. Ma il 100% di questa cifra rimane nelle mani dello Stato. Non esistono concessioni private. L’intera catena è sotto il controllo di Yacimientos de Litio Bolivianos (YLB). Un modello sovrano sì, ma ancora in fase di sviluppo. E in disputa perché ogni passo compiuto dallo Stato dà fastidio a coloro che vorrebbero gestire il litio come hanno gestito l’argento o il rame. Il litio boliviano è più difficile da lavorare. È mescolato con il magnesio, il che rende più costosa la separazione. Richiede tecnologia, investimenti e sovranità. E la Bolivia ha preferito costruire questa sovranità piuttosto che ripetere la storia dello stagno, del gas o dell’argento. Ecco perché il litio è al 100% di proprietà dello Stato. Non ci sono SQM o Albemarle (aziende chimiche, la prima cilena, la seconda statunitense, N.d.R). Nessun privato può sfruttarlo senza associarsi con YLB. Non ci sono concessioni aperte. Solo uno Stato che ha scelto di essere proprietario del proprio sottosuolo. Oggi YLB gestisce tre impianti chiave: 1. Impianto Pilota di Carbonato di Litio a Llipi, Potosí 2. Impianto Industriale di Cloruro di Potassio, inaugurato nel 2018 3. Impianto Industriale di Carbonato di Litio, entrato in funzione nel 2023 Nel 2023, la Bolivia ha prodotto soltanto 1.400 tonnellate di carbonato di litio. Molto al di sotto delle 40.000-60.000 tonnellate che producono Argentina o Cile. L’obiettivo ufficiale è di raggiungere 100.000 tonnellate annue entro il 2030, con impianti moderni e tecnologia DLE (estrazione diretta). Per accelerare questo percorso, la Bolivia ha firmato due accordi strategici: uno con il consorzio cinese CATL BRUNP CMOC per 1.400 milioni di dollari  per la costruzione di due impianti con tecnologia DLE, e un altro con la società russa Uranium One Group, parte del colosso statale Rosatom, per lo sviluppo di nuovi progetti. Entrambi gli accordi rispettano la sovranità nazionale. YLB mantiene il controllo delle risorse e partecipa ai profitti. Cina e Russia forniscono la tecnologia, ma non si prendono né le saline né la proprietà. Ogni impianto previsto avrà una capacità di 25.000 tonnellate all’anno, avvicinando la Bolivia ai maggiori produttori entro il 2026-2027. Ma la Bolivia non vuole essere solo esportatrice di salamoia. Il suo obiettivo è creare una catena di valore completa, dalla salamoia alle batterie e alle auto elettriche. Nel 2019 ha inaugurato il suo primo impianto pilota per la produzione di batterie. Oggi, punta ad attrarre fabbriche di catodi, elettroliti, componenti strategici e assemblaggio completo di batterie. AMBIZIOSO? SÌ. LENTO? ANCHE. DEGNO? DECISAMENTE. La Bolivia vuole che il litio generi occupazione, tecnologia e sovranità. E che non finisca nelle mani di multinazionali che operano da paradisi fiscali. E questo dà fastidio. Perché ci sono Paesi e aziende che preferiscono il litio senza la Bolivia. O una Bolivia senza Stato. COSA MANCA? 1. Aumentare l’efficienza degli impianti esistenti 2. Superare i colli di bottiglia tecnologici nell’estrazione. 3. Ampliare le infrastrutture logistiche. 4. Formare un maggior numero di tecnici e scienziati nazionali 5. Accelerare la messa in funzione di nuovi impianti E soprattutto blindare politicamente la sovranità sul litio. Perché ogni volta che la Bolivia fa dei progressi, emerge una crisi, un sabotaggio, un colpo di Stato o una campagna internazionale. È già successo nel 2019. Il litio non è solo un minerale. È geopolitica. La salina tace, ma non dimentica. A ogni alba bianca su Uyuni, il litio ricorda che è stato evaporato mille volte dal sole, ma mai dall’oblio. La Bolivia ha le risorse. Ha la dignità. Ha la storia. Manca solo il tempo. E il tempo a volte è dalla parte di chi non tradisce le proprie radici. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
L’oro bianco che divora la vita
> La corsa al litio, chiave per la transizione energetica, sta devastando > ecosistemi unici e violando i diritti delle popolazioni indigene in Cile, > Argentina e Bolivia. Per estrarre una tonnellata di litio sono necessari due > milioni di litri d’acqua, in aree in cui questa risorsa è sia sacra che > scarsa. Il litio viene venduto come energia pulita, ma il vero costo viene > pagato dalle comunità indigene e dalla biodiversità. È tempo di chiedere una > transizione giusta, in cui il futuro non sia costruito su nuove ingiustizie. Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio. Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del progresso altrui. In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce, fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva, libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi. È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici, specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse. A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il prezzo per il futuro di altri? La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie. Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal petrolio ai popoli indigeni. Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano. La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva tardi e con timore. PROPOSTE E PERCORSI ALTERNATIVI 1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene, garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “ informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione. 2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate, dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e sostenibili. 3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo. 4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati – il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità di sfruttare nuovi territori. 5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi indipendenti. 6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in corridoi di conservazione con il sostegno internazionale. Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una visione estranea, imposta e violenta. Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo per evitare che la storia si ripeta. Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che da millenni vivono in armonia con la Terra. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Pedro Pozas Terrados
La febbre del litio: un documentario sulle ombre della transizione energetica in Sudamerica
L’Osservatorio Latinoamericano dei Conflitti Ambientali (OLCA), in collaborazione con il giornale digitale Resumen.cl e con il sostegno di Global Greengrants Fund (GGF), ha presentato un forte reportage audiovisivo “La febbre del litio: le ombre della transizione energetica”. Questo documentario d’inchiesta, girato nel dicembre 2024 e con un’ampia post-produzione completata nell’aprile 2025, approfondisce le complesse dinamiche che riguardano l’estrazione del litio, un minerale cruciale per la promessa di un futuro energetico all’insegna delle fonti rinnovabili. Il documentario, realizzato con la partecipazione dei rappresentanti delle comunità indigene direttamente interessate dall’estrazione del litio, la cui uscita è prevista a luglio, intende indurre a una profonda riflessione per comprendere se la transizione energetica rappresenta una vera soluzione alla crisi climatica o sia piuttosto una nuova forma di sfruttamento della natura. Attraverso un viaggio visivo nella bellezza mozzafiato del deserto cileno, delle sue oasi alle alte zone umide andine fino ai delicati ecosistemi delle saline, il reportage contrappone la ricchezza naturale e culturale alla crescente espansione dell’attività mineraria. Mediante l’uso di immagini satellitari rivelatrici, il documentario mostra come la domanda globale di litio, soprannominato “l’oro bianco” della nuova era, abbia innescato un’intensa “corsa all’estrazione” nel cosiddetto Triangolo del litio, un’area che comprende Cile, Argentina e Bolivia, una zona che ospita circa il 60% delle riserve mondiali di litio. Il reportage esplora i costi ambientali e sociali di questa corsa, esaminando il caso del Cile, primo produttore mondiale di rame e secondo di litio, come esempio dell’impatto ambientale dell’attività di estrazione mineraria. «L’estrazione del litio attraverso lo sfruttamento delle saline, fragili ecosistemi acquatici e sede di una biodiversità unica nel nord del Cile, sta generando un intenso ‘water mining’», spiega il team di registi. Il documentario rivela come circa 2 milioni di litri d’acqua vengano fatti evaporare per produrre una singola tonnellata di litio, un processo che sta consumando la salina di Atacama e portando alla diminuzione dell’acqua e della vegetazione nell’area più arida del pianeta. Inoltre, il documentario dedica particolare attenzione alla salina di Maricunga, situata nel Parco Nazionale Nevado Tres Cruces, territorio ancestrale del popolo nativo Colla, e che sta emergendo come il prossimo ecosistema minacciato dall’espansione dell’estrazione del litio in Cile. Attraverso le testimonianze delle comunità locali e l’analisi di esperti come Eduardo Gudynas, il film mostra come la perdita delle terre, il deterioramento ambientale e la contaminazione delle acque siano alcune delle gravi conseguenze che queste popolazioni devono affrontare. “La febbre del litio: le ombre della transizione energetica” affronta anche il quadro giuridico cileno, regolato da norme emanate durante la dittatura di Pinochet, e il modo in cui aziende come SQM (Sociedad Química y Minera, il più grande produttore di litio al mondo), il cui proprietario ha legami di famiglia con il regime militare, hanno beneficiato dallo sfruttamento di queste risorse. Infine, analizza anche il ruolo delle compagnie internazionali e la crescente importanza geopolitica del controllo delle materie prime per la tecnologia e l’industria militare. Il documentario termina con una riflessione critica sul ruolo del grande capitale nella transizione energetica, evidenziando come, in molti casi, un modello di sfruttamento insostenibile venga perpetuato grazie ad un discorso di sostenibilità: è proprio in questo contesto che si pone la necessità di una trasformazione radicale del modello economico e produttivo, dando priorità alla giustizia sociale e ambientale. Il team del documentario sta attualmente diffondendo il trailer e la locandina del documentario, anticipando la sua uscita nel luglio 2025. “La febbre del litio: le ombre della transizione energetica” dovrebbe generare un dibattito cruciale sul futuro dell’energia e sul costo reale della tanto attesa transizione verde. Traduzione dallo spagnolo di Maria Sartori. Revisione di Mariasole Cailotto. Redacción Chile