Nel movimento dello sciopero: esperienze, possibilità, prospettive
L’assemblea di RESET a Bologna, che abbiamo lanciato prima dell’estate, si è
tenuta dopo settimane di mobilitazione contro il genocidio in Palestina e a
sostegno della Global Sumud Flotilla. Questa mobilitazione, che ha bloccato le
città con manifestazioni che si sono ripetute quasi quotidianamente e che ha
visto ben due scioperi generali in rapida sequenza, ha sorpreso tutte e tutti.
La partecipazione di massa ha espresso un movimento nuovo e irriducibile alle
singole componenti organizzate, sindacali e di movimento, che pure lo hanno
alimentato.
Tutto questo ha aperto una fase radicalmente differente rispetto a quella che ha
segnato la nascita di RESET, il cui scopo era mettere la guerra al centro della
discussione per affrontare il disorientamento e il campismo che, dall’invasione
russa dell’Ucraina, bloccavano i movimenti. Oggi centinaia di migliaia, forse
milioni, di persone sono scese in piazza e hanno scioperato, e noi crediamo che
negli scioperi e nelle piazze, assieme all’opposizione al genocidio, sia emerso
anche un rifiuto collettivo della guerra e del suo mondo. A partire da questa
convinzione abbiamo ridefinito il programma dell’11 ottobre, per esprimere
almeno in minima parte la ricchezza che abbiamo visto negli scioperi del 22
settembre e del 3 ottobre e nella grande manifestazione del 4 ottobre.
UN CONTESTO NUOVO
La fase attuale è diversa da un anno fa, ma la sfida di RESET per noi non si è
esaurita. La guerra va avanti, cambia forme, macina vite, parole e significati,
a partire da quello conferito dalla tregua trumpiana al termine ‘pace’. Di
fronte all’insorgere del rifiuto collettivo del genocidio e della guerra non
dobbiamo ricadere nell’opposizione tra azione e pensiero, mobilitazione e
costruzione di discorso, spontaneismo e organizzazione. RESET è nata con la
pretesa di aprire spazi di confronto in grado di dotarci di parole e immaginari
che ci permettano di cogliere lo scarto imposto dalla guerra, per acquisire
forza e durata scommettendo sullo sciopero come prospettiva di accumulo di
potere.
Questa scommessa per noi è rafforzata da quanto avvenuto nelle scorse settimane.
L’assemblea dell’11 ottobre a Bologna è stata la prima occasione di confronto
sulle possibilità del movimento dello sciopero che si è aperto dopo una fase in
cui la rapidità degli eventi ha reso difficile costruire momenti di ragionamento
comune. Questo confronto per noi non è l’opposto dell’iniziativa e dell’azione,
ma ora più che mai una sua componente essenziale.
DENTRO IL PROCESSO DELLO SCIOPERO
La convergenza nelle piazze di migliaia di persone, figure del lavoro,
soggettività organizzate e non organizzate, sindacati e associazioni, non
risolve da sé il problema di come dare forza, gambe e tempo a una mobilitazione
che è stata in grado di squarciare quel muro di inevitabilità e accettazione di
un presente di morte, oppressione e sfruttamento che la logica di guerra vuole
imporre. A partire da qui, l’11 ottobre abbiamo discusso collettivamente di
quanto si è mosso nelle piazze e nei luoghi di lavoro, di che cosa le
manifestazioni, gli scioperi e i blocchi abbiano effettivamente prodotto, quali
possibilità ma anche quali limiti e contraddizioni abbiano mostrato, e come
quella forza possa continuare a organizzarsi.
L’assemblea, ampia e composita, ha messo in evidenza la novità del momento:
erano presenti lavoratrici e lavoratori della scuola e dell’università,
studentesse e studenti, operai delle fabbriche, delegate e delegati, sindacati
di base e confederali, attiviste e attivisti migranti, transfemministe,
antirazziste e Lgbtq+ che, singolarmente, nei propri collettivi, associazioni o
sindacati, hanno preso parte negli ultimi mesi alle mobilitazioni contro il
genocidio in Palestina, trovando nello sciopero una potente possibilità politica
di andare oltre i percorsi già esistenti. Di questa possibilità parliamo quando
parliamo di movimento dello sciopero.
Questa novità ha fatto sì che tutte e tutti i presenti prendessero sul serio il
confronto politico, senza cedere il passo a interventi di rappresentanza di
gruppi o sindacati e senza timore di far emergere anche posizioni differenti:
sul significato politico dello sciopero e sul ruolo dei diversi sindacati al suo
interno, sulla necessità di andare oltre il campismo che ha caratterizzato il
movimento pro-Pal negli ultimi due anni e su come continuare a organizzarsi
contro la guerra e il genocidio. Sono emersi alcuni elementi comuni che ci pare
importante rimarcare.
Il primo è che la lotta contro il genocidio in Palestina, la spedizione della
Flotilla e l’appello al “blocchiamo tutto” dei portuali genovesi hanno
rappresentato l’innesco attraverso cui un movimento contro la guerra ha potuto
farsi spazio costruendo una forza di massa oltre le bandiere identitarie. Queste
rimangono, ma sono state travolte nelle giornate dello sciopero.
La tregua trumpiana non chiude ma rilancia la necessità di guardare alla
Palestina, di restare dalla parte di quei milioni di uomini, donne e bambini che
continuano a lottare per costruire la pace contro la violenza e lo sfruttamento
del governo israeliano e di chi sta progettando di fare della ricostruzione
un’opportunità di profitto. Nelle piazze e nella discussione è emerso
chiaramente come la forza che la Palestina ha rimesso in movimento parli però
anche di noi, di un’Europa attraversata dalla guerra e dalla sua economia.
di Stella Chirdo
D’altra parte, anche per i sindacati, le loro delegate e i loro delegati, gli
scioperi sono stati una novità. La chiamata per la Palestina e la Flotilla ha
richiesto di sviluppare nuovi discorsi per promuovere la partecipazione, e
l’astensione dal lavoro ha trovato una spinta nel carattere generale e diffuso
del rifiuto della guerra. Questo processo ha incontrato anche delle difficoltà.
Nella metalmeccanica, per esempio, si è registrata un’inedita adesione della
parte impiegatizia, composta in maggioranza da donne. La risposta operaia è
invece stata più differenziata quando lo sciopero è stato percepito come
distante dalle rivendicazioni legate al lavoro, segnalando in questo modo
l’urgenza di momenti di confronto su come la guerra incide sulle condizioni
dello sfruttamento anche dove non viene prodotta immediatamente tecnologia
militare o dual use.
Gli interventi sull’università e sulla scuola non hanno sottolineato soltanto
gli alti livelli di adesione allo sciopero da parte di docenti, personale
tecnico-amministrativo e lavoratori precari – numeri mai raggiunti prima,
soprattutto nell’università. Guardando in avanti, la difficoltà è proseguire
nella mobilitazione in un contesto segnato da una ridefinizione autoritaria e
militarista che impone di fare i conti con la governance universitaria, con
esponenti di FdI alla guida della CRUI e una ricerca sempre più piegata al “dual
use per default”, e con una formazione scolastica ormai sempre più oggetto di
censura e direzione dei programmi scolastici in senso nazionalista e
patriarcale.
La presenza massiccia di donne, migranti e persone Lgbtq+ nella mobilitazione è
inoltre il segno di un’istanza transfemminista e antirazzista di rifiuto del
genocidio e della guerra che riguarda il modo in cui irreggimenta gerarchie
sessuali e di genere, militarizza i confini, rafforza l’ordine della famiglia in
funzione dello sfruttamento, condanna generazioni legate a un permesso di
soggiorno al destino di razzismo che le bombe su Gaza hanno legittimato nel modo
più insopportabile. Anche qui, la difficoltà è dare visibilità a queste istanze,
talvolta messe in secondo piano da un discorso umanitario, pur comprensibile e
necessario.
Un punto condiviso è che, nello sciopero e attraverso lo sciopero, il rifiuto
collettivo di guerra e genocidio ha espresso anche l’insoddisfazione generale
per le condizioni di vita e lavoro che negli ultimi anni ha mosso rivendicazioni
specifiche – nelle fabbriche, nella formazione, nella sanità, o piuttosto si è
vista in esperienze come quelle dei movimenti ecologisti, dei precari
universitari, o della lotta attorno a GKN. Tutto questo ci impone di
interrogarci su come proseguire questo percorso di partecipazione e conflitto,
senza pensare che la mobilitazione a cui abbiamo preso parte nelle scorse
settimane sia immediatamente riproducibile, che possa ripetersi in modo
permanente e nelle stesse forme, che la presenza di massa possa essere data per
scontata.
GUARDARE OLTRE UN CONTESTO IRRIPETIBILE
Si apre così un problema politico e organizzativo, che pone la necessità di
innovare rispetto ai modi consolidati di portare avanti la lotta sapendo che le
condizioni che si sono verificate a fine settembre non potranno ripetersi.
Questa consapevolezza pone domande su come continuare a costruire la nostra
opposizione politica alla guerra e a ogni pace fatta di autoritarismo,
militarismo e profitti che valorizzano ogni oppressione e soffocano ogni pretesa
di libertà.
Sono domande che riguardano il collegamento che c’è, anche nelle differenze, tra
la Palestina e l’Ucraina, tra la corsa agli armamenti e i programmi di
ricostruzione, tra il rifiuto di guerra e genocidio e i salari, la sicurezza sul
lavoro, le politiche industriali e ambientali, la precarizzazione di scuola e
università e il controllo politico sulla formazione, il razzismo istituzionale,
la ridefinizione della riproduzione sociale patriarcale. Sono domande che
riguardano la diversità di condizioni e posizioni soggettive che hanno trovato
nel movimento dello sciopero una potente forma di espressione collettiva, ma che
non sono omogenee, e la cui comunicazione deve essere il nostro problema
politico.
> RESET nasce dal riconoscimento di un dato di realtà: la guerra erode gli spazi
> delle lotte, impone agende sociali, economiche e produttive che ridefiniscono
> le priorità e restringono i margini di conflitto, ma rappresentano al tempo
> stesso il terreno su cui aprire possibilità di lotta su basi nuove. Questo
> abbiamo visto all’opera nelle scorse settimane.
Per esserne all’altezza dobbiamo riconoscere che c’è uno scarto tra il movimento
reale che ha travolto piazze, strade, porti, fabbriche, scuole e i discorsi e le
pratiche organizzative di cui oggi disponiamo. Il nostro problema è farci carico
di questo scarto, senza accontentarci di quello che abbiamo o che siamo. Chi
pensa di avere già una chiave di lettura e una proposta chiara, chi pensa che
quel che abbiamo visto non è che l’esito di quel che si era fatto prima, chi
pensa che un’unica pratica esprima la radicalità delle piazze o di esserne
l’unico interprete e rappresentante di sicuro non è interessato a RESET. Noi
pensiamo che la produzione di spazi di discussione ed elaborazione politica
rappresenti un momento inaggirabile della stessa iniziativa politica, per
affrontare i nodi attraverso cui la guerra interviene nelle vite di donne,
uomini e persone Lgbtq+, precarie, migranti, operai e lavoratrici.
TERRENI DI LOTTA
Dal confronto di Bologna sono emersi tre terreni prioritari su cui è urgente
impegnarsi, anche considerando le scadenze più immediate: le politiche
industriali ed economiche legate al riarmo, perché la guerra riorganizza la
produzione e riproduzione sociale imponendo nuove gerarchie e intensità di
sfruttamento, cancella alternative e riduce gli spazi di organizzazione su
salari e orari; la scuola e l’università, dove programmi, circolari e
provvedimenti come le linee guida di Valditara, il DDL Gasparri, la chiusura di
ogni spazio di discussione e formazione sulla sessualità che non sia ipotecato
da logiche patriarcali e familiste spingono autoritarismo e disciplinamento,
limitano la libertà di insegnamento e promuovono una pedagogia patriottica e
militarista; e la prospettiva femminista, transfemminista e migrante, poiché la
guerra investe la riproduzione sociale, rafforza gerarchie patriarcali e
razziste e governa la mobilità attraverso sfruttamento e frontiere. Su questi
terreni noi pensiamo sia possibile connettere soggettività e prospettive
differenti, mantenendo gli occhi sulla Palestina e dando voce alle diverse
istanze che compongono il rifiuto della guerra.
> Inoltre, al fine di praticare l’urgenza di un orizzonte transnazionale,
> intendiamo impegnarci per la costruzione di un’assemblea europea contro guerra
> e genocidio. La guerra agisce ovunque ma non è un fatto locale.
Come ha sottolineato un’operaia migrante intervenuta a Bologna, 210
licenziamenti minacciati alla Yoox sono stati anche l’effetto del calo dei
consumi seguito all’invasione russa dell’Ucraina. Ma non è locale nemmeno la
lotta: le grandi manifestazioni di Berlino, Madrid e Barcellona, le piazze
francesi che hanno unito la solidarietà con la Palestina alla protesta contro le
politiche di guerra e austerità, le occupazioni studentesche nei Paesi Bassi,
gli scioperi e le mobilitazioni in Grecia e Polonia, insieme alle iniziative in
Serbia e nell’Europa orientale contro la complicità dei governi nel commercio di
armi e nelle politiche di riarmo, e alle proteste in Marocco, dove migliaia di
giovani, lavoratrici e lavoratori si sono mobilitati contro corruzione e
repressione, segnalano una insorgenza transnazionale. Pur diverse, queste
esperienze indicano una volta di più l’urgenza politica di stabilire
connessioni, di trasformare la solidarietà in organizzazione e di sincronizzare
differenti momenti di opposizione politica alla guerra e al suo mondo.
La copertina è di Stella Chirdo
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