Tag - Normativa

Un’analisi critica dell’assicurazione sanitaria integrativa per il personale scolastico
Il recente provvedimento introdotto con l’art. 14, comma 6, del Decreto-Legge n. 25 del 14 marzo 2025 ha previsto l’istituzione di un servizio di copertura assicurativa integrativa per le spese sanitarie del personale scolastico. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito ha presentato la misura come un segnale concreto di riconoscimento del ruolo del personale scolastico, enfatizzando l’entità delle risorse stanziate e prospettando una copertura di 3.000 euro annui per ogni beneficiario. La norma prevede un investimento complessivo pari a 260 milioni di euro tra il 2026 e il 2029. La definizione dei criteri e  delle  modalità di accesso al sistema di assistenza integrativa per il  personale  di cui  al  primo  periodo  sono  definiti  in  sede  di  contrattazione collettiva integrativa a livello  nazionale. Il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (CCNI) è stato firmato l’11 agosto 2025 dal MIM e dai sindacati sottoscrittori del CCNL 2019/2021, mentre la Cgil ha rimandato la decisione ai propri organismi statutari. L’art. 3 individua i destinatari della misura. Il personale scolastico di ruolo a TI e a TD con incarico fino al 31 agosto. Vengono esclusi quelli con contratto fino al 30 giugno e i supplenti brevi. Il personale scolastico in Italia  conta circa 1.200.000 unità, tra docenti, ATA, educatori  e IRC. I 260 milioni di euro, corrispondono in media a circa 216 euro complessivi in quattro anni per ciascun dipendente. Una cifra ben lontana dalle dichiarazioni ufficiali. Per reperire le risorse necessarie il Governo ha deciso di ridurre il Fondo per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni scolastiche. Dal 2026 al 2029 il taglio previsto ammonta a 200 milioni di euro complessivi, incidendo direttamente e pesantemente sul bilancio delle scuole. Le istituzioni scolastiche statali funzionanti nell’anno scolastico 2024/2025 sono circa 7.600 (127 CPIA). In media, ogni scuola perderà circa 30.000 euro in quattro anni, una somma significativa per istituti che già oggi operano in condizioni di scarsità di risorse. Questi tagli rischiano di compromettere ulteriormente la qualità dell’istruzione, andando a incidere su attività didattiche, acquisto di materiali, manutenzione ordinaria degli edifici scolastici e organizzazione di progetti educativi. La copertura assicurativa, di fatto, favorisce il ricorso a strutture sanitarie private. Il provvedimento si inserisce in un quadro più ampio di progressiva privatizzazione della sanità. Un aspetto che suscita non poche perplessità è la partecipazione dei sindacati rappresentativi alla definizione del provvedimento. Può essere letta come una legittimazione piuttosto acritica di una misura propagandistica. La copertura assicurativa sottrae fondi preziosi al sistema scolastico e incentiva un modello sanitario sempre più privatizzato. La riduzione dei fondi destinati al funzionamento delle scuole produrrà con ogni probabilità un effetto immediato e già noto alle famiglie, l’aumento del cosiddetto contributo volontario. Quella quota che le istituzioni scolastiche, pur presentandola come non obbligatoria, finiscono spesso per richiedere con insistenza per poter garantire il funzionamento amministrativo e didattico. In diverse scuole secondarie di secondo grado, il contributo chiesto alle famiglie può raggiungere cifre anche superiori ai 150/200 euro l’anno per studente/ssa, destinate a coprire spese per laboratori, innovazione tecnologica, attività integrative, ampliamento dell’offerta formativa, acquisto di carta e toner per le fotocopiatrici, manutenzione ordinaria degli edifici, fino alla fornitura di beni essenziali come il sapone e la carta igienica. Da un lato si finanzia un’assicurazione sanitaria integrativa, presentata come misura di tutela della salute del personale scolastico, dall’altro, si riducono i fondi destinati all’istruzione, costringendo le famiglie a coprire spese che dovrebbero essere a carico dello Stato. In pratica, due diritti fondamentali come la salute e l’istruzione, entrambi riconosciuti e garantiti dalla Costituzione italiana, vengono messi in conflitto fra loro, come se la tutela dell’uno dovesse necessariamente avvenire a scapito dell’altro. Da un lato si mina il principio dell’accessouniversale e gratuito all’istruzione, sancito dall’articolo 34 della Costituzione, dall’altro si rischia di accentuare le disuguaglianze sociali, poiché il contributo delle famiglie, pur dichiarato volontario, diventa di fatto indispensabile per il funzionamento amministrativo e didattico delle Scuole. Le famiglie, economicamente sempre più fragili, si trovano così ulteriormente penalizzate, costrette a scegliere se versare o meno somme che, pur presentate come facoltative, diventano nella realtà condizioni di accesso alle attività scolastiche. La vera alternativa dovrebbe consistere in un rafforzamento della sanità pubblica, con investimenti strutturali che riducano le liste d’attesa e migliorino l’accessibilità ai servizi. In definitiva, l’istruzione pubblica si allontana progressivamente dal modello universalistico e gratuito disegnato dalla Costituzione, trasformandosi in un servizio condizionato dalle possibilità economiche delle famiglie. Una scelta che appare non solo discutibile, ma profondamente ingiusta in un Paese che dovrebbe fare dell’uguaglianza nell’accesso all’istruzione uno dei pilastri della democrazia. Domenico Montuori
Le Nuove Indicazioni Nazionali e l’ Istruzione degli Adulti.
I Centri Provinciali di Istruzione degli Adulti (CPIA) nelle Nuove Indicazioni Nazionali. Nelle Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali per la Scuola dell’Infanzia e del primo ciclo d’istruzione, si fa riferimento in due occasioni ai CPIA. Una prima volta, a pag 11, nella sezione “Scuola che sa essere inclusiva”, si afferma che in Italia, a quasi cinquant’anni dalla L. 517/1977   (cha ha permesso di accogliere nelle nostre aule gli allievi con disabilità), la scuola è entrata in una nuova stagione, “esito di un processo di evoluzione culturale sul tema dell’approccio educativo ai Bisogni speciali”, grazie ai quali l’idea di inclusione scolastica si baserebbe sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti, non solo delle persone con disabilità, “ fino ad abbracciare il diritto allo studio degli alunni adottati”  (per una visione critica dei BES si rimanda all’articolo presente in questo numero: La deriva medicalizzante della scuola: progettualità e relazione educativa). Il nostro Paese, si scrive nel testo, si colloca, infatti, all’avanguardia nel mondo per la promozione dell’educazione interculturale, l’assegnazione alle scuole del primo ciclo di docenti aggiuntivi della classe di concorso 23/A (insegnamento della lingua italiana per i discenti di lingua straniera) per l’insegnamento dell’italiano nelle sezioni con un numero di studenti stranieri, che si iscrivono per la prima volta al sistema nazionale di istruzione, superiore al 20 per cento degli alunni della classe, in precedenza assegnati solo ai CPIA. Si nominano, poi, una seconda volta i CPIA, a pag 13 “Finalità della scuola dell’infanzia e delle scuole del primo ciclo di istruzione”, quando si afferma che l’impegno a far conseguire le competenze-chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea ( 1.competenza alfabetica funzionale; 2. competenza multi linguistica; 3.competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria; 4. competenza digitale; 5.competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; 6. competenza in materia di cittadinanza; 7.competenza imprenditoriale; 8.competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali), non si esaurisce al termine del primo ciclo di istruzione, ma prosegue con l’estensione dell’obbligo di istruzione nel ciclo secondario e oltre, anche attraverso il ruolo strategico dei CPIA, in una prospettiva di educazione permanente, per tutto l’arco della vita. Peccato che nella premessa si cerchi di dare, dell’istruzione adulti e dell’impegno che i vari dicasteri succedutisi dal 2015 ad oggi, hanno assunto nei confronti di un segmento così importante dell’istruzione nel nostro Paese, un’immagine che non risponde alla realtà, dimenticando di dire che: a) il “suggestivo” incremento (930 docenti), per l’insegnamento della Lingua Italiana agli stranieri (classe di concorso A23), è il frutto di un taglio di 5.660 posti in organico di diritto per l’anno scolastico 2025-2026 (oltre al fatto che gli studenti stranieri saranno inseriti in una classe apposita “per approfondire l’Italiano”) e che l’organico della classe di concorso A23, come da anni sottolineano i docenti impegnati nei CPIA e nell’istruzione adulti del secondo livello, sia del tutto insufficiente a garantire una reale inclusione dei ragazzi e degli adulti con background migratorio; b) che i Centri di istruzione provinciale per gli Adulti (CPIA), per i limiti dei finanziamenti che ne impediscono l’estensione, e a causa di un limitato  organico docente dedicato alle attività di istruzione, non riescano per nulla ad assumere una prospettiva di educazione permanente. I CPIA, infatti, riescono a rivolgersi quasi esclusivamente agli adulti stranieri, escludendo, per i finanziamenti non adeguati e una programmazione che non prevede una sua più ampia diffusione, quegli  adulti italiani che avrebbero, invece, estremamente bisogno di esservi inseriti, visto che il 40% della popolazione, tra i 14 e i 64 anni, risulta in possesso della sola Licenzia di scuola media. Occorrerebbe, invece, per dar seguito alla richiamata educazione permanente, un intervento uniforme, per potenziare l’organico, al fine di sostenere gli adulti privi di titoli di studio o di conoscenze adeguate, in modo da rafforzare queste ultime e far acquisire loro le necessarie abilità di base. L’investimento avrebbe, peraltro, un importante ritorno economico per la crescita occupazionale e i costi di una povertà, economica ed educativa, fortemente diffusa nel nostro paese (si veda al proposito, Orazio Giancola e Luca Salmieri, in La povertà educativa in Italia, Carocci, 2023).   “Solo l’Occidente conosce la Storia”. Ma non sono solo questi riferimenti che preoccupano i docenti che sono impegnati a vario titolo nell’Istruzione degli Adulti, i quali, non a caso, stanno dimostrando un vivo interesse per il prossimo Convegno sulle Nuove Indicazioni Nazionali, organizzato dal CESP, che si terrà il 10 ottobre e vi si stanno iscrivendo numerosi. Pur tralasciando di entrare nel merito di altri aspetti delle Nuove Indicazioni nazionali (punti che sono ampiamente trattati negli altri articoli pubblicati in questo numero della Rivista Cobas), non si può, però, tacere su quanto scritto relativamente all’Organizzazione del curricolo per l’insegnamento della Storia che pone, proprio per chi insegna agli adulti (quasi sempre stranieri), seri problemi di interpretazione, a partire dal senso dell’emblematica affermazione posta proprio all’inizio della parte orientativa della Storia, nella quale si afferma, in tono perentorio “Solo l’Occidente conosce la Storia”. L’affermazione, sin dalle prime versioni del testo, ha destato numerosi interrogativi e prese di posizione, che hanno determinato altrettante repliche da parte degli stessi estensori del documento, come quella di Ernesto Galli della Loggia(Coordinatore del gruppo che ha scritto la parte relativa alla Storia nelle Indicazioni nazionali), pubblicata il 24 marzo scorso sul Corriere della Sera, il quale ha polemicamente affermato “ almeno per chi ha una qualche confidenza con la lingua italiana, l’espressione «solo l’Occidente conosce la Storia» («conosce», non «ha») lungi dal significare «solo l’Occidente ha avuto una storia e tutti gli altri no», significa che  […] solo in quell’area geo-storica che si chiama Occidente la conoscenza dei fatti storici e la riflessione su di essi — alimentata dal pensiero greco-romano e dal messaggio cristiano — ha dato vita a una dimensione culturale particolarissima nella quale il realismo analitico più crudo si è mischiato al profetismo sociale più estremo.” Ma, in verità, la risposta di Galli Della Loggia, gira solo intorno al problema posto dall’incipit, in quanto si ricorre all’autorità di uno storico dello spessore di Marc Bloch, citato strumentalmente nelle Indicazioni, il quale, nel famoso testo “Apologia della storia” scriveva, sì “anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra”, non per sostenere che gli altri popoli sono senza storia, ma che l’Occidente ha elaborato nel corso del tempo un modo specifico di relazionarsi, di interpretare, trasmettere, studiare e raccontare i fatti accaduti, ovvero il passato, cioè la storia. Inserire tale frase in un testo come quello delle Indicazioni Nazionali, che non forniscono semplici “suggerimenti” per la costruzione del curricolo della Storia, ma costituiscono un preciso “orientamento”, significa, invece, surrettiziamente, affermare che bisogna insegnare la storia occidentale perché questa è l’unica depositaria di una visione analitica e critica della Storia. Istruzione degli Adulti, dialogo interculturale e inclusione. Ovviamente per i docenti impegnati nell’istruzione degli adulti, formata da classi in cui gli immigrati costituiscono percentuali importanti (quando non esclusive), questa impostazione mette in discussione ed annulla i presupposti  su cui si fondano i principi dell’inclusione, richiamata in funzione puramente demagogica nella premessa delle Indicazioni, come apparente fiore all’occhiello dell’Italia che, si scrive, “promuove la piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti”. Si chiedono, infatti, i docenti dei CPIA e del secondo livello di istruzione, in carcere e fuori, come si possa, di fronte ad una platea comprendente appartenenze culturali, religiose ed etniche, varie e multiformi, presentare una visione tanto unilaterale della Storia, alla quale manca qualunque riferimento multiculturale, quando occorrerebbe, invece, in una prospettiva realmente “inclusiva”, proporre curricoli laici e aperti alle diverse realtà presenti nelle nostre scuole. Ma nel documento non ci si ferma qui, si prosegue ulteriormente, rilevando la preminenza del pensiero italiano e riproponendo, proprio nell’attuale periodo storico, contrassegnato da un crescente fenomeno immigratorio, la centralità della storia nazionale, quale elemento fortemente identitario “Nella scuola primaria sembra poi necessario che l’insegnamento abbia al centro le origini della civiltà occidentale, su cui si fonda anche la nostra storia nazionale e la nostra identità, sia al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino, sia – vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere.”  Nulla di più lontano da parte di chi, prendendo atto della trasformazione multietnica e multiculturale della nostra società, pur facendo riferimento alla dimensione italiana ed europea, proprio attraverso l’insegnamento della Storia forniscono agli studenti gli strumenti per riconoscere le diversità delle varie culture, permettendo la convivenza e promuovendo, attraverso il dialogo interculturale, l’inclusione, la tolleranza e il rispetto delle diversità. Anna Grazia Stammati
Nuove Indicazioni Nazionali: quale futuro per la scuola?
Nelle Indicazioni Nazionali del 2012,la premessa”Cultura,Scuola,Persona” sottolineava il ruolo della scuola quale strumento di emancipazione e realizzazione attraverso il sapere e l’istruzione. Nelle Nuove Indicazioni la formulazione “Persona,Scuola,Famiglia” sposta l’attenzione sulla centralità della persona e sulla promozione dei talenti. Parlare di talenti nella scuola dell’infanzia è improprio, in questa fascia di età non possiamo riferirci ad abilità o doti bensì a potenzialità emergenti. I bambini e le bambine vivono una fase di sviluppo caratterizzata da plasticità, curiosità, interessi, sperimentazione. In un contesto educativo ben strutturato, come quello della scuola dell’infanzia, tali potenzialità trovano le condizioni per esprimersi e sviluppare competenze cognitive,relazionali ed emotive. Sempre nella premessa” Scuola e Famiglia costituiscono le due colonne portanti del percorso di crescita e di apprendimento di bambini e adolescenti”. Questa affermazione rischia di semplificare una relazione molto più complessa. Non bastano incontri di dialogo e conoscenza a garantire il patto educativo. In questa relazione entrano in gioco dinamiche pedagogiche, psicologiche e giuridiche intrecciate a valori e bisogni spesso divergenti. Il cosiddetto patto di alleanza resta una formula retorica perché non considera la complessità delle condizioni familiari. Molte famiglie sono portatrici di fragilità economiche, sociali e relazionali e spesso tendono ad attribuire alla scuola compiti che vanno oltre il ruolo istituzionale;i conflitti e la reciproca delegittimazione ostacolano una autentica corresponsabilità. Perché l’alleanza sia costruttiva occorre riconoscere la complessità del rapporto per una convergenza e condivisione delle finalità educative e una maggiore consapevolezza del ruolo formativo della scuola. Le N.I.tendono a ridurre l’educazione alle relazioni,all’empatia e al rispetto della persona ad una dimensione esclusivamente individuale trascurando la valenza relazionale. “L’educazione del cuore” come viene suggerita nel documento, si traduce in modelli di comportamento predefiniti piuttosto che stimolare la consapevolezza emotiva e sociale. Ogni apprendimento si configura come un processo mediato dalle relazioni sociali, è attraverso l’interazione con i pari e con gli adulti che i bambini/ e sviluppano la capacità di comprendere e riconoscere l’altro, di negoziare significati e di cogliere la necessità di darsi e riferirsi a norme di comportamento e di relazione. La comunità educante  è il luogo privilegiato per promuovere  una educazione alle relazioni fondate sul riconoscimento reciproco, sul rispetto e sull’empatia. Sempre nelle premesse culturali del documento “Scuola che sa essere inclusiva”per l’educazione interculturale si prevede l’assegnazione dei docenti alle scuole del primo ciclo per valorizzare e potenziare le competenze linguistiche culturali e civiche degli alunni provenienti da contesti migratori. Il documento non tiene conto che l’11 % dei bambini e delle bambine che frequentano le nostre scuole hanno un background migratorio pertanto dovrebbe essere prioritario insegnare la lingua italiana sin dalla scuola dell’infanzia valorizzando la lingua e la cultura di origine degli alunni/e. L’educazione interculturale non può ridursi ad una mera assimilazione linguistica ma dovrebbe avere come obiettivo la conoscenza e la valorizzazione delle diverse culture. La dimensione interculturale dovrebbe essere parte integrante dell’educazione perché consente di coltivare interessi, curiosità verso l’altro esplorando così non solo aspetti della vita quotidiana ma anche espressioni letterarie, artistiche, musicali di altre culture. Inoltre l’educazione interculturale riveste un ruolo cruciale nel contrastare stereotipi e discriminazioni per una scuola inclusiva. Il digitale è introdotto nella scuola dell’infanzia dalle nuove indicazioni in forma ludica mediato dall’insegnante. Si valorizza come strumento creativo e di espressione ma si sottolineano i rischi di isolamento e passività. Questo approccio di apertura e prudenza lascia aperti molti punti interrogativi. È bene precisare che nella fascia di età 3-6  lo sviluppo delle bambine/e è profondamente legato a :gioco, corporeità, linguaggio e relazioni sociali che non possono assolutamente essere sostituiti tanto meno sacrificati. Nei campi di esperienza per la scuola dell’infanzia si registra una semplificazione rispetto a quelle del 2012 dove venivano articolati con una ampiezza pedagogica ed una forte flessibilità didattica. Nel testo del 2025 ,la presenza di finalità,competenze attese e obiettivi specifici per ogni campo di esperienza si caratterizza con una prescrittivita’ che rischia di svilire l’autonomia didattica con la conseguenza di una standardizzazione ed il timore che si affermi una cultura della performance. Inoltre il profilo della bambina/o oscilla da soggetto attivo,esploratore e costruttore di significati a destinatario passivo di saperi predefiniti e vincolato a traguardi standardizzati. Analogamente, la figura dell’insegnante appare descritta sia come regista dell’apprendimento sia come trasmettitore di contenuti facendo riemergere la figura tradizionale del docente depositario e divulgatore di conoscenze. La scuola delineata dalle Nuove Indicazioni desta molte perplessità, viene meno un modello di scuola laico, multiculturale e democratico privo di una visione pedagogica che tenga presente tutte le complessità della nostra società. Beatrice Corsetti
I COBAS per il superamento della piaga cronica del precariato scolastico
Il precariato è un fenomeno cronico e strutturale, frutto di decenni di gestione emergenziale della Scuola Pubblica. Nonostante i richiami dall’Unione Europea per l’abuso dei contratti a termine, circa un quarto del personale docente ed Ata è precario. Nello scorso anno scolastico si sono contati circa 250mila contratti a tempo determinato tra supplenze annuali e fino al termine delle attività didattiche e supplenze brevi: un numero in costante crescita. Si tratta di un problema che impatta direttamente sulla qualità dell’insegnamento e dei processi amministrativi, sulla vita di migliaia di lavoratori della scuola e sul funzionamento stesso del sistema educativo nazionale.  La storia del precariato scolastico in Italia affonda le sue radici nel boom della scolarizzazione del dopoguerra, in particolare tra gli anni ’60 e ’70, quando l’aumento massiccio di studenti mise in crisi il sistema di reclutamento basato esclusivamente sui concorsi ordinari. Per far fronte alla crescente domanda di insegnanti, lo Stato ricorse a soluzioni emergenziali. La Legge 477 nel 1973, in particolare, fu il primo grande intervento di stabilizzazione, che portò all’immissione in ruolo di circa 200.000 insegnanti. Seguirono altri provvedimenti, come le Leggi 463/1978 e 270/1982, quest’ultima approvata dopo che il 5 febbraio 1982, circa 25.000 insegnanti precari manifestarono a Roma al Ministero dell’Istruzione per chiedere una soluzione al precariato e per migliorare le condizioni di lavoro. Questa mobilitazione e la successiva legge segnarono un passaggio importante nella storia del precariato della scuola, ma non risolsero il problema.  In un decennio si passò dal “doppio canale” di reclutamento,  legge 417 del 1989: la metà dei posti a disposizione per le immissioni in ruolo al “concorso per titoli ed esami”, l’altra al concorso “per soli titoli” alle Graduatorie Permanenti introdotte dalla Legge 3 maggio 1999, n. 124.  Questo sistema di reclutamento era basato su un doppio canale, uno basato sul superamento di un concorso e l’altro sulle graduatorie permanenti, che venivano aggiornate annualmente. La legge 296/2006, trasformò, le graduatorie da permanenti ad esaurimento ma non eliminò il problema. Con l’esaurimento delle GaE, sono state introdotte con l’Ordinanza Ministeriale n. 60 del 10 luglio 2020 le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), un sistema che avrebbe dovuto razionalizzare il conferimento degli incarichi annuali. Tuttavia, la loro introduzione non ha risolto il problema di fondo, anzi, in molti casi ha acuito l’incertezza e la confusione affidando ad un algoritmo l’assegnazione degli incarichi, costringendo i docenti, attraverso la procedura delle 150 scuole, ad una scelta al buio senza un quadro delle disponibilità, eliminando di fatto le convocazioni in presenza che sono state per anni i luoghi di aggregazione e di mobilitazione dei precari che portarono nel 2008/2010 “Riforma Gelmini”,  alle ultime forti mobilitazioni dei precari della scuola con occupazioni di Provveditorati, il 3 ottobre 2009 migliaia di precari con il supporto dei COBAS Scuola sfilarono a Roma fino al Ministero dell’Istruzione.  Oggi, il precariato nella scuola è  una vera emergenza sociale e l’attuale sistema di reclutamento che si basa su un complesso di graduatorie, rende il tutto confuso ed incerto: le Graduatorie di Merito (GM), derivanti dai concorsi pubblici; le Graduatorie ad Esaurimento (GAE), che sono chiuse a nuovi inserimenti dal 2008; e le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), utilizzate per le supplenze annuali e fino al termine delle attività didattiche e solo sul sostegno, per il ruolo, procedura introdotta con il DL 73/2021, convertito nella Legge 106/2021, da ultimo la Riforma del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (con i concorsi PNRR1 e PNRR2). E’ evidente la natura fallimentare del sistema di reclutamento finora attuato con un profondo disallineamento tra i posti vacanti e le assunzioni effettivamente autorizzate, lasciando un deficit di organico che viene sistematicamente colmato con contratti a termine. I dati dimostrano che il sistema attuale genera più precari di quanti riesca a stabilizzarne, rendendo di fatto il contratto a tempo determinato la norma anziché l’eccezione.   Gli insegnanti precari, spesso costretti a spostarsi lontano dalla propria residenza, affrontano enormi difficoltà economiche e personali, con ricadute negative sul loro benessere psicologico e sulla loro motivazione, costretti negli ultimi anni ad affrontare spese folli per abilitarsi (30, 36 e 60 CFU), per frequentare il Tfa sostegno o per acquisire titoli (Clil, certificazioni linguistiche ed informatiche)  costretti dal sistema Gps ad una rincorsa ai punti che può arrivare anche ad una spesa di 6/7mila euro. Il mondo del precariato affronta tutto questo in una situazione di polverizzazione e di lotta intestina che rende difficile l’organizzazione di una risposta collettiva. Concentrati sul “proprio” personale problema, perdono il contatto con una realtà che erode, inesorabilmente, diritti per tutti. Nei prossimi mesi si dovrebbe lavorare ad una piattaforma che possa aggregare intorno a pochi punti, unificanti a partire dalla reintroduzione del “doppio canale” di reclutamento con immissioni in ruolo divise per il 50% degli insegnanti dalle GM e 50% dalle GPS trasformate in Graduatorie Permanenti ed alle quali si potrà accedere per soli titoli di studio e servizio, con l’immediata trasformazione dell’organico di fatto in organico di diritto e con la conseguente immissione in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili. Alessandro D’Auria
La deriva medicalizzante della scuola.
Scuola e salute mentale. In uno degli articoli pubblicati nel numero 20 della Rivista COBAS scuola (“Il paradosso della vulnerabilità”), si segnalava l’appello dei presidenti dell’associazione della Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia (SINPF), per promuovere l’ingresso degli psichiatri nelle scuole “I medici psichiatri e la salute mentale devono tornare nelle scuole, nel periodo della vita in cui nel 50% dei casi iniziano a comparire i disturbi mentali” e di come il Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di Salute mentale (DSM), alla luce dell’indagine IPSOS dell’ottobre 2024, sul disagio mentale della popolazione, affermasse addirittura essere indispensabile “attuare interventi di prevenzione in tutte le fasce di età, fin dalla gravidanza, con particolare attenzione a stili di vita e contesto familiare […]”. Alla luce di tali affermazioni si paventava, nell’ articolo, la possibilità che le scuole venissero usate come luoghi per diagnosticare precocemente “malattie” mentali in direzione di una omologazione degli studenti, della standardizzazione degli apprendimenti e della normalizzazione dei “diversi” . Oggi, quel timore rischia di diventare realtà, visto che, nella legge di bilancio 2026, si prevede un aumento dei fondi per il sostegno psicologico nelle scuole, con un fondo di 10 milioni di euro per il 2025 e di 18,5 milioni di euro a partire dal 2026, per potenziare il servizio di supporto psicologico agli studenti. Questa misura, infatti, mira a rendere la figura dello psicologo scolastico una presenza strutturale nel sistema educativo italiano, superando l’approccio episodico e garantendo un accesso più uniforme al servizio, in modo da consentire, con l’aumento dei fondi, non solo di “migliorare” la qualità della vita degli studenti, le loro capacità relazionali e il rendimento scolastico ma, come si prevedeva, di andare oltre le lo sportello di ascolto, perché lo psicologo non solo si occuperà di sviluppare competenze cognitive, emotive e relazionali nei giovani, ma supporterà il personale scolastico e i docenti. Dunque, la scuola rischia di diventare una palestra di addestramento per la medicalizzazione della “diversità”, una medicalizzazione concettuale, perché sempre più si tenderà ad utilizzare anche in ambito scolastico il linguaggio medico per definire qualcosa che medico non è, e una medicalizzazione interazionale perchésidescriveranno e interpreteranno le relazioni tra le persone (studenti, docenti e personale scolastico) attraverso una lente medica, con il risultato di patologizzare comportamenti o emozioni che costituiscono la normalità della vita, non anomalie disfunzionali, contribuendo a definire con categorie mediche, aspetti che fino a quel momento non erano così categorizzati. In tal modo il sistema educativo, invece di promuovere l’apprendimento, creerà sempre più dipendenza e controllo, definendo la realtà e influenzando il comportamenti, più che risolvendo problemi, conflitti  e contraddizioni.  I dati ISTAT. I dati ISTAT, in effetti, indicano un aumento delle/degli alunne/i con disabilità che frequentano le scuole italiane di ogni ordine e grado: quasi 359 mila nell’anno scolastico 2023-2024, il 4,5% del totale degli iscritti (+6% rispetto al precedente anno scolastico), 75mila in più negli ultimi cinque anni (+26%).  Il problema più diffuso è la disabilità intellettiva, che riguarda il 40% degli studenti con disabilità, quota che cresce nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, attestandosi rispettivamente al 46% e al 52%; seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (35% degli studenti), questi ultimi più frequenti nella scuola primaria (39%) e nella scuola dell’infanzia (63%). I disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione riguardano quasi un quinto degli alunni con disabilità; entrambi sono più diffusi tra gli alunni delle scuole secondarie di primo grado (rispettivamente il 24% e il 20% degli alunni). Di fronte a tali dati, per rispondere alle diverse esigenze di alunni “complessi”, la scuola ritiene essenziale il ricorso a scienze mediche e sociali, quali psicologia e neuropsichiatria, e gli stessi docenti delegano a tali figure la gestione e  l’intervento nei confronti di studenti “difficili”, in quanto leggono la realtà sempre più con i soli occhi della diagnosi clinica, contribuendo, però, in tal modo, ad una complessiva svalutazione delle competenze specifiche della classe docente. Se per comprendere da quali fattori sono causate le crescenti difficoltà dei giovani alunni, può, infatti, essere importante il ricorso a competenze diverse, non si può demandare, però, in via esclusiva all’ambito medico l’elaborazione e la messa in atto di strategie educative e didattiche che rispondano ai bisogni degli studenti e delle studentesse, in quanto è proprio ciò che fa scivolare la scuola verso quella deriva medicalizzante che sempre più si sta diffondendo. Una contraddizione in termini, peraltro, per una scuola nella quale si afferma che le differenze sono importanti e che occorre rispettare le caratteristiche individuali, tanto da richiedere una personalizzazione dei percorsi didattici, salvo ricorrere, poi, alla medicalizzazione, per dare risposte a modalità di apprendimento che non rientrano in parametri standardizzati (contraddizione più volte messa in evidenza rispetto al ricorso alle prove INVALSI, quale valutazione standardizzata degli apprendimenti, a fronte della richiesta di individualizzazione e personalizzazione dei percorsi didattici). Psichiatria versus Pedagogia. Come sappiamo, vengono definiti studenti con bisogni educativi speciali (BES) tutte/i le/glialunne/i che hanno bisogno di una didattica personalizzata, anche in assenza di una diagnosi certificata. Infatti, rientrano nei BES: studenti con disabilità (certificata L.104/92); studenti con DSA; studenti con svantaggio socio-economico, linguistico o culturale; alunni stranieri di recente immigrazione; studenti con situazioni familiari difficili; studenti con problemi emotivi o relazionali, studenti che risultino figli adottivi. Dunque, vengono considerati BES, non solo studenti e studentesse con “disturbi” specifici, ma anche tutti quei bambini e ragazzi che evidenziano uno “svantaggio” sociale o semplici criticità proprie dell’età adolescenziale che possono interferire con il processo di apprendimento. A questo proposito basta  leggere la premessa alle  Nuove Indicazioni Nazionali, per comprendere come si stia seriamente rischiando di distorcere il senso dell’accoglienza degli allievi con disabilità, sancita dalla legge 517/1977, attraverso l’idea che ogni “difficoltà” che dovrebbe essere osservata e “letta” in base alle competenze educative dei docenti, viene circoscritta, osservata, monitorata e controllata più in base a competenze mediche che a quelle pedagogiche, mentre si relegano i docenti  a un ruolo esclusivamente esecutivo e subordinato, dannoso per la loro professionalità e pericoloso per l’esperienza scolastica e per la vita delle studentesse e degli studenti a loro affidate/i. Bisognerebbe riaffermare, invece, la centralità dei docenti, rivendicandone la competenza, riconsegnando credibilità e prestigio sociale alla scuola e rafforzando il sistema scolastico, assegnando a questo,innanzitutto più risorse. Per realizzare tale obiettivo occorrerebbe, però, un salto culturale, che creasse discontinuità rispetto ad una scuola indirizzata (e non da ora) esclusivamente al “merito” e a risultati “standardizzati” che coprono le capacità dei singoli, soffocano le diverse intelligenze, non permettono l’emergere di differenti passioni e abilità; bisognerebbe che neuropsichiatri, psicologi e assistenti sociali non fossero considerati i soggetti titolati nel fornire linee operative e progettuali per il lavoro scolastico; sarebbe necessario che proprio gli insegnanti difendessero e valorizzassero il proprio ruolo, la centralità della progettazione dei percorsi formativi, senza delegarla agli specialisti che si rivolgono al singolo con “tecniche” che esulano dal processo di apprendimento nel suo complesso; sarebbe necessario, in una parola, far ritrovare alla scuola uno sguardo pedagogico, in base al quale leggere le dinamiche e le direzioni che prendono piede nella scuola. Conclusioni. Per evitare il rischio della medicalizzazione dovrebbero essere, quindi, gli stessi docenti a intraprendere una diversa rotta, rivalutando il concetto stesso di insegnamento, in una dimensione progettuale che evidenzi la responsabilità dell’insegnante rispetto alla soggettività dello studente, perché sono solo gli insegnanti a poter invertire la tendenza in atto, attraverso la propria esperienza e l’elaborazione della stessa, la formazione e l’aggiornamento qualificato e qualificante, il coordinamento in rete con i docenti anche di altre realtà scolastiche, la programmazione e la realizzazione condivisadi attività per l’apprendimento scolastico, la richiesta di classi meno numerose, l’aumento dei docenti e del personale per riuscire a svolgere adeguatamente mente la propria professione. Ed è proprio questo l’obiettivo che il CESP intende perseguire, rivalutando il compito educativo delle/degli insegnanti, rimettendo nelle mani dei docenti gli strumenti per rivendicare il ruolo centrale della professione docente all’interno della società, in modo che si torni ad investire sugli insegnanti, perché appare assolutamente necessario che questi si riapproprino di un protagonismo docente e della relazione educativa, accettando e valorizzando la diversità degli studenti, non comprimendola in una visione standardizzata dell’apprendimento e delegandola in via esclusiva a scienze mediche e sociali. Questo è un atto di cui si avverte la piena urgenza, soprattutto quando si osservano le difficoltà e il disagio nei quali sono immersi i nostri studenti e le nostre studentesse.  Anna Grazia Stammati 
Personale ATA: poche immissioni in ruolo, sempre più precari.
Il Decreto Ministeriale n. 160 del 6 agosto 2025 ha ufficializzato le immissioni in ruolo del personale ATA per l’anno scolastico 2025/2026, autorizzando complessivamente 10.348 assunzioni. Di queste, 824 riguardano i funzionari (ex DSGA), mentre il resto è suddiviso tra le varie figure professionali del personale amministrativo, tecnico e ausiliario. Si tratta di immissioni largamente insufficienti rispetto ai posti vacanti e disponibili, che alimentano un precariato ormai cronico e strutturale nel sistema scolastico italiano. Il divario tra i posti disponibili e le immissioni effettive è lampante: * assistenti amministrativi: a fronte di 7.397 posti disponibili, saranno immessi in ruolo solo 2.071 lavoratori, pari al 28%; * assistenti tecnici: su 3.357 posti, le assunzioni saranno appena 657, ovvero il 19,57%, meno di un quinto; * Collaboratori scolastici: con 20.995 posti, le immissioni si fermeranno a 6.814 (inclusi 48 ex LSU), coprendo solo il 32,45%. Dati che, in modo inequivocabile, smentiscono la retorica governativa, da anni, sul superamento del precariato nella scuola. Il personale ATA rappresenta una componente importante del sistema scolastico, ma continua a essere trattato come un supporto, sottovalutato nei numeri, nel ruolo e nelle competenze. Un precariato che non è più emergenza, ma sistema. La mancata stabilizzazione del personale ATA non è più una questione contingente o momentanea, ma rappresenta una scelta politica e strutturale. L’elevato numero di posti vacanti e disponibili, la scelta di non coprirli con personale a tempo indeterminato, indica chiaramente la volontà di mantenere un bacino di lavoratori precari da utilizzare in modo flessibile, svantaggiati giuridicamente ed economicamente. Molti supplenti vengono richiamati anno dopo anno, spesso con contratti fino al 30 giugno o al 31 agosto, senza alcuna garanzia di continuità nella stessa scuola. Questa situazione crea non solo incertezza personale e professionale, ma compromette anche la qualità della scuola  pubblica. Una percentuale così elevata del personale precario significa turn-over continuo e perdita di competenze consolidate, aumento del carico di lavoro per il personale stabile, difficoltà nell’organizzazione amministrativa, minore continuità e qualità nell’assistenza agli/lle alunni/e con disabilità. Il personale ATA consente alle scuole di aprire e di funzionare. Dai compiti e dalle responsabilità affidati al personale delle segreterie, dall’assistenza tecnica dei laboratori, dall’accoglienza, dalla sorveglianza alla sicurezza degli/lle alunni/e. La mancata considerazione e valorizzazione del personale ATA comporta, nei fatti, una ricaduta negativa sul diritto all’istruzione di tutti/e e per tutti/e. Le conseguenze della precarietà sull’organizzazione scolastica è evidente. Ogni anno, le scuole si trovano a dover fare i conti con organici insufficienti, continui cambi di personale, difficoltà nella nomina dei supplenti a causa di normative sempre più penalizzanti. Le funzionalità amministrative, le manutenzioni e le gestioni tecniche dei laboratori, vengono messe in difficoltà. I collaboratori scolastici, ad esempio, si ritrovano spesso a dover coprire plessi interi con organici ridotti, mettendo a rischio la sicurezza e l’assistenza degli/lle alunni/e, in particolare quelli con disabilità. Nel caso degli assistenti tecnici, la situazione è sempre più critica. Con un organico scarso in riferimento alle mansioni e alle attività previste, con una copertura inferiore al 20% dei posti vacanti e disponibili, molti laboratori vengono parzialmente utilizzati e la didattica laboratoriale viene penalizzata. Una contraddizione profonda rispetto alla narrazione di una scuola al passo con i tempi, digitale e inclusiva. I Cobas Scuola ritengono che la stabilità del personale ATA, con l’immissione in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili, con un incremento significativo degli organici, siano i requisiti fondamentali per garantire funzionalità amministrativa e tecnica, igiene, sorveglianza e sicurezza, accoglienza, diritto allo studio degli/lle alunni/e diversamente abili. La tematica della stabilizzazione e la valorizzazione del personale ATA deve riguardare non solo gli interessati ma anche le famiglie e i docenti. Una scuola che funzioni è quella dove ogni componente possa lavorare nelle condizioni migliori,  senza precarietà  e con  certezze giuridiche ed economiche. Non si tratta solo di esigere posti di lavoro stabili, ma anche di garantire a tutti il diritto a un’istruzione pubblica di qualità e realmente inclusiva. La scuola pubblica italiana ha bisogno di stabilità, competenza e continuità. Il personale ATA non è un costo da contenere, ma un investimento nella qualità del servizio e nella sicurezza degli alunni. L’anno scolastico 2025/2026 inizia, ancora una volta, sotto il segno dell’incertezza per decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori ATA. Le immissioni in ruolo deliberate con il DM 160/2025 sono insufficienti e non rispettano il principio, più volte dichiarato a parole ma raramente perseguito nei fatti, della lotta al precariato. Bisogna assumere stabilmente su tutti i posti vacanti e disponibili, riformare i criteri di calcolo dell’organico, valorizzare il personale ATA e riconoscere finalmente il loro ruolo strategico all’interno della scuola. Solo così si potrà parlare di una scuola davvero pubblica e  inclusiva.  Domenico Montuori
Nuove Indicazioni Nazionali, perché e come rifiutarle
Tra giugno e luglio 2024, la Commissione incaricata della revisione delle Indicazioni nazionali (IN) ha organizzato incontri con associazioni professionali, sindacali e di genitori e studenti. Il CESP ha partecipato il 18 giugno, constatando che la revisione era già avviata e procedeva rapidamente, come sottolineato dalla stessa coordinatrice della Commissione, Loredana Perla. Come altre associazioni, abbiamo sottolineato l’inopportunità di modificare le Indicazioni 2012, ancora attuali e basate sulla complessità educativa e sull’intercultura, suggerendo al massimo un loro aggiornamento su temi emergenti. La percezione di incontri formali e di un percorso già deciso, rafforzata dalle dichiarazioni di Valditara, è stata confermata l’11 marzo dalla pubblicazione della prima bozza delle IN, presentata come “materiale per il dibattito pubblico”. Quest’ultimo ha mostrato subito i suoi limiti: le audizioni, avviate una settimana dopo la pubblicazione della bozza, sono state rapide e hanno concesso alle associazioni pochi minuti per commentare un testo di 154 pagine, mentre i contributi scritti sono rimasti senza risposta. Il CESP ha partecipato a quella del 21 marzo, sottolineando la netta discontinuità  delle IN rispetto alle vigenti, soprattutto per l’insegnamento della Storia, contrariamente a quanto emerso e richiesto nelle precedenti audizioni. Queste le criticità evidenziate: eccesso di enfasi sui “talenti”, visione occidentale del concetto di “persona”, mancanza di prospettiva interculturale e inclusiva, educazione di genere ridotta a “educazione del cuore” e libertà presentata come valore esclusivo dell’Occidente. Durante le audizioni, il Ministero ha lanciato una consultazione tramite questionario rivolto a gruppi di insegnanti o dirigenti, con 22 domande a risposta chiusa tutte orientate a confermare l’impianto delle IN o suggerire piccoli aggiustamenti, senza spazio per un dissenso significativo, e un unico campo aperto di soli mille caratteri. Le critiche alle IN hanno acceso un vivace dibattito, evidenziando l’impostazione culturale di destra e classista del documento. Il “popolo della scuola” ha iniziato a riunirsi, sono nate realtà come la Rete per la scuola pubblica, di carattere territoriale e dal basso, e il Tavolo interassociativo, attivo a livello nazionale, moltiplicando incontri, appelli e mozioni di rifiuto delle IN e del questionario ministeriale. Il Ministero ha risposto solo con un atto simbolico, una casella email per eventuali commenti. Non è mai stato reso noto quanti messaggi siano arrivati, chi li abbia letti e con quali criteri. Loredana Perla ha invece difeso con orgoglio le IN, definendo le critiche come tentativi di strumentalizzare il documento per lotta politica, un fenomeno di radicali rimasti al “piccolo mondo antico” degli anni Settanta. La bozza dell’11 giugno, inviata al CSPI, pur attenuando alcuni degli aspetti più contestati, non ha recepito i contributi di associazioni e società scientifiche. Del resto, le critiche più sostanziali non potevano essere accolte: farlo avrebbe spezzato quel filo rosso ideologico che assicura coerenza alle politiche di un governo di destra e che, per sua natura, non può recepire istanze di segno pedagogico egualitario, attivo e partecipativo. Lo stesso rito partecipativo di facciata del sondaggio rivolto a 1.200 genitori pubblicato assieme alla nuova bozza e presentato come consenso ampio, era parziale, non trasparente e formulato in modo da orientare le risposte favorevoli. Con lo slogan ad effetto di una “svolta culturale” che unisce “la storia e la cultura del nostro passato con l’innovazione”, Valditara ha accompagnato la pubblicazione del testo definitivo delle IN, il 7 luglio, in cui i rilievi del CSPI sono stati accolti solo parzialmente, a favore della conservazione dell’intero impianto culturale, pedagogico e didattico in cui la disciplina storia resta strumento di identità nazionale. Le Premesse culturali delineano l’orizzonte valoriale del documento. A fondamento della scuola non è posta la cultura, ma la centralità della persona , secondo una concezione radicata nella tradizione giuridico-filosofica occidentale: dal diritto romano alla Dichiarazione universale del 1948, fino alla Costituzione.  È una lettura lineare e distorta del concetto di persona, che nel tempo si è trasformato in modo discontinuo, ridefinendo di volta in volta chi fosse riconosciuto come “persona” e quali diritti potesse esercitare, e non può quindi essere ricondotto a una categoria data e indiscutibile riproducendo un paradigma etnocentrico. Anche nell’affermare che “a scuola l’allievo scopre la propria identità personale e la propria appartenenza a una comunità in costante evoluzione” si ignorano le evidenze delle scienze sociali su identità e appartenenze plurali e mutevoli. Ne deriva una visione rigida, che genera pratiche educative escludenti e uniformanti anziché valorizzare le differenze. Anche l’idea che la relazione non limiti la persona ma la costituisca rimane contraddetta da una descrizione in realtà molto individualistica, centrata sulla realizzazione della persona come destino ultimo. La comunità, ridotta a scuola, famiglia e, dopo il parere del CSPI, al terzo settore, resta intesa come modello ristretto, racchiuso entro i confini istituzionali del “patto educativo di corresponsabilità” e fondato su relazioni sociali di facile controllo.  Esistono condizioni sociali che rendono difficile l’alleanza con la scuola; affermare che senza di essa sia impossibile “raggiungere obiettivi educativi efficaci”  costituisce una visione classista che contempla solo contesti collaborativi. Nonostante il parere del CSPI, Il successo scolastico resta affidato all’insegnante magis e alla sua presunta “autorevolezza ritrovata”. Rimane perseguibile tramite la valorizzazione dei talenti, nucleo del pensiero di Valditara e connessa all’ideale di scuola meritocratica, evidente nella connessione del talento alla “capacità di mobilitare risorse cognitive, affettive e creative”, anche se, vestito da inclusione, viene descritto come “possibilità trasformativa per ciascuno”, anche in “situazioni di fragilità o svantaggio”. L’impostazione iniqua ed escludente emerge anche dall’enfasi posta sulla personalizzazione dell’apprendimento a scapito dell’insegnamento individualizzato che mira ad assicurare a  tutte/i il raggiungimento degli stessi obiettivi di competenza. Tra le finalità dell’educazione alla libertà, concetto ancora definito come “il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme”, si conferma la “comprensione del principio di autorità”. Nessuno spazio per i valori della convivenza acquisiti tramite il dialogo, in cui anche il dissenso è occasione educativa di crescita, ma un “lungo allenamento all’autogoverno” e l’osservanza di regole per acquisire senso del limite e l’etica del rispetto. Norme e bona fides costituiscono gli ingredienti fondamentali di un’“educazione del cuore” capace di suscitare sentimenti come fiducia, empatia, tenerezza, incanto e gentilezza. L’enfasi sui valori morali della pedagogia romantica ottocentesca esclude lo sviluppo di competenze relazionali, emotive e di autonomia critica riducendo l’educazione a indottrinamento e controllo sociale. In tema di inclusione, il testo richiama diverse norme e strumenti già in atto: BES, ICF, patti di collaborazione tra scuole ed enti, mediatori linguistico-culturali, insegnamento dell’Italiano L2, docenti aggiuntivi della classe di concorso 23/A e Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati. Ad eccezione del riferimento al modello dell’Universal Design for Learning per la partecipazione attiva degli studenti nelle scelte relative al proprio percorso scolastico, rimane una concezione di inclusione come risposta rivolta ad alunne/i in difficoltà. Il centro dell’attenzione resta l’inserimento del singolo all’interno del sistema, piuttosto che la trasformazione dei contesti educativi. L’educazione interculturale viene ridotta a competenze linguistiche e civiche, trascurandone la finalità autentica: favorire la convivenza costruttiva in contesti culturali diversificati, rivolta a tutte e tutti. Su richiesta del CSPI viene introdotta, nella secondaria di primo grado, la valorizzazione delle figure del tutor e dell’orientatore: una scelta considerata impropria e dannosa, poiché introduce gerarchie tra docenti, indebolisce l’unità collegiale, limita la libertà di insegnamento e delegittima i Consigli di classe. Inoltre, sono stati inseriti due nuovi paragrafi: il primo dedicato all’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale, già presente nelle Linee guida di Educazione civica; il secondo sull’internazionalizzazione, incentrato sulle competenze multilinguistiche e sugli scambi, ma privo di riferimenti all’intercultura. È stato ignorato il parere contrario del CSPI sulla disciplina di Storia, che criticava l’eliminazione dell’ambito delle fonti, il tono polarizzante dell’incipit e l’enfasi sull’identità nazionale a scapito dell’approccio disciplinare. Il testo rimane invariato, segnato da carenze concettuali e incoerenza e inscritto in un impianto ideologico italocentrico e occidentalista.  Permangono tutti gli elementi problematici: l’idea del bambino e della bambina, del ragazzo e della ragazza come incapaci di leggere e interpretare le fonti, a cui la storia viene quindi proposta soltanto nella sua dimensione narrativa; la concezione lineare della storia, intesa come processo evolutivo incentrato su personaggi eminenti; l’elenco di conoscenze (contenuti manualistici) in cui spiccano figure eroiche del Risorgimento insieme a personaggi e vicende tratti dalla Bibbia e dai poemi epici occidentali, proposti già nei primi anni della scuola primaria; la rappresentazione della “comparsa” dell’uomo sulla terra come evento improvviso, in chiave creazionista, che ignora il processo di ominazione; i diversi errori o espressioni superate che vari storici avevano segnalato: il feudalesimo presentato come legato a Carlo Magno e non al tardo Medioevo, la superata definizione “Repubbliche marinare” anziché ad esempio “città-stato mercantili”,  il Mediterraneo unificato da Alessandro Magno, la semplificazione delle “tre Italie”, le rivoluzioni moderne come espressione di libertà, la decolonizzazione ridotta al solo scenario asiatico. Le IN saranno adottate dall’a.s. 2026-2027 dalle classi prime di primaria e secondaria di primo grado, le classi già attive nel 2025/2026 continueranno a far riferimento alle Indicazioni del 2012. In questo lasso di tempo saranno necessarie azioni di rifiuto alle IN. La richiesta rielaborazione del curricolo d’istituto dovrà prevede un’attenta analisi collegiale del documento affinché gli obiettivi siano declinati, contestualizzati e arricchiti (come previsto dal DPR 275/1999) tenendo conto della dimensione interculturale, promuovendo equità e pari opportunità di apprendimento, e riconoscendo ogni bambina/o come soggetto competente. Inoltre, si potrà rifiutare l’adozione dei testi scolastici revisionati avvalendosi di strumenti alternativi: testi (narrativi, esplicativi, documentari …), materiali digitali, o qualsiasi altro strumento coerente con il PTOF. È un’opzione riconfermata in tutte le normative per la quale è necessaria solo una breve relazione che motivi la scelta. Bruna Sferra
Operatore Scolastico : al via le chiamate dalla 3^ fascia di istituto per il 2025-26
Con il CCNL 2019-21 è stata istituita una nuova figura professionale, un nuovo profilo all’interno del personale ATA (Amministrativo, Tecnico e Ausiliario), con la firma definitiva dello stesso avvenuta il 18 gennaio 2024 questa figura entra a fare parte integrante del personale ATA. Questo ingresso a pieno titolo per la prima volta, si colloca a metà strada tra il Collaboratore Scolastico e l’assistente Tecnico, con mansioni che spaziano all’interno di figure che vanno dal supporto alla didattica, cura e sorveglianza degli ambienti scolastici. Precisamente le sue mansioni: 1.      Collaborazione nella gestione dei laboratori e strumenti didattici. 2.      Sorveglianza durante l’ingresso e l’uscita e gli intervalli 3.      Cura e assistenza igenico-sanitaria ove previsto 4.      Supporto agli alunni con disabilità ( le figure in possesso della qualifica OSS e OSA) 5.      Collaborazione nella gestione e nel supporto alla segreteria didattica L’introduzione ufficiale di questa figura è prevista per il 1° settembre quindi per l’anno scolastico prossimo 2025-26. Un profilo che consente a chi verrà convocato di accedere se sarà in possesso di almeno un attestato di qualifica triennale accompagnato da una specifica attestazione come OSS o OSA. Il personale interessato verrà convocato sui posti che le Istituzioni Scolastiche avranno avuto in organico ATA per il profilo apposito, dalle graduatorie di Istituto di 3^ fascia aggiornate su Istanze Online. La convocazione avverrà dall’Istituzione Scolastica attraverso una email, PEC o posta ordinaria. L’importanza è tale, in quanto gli incarichi che verranno dati saranno soprattutto di durata annuale. Crediamo che l’obbiettivo nell’introduzione dell’ Operatore Scolastico che il MIM ha voluto avere è quella di una figura più articolata e formata , capace di rispondere alle problematiche complesse della scuola moderna, ma essa poteva essere organizzata e potenziata all’interno del personale già esistente? Questi circa 42.000 posti, (così comunica il MIM) nuove unità , come verranno introdotte nelle Istituzioni Scolastiche? Come da indicazioni tecniche Il Ministero dell’Istruzione e del Merito comunica che queste figure dovrebbero essere anche aggiunte tramite una mobilità verticale del personale di ruolo che avverrà nell’anno 2026/27 , riservata appunto al personale scolastico che avendo i requisiti di accesso ne farà richiesta. Ma questo personale di ruolo che avesse intensione di accedere al nuovo profilo, avrebbe dovuto avere la precedenza e cominciare ad essere inserito all’interno delle Istituzioni Scolastiche già da questo anno 2025-26 appunto attraverso la mobilità verticale.. Perché il MIM ha preferito iniziare a gamba tesa, con questa nuova figura, con personale di 3^ fascia delle nuove graduatorie di istituto senza esperienza scolastica rimandando l’acceso del personale di ruolo, che ne ha i requisiti, all’anno scolastico 2026-27? Viene spontaneo un sospetto, dato che il costo di questa operazione definita dal MIM come “IMPLEMENTAZIONE ORGANICA”comporterà sembra un costo stimato di circa 25 milioni di euro, si vogliano forse sanare le tante posizioni di lavoratori e lavoratrici delle “ Cooperative Sociali” che già operano nel settore? Ci sembra di aver vissuto già queste esperienza, con la vicenda degli LSU. Sembra un “de ja’ vu!”, una situazione davvero paradossale. Il MIM non doveva creare i presupposti che da una parte “ sistemava” un lavoratore una lavoratrice ,(ex Cooperative) e dall’altro creare un conflitto con il personale di ruolo che avrebbe dovuto avere la precedenza. Matilde Ricigliano
Docenza e decency in un disegno di legge sui concorsi da professore universitario
L’ASN (Abilitazione Scientifica Nazionale), nata per rimediare ai guasti del reclutamento localistico, ha fallito ed è ora di abolirla. Questo è quanto sostiene la relazione di accompagnamento di un disegno di legge in discussione al Senato che innova radicalmente la disciplina del reclutamento dei professori universitari, riuscendo nell’impossibile missione di peggiorare ulteriormente la situazione attuale, in termini di localismo, nepotismo e malcostume concorsuale. Una riforma fatta nel nome di una (malintesa) nozione di autonomia universitaria. Abolita  l’ASN resterà solo da autocertificare il superamento di soglie numeriche di pubblicazioni, senza alcuna valutazione circa la qualità delle stesse. Si sceglie insomma di accontentarsi del profilo quantitativo, quello che ha mostrato maggiori effetti negativi, incoraggiando una produzione scientifica orientata unicamente ai numeri delle pubblicazioni, oltre che delle citazioni. In questo quadro, chi potrà offrire il “bollino” che attesta il possesso della quantità richiesta di scritti e citazioni? E chi potrà individuare gli indicatori e le soglie? Il Ministro? Oppure qualche organismo simil-tecnico da esso nominato? Originariamente pubblicato su www.lacostituzione.info ______________ 1. Mentre infuriano conflitti, guerre commerciali e incombono importanti riforme costituzionali, appare più che mai difficile che qualcuno possa interessarsi al futuro dell’Università in Italia. Ed è così che, nel disinteresse della politica e nel silenzio un po’ sospetto dell’accademia (salvo poche meritorie eccezioni), è in discussione al Senato un disegno di legge (AS 1518) che innova radicalmente la disciplina del reclutamento dei professori universitari, riuscendo nell’impossibile missione di peggiorare ulteriormente la situazione attuale, in termini di localismo, nepotismo e opacità suscettibili di prodursi nelle procedure concorsuali, già note alle cronache per frequenti episodi di malcostume. Oltre ai vizi e virtù dell’accademia, il tema rileva perché le modalità del reclutamento incidono profondamente sulla qualità dei reclutati, producendo così importanti effetti sulle libertà di ricerca e di insegnamento garantite dall’art. 33, comma 1, Cost., così come su ciò che l’art. 9 pretenderebbe, cioè che la Repubblica promuova cultura e ricerca scientifica e tecnica. Considerando la crucialità della ricerca e dell’istruzione, superiore e non, per il futuro di una nazione, occorre(rebbe) quindi riflettere bene se tale disegno di legge sia conforme a tali principi, oltre che all’interesse generale a mantenere un buon livello scientifico della docenza nel sistema universitario. 2. A seguito della riforma cosiddetta Gelmini del 2010, la legge prevede oggi un sistema mirante a creare una sorta di “patente” nazionale per accedere alla cattedra, l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), tramite cui si accede ai concorsi da professore ordinario e associato banditi dalle singole Università. Poiché le Università garantiscono l’accesso a titoli di studio con valore legale, nel rispetto della loro autonomia (normativa, organizzativa, gestionale, finanziaria), la legge dovrebbe assicurare che vi sia un livello di insegnamento il più possibile uniforme e condizioni trasparenti ed anch’esse uniformi di accesso alla docenza. Anche per questo motivo, oltre che per meglio garantire le fondamentali libertà di ricerca e di insegnamento già richiamate, lo stato giuridico della docenza universitaria è disciplinato tradizionalmente dalla legge, come quello di magistrati e corpo diplomatico, e sottratto al regime privatistico. L’esistenza di una procedura nazionale di abilitazione all’insegnamento universitario è intesa quindi a produrre un unico processo trasparente, sotto i riflettori della comunità scientifica, in modo da evitare quel malcostume che le procedure dei concorsi locali precedentemente vigenti avevano visto proliferare. La legge “Gelmini”, sebbene con molti difetti (tra cui quello di non ancorare in alcun modo il numero degli abilitati prodotto ogni triennio al reale fabbisogno di docenti del sistema universitario), aveva quindi prodotto almeno parzialmente un effetto positivo in termini di trasparenza e controllabilità del processo di reclutamento. Con essa si sono inoltre introdotti “indicatori” di produttività e di qualità della ricerca finalizzati a rendere controllabili – ed evitabili – le peggiori distorsioni e i peggiori abusi. Ciò ha prodotto alcuni rilevanti effetti secondari: intanto un importante contenzioso sulle procedure di abilitazione, facendo venire allo scoperto e ripianare (finalmente) molti casi altrimenti rimasti sconosciuti di abusi e di illegalità varie nei concorsi universitari. Tale sistema ha però anche un’altra faccia meno commendevole, poiché ha introdotto un effetto di appiattimento su criteri quantitativi nella produzione scientifica, poiché per ottenere l’ASN è necessario raggiungere le “mediane”, definite poi “valori soglia”, cioè superare soglie numeriche minime di articoli, libri etc., fissate rigidamente settore per settore. Il criterio quantitativo, che prescinde dalla qualità delle pubblicazioni, ha indotto così una sorta di inflazione nel mondo dell’editoria scientifica, che ha contribuito ad abbassare il livello complessivo della produzione scientifica di noi tutti. Le commissioni ASN, nominate per ogni settore disciplinare, innestano però oggi un giudizio fondato sulla loro specifica competenza disciplinare sul pre-requisito quantitativo, motivando (più o meno scrupolosamente) promozioni e bocciature, alla luce di un esame nel merito delle pubblicazioni allegate da ciascun candidato. Il sistema attuale prevede poi, a valle dell’ASN, le procedure concorsuali presso le università, per reclutare professori ordinari e associati. Descrivere tali procedure è complicato a causa delle troppe sottoprocedure che la legge prevede, e delle varianti che ogni regolamento di ateneo ha introdotto disciplinandole, giacché un errore della Gelmini fu quello di “delegificare” tali procedure – che sono “i veri concorsi” -, ove si opera la scelta su chi premiare tra gli abilitati ASN, cioè chi promuovere alla II fascia di associato o a quella di professore ordinario. Su tale insieme di fattori si è fondato sin qui l’imperfetto sistema che ora si vuole modificare. 3. Cosa ha quindi progettato il legislatore? Innanzitutto, dati i due step attuali nella selezione nazionale di accesso alla ASN e poi “alla cattedra” si elimina il primo. A livello nazionale resterà solo da autocertificare il superamento di soglie numeriche di pubblicazioni, senza alcuna valutazione circa la qualità delle stesse. Si sceglie insomma di accontentarsi del profilo quantitativo, quello che ha mostrato maggiori effetti negativi per quanto concerne il futuro dell’Università e della ricerca, incoraggiando un appiattimento complessivo della produzione scientifica orientato unicamente ai numeri delle pubblicazioni, oltre che delle citazioni (che attestano la capacità di inserirsi nel flusso che spesso privilegia la ricerca mainstream e meno innovativa e coraggiosa per quanto riguarda i settori bibliometrici). Il ricco contenzioso sorto sull’ASN, specchio di una cattiva scrittura delle norme della legge Gelmini oltre che dei vecchi vizi dell’accademia, viene addotto nella relazione di accompagnamento al ddl come prova del fallimento del sistema ASN, che per il Governo, autore del ddl, dimostrerebbe la necessità di abolirlo, anziché rappresentare la spia di un problema da affrontare. Si sceglie così paradossalmente di passare ad un sistema di concorsi puramente locali, preceduti da un sistema di autocertificazione del possesso di indicatori meramente quantitativi. L’apoteosi dell’irrazionalità di questa scelta del DDL è nel tentativo, operato nella relazione di accompagnamento, di giustificarla alla luce del principio costituzionale dell’autonomia universitaria posto dal comma 6 dell’art. 33 Cost., che sancisce invece il potere di darsi ordinamenti autonomi al fine di garantire libertà di ricerca ed insegnamento. E non invece di assoggettare lo stato giuridico della docenza ad un frammentata ed eterogenea serie di procedure disciplinate da regolamenti di ateneo, che nulla garantiscono in termini di pubblicità e trasparenza, se non per la presenza di commissioni composte da cinque professori ordinari. I quattro componenti esterni di tali commissioni saranno sorteggiati tra tutti coloro che a) rispettino i criteri quantitativi (ritorna il publish or perish a prescindere dalla qualità, che affliggerà così tutte le generazioni, e non solo i candidati, con conseguente abbattimento di foreste evitabile…), b) siano “disponibili”, c) non siano valutati negativamente dall’ateneo di appartenenza (art. 6, c. 7, legge Gelmini). Si immagina che saranno gli atenei, secondo i loro regolamenti, a svolgere i sorteggi (come?) e ad individuare i “disponibili” (come?), posto che non è detto che tutti coloro che sono in possesso dei criteri quantitativi lo saranno. 4. La malintesa nozione di autonomia universitaria che emerge dal ddl 1518 come potestà degli atenei di “regolarsi da sé” circa le procedure di reclutamento cozza ovviamente non tanto con la lettura dell’art. 97, comma 3, Cost., che impone il principio del concorso pubblico, derogabile solo nei casi stabiliti dalla legge, ma soprattutto con la libertà di ricerca e insegnamento, assistita dalla garanzia dello stato giuridico uniforme, che è attualmente ancora la scelta di fondo del legislatore per quanto riguarda la docenza universitaria. L’autonomia universitaria insomma è funzionale alla libertà di ricerca e di insegnamento, e tale rapporto non può quindi essere invertito, sulla scorta di una malintesa nozione di autonomia, lasciando all’arbitrio delle singole università la disciplina dei concorsi. Se la frammentazione dello stato giuridico pubblicistico, che già attualmente è stato minato dalla legge Gelmini, rimettendone settori importanti alla disciplina dei regolamenti di ateneo (procedimenti disciplinari, scatti stipendiali, concorsi Rtd, procedure di chiamata), venisse estesa anche a tutto ciò che riguarda il reclutamento, eliminando anche il gradino di scrematura iniziale rappresentato dall’ASN, si finirebbe col far venir meno anche quell’ultimo argine al localismo e alla perdita di unitarietà del sistema universitario. Per non parlare del rischio che i tanto vituperati atenei telematici possano disciplinare (è questo il timore delle associazioni scientifiche riunite nella CASAG) “chissà come” le procedure concorsuali al loro interno. Sia permesso segnalare che i casi che hanno dato luogo negli ultimi anni al contenzioso sul reclutamento e ad alcuni scandali e procedimenti penali, sono partiti da grandi ed anche blasonati atenei statali. 5. Ma vi è di più, perché lo spirito del tempo aleggia nelle aule parlamentari e sembra imporsi pressoché in qualsiasi testo all’esame delle Camere. Chi potrà offrire un “bollino” per accedere alle procedure concorsuali presso gli Atenei, attestando il possesso della quantità richiesta di scritti? E chi potrà individuare gli indicatori che nella produzione scientifica di candidati e commissari dovranno essere rispettati? La risposta a queste e altre domande che si pongono i costituzionalisti più che mai in questa legislatura, ma anche precedentemente, è sempre la stessa: basta guardare in alto, seguendo le dinamiche di verticalizzazione della forma di governo che portano sempre in su, verso il Governo e, nel caso dell’Università, ci riconducono sempre alla figura del Ministro, o nella migliore delle ipotesi a qualche organismo simil-tecnico da esso nominato. Quanto tutto ciò si presti alla garanzia delle libertà di ricerca e di insegnamento, come volevano i costituenti, che addirittura assimilarono in termini di inamovibilità i professori universitari ai magistrati, è dubbio. A ciò si aggiungono alcuni difetti di scrittura del testo all’esame che mettono in discussione in primis la stessa applicabilità e ragionevolezza di un reclutamento come quello previsto dal ddl 1518, che dovrebbe rispondere poi anche ai canoni dell’art. 97 Cost., garantendo legalità, buon andamento ed imparzialità delle procedure concorsuali negli atenei. Più in generale si può dire che il ddl mostri quanto il Governo tenga al futuro dell’Università, come a quello di tanti giovani studiosi. Occorrerebbe invece una riflessione su ciò che è diventata l’università-azienda a valle di quindici anni di applicazione della riforma, e sul suo impatto sulla libertà accademica. Si dovrebbe poi ragionare sul rapporto dell’Università con le tecnologie nella ricerca e nella didattica, a fronte di una montante banalizzazione del problema nel dibattito sulle telematiche. Come sarebbe urgente interrogarsi su cosa offra il sistema universitario per garantire il diritto allo studio di un numero in progressivo aumento di studenti lavoratori, che incontrano crescenti difficoltà a spostarsi sul territorio nazionale. C’è ancora qualcuno a cui possa interessare tutto ciò oggi?