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La riforma enigmistica: unire i puntini
Il gioco di questa legislatura si chiama “Unisci i puntini”. Si corre con un tratto di penna dal disegno di legge costituzionale sul premierato a quello sulla separazione delle carriere, passando per il decreto sicurezza e l’autonomia differenziata. L’ultimo “puntino” è quello dei provvedimenti in materia di università, su cui sono in preparazione tre atti normativi: 1) un disegno di legge all’esame del Senato che modifica il sistema di selezione e reclutamento; 2) uno schema di regolamento governativo che interviene sulla  composizione e le garanzie di indipendenza dell’Anvur; 3) un terzo provvedimento che, in violazione dell’autonomia universitaria prevista in Costituzione, prefigura consigli di amministrazione con componenti di nomina politica e rettori che agiscono sotto l’occhiuta vigilanza del ministro. Unendo i punti, il profilo che esce è una figura dai tratti autoritari: riduzione del pluralismo costituzionale, mortificazione dei diritti individuali, crescente verticalizzazione del potere. Quale futuro per la nostra collettività se venissero meno i pochi luoghi in cui si invitano i giovani a liberamente pensare, dissentire, criticare, e, in definitiva, a immaginare un futuro differente? Il gioco di questa legislatura, che forse non tutti hanno ancora provato a fare, si chiama “Unisci i puntini”. Si corre con un tratto di penna dal ddl costituzionale sul premierato a quello sulla separazione delle carriere, passando per il decreto sicurezza e l’autonomia differenziata, e il profilo che esce è una figura dai tratti autoritari: la riduzione del pluralismo costituzionale, fatto di equilibrio tra poteri e tra Stato ed autonomie, la mortificazione dei diritti individuali, la crescente verticalizzazione del potere. L’ultimo “puntino”, che a breve andrà ad unirsi agli altri, è quello dei provvedimenti in materia di università, su cui sono in preparazione tre atti normativi. Col primo, un ddl all’esame del Senato, si modifica il sistema di selezione e reclutamento di professori e ricercatori, abbandonando qualsiasi tentativo – pur insoddisfacente e perfettibile come l’attuale – di trasparenza e oggettività, e si ritorna ai concorsi locali, dove il nepotismo e gli abusi sono stati per anni alla radice di un diffuso malcostume accademico che troppo spesso esclude dalla docenza universitaria chi è fuori dalle cordate. Ciò avverrà in spregio ai principi costituzionali in tema di trasparenza, buon andamento dell’amministrazione, parità di chances, oltre che al principio di legalità. Oltretutto, senza risolvere il problema dei precari, che ammontano ormai a metà del corpo docente italiano. Nel secondo progetto, uno schema di regolamento governativo, si interviene sulla già discussa composizione e sulle garanzie di indipendenza dell’Anvur, la costosissima agenzia di valutazione a tutela della “meritocrazia” del sistema universitario. L’Anvur negli ultimi quindici anni ha iper-burocratizzato l’attività di chi fa ricerca, divenendo l’incubo di chiunque lavori negli atenei, costringendo i professori a dedicare larga parte del tempo a redigere montagne di carte inutili, anziché occuparsi di didattica e ricerca. Ciò che non si poteva immaginare è che la proposta ampliandone i poteri e rivedendo la composizione dell’Anvur, riducendo il numero dei componenti, avrebbe inciso ulteriormente sul pluralismo scientifico e culturale presente in seno all’organismo. Da anni si lamenta quanto siano flebili le garanzie di indipendenza dell’Anvur a fronte di compiti che incidono sulla libertà di ricerca prevista dall’art. 33 della Costituzione, visto che sulla base delle sue procedure e decisioni, non sempre trasparenti e inattaccabili, si erogano i finanziamenti agli atenei e si valuta la ricerca e il reclutamento di docenti e ricercatori. A fronte di ciò, l’unico organo di rappresentanza plurale ed elettiva del sistema universitario, il Consiglio Universitario nazionale, il CUN, che il Ministro dovrebbe consultare (soprattutto in momenti di così intenso lavoro legislativo), vede metà dei suoi componenti scaduti da undici mesi e non si ha notizia di una regolare ripresa delle votazioni per rinnovarne la composizione. Dulcis in fundo, nel terzo provvedimento, preparato da un tavolo di lavoro di nomina ministeriale, sembra prepararsi la stretta definitiva sul sistema universitario, già pesantemente condizionato dalla legge Gelmini del 2010. In violazione dell’autonomia universitaria prevista in Costituzione, funzionale alle libertà di ricerca e insegnamento che tutelano docenti e studenti, si prefigura una governance delle università di diretta derivazione governativa: Cda con componenti di nomina politica, rettori che agiscono sotto l’occhiuta vigilanza del ministro e da cui dipenderanno a catena tutte le cariche interne agli atenei (i cui mandati vengono allineati alla durata di quello dei rettori). Sta maturando, insomma, il passaggio dalla visione neoliberale di un’università azienda, incaricata di produrre il capitale umano necessario al mercato del lavoro, che già tradiva la missione costituzionale di offrire ai più giovani strumenti per la lettura critica del reale, a un’università che sembra preannunciarsi destinata a finire sotto il tacco del ministro di turno, gerarchizzata e sempre meno libera, come purtroppo inizia a trasparire dalle lettere con cui nelle scorse settimane, dalle stanze del ministero, si sono invitati i rettori a vigilare sul rispetto delle leggi da parte di studenti e personale accademico. Dalle università in molti hanno replicato auspicando, con tutto il rispetto, che al ministero si faccia altrettanto, prestando attenzione al rispetto della legalità, compresa quella costituzionale. Resta la preoccupazione su quale futuro si prospetti per la nostra collettività se i timori qui espressi fossero fondati, e venissero meno i pochi luoghi in cui si invita a liberamente pensare, dissentire, criticare, e stimolare le giovani menti a ragionare, creare, in definitiva immaginare un futuro differente. Pubblicato sul Fatto Quotidiano del 7 novembre 2025
I COBAS: non sostituendo i collaboratori scolastici assenti si mette a rischio sicurezza e diritto allo studio
Ci sono pervenute numerose segnalazioni da parte di collaboratori scolastici di diverse istituzioni scolastiche. Tutte denunciano una criticità sempre più diffusa: la mancata sostituzione, attraverso supplenze brevi, dei colleghi assenti per malattia, permessi o altri legittimi motivi. Si tratta di una prassi che, purtroppo, non si limita più alle assenze di un solo giorno, per le quali già in passato le scuole tendevano a non procedere con la nomina di supplenti, ma si protrae anche per periodi più lunghi, talvolta di diverse settimane. Una situazione che mette in seria difficoltà l’intero sistema di funzionamento delle scuole, con ripercussioni dirette sulla sicurezza, sull’igiene e sulla sorveglianza quotidiana degli alunni. L’organico attualmente assegnato alle istituzioni scolastiche per il profilo dei collaboratori scolastici risulta assolutamente insufficiente a garantire, in modo continuativo, i livelli minimi di sorveglianza e sicurezza richiesti dalla normativa. Le scuole si trovano costrette a redistribuire il personale presente, riducendo o eliminando temporaneamente servizi fondamentali come la sorveglianza, la pulizia e l’igiene dei locali scolastici, l’assistenza agli alunni con disabilità. A ciò si aggiungono le fisiologiche assenze per malattia o altre. Come tutti i lavoratori, anche i collaboratori scolastici usufruiscono, con pieno diritto, delle tutele previste dalla legge, inclusi i permessi garantiti dalla L. 104/1992 per l’assistenza a familiari con disabilità grave. A questi si somma il personale con mansioni ridotte per motivi di salute, che non può essere impiegato in tutte le attività ordinarie di servizio. Il risultato è un quadro complesso in cui il carico di lavoro grava su un numero sempre più ristretto di persone, costrette spesso a coprire più plessi scolastici. Occorre ricordare che il divieto di sostituzione del personale appartenente al profilo di collaboratore scolastico è stato superato dalla nota MIUR n. 2116 del 30 settembre 2025. Tale disposizione consente ai dirigenti scolastici di derogare al divieto e di stipulare contratti di supplenza breve esaltuaria, fin dal primo giorno di assenza del personale. Pertanto, è prioritario garantire l’incolumità e la sicurezza degli alunni, assicurando la necessaria assistenza a quelli diversamente abili e preservando il corretto funzionamento del servizio scolastico. La nota, infatti, specifica che in caso di mancata sostituzione si verrebbero a creare “necessità obiettive non procrastinabili, improrogabili e non diversamente rimediabili”, tali da rendere impossibile garantire le condizioni minime di sicurezza e da compromettere, in modo determinante, il diritto allo studio costituzionalmente garantito. Nonostante la chiarezza delle indicazioni ministeriali, molti dirigenti scolastici continuano a negare la possibilità di nominare supplenti nei primi 7 giorni di assenza dei collaboratori scolastici, richiamando il presunto rischio di un “danno erariale” per lo Stato. Questa giustificazione, divenuta ormai una sorta di “formula magica” ripetuta automaticamente, viene utilizzata per giustificare scelte organizzative per scaricare sui lavoratori la carenza di risorse. In realtà, la citata nota n. 2116 chiarisce inequivocabilmente che non sussiste alcun danno erariale qualora la supplenza venga disposta per garantire la sicurezza e l’incolumità degli alunni, la pulizia degli ambienti e la regolare erogazione del servizio. Anzi, il mancato intervento potrebbe configurare una responsabilità per omissione, in quanto la scuola non avrebbe assicurato il rispetto delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e sull’assistenza agli alunni con disabilità. Le scuole non possono funzionare regolarmente senza la piena operatività dei collaboratori scolastici. I collaboratori scolastici sono fondamentali nella vita quotidiana degli istituti in quanto garantiscono l’apertura e la chiusura dei locali, la pulizia e l’igiene degli ambienti, la sorveglianza durante l’ingresso, la ricreazione, l’uscita e l’assistenza agli alunni con disabilità. Pensare di poter “risparmiare” su queste figure significa ignorare la funzione che esse svolgono all’interno della comunità scolastica. Alla luce di quanto sopra, invitiamo i dirigenti scolastici a procedere alla sostituzione dei collaboratori scolastici assenti fin dal primo giorno, nel pieno rispetto delle norme e nell’interesse primario degli alunni e dei lavoratori. È necessario che ogni decisione organizzativa sia orientata non al mero contenimento della spesa, ma alla tutela dell’incolumità, della sicurezza e dell’inclusione. La scuola non può essere considerata un luogo in cui si fanno economie. Il presunto risparmio di bilancio non può mai prevalere sul diritto allo studio e sull’inclusione scolastica, valori fondamentali sanciti dalla Costituzione e ribaditi più volte dalla Corte Costituzionale. È tempo che le istituzioni scolastiche e l’amministrazione centrale riconoscano in modo concreto il ruolo imprescindibile dei collaboratori scolastici nel garantire la qualità e la sicurezza della Scuola. La loro presenza quotidiana è la prima garanzia di funzionamento della scuola pubblica. Chiediamo, quindi, che si ponga fine a prassi amministrative distorte e che si applichino correttamente le disposizioni vigenti, assicurando sostituzioni tempestive e adeguate. Solo così  una scuola può definirsi davvero inclusiva, sicura e rispettosa dei diritti di tutti i  lavoratori/trici e alunni/e. Domenico Montuori   Esecutivo Nazionale COBAS Scuola
Un colpo di mano sui diritti fotografici: un emendamento rischia di paralizzare la ricerca e gli archivi italiani
Dopo il pasticcio del decreto sui diritti di riproduzione dei beni culturali, una nuova minaccia si profila per la ricerca e la valorizzazione del patrimonio fotografico italiano. Un emendamento approvato al Senato — su spinta dei fotoreporter e firmato da senatori della Lega — triplica da 20 a 70 anni la durata dei diritti sulle fotografie “semplici”, cioè quelle documentarie e non artistiche. Se la norma passasse alla Camera, interi archivi pubblici e privati dovrebbero essere chiusi o resi a pagamento, vanificando investimenti pubblici e fondi PNRR. Una misura miope e contraria alle tendenze europee, che rischia di infliggere un danno irreparabile alla conoscenza e alla memoria collettiva del Paese. Il Ministero della Cultura circa un anno e mezzo fa aveva messo una pezza a un Decreto Ministeriale relativo ai diritti di riproduzione dei beni culturali di proprietà statale, che l’anno precedente aveva fatto insorgere tutte le istituzioni culturali d’Italia. Roars se ne era occupato qui. Anche con le modifiche migliorative il provvedimento era rimasto un’assurda complicazione con errori ed anacronismi, ma almeno rimediava ai danni maggiori che avrebbe subito la ricerca e l’editoria. Ora assistiamo a una nuova puntata di questa vicenda, che ripropone il tema sotto altra forma nel silenzio generale: su pressione dei fotoreporter alcuni senatori della Lega Nord, con la lungimiranza culturale che li contraddistingue, hanno fatto votare al Senato un emendamento al decreto Disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese – DDL 1184. In sostanza la modifica sostituisce l’articolo 92 della legge 22 aprile 1941, n. 633 e porta a 70 anni dalla data di produzione dello scatto la durata del diritto esclusivo sulle fotografie che non siano “opera fotografica”. Viene così più che triplicato il termine precedente di 20 anni, che valeva per le “fotografie semplici”. Per chiarezza va specificato che con quest’ultima definizione si intendono: le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche. Non sono comprese le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili (legge n. 633 del 1941, art. 87). Dunque, non stiamo parlando delle fotografie artistiche e creative, i cui diritti scadono 70 anni dopo la morte dell’autore. È evidente che, se passasse alla Camera, la norma sarebbe devastante per la ricerca storica e la valorizzazione e divulgazione del patrimonio fotografico nazionale. Esiste infatti nelle collezioni pubbliche e private un patrimonio immenso di foto documentarie della vita e della storia del paese senza le quali non sarebbe più possibile fare ricerca e divulgazione su quel che riguarda le ultime due generazioni di italiani. Sulla base della precedente normativa – quella che prevede una protezione di 20 anni – erano state digitalizzate, catalogate e messe a disposizione della libera fruizione del pubblico intere collezioni con ingente esborso di risorse pubbliche e di fondi PNRR, investimenti che ora verrebbero completamente vanificati. I fondi degli archivi che oggi sono liberamente fruibili dovrebbero infatti essere resi accessibili solo a pagamento e nemmeno sarebbe chiaro come, visto che non si conosce o non è rintracciabile l’autore di un grandissimo numero di queste fotografie. Sarebbe di fatto la paralisi amministrativa. E ovviamente tutto ciò bloccherebbe qualsiasi ulteriore progetto rinviandolo di due giubilei, fra 50 anni, quando molti di noi non saranno più su questa terra. Inoltre, quale ente culturale acquisterebbe collezioni fotografiche sapendo di non poterle toccare per mezzo secolo? Con il rischio (diciamo la certezza) che in questa maniera interi archivi vadano perduti o dispersi. Senza parlare di chi si occupa della storia contemporanea del paese, che troverebbe enormi ostacoli non solo per la ricerca accademica, ma anche per semplice la divulgazione. Questo mentre tutto il mondo civile si sta muovendo in senso contrario verso una progressiva liberalizzazione dell’immagine per promuovere la piena fruibilità del patrimonio storico e culturale, e ovviamente in controtendenza – tanto per cambiare – con la normativa europea. In questo modo si causerebbe un danno gravissimo alla comunità per procurare un vantaggio assai modesto ai fotografi professionisti. Sono infatti solo le foto dell’attualità che hanno una valenza commerciale significativa, non certo quelle di venti anni fa e più. C’è da sperare che il Ministero della Cultura si accorga di questo assurdo autogol, motivato da una visione di straordinaria e miope grettezza, e che si opponga fermamente a una norma che contrasterebbe gli interessi e i progetti promossi dallo stesso Ministero.
CONCORSI DOCENTI PNRR3
Le domande di partecipazione potranno essere presentate dalle ore 14,00 del 10 ottobre alle ore 23,59 del 29 ottobre 2025 attraverso il Portale unico del reclutamento, raggiungibile all’indirizzo www.inpa.gov.it oppure “Piattaforma Concorsi e Procedure selettive”, collegandosi all’indirizzo www.mim.gov.it, attraverso il percorso “Argomenti e Servizi > Servizi > lettera P > Piattaforma Concorsi e Procedure selettive, vai al servizio”. Scuola dell’infanzia e primaria posti comune e di sostegno.Download Scuola secondaria di primo e secondo grado posti comune e di sostegnoDownload Decreto direttoriale 2938 del 9 ottobre 2025 – Concorso per titoli e esami accesso a ruoli personale docente infanzia e primaria su posto comune e sostegno e allegati (2)Download Decreto-direttoriale-2939-del-9-ottobre-2025-concorso-per-titoli-e-esami-accesso-a-ruoli-personale-docente-secondaria-primo-e-secondo-grado-su-posto-comune-e-sostegno-e-allegatiDownload
Un’analisi critica dell’assicurazione sanitaria integrativa per il personale scolastico
Il recente provvedimento introdotto con l’art. 14, comma 6, del Decreto-Legge n. 25 del 14 marzo 2025 ha previsto l’istituzione di un servizio di copertura assicurativa integrativa per le spese sanitarie del personale scolastico. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito ha presentato la misura come un segnale concreto di riconoscimento del ruolo del personale scolastico, enfatizzando l’entità delle risorse stanziate e prospettando una copertura di 3.000 euro annui per ogni beneficiario. La norma prevede un investimento complessivo pari a 260 milioni di euro tra il 2026 e il 2029. La definizione dei criteri e  delle  modalità di accesso al sistema di assistenza integrativa per il  personale  di cui  al  primo  periodo  sono  definiti  in  sede  di  contrattazione collettiva integrativa a livello  nazionale. Il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (CCNI) è stato firmato l’11 agosto 2025 dal MIM e dai sindacati sottoscrittori del CCNL 2019/2021, mentre la Cgil ha rimandato la decisione ai propri organismi statutari. L’art. 3 individua i destinatari della misura. Il personale scolastico di ruolo a TI e a TD con incarico fino al 31 agosto. Vengono esclusi quelli con contratto fino al 30 giugno e i supplenti brevi. Il personale scolastico in Italia  conta circa 1.200.000 unità, tra docenti, ATA, educatori  e IRC. I 260 milioni di euro, corrispondono in media a circa 216 euro complessivi in quattro anni per ciascun dipendente. Una cifra ben lontana dalle dichiarazioni ufficiali. Per reperire le risorse necessarie il Governo ha deciso di ridurre il Fondo per il funzionamento amministrativo e didattico delle istituzioni scolastiche. Dal 2026 al 2029 il taglio previsto ammonta a 200 milioni di euro complessivi, incidendo direttamente e pesantemente sul bilancio delle scuole. Le istituzioni scolastiche statali funzionanti nell’anno scolastico 2024/2025 sono circa 7.600 (127 CPIA). In media, ogni scuola perderà circa 30.000 euro in quattro anni, una somma significativa per istituti che già oggi operano in condizioni di scarsità di risorse. Questi tagli rischiano di compromettere ulteriormente la qualità dell’istruzione, andando a incidere su attività didattiche, acquisto di materiali, manutenzione ordinaria degli edifici scolastici e organizzazione di progetti educativi. La copertura assicurativa, di fatto, favorisce il ricorso a strutture sanitarie private. Il provvedimento si inserisce in un quadro più ampio di progressiva privatizzazione della sanità. Un aspetto che suscita non poche perplessità è la partecipazione dei sindacati rappresentativi alla definizione del provvedimento. Può essere letta come una legittimazione piuttosto acritica di una misura propagandistica. La copertura assicurativa sottrae fondi preziosi al sistema scolastico e incentiva un modello sanitario sempre più privatizzato. La riduzione dei fondi destinati al funzionamento delle scuole produrrà con ogni probabilità un effetto immediato e già noto alle famiglie, l’aumento del cosiddetto contributo volontario. Quella quota che le istituzioni scolastiche, pur presentandola come non obbligatoria, finiscono spesso per richiedere con insistenza per poter garantire il funzionamento amministrativo e didattico. In diverse scuole secondarie di secondo grado, il contributo chiesto alle famiglie può raggiungere cifre anche superiori ai 150/200 euro l’anno per studente/ssa, destinate a coprire spese per laboratori, innovazione tecnologica, attività integrative, ampliamento dell’offerta formativa, acquisto di carta e toner per le fotocopiatrici, manutenzione ordinaria degli edifici, fino alla fornitura di beni essenziali come il sapone e la carta igienica. Da un lato si finanzia un’assicurazione sanitaria integrativa, presentata come misura di tutela della salute del personale scolastico, dall’altro, si riducono i fondi destinati all’istruzione, costringendo le famiglie a coprire spese che dovrebbero essere a carico dello Stato. In pratica, due diritti fondamentali come la salute e l’istruzione, entrambi riconosciuti e garantiti dalla Costituzione italiana, vengono messi in conflitto fra loro, come se la tutela dell’uno dovesse necessariamente avvenire a scapito dell’altro. Da un lato si mina il principio dell’accessouniversale e gratuito all’istruzione, sancito dall’articolo 34 della Costituzione, dall’altro si rischia di accentuare le disuguaglianze sociali, poiché il contributo delle famiglie, pur dichiarato volontario, diventa di fatto indispensabile per il funzionamento amministrativo e didattico delle Scuole. Le famiglie, economicamente sempre più fragili, si trovano così ulteriormente penalizzate, costrette a scegliere se versare o meno somme che, pur presentate come facoltative, diventano nella realtà condizioni di accesso alle attività scolastiche. La vera alternativa dovrebbe consistere in un rafforzamento della sanità pubblica, con investimenti strutturali che riducano le liste d’attesa e migliorino l’accessibilità ai servizi. In definitiva, l’istruzione pubblica si allontana progressivamente dal modello universalistico e gratuito disegnato dalla Costituzione, trasformandosi in un servizio condizionato dalle possibilità economiche delle famiglie. Una scelta che appare non solo discutibile, ma profondamente ingiusta in un Paese che dovrebbe fare dell’uguaglianza nell’accesso all’istruzione uno dei pilastri della democrazia. Domenico Montuori
Le Nuove Indicazioni Nazionali e l’ Istruzione degli Adulti.
I Centri Provinciali di Istruzione degli Adulti (CPIA) nelle Nuove Indicazioni Nazionali. Nelle Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali per la Scuola dell’Infanzia e del primo ciclo d’istruzione, si fa riferimento in due occasioni ai CPIA. Una prima volta, a pag 11, nella sezione “Scuola che sa essere inclusiva”, si afferma che in Italia, a quasi cinquant’anni dalla L. 517/1977   (cha ha permesso di accogliere nelle nostre aule gli allievi con disabilità), la scuola è entrata in una nuova stagione, “esito di un processo di evoluzione culturale sul tema dell’approccio educativo ai Bisogni speciali”, grazie ai quali l’idea di inclusione scolastica si baserebbe sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti, non solo delle persone con disabilità, “ fino ad abbracciare il diritto allo studio degli alunni adottati”  (per una visione critica dei BES si rimanda all’articolo presente in questo numero: La deriva medicalizzante della scuola: progettualità e relazione educativa). Il nostro Paese, si scrive nel testo, si colloca, infatti, all’avanguardia nel mondo per la promozione dell’educazione interculturale, l’assegnazione alle scuole del primo ciclo di docenti aggiuntivi della classe di concorso 23/A (insegnamento della lingua italiana per i discenti di lingua straniera) per l’insegnamento dell’italiano nelle sezioni con un numero di studenti stranieri, che si iscrivono per la prima volta al sistema nazionale di istruzione, superiore al 20 per cento degli alunni della classe, in precedenza assegnati solo ai CPIA. Si nominano, poi, una seconda volta i CPIA, a pag 13 “Finalità della scuola dell’infanzia e delle scuole del primo ciclo di istruzione”, quando si afferma che l’impegno a far conseguire le competenze-chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea ( 1.competenza alfabetica funzionale; 2. competenza multi linguistica; 3.competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria; 4. competenza digitale; 5.competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; 6. competenza in materia di cittadinanza; 7.competenza imprenditoriale; 8.competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali), non si esaurisce al termine del primo ciclo di istruzione, ma prosegue con l’estensione dell’obbligo di istruzione nel ciclo secondario e oltre, anche attraverso il ruolo strategico dei CPIA, in una prospettiva di educazione permanente, per tutto l’arco della vita. Peccato che nella premessa si cerchi di dare, dell’istruzione adulti e dell’impegno che i vari dicasteri succedutisi dal 2015 ad oggi, hanno assunto nei confronti di un segmento così importante dell’istruzione nel nostro Paese, un’immagine che non risponde alla realtà, dimenticando di dire che: a) il “suggestivo” incremento (930 docenti), per l’insegnamento della Lingua Italiana agli stranieri (classe di concorso A23), è il frutto di un taglio di 5.660 posti in organico di diritto per l’anno scolastico 2025-2026 (oltre al fatto che gli studenti stranieri saranno inseriti in una classe apposita “per approfondire l’Italiano”) e che l’organico della classe di concorso A23, come da anni sottolineano i docenti impegnati nei CPIA e nell’istruzione adulti del secondo livello, sia del tutto insufficiente a garantire una reale inclusione dei ragazzi e degli adulti con background migratorio; b) che i Centri di istruzione provinciale per gli Adulti (CPIA), per i limiti dei finanziamenti che ne impediscono l’estensione, e a causa di un limitato  organico docente dedicato alle attività di istruzione, non riescano per nulla ad assumere una prospettiva di educazione permanente. I CPIA, infatti, riescono a rivolgersi quasi esclusivamente agli adulti stranieri, escludendo, per i finanziamenti non adeguati e una programmazione che non prevede una sua più ampia diffusione, quegli  adulti italiani che avrebbero, invece, estremamente bisogno di esservi inseriti, visto che il 40% della popolazione, tra i 14 e i 64 anni, risulta in possesso della sola Licenzia di scuola media. Occorrerebbe, invece, per dar seguito alla richiamata educazione permanente, un intervento uniforme, per potenziare l’organico, al fine di sostenere gli adulti privi di titoli di studio o di conoscenze adeguate, in modo da rafforzare queste ultime e far acquisire loro le necessarie abilità di base. L’investimento avrebbe, peraltro, un importante ritorno economico per la crescita occupazionale e i costi di una povertà, economica ed educativa, fortemente diffusa nel nostro paese (si veda al proposito, Orazio Giancola e Luca Salmieri, in La povertà educativa in Italia, Carocci, 2023).   “Solo l’Occidente conosce la Storia”. Ma non sono solo questi riferimenti che preoccupano i docenti che sono impegnati a vario titolo nell’Istruzione degli Adulti, i quali, non a caso, stanno dimostrando un vivo interesse per il prossimo Convegno sulle Nuove Indicazioni Nazionali, organizzato dal CESP, che si terrà il 10 ottobre e vi si stanno iscrivendo numerosi. Pur tralasciando di entrare nel merito di altri aspetti delle Nuove Indicazioni nazionali (punti che sono ampiamente trattati negli altri articoli pubblicati in questo numero della Rivista Cobas), non si può, però, tacere su quanto scritto relativamente all’Organizzazione del curricolo per l’insegnamento della Storia che pone, proprio per chi insegna agli adulti (quasi sempre stranieri), seri problemi di interpretazione, a partire dal senso dell’emblematica affermazione posta proprio all’inizio della parte orientativa della Storia, nella quale si afferma, in tono perentorio “Solo l’Occidente conosce la Storia”. L’affermazione, sin dalle prime versioni del testo, ha destato numerosi interrogativi e prese di posizione, che hanno determinato altrettante repliche da parte degli stessi estensori del documento, come quella di Ernesto Galli della Loggia(Coordinatore del gruppo che ha scritto la parte relativa alla Storia nelle Indicazioni nazionali), pubblicata il 24 marzo scorso sul Corriere della Sera, il quale ha polemicamente affermato “ almeno per chi ha una qualche confidenza con la lingua italiana, l’espressione «solo l’Occidente conosce la Storia» («conosce», non «ha») lungi dal significare «solo l’Occidente ha avuto una storia e tutti gli altri no», significa che  […] solo in quell’area geo-storica che si chiama Occidente la conoscenza dei fatti storici e la riflessione su di essi — alimentata dal pensiero greco-romano e dal messaggio cristiano — ha dato vita a una dimensione culturale particolarissima nella quale il realismo analitico più crudo si è mischiato al profetismo sociale più estremo.” Ma, in verità, la risposta di Galli Della Loggia, gira solo intorno al problema posto dall’incipit, in quanto si ricorre all’autorità di uno storico dello spessore di Marc Bloch, citato strumentalmente nelle Indicazioni, il quale, nel famoso testo “Apologia della storia” scriveva, sì “anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra”, non per sostenere che gli altri popoli sono senza storia, ma che l’Occidente ha elaborato nel corso del tempo un modo specifico di relazionarsi, di interpretare, trasmettere, studiare e raccontare i fatti accaduti, ovvero il passato, cioè la storia. Inserire tale frase in un testo come quello delle Indicazioni Nazionali, che non forniscono semplici “suggerimenti” per la costruzione del curricolo della Storia, ma costituiscono un preciso “orientamento”, significa, invece, surrettiziamente, affermare che bisogna insegnare la storia occidentale perché questa è l’unica depositaria di una visione analitica e critica della Storia. Istruzione degli Adulti, dialogo interculturale e inclusione. Ovviamente per i docenti impegnati nell’istruzione degli adulti, formata da classi in cui gli immigrati costituiscono percentuali importanti (quando non esclusive), questa impostazione mette in discussione ed annulla i presupposti  su cui si fondano i principi dell’inclusione, richiamata in funzione puramente demagogica nella premessa delle Indicazioni, come apparente fiore all’occhiello dell’Italia che, si scrive, “promuove la piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti”. Si chiedono, infatti, i docenti dei CPIA e del secondo livello di istruzione, in carcere e fuori, come si possa, di fronte ad una platea comprendente appartenenze culturali, religiose ed etniche, varie e multiformi, presentare una visione tanto unilaterale della Storia, alla quale manca qualunque riferimento multiculturale, quando occorrerebbe, invece, in una prospettiva realmente “inclusiva”, proporre curricoli laici e aperti alle diverse realtà presenti nelle nostre scuole. Ma nel documento non ci si ferma qui, si prosegue ulteriormente, rilevando la preminenza del pensiero italiano e riproponendo, proprio nell’attuale periodo storico, contrassegnato da un crescente fenomeno immigratorio, la centralità della storia nazionale, quale elemento fortemente identitario “Nella scuola primaria sembra poi necessario che l’insegnamento abbia al centro le origini della civiltà occidentale, su cui si fonda anche la nostra storia nazionale e la nostra identità, sia al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino, sia – vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere.”  Nulla di più lontano da parte di chi, prendendo atto della trasformazione multietnica e multiculturale della nostra società, pur facendo riferimento alla dimensione italiana ed europea, proprio attraverso l’insegnamento della Storia forniscono agli studenti gli strumenti per riconoscere le diversità delle varie culture, permettendo la convivenza e promuovendo, attraverso il dialogo interculturale, l’inclusione, la tolleranza e il rispetto delle diversità. Anna Grazia Stammati
Nuove Indicazioni Nazionali: quale futuro per la scuola?
Nelle Indicazioni Nazionali del 2012,la premessa”Cultura,Scuola,Persona” sottolineava il ruolo della scuola quale strumento di emancipazione e realizzazione attraverso il sapere e l’istruzione. Nelle Nuove Indicazioni la formulazione “Persona,Scuola,Famiglia” sposta l’attenzione sulla centralità della persona e sulla promozione dei talenti. Parlare di talenti nella scuola dell’infanzia è improprio, in questa fascia di età non possiamo riferirci ad abilità o doti bensì a potenzialità emergenti. I bambini e le bambine vivono una fase di sviluppo caratterizzata da plasticità, curiosità, interessi, sperimentazione. In un contesto educativo ben strutturato, come quello della scuola dell’infanzia, tali potenzialità trovano le condizioni per esprimersi e sviluppare competenze cognitive,relazionali ed emotive. Sempre nella premessa” Scuola e Famiglia costituiscono le due colonne portanti del percorso di crescita e di apprendimento di bambini e adolescenti”. Questa affermazione rischia di semplificare una relazione molto più complessa. Non bastano incontri di dialogo e conoscenza a garantire il patto educativo. In questa relazione entrano in gioco dinamiche pedagogiche, psicologiche e giuridiche intrecciate a valori e bisogni spesso divergenti. Il cosiddetto patto di alleanza resta una formula retorica perché non considera la complessità delle condizioni familiari. Molte famiglie sono portatrici di fragilità economiche, sociali e relazionali e spesso tendono ad attribuire alla scuola compiti che vanno oltre il ruolo istituzionale;i conflitti e la reciproca delegittimazione ostacolano una autentica corresponsabilità. Perché l’alleanza sia costruttiva occorre riconoscere la complessità del rapporto per una convergenza e condivisione delle finalità educative e una maggiore consapevolezza del ruolo formativo della scuola. Le N.I.tendono a ridurre l’educazione alle relazioni,all’empatia e al rispetto della persona ad una dimensione esclusivamente individuale trascurando la valenza relazionale. “L’educazione del cuore” come viene suggerita nel documento, si traduce in modelli di comportamento predefiniti piuttosto che stimolare la consapevolezza emotiva e sociale. Ogni apprendimento si configura come un processo mediato dalle relazioni sociali, è attraverso l’interazione con i pari e con gli adulti che i bambini/ e sviluppano la capacità di comprendere e riconoscere l’altro, di negoziare significati e di cogliere la necessità di darsi e riferirsi a norme di comportamento e di relazione. La comunità educante  è il luogo privilegiato per promuovere  una educazione alle relazioni fondate sul riconoscimento reciproco, sul rispetto e sull’empatia. Sempre nelle premesse culturali del documento “Scuola che sa essere inclusiva”per l’educazione interculturale si prevede l’assegnazione dei docenti alle scuole del primo ciclo per valorizzare e potenziare le competenze linguistiche culturali e civiche degli alunni provenienti da contesti migratori. Il documento non tiene conto che l’11 % dei bambini e delle bambine che frequentano le nostre scuole hanno un background migratorio pertanto dovrebbe essere prioritario insegnare la lingua italiana sin dalla scuola dell’infanzia valorizzando la lingua e la cultura di origine degli alunni/e. L’educazione interculturale non può ridursi ad una mera assimilazione linguistica ma dovrebbe avere come obiettivo la conoscenza e la valorizzazione delle diverse culture. La dimensione interculturale dovrebbe essere parte integrante dell’educazione perché consente di coltivare interessi, curiosità verso l’altro esplorando così non solo aspetti della vita quotidiana ma anche espressioni letterarie, artistiche, musicali di altre culture. Inoltre l’educazione interculturale riveste un ruolo cruciale nel contrastare stereotipi e discriminazioni per una scuola inclusiva. Il digitale è introdotto nella scuola dell’infanzia dalle nuove indicazioni in forma ludica mediato dall’insegnante. Si valorizza come strumento creativo e di espressione ma si sottolineano i rischi di isolamento e passività. Questo approccio di apertura e prudenza lascia aperti molti punti interrogativi. È bene precisare che nella fascia di età 3-6  lo sviluppo delle bambine/e è profondamente legato a :gioco, corporeità, linguaggio e relazioni sociali che non possono assolutamente essere sostituiti tanto meno sacrificati. Nei campi di esperienza per la scuola dell’infanzia si registra una semplificazione rispetto a quelle del 2012 dove venivano articolati con una ampiezza pedagogica ed una forte flessibilità didattica. Nel testo del 2025 ,la presenza di finalità,competenze attese e obiettivi specifici per ogni campo di esperienza si caratterizza con una prescrittivita’ che rischia di svilire l’autonomia didattica con la conseguenza di una standardizzazione ed il timore che si affermi una cultura della performance. Inoltre il profilo della bambina/o oscilla da soggetto attivo,esploratore e costruttore di significati a destinatario passivo di saperi predefiniti e vincolato a traguardi standardizzati. Analogamente, la figura dell’insegnante appare descritta sia come regista dell’apprendimento sia come trasmettitore di contenuti facendo riemergere la figura tradizionale del docente depositario e divulgatore di conoscenze. La scuola delineata dalle Nuove Indicazioni desta molte perplessità, viene meno un modello di scuola laico, multiculturale e democratico privo di una visione pedagogica che tenga presente tutte le complessità della nostra società. Beatrice Corsetti
I COBAS per il superamento della piaga cronica del precariato scolastico
Il precariato è un fenomeno cronico e strutturale, frutto di decenni di gestione emergenziale della Scuola Pubblica. Nonostante i richiami dall’Unione Europea per l’abuso dei contratti a termine, circa un quarto del personale docente ed Ata è precario. Nello scorso anno scolastico si sono contati circa 250mila contratti a tempo determinato tra supplenze annuali e fino al termine delle attività didattiche e supplenze brevi: un numero in costante crescita. Si tratta di un problema che impatta direttamente sulla qualità dell’insegnamento e dei processi amministrativi, sulla vita di migliaia di lavoratori della scuola e sul funzionamento stesso del sistema educativo nazionale.  La storia del precariato scolastico in Italia affonda le sue radici nel boom della scolarizzazione del dopoguerra, in particolare tra gli anni ’60 e ’70, quando l’aumento massiccio di studenti mise in crisi il sistema di reclutamento basato esclusivamente sui concorsi ordinari. Per far fronte alla crescente domanda di insegnanti, lo Stato ricorse a soluzioni emergenziali. La Legge 477 nel 1973, in particolare, fu il primo grande intervento di stabilizzazione, che portò all’immissione in ruolo di circa 200.000 insegnanti. Seguirono altri provvedimenti, come le Leggi 463/1978 e 270/1982, quest’ultima approvata dopo che il 5 febbraio 1982, circa 25.000 insegnanti precari manifestarono a Roma al Ministero dell’Istruzione per chiedere una soluzione al precariato e per migliorare le condizioni di lavoro. Questa mobilitazione e la successiva legge segnarono un passaggio importante nella storia del precariato della scuola, ma non risolsero il problema.  In un decennio si passò dal “doppio canale” di reclutamento,  legge 417 del 1989: la metà dei posti a disposizione per le immissioni in ruolo al “concorso per titoli ed esami”, l’altra al concorso “per soli titoli” alle Graduatorie Permanenti introdotte dalla Legge 3 maggio 1999, n. 124.  Questo sistema di reclutamento era basato su un doppio canale, uno basato sul superamento di un concorso e l’altro sulle graduatorie permanenti, che venivano aggiornate annualmente. La legge 296/2006, trasformò, le graduatorie da permanenti ad esaurimento ma non eliminò il problema. Con l’esaurimento delle GaE, sono state introdotte con l’Ordinanza Ministeriale n. 60 del 10 luglio 2020 le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), un sistema che avrebbe dovuto razionalizzare il conferimento degli incarichi annuali. Tuttavia, la loro introduzione non ha risolto il problema di fondo, anzi, in molti casi ha acuito l’incertezza e la confusione affidando ad un algoritmo l’assegnazione degli incarichi, costringendo i docenti, attraverso la procedura delle 150 scuole, ad una scelta al buio senza un quadro delle disponibilità, eliminando di fatto le convocazioni in presenza che sono state per anni i luoghi di aggregazione e di mobilitazione dei precari che portarono nel 2008/2010 “Riforma Gelmini”,  alle ultime forti mobilitazioni dei precari della scuola con occupazioni di Provveditorati, il 3 ottobre 2009 migliaia di precari con il supporto dei COBAS Scuola sfilarono a Roma fino al Ministero dell’Istruzione.  Oggi, il precariato nella scuola è  una vera emergenza sociale e l’attuale sistema di reclutamento che si basa su un complesso di graduatorie, rende il tutto confuso ed incerto: le Graduatorie di Merito (GM), derivanti dai concorsi pubblici; le Graduatorie ad Esaurimento (GAE), che sono chiuse a nuovi inserimenti dal 2008; e le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), utilizzate per le supplenze annuali e fino al termine delle attività didattiche e solo sul sostegno, per il ruolo, procedura introdotta con il DL 73/2021, convertito nella Legge 106/2021, da ultimo la Riforma del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (con i concorsi PNRR1 e PNRR2). E’ evidente la natura fallimentare del sistema di reclutamento finora attuato con un profondo disallineamento tra i posti vacanti e le assunzioni effettivamente autorizzate, lasciando un deficit di organico che viene sistematicamente colmato con contratti a termine. I dati dimostrano che il sistema attuale genera più precari di quanti riesca a stabilizzarne, rendendo di fatto il contratto a tempo determinato la norma anziché l’eccezione.   Gli insegnanti precari, spesso costretti a spostarsi lontano dalla propria residenza, affrontano enormi difficoltà economiche e personali, con ricadute negative sul loro benessere psicologico e sulla loro motivazione, costretti negli ultimi anni ad affrontare spese folli per abilitarsi (30, 36 e 60 CFU), per frequentare il Tfa sostegno o per acquisire titoli (Clil, certificazioni linguistiche ed informatiche)  costretti dal sistema Gps ad una rincorsa ai punti che può arrivare anche ad una spesa di 6/7mila euro. Il mondo del precariato affronta tutto questo in una situazione di polverizzazione e di lotta intestina che rende difficile l’organizzazione di una risposta collettiva. Concentrati sul “proprio” personale problema, perdono il contatto con una realtà che erode, inesorabilmente, diritti per tutti. Nei prossimi mesi si dovrebbe lavorare ad una piattaforma che possa aggregare intorno a pochi punti, unificanti a partire dalla reintroduzione del “doppio canale” di reclutamento con immissioni in ruolo divise per il 50% degli insegnanti dalle GM e 50% dalle GPS trasformate in Graduatorie Permanenti ed alle quali si potrà accedere per soli titoli di studio e servizio, con l’immediata trasformazione dell’organico di fatto in organico di diritto e con la conseguente immissione in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili. Alessandro D’Auria
La deriva medicalizzante della scuola.
Scuola e salute mentale. In uno degli articoli pubblicati nel numero 20 della Rivista COBAS scuola (“Il paradosso della vulnerabilità”), si segnalava l’appello dei presidenti dell’associazione della Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia (SINPF), per promuovere l’ingresso degli psichiatri nelle scuole “I medici psichiatri e la salute mentale devono tornare nelle scuole, nel periodo della vita in cui nel 50% dei casi iniziano a comparire i disturbi mentali” e di come il Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di Salute mentale (DSM), alla luce dell’indagine IPSOS dell’ottobre 2024, sul disagio mentale della popolazione, affermasse addirittura essere indispensabile “attuare interventi di prevenzione in tutte le fasce di età, fin dalla gravidanza, con particolare attenzione a stili di vita e contesto familiare […]”. Alla luce di tali affermazioni si paventava, nell’ articolo, la possibilità che le scuole venissero usate come luoghi per diagnosticare precocemente “malattie” mentali in direzione di una omologazione degli studenti, della standardizzazione degli apprendimenti e della normalizzazione dei “diversi” . Oggi, quel timore rischia di diventare realtà, visto che, nella legge di bilancio 2026, si prevede un aumento dei fondi per il sostegno psicologico nelle scuole, con un fondo di 10 milioni di euro per il 2025 e di 18,5 milioni di euro a partire dal 2026, per potenziare il servizio di supporto psicologico agli studenti. Questa misura, infatti, mira a rendere la figura dello psicologo scolastico una presenza strutturale nel sistema educativo italiano, superando l’approccio episodico e garantendo un accesso più uniforme al servizio, in modo da consentire, con l’aumento dei fondi, non solo di “migliorare” la qualità della vita degli studenti, le loro capacità relazionali e il rendimento scolastico ma, come si prevedeva, di andare oltre le lo sportello di ascolto, perché lo psicologo non solo si occuperà di sviluppare competenze cognitive, emotive e relazionali nei giovani, ma supporterà il personale scolastico e i docenti. Dunque, la scuola rischia di diventare una palestra di addestramento per la medicalizzazione della “diversità”, una medicalizzazione concettuale, perché sempre più si tenderà ad utilizzare anche in ambito scolastico il linguaggio medico per definire qualcosa che medico non è, e una medicalizzazione interazionale perchésidescriveranno e interpreteranno le relazioni tra le persone (studenti, docenti e personale scolastico) attraverso una lente medica, con il risultato di patologizzare comportamenti o emozioni che costituiscono la normalità della vita, non anomalie disfunzionali, contribuendo a definire con categorie mediche, aspetti che fino a quel momento non erano così categorizzati. In tal modo il sistema educativo, invece di promuovere l’apprendimento, creerà sempre più dipendenza e controllo, definendo la realtà e influenzando il comportamenti, più che risolvendo problemi, conflitti  e contraddizioni.  I dati ISTAT. I dati ISTAT, in effetti, indicano un aumento delle/degli alunne/i con disabilità che frequentano le scuole italiane di ogni ordine e grado: quasi 359 mila nell’anno scolastico 2023-2024, il 4,5% del totale degli iscritti (+6% rispetto al precedente anno scolastico), 75mila in più negli ultimi cinque anni (+26%).  Il problema più diffuso è la disabilità intellettiva, che riguarda il 40% degli studenti con disabilità, quota che cresce nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, attestandosi rispettivamente al 46% e al 52%; seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (35% degli studenti), questi ultimi più frequenti nella scuola primaria (39%) e nella scuola dell’infanzia (63%). I disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione riguardano quasi un quinto degli alunni con disabilità; entrambi sono più diffusi tra gli alunni delle scuole secondarie di primo grado (rispettivamente il 24% e il 20% degli alunni). Di fronte a tali dati, per rispondere alle diverse esigenze di alunni “complessi”, la scuola ritiene essenziale il ricorso a scienze mediche e sociali, quali psicologia e neuropsichiatria, e gli stessi docenti delegano a tali figure la gestione e  l’intervento nei confronti di studenti “difficili”, in quanto leggono la realtà sempre più con i soli occhi della diagnosi clinica, contribuendo, però, in tal modo, ad una complessiva svalutazione delle competenze specifiche della classe docente. Se per comprendere da quali fattori sono causate le crescenti difficoltà dei giovani alunni, può, infatti, essere importante il ricorso a competenze diverse, non si può demandare, però, in via esclusiva all’ambito medico l’elaborazione e la messa in atto di strategie educative e didattiche che rispondano ai bisogni degli studenti e delle studentesse, in quanto è proprio ciò che fa scivolare la scuola verso quella deriva medicalizzante che sempre più si sta diffondendo. Una contraddizione in termini, peraltro, per una scuola nella quale si afferma che le differenze sono importanti e che occorre rispettare le caratteristiche individuali, tanto da richiedere una personalizzazione dei percorsi didattici, salvo ricorrere, poi, alla medicalizzazione, per dare risposte a modalità di apprendimento che non rientrano in parametri standardizzati (contraddizione più volte messa in evidenza rispetto al ricorso alle prove INVALSI, quale valutazione standardizzata degli apprendimenti, a fronte della richiesta di individualizzazione e personalizzazione dei percorsi didattici). Psichiatria versus Pedagogia. Come sappiamo, vengono definiti studenti con bisogni educativi speciali (BES) tutte/i le/glialunne/i che hanno bisogno di una didattica personalizzata, anche in assenza di una diagnosi certificata. Infatti, rientrano nei BES: studenti con disabilità (certificata L.104/92); studenti con DSA; studenti con svantaggio socio-economico, linguistico o culturale; alunni stranieri di recente immigrazione; studenti con situazioni familiari difficili; studenti con problemi emotivi o relazionali, studenti che risultino figli adottivi. Dunque, vengono considerati BES, non solo studenti e studentesse con “disturbi” specifici, ma anche tutti quei bambini e ragazzi che evidenziano uno “svantaggio” sociale o semplici criticità proprie dell’età adolescenziale che possono interferire con il processo di apprendimento. A questo proposito basta  leggere la premessa alle  Nuove Indicazioni Nazionali, per comprendere come si stia seriamente rischiando di distorcere il senso dell’accoglienza degli allievi con disabilità, sancita dalla legge 517/1977, attraverso l’idea che ogni “difficoltà” che dovrebbe essere osservata e “letta” in base alle competenze educative dei docenti, viene circoscritta, osservata, monitorata e controllata più in base a competenze mediche che a quelle pedagogiche, mentre si relegano i docenti  a un ruolo esclusivamente esecutivo e subordinato, dannoso per la loro professionalità e pericoloso per l’esperienza scolastica e per la vita delle studentesse e degli studenti a loro affidate/i. Bisognerebbe riaffermare, invece, la centralità dei docenti, rivendicandone la competenza, riconsegnando credibilità e prestigio sociale alla scuola e rafforzando il sistema scolastico, assegnando a questo,innanzitutto più risorse. Per realizzare tale obiettivo occorrerebbe, però, un salto culturale, che creasse discontinuità rispetto ad una scuola indirizzata (e non da ora) esclusivamente al “merito” e a risultati “standardizzati” che coprono le capacità dei singoli, soffocano le diverse intelligenze, non permettono l’emergere di differenti passioni e abilità; bisognerebbe che neuropsichiatri, psicologi e assistenti sociali non fossero considerati i soggetti titolati nel fornire linee operative e progettuali per il lavoro scolastico; sarebbe necessario che proprio gli insegnanti difendessero e valorizzassero il proprio ruolo, la centralità della progettazione dei percorsi formativi, senza delegarla agli specialisti che si rivolgono al singolo con “tecniche” che esulano dal processo di apprendimento nel suo complesso; sarebbe necessario, in una parola, far ritrovare alla scuola uno sguardo pedagogico, in base al quale leggere le dinamiche e le direzioni che prendono piede nella scuola. Conclusioni. Per evitare il rischio della medicalizzazione dovrebbero essere, quindi, gli stessi docenti a intraprendere una diversa rotta, rivalutando il concetto stesso di insegnamento, in una dimensione progettuale che evidenzi la responsabilità dell’insegnante rispetto alla soggettività dello studente, perché sono solo gli insegnanti a poter invertire la tendenza in atto, attraverso la propria esperienza e l’elaborazione della stessa, la formazione e l’aggiornamento qualificato e qualificante, il coordinamento in rete con i docenti anche di altre realtà scolastiche, la programmazione e la realizzazione condivisadi attività per l’apprendimento scolastico, la richiesta di classi meno numerose, l’aumento dei docenti e del personale per riuscire a svolgere adeguatamente mente la propria professione. Ed è proprio questo l’obiettivo che il CESP intende perseguire, rivalutando il compito educativo delle/degli insegnanti, rimettendo nelle mani dei docenti gli strumenti per rivendicare il ruolo centrale della professione docente all’interno della società, in modo che si torni ad investire sugli insegnanti, perché appare assolutamente necessario che questi si riapproprino di un protagonismo docente e della relazione educativa, accettando e valorizzando la diversità degli studenti, non comprimendola in una visione standardizzata dell’apprendimento e delegandola in via esclusiva a scienze mediche e sociali. Questo è un atto di cui si avverte la piena urgenza, soprattutto quando si osservano le difficoltà e il disagio nei quali sono immersi i nostri studenti e le nostre studentesse.  Anna Grazia Stammati