Tag - riflessioni

Non mi prenderete per stanchezza
Siamo sempre stanchi. Per l’eccessivo carico di lavoro, per la ripetitività della mansione svolta, per l’ostilità dell’ambiente lavorativo, perché consapevoli d’essere inutili rotelle di un ingranaggio che potrebbe stritolarci in qualsiasi momento. E se ci avessero narcotizzati per impedire il nostro risveglio? di Marco Sommariva da Carmilla L’8 giugno 1976 fu ucciso Francesco Coco, il […]
Le ragioni dei detenuti, gli “avanzi” della giustizia
L’attuale situazione carceraria risulta insopportabile per uno stato di diritto. Per far fronte al sovraffollamento servono riforme. E serve un’opera radicale di “rieducazione”, ma della società e delle istituzioni di Sergio Moccia da il manifesto L’attuale situazione carceraria risulta insopportabile per uno stato di diritto. Eppure quest’anno ricorre il cinquantenario di quella che pareva una […]
Che cosa ci dice la scandalosa nomina a questore di Monza di un condannato per la Diaz
Filippo Ferri, condannato per i fatti del G8 di Genova 2001, è stato di recente indicato dal governo come questore a Monza. Le reazioni, salvo alcune deboli iniziative, sono quasi assenti. La dimostrazione è che in Italia abbiamo permesso che l’onda lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle menzogne si estendesse nel tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle forze dell’ordine di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia “Per quanto riguarda le misure disciplinari, la Corte ha dichiarato più volte che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano dei maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi”: così la Corte europea per i diritti umani nella famosa sentenza Cestaro (2015) sul caso Diaz. Il passo viene in mente di fronte alle polemiche nate dalla fresca nomina di Filippo Ferri a questore di Monza. Ferri nel processo Diaz fu condannato a tre anni e otto mesi, con annessa -automatica- sospensione dai pubblici uffici per cinque anni, ma né lui né altri sono stati mai sospesi durante i processi, tanto meno “rimossi” dopo la condanna definitiva (2012). Di più: nessuno -salvo forse uno, multato per 47 euro- è stato nemmeno sottoposto a procedimenti disciplinari. E dire che la “perquisizione” alla Diaz fu qualificata dalla Corte europea come un caso di tortura e che la condotta dei vertici di polizia e dello Stato fu fortemente stigmatizzato dai giudici di Strasburgo, specie per la constatazione che la polizia “ostacolò impunemente” l’azione della magistratura. Che dire, dunque, del “caso Ferri”? Una cosa semplice: che il governo italiano, con qualche ragione a dire il vero, ritiene che il caso Genova G8 sia chiuso e archiviato, ormai dimenticato dall’opinione pubblica, per cui nulla osta alla nomina a questore di un funzionario con un passato così problematico. E non si sbaglia, il governo, se guardiamo all’assenza quasi totale di reazioni, se non fosse per un appello di gruppi e associazioni della Brianza e qualche debole iniziativa parlamentare (la senatrice Ilaria Cucchi e forse qualche altro); tacciono i commentatori, tacciono i giornalisti “esperti” di forze dell’ordine, tacciono i leader politici e sindacali. Del resto Ferri non è il primo fra i condannati nel processo Diaz a rientrare nei ranghi, e con ruoli di rilievo, a pena scontata. La verità è che in Italia abbiamo rimosso Genova G8, abbiamo permesso che l’onda lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle menzogne si estendesse nel tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle forze dell’ordine, minando alla radice la loro credibilità democratica. Non vi è stata al tempo alcuna autocritica in seno alle polizie, né furono presi i provvedimenti necessari: sospensioni, licenziamenti, riforme. Genova G8, in questo modo, non è stata una caduta improvvisa e circoscritta della legalità costituzionale, né una pagina nera ormai chiusa e superata. Genova G8, piuttosto, è un biglietto da visita che le forze dell’ordine italiane continuano a presentare a chi governa e a tutti i cittadini. > Poliziotto condannato per la Diaz diventa questore di Monza > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Il fallimento non è solo del carcere
Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro capacità di essere bussola del mondo di Riccardo De Vito da il manifesto Tra poco più di due mesi l’ordinamento penitenziario compirà cinquant’anni. Chiamiamo così la legge del 1975 che aveva dato vigore e prospettiva all’articolo 27, comma 3, della Costituzione, per il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il compleanno di mezzo secolo, però, si è macchiato di sangue e quel sangue si è tinto di strumentalizzazioni. Tutto accade in pochi giorni, tra il 9 e l’11 maggio, quando Emanuele De Maria, in espiazione della pena per l’omicidio di una donna, esce dal carcere per recarsi a svolgere attività lavorativa all’esterno. Sono due giorni di tragedia: Emanuele torna a uccidere una donna, Chamila; ferisce quasi mortalmente un collega di lavoro; infine, si toglie la vita lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano. Si riaffaccia una domanda insistente: è ancora tollerabile il sacrificio di una vittima per consentire ai detenuti di riconnettersi gradualmente alla società? Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro la forza della del diritto: è giusto perché lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Questa replica rischia di non funzionare più. Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro capacità di essere bussola del mondo. Gaza segna l’assoggettamento della logica dei diritti umani e del diritto internazionale alla ragione della forza; negli Stati uniti si fa spettacolo delle persone incatenate e si ventila di abolire l’habeas corpus per i migranti; alle nostre latitudini, si ricostruiscono neo-colonie detentive in territorio estero e si prevedono ergastoli automatici. La Costituzione ha perso il suo carattere di fondamento della Repubblica ed è diventata culturalmente rifiutabile. L’articolo 27 dice che il condannato deve essere risocializzato? Sbaglia, lo si cancelli con un tratto di penna. E, infatti, un disegno di legge costituzionale prevede che la rieducazione possa essere limitata da «altre finalità» ed «esigenze di difesa sociale» (disegno di legge del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia). Se così stanno le cose, occorre ri-giustificare il normativo, il dover essere del mondo, a partire dalla sostanza delle cose. Il progressivo reinserimento del detenuto in società – quelle finestre nella pena detentiva che consentono di mettere i piedi fuori dalla prigione – serve perché rende il mondo più sicuro e meno violento. Se le pene fossero scontate in carcere dal primo all’ultimo giorno, si finirebbe per consegnare alla libertà esseri umani incapacitati alla costruzione della relazione più semplice, pericolose bombe a orologeria. La pena, prima o poi, finisce e i conti con il pericolo di recidiva si dovranno fare comunque. Tutte le statistiche dimostrano che quei conti è bene farli prima, in quelle famose finestre che servono anche come momenti di sperimentazione controllata. Circola nell’aria, sempre meno latente, una pulsione a fare in modo che la pena non finisca. Non servirebbe: chi uccide, quasi sempre lo fa senza aver valutato le conseguenze in modo razionale. Il caso di questi giorni ne è un esempio: il condannato sa che perderà tutto, a partire dalla libertà riconquistata, ma uccide lo stesso. Subito dopo telefona alla madre, chiede perdono e va a lanciarsi dal Duomo di Milano. L’essere umano, troppo umano, è più complesso e drammatico di ogni tecnologia normativa della dissuasione. Statistiche e ragione, tuttavia, non bastano a dare senso alla vittima, che rimane unica. Quell’unicità ha bisogno di risposte ulteriori. La prima, essenziale. L’area del controllo penale, si è allargata a dismisura: 95mila persone in misure alternative, 62.400 detenuti. Sono numeri che rendono impossibile agli operatori (educatori e assistenti sociali) concentrarsi sui casi davvero importanti, quelli che meritano di essere seguiti anche quando tutto pare filare liscio. Se l’area penale fosse meno affollata di condannati per reati senza vittima, funzionerebbe meglio. Amnistia, indulto e depenalizzazione sono le parole di un vocabolario di sicurezza. Non serve risocializzare meno, serve risocializzare meglio. Strettamente collegato a questo punto, ne viene un altro: rieducare è una parola brutta, lascia pensare a pretese egemoniche sull’animo. Sappiamo che deve essere declinata a livello laico, come risocializzazione, ma il tema non cambia: è un problema che investe tutta la società e le sue agenzie, non può essere scaricata solo sul carcere. Sulle pagine online dei quotidiani più diffusi, nei giorni successivi alla vicenda De Maria, circolavano i video degli ultimi istanti di vita della vittima e del detenuto. Accanto a essi, il video del robot umanoide di Tesla che danza a ritmo di musica, accendendosi e spegnendosi a comando. Non serve scomodare «la precessione del simulacro» per capire che qualcosa è saltato. Ri-educare, nella società come in carcere, dovrebbe significare tornare a mettere in discussione (o in crisi) le strutture psichiche dell’ordine economico e sociale, i rapporti tra desiderio e frustrazione, la confusione tra libertà e signoria. Sono questioni che vengono prima del carcere e che vanno oltre il carcere. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp