Il fallimento non è solo del carcereGli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro
capacità di essere bussola del mondo
di Riccardo De Vito da il manifesto
Tra poco più di due mesi l’ordinamento penitenziario compirà cinquant’anni.
Chiamiamo così la legge del 1975 che aveva dato vigore e prospettiva
all’articolo 27, comma 3, della Costituzione, per il quale le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato.
Il compleanno di mezzo secolo, però, si è macchiato di sangue e quel sangue si è
tinto di strumentalizzazioni. Tutto accade in pochi giorni, tra il 9 e l’11
maggio, quando Emanuele De Maria, in espiazione della pena per l’omicidio di una
donna, esce dal carcere per recarsi a svolgere attività lavorativa all’esterno.
Sono due giorni di tragedia: Emanuele torna a uccidere una donna, Chamila;
ferisce quasi mortalmente un collega di lavoro; infine, si toglie la vita
lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano.
Si riaffaccia una domanda insistente: è ancora tollerabile il sacrificio di una
vittima per consentire ai detenuti di riconnettersi gradualmente alla società?
Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro la forza della del
diritto: è giusto perché lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Questa
replica rischia di non funzionare più.
Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro
capacità di essere bussola del mondo. Gaza segna l’assoggettamento della logica
dei diritti umani e del diritto internazionale alla ragione della forza; negli
Stati uniti si fa spettacolo delle persone incatenate e si ventila di abolire
l’habeas corpus per i migranti; alle nostre latitudini, si ricostruiscono
neo-colonie detentive in territorio estero e si prevedono ergastoli automatici.
La Costituzione ha perso il suo carattere di fondamento della Repubblica ed è
diventata culturalmente rifiutabile. L’articolo 27 dice che il condannato deve
essere risocializzato? Sbaglia, lo si cancelli con un tratto di penna. E,
infatti, un disegno di legge costituzionale prevede che la rieducazione possa
essere limitata da «altre finalità» ed «esigenze di difesa sociale» (disegno di
legge del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia).
Se così stanno le cose, occorre ri-giustificare il normativo, il dover essere
del mondo, a partire dalla sostanza delle cose. Il progressivo reinserimento del
detenuto in società – quelle finestre nella pena detentiva che consentono di
mettere i piedi fuori dalla prigione – serve perché rende il mondo più sicuro e
meno violento. Se le pene fossero scontate in carcere dal primo all’ultimo
giorno, si finirebbe per consegnare alla libertà esseri umani incapacitati alla
costruzione della relazione più semplice, pericolose bombe a orologeria. La
pena, prima o poi, finisce e i conti con il pericolo di recidiva si dovranno
fare comunque. Tutte le statistiche dimostrano che quei conti è bene farli
prima, in quelle famose finestre che servono anche come momenti di
sperimentazione controllata.
Circola nell’aria, sempre meno latente, una pulsione a fare in modo che la pena
non finisca. Non servirebbe: chi uccide, quasi sempre lo fa senza aver valutato
le conseguenze in modo razionale. Il caso di questi giorni ne è un esempio: il
condannato sa che perderà tutto, a partire dalla libertà riconquistata, ma
uccide lo stesso. Subito dopo telefona alla madre, chiede perdono e va a
lanciarsi dal Duomo di Milano. L’essere umano, troppo umano, è più complesso e
drammatico di ogni tecnologia normativa della dissuasione.
Statistiche e ragione, tuttavia, non bastano a dare senso alla vittima, che
rimane unica. Quell’unicità ha bisogno di risposte ulteriori. La prima,
essenziale. L’area del controllo penale, si è allargata a dismisura: 95mila
persone in misure alternative, 62.400 detenuti. Sono numeri che rendono
impossibile agli operatori (educatori e assistenti sociali) concentrarsi sui
casi davvero importanti, quelli che meritano di essere seguiti anche quando
tutto pare filare liscio. Se l’area penale fosse meno affollata di condannati
per reati senza vittima, funzionerebbe meglio. Amnistia, indulto e
depenalizzazione sono le parole di un vocabolario di sicurezza. Non serve
risocializzare meno, serve risocializzare meglio.
Strettamente collegato a questo punto, ne viene un altro: rieducare è una parola
brutta, lascia pensare a pretese egemoniche sull’animo. Sappiamo che deve essere
declinata a livello laico, come risocializzazione, ma il tema non cambia: è un
problema che investe tutta la società e le sue agenzie, non può essere scaricata
solo sul carcere. Sulle pagine online dei quotidiani più diffusi, nei giorni
successivi alla vicenda De Maria, circolavano i video degli ultimi istanti di
vita della vittima e del detenuto. Accanto a essi, il video del robot umanoide
di Tesla che danza a ritmo di musica, accendendosi e spegnendosi a comando. Non
serve scomodare «la precessione del simulacro» per capire che qualcosa è
saltato. Ri-educare, nella società come in carcere, dovrebbe significare tornare
a mettere in discussione (o in crisi) le strutture psichiche dell’ordine
economico e sociale, i rapporti tra desiderio e frustrazione, la confusione tra
libertà e signoria. Sono questioni che vengono prima del carcere e che vanno
oltre il carcere.
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